La peste di Atene (Liberamente tradotto da: Tucidide, La guerra del Peloponneso II, 47-53) Testo greco in: Giuseppe Rosati (a cura di), Scrittori di Grecia. Il periodo attico, Sansoni Editore, Firenze 1972 Subito all’inizio dell’estate i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica con i due terzi delle loro forze, come avevano fatto anche in precedenza – li comandava Archidamo, figlio di Zeussidamo e re dei Lacedemoni – e dopo essersi accampati cominciarono a devastare la terra. Erano nell’Attica solo da pochi giorni, quando il morbo cominciò a manifestarsi ad Atene. I medici non riuscivano a fronteggiare questo morbo ignoto ma, anzi, morivano più degli altri, in quanto più degli altri si avvicinavano ai malati, né alcuna tecnica umana veniva loro in soccorso. Per quanto si formulassero suppliche nei templi o si ricorresse agli oracoli e a cose del genere, tutto si rivelò inutile. Dapprima, a quanto si dice, la peste incominciò in Etiopia, poi passò anche in Egitto e in Libia, e nella maggior parte della terra del re. Ad Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli abitanti del porto, così che gli ateniesi sostennero che i Peloponnesiaci avevano gettato dei veleni nei pozzi; poi raggiunse anche la città alta, e iniziò a ucciderne molti di più. Si dica pure su questo argomento quello che ciascuno pensa, medico o profano che sia, sia sulla probabile origine della pestilenza, sia sui fattori capaci di indurre un così repentino cambiamento dello stato di salute. Io invece racconterò di che genere sia stata, e ne mostrerò i sintomi, che si potranno tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse un’altra volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati. Senza alcuna motivazione visibile, all’improvviso, le persone venivano prese da vampate di calore alla testa, arrossamento e bruciore agli occhi. La gola e la lingua assumevano subito un colore sanguigno, ed emettevano un odore strano e sgradevole. Dopo questi sintomi sopraggiungevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva al petto con una forte tosse; e quando raggiungeva lo stomaco provocava spasmi, svuotamenti di bile e forti dolori. Nella maggior parte dei casi, si manifestava anche un singhiozzo con sforzi di vomito che generavano violente convulsioni. Il corpo non era troppo caldo, né pallido, ma rossastro, livido e come fiorito di piccole pustole e di ulcere; le parti interne però ardevano a tal punto da non riuscire a sopportare nemmeno le vesti leggere, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi nell’acqua fredda. E molte persone non curate lo fecero davvero, gettandosi nei pozzi, oppresse da una sete inestinguibile: ma il bere molto o poco dava lo stesso risultato. La difficoltà di riposare e l’insonnia li opprimevano continuamente. E il corpo, per tutto il tempo in cui la malattia era al suo culmine, non si logorava, ma inaspettatamente resisteva, cosicché la maggior parte moriva dopo giorni per effetto del calore interno, avendo ancora un po’ di forza; se invece sopravvivevano a questa fase, la malattia scendeva nell’intestino e produceva forti ulcerazioni e una violenta diarrea, e così morivano in seguito, per lo sfinimento. Infatti il male, inizialmente localizzato nella testa, percorreva tutto il corpo e infine raggiungeva le estremità, fino ai genitali, alle mani, ai piedi e anche agli occhi: e molti si salvarono perdendo queste parti. Altri, fisicamente guariti, smarrirono però la memoria, e non riconoscevano più se stessi e i loro familiari. Il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana, e in un particolare soprattutto esso mostrò di essere diverso dalle solite epidemie: gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri, sebbene molti morti fossero rimasti insepolti, o non si avvicinavano o, se si cibavano di quei resti, morivano. Tale, dunque, era il morbo nel suo complesso. E oltre alla peste, nessun’altra malattia delle solite infieriva in quel tempo: e anche se sorgeva, andava a risolversi in questa. E gli uni morivano per mancanza di cure, gli altri anche se erano molto ben curati. Non esisteva, per così dire, nessuna medicina che si potesse applicare in generale: quello che a uno era di giovamento, per un altro era dannoso. Nessun organismo, forte o debole che fosse, riusciva a combattere il morbo, ma la malattia portava via tutti quanti, anche chi era curato con la maggiore attenzione. Ma la cosa più terribile in assoluto era lo scoraggiamento da cui uno era preso quando si sentiva male – subito, datosi con il pensiero alla disperazione, si lasciava andare e non resisteva – e il fatto che per curarsi a vicenda si contagiavano e morivano l’uno dopo l’altro, come pecore: e questo causava la strage maggiore. Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per la mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie; se al contrario si accostavano alle persone, morivano per il contagio, e in particolar modo quelli che cercavano di agire con generosità: per un senso di vergogna infatti costoro non si risparmiavano, ma si recavano dai loro amici, poiché anche il compianto sui morenti alla fine era trascurato, per stanchezza, persino dai familiari, sopraffatti dall’immensità della sciagura. Tuttavia i sopravvissuti avevano più compassione per chi stava morendo o era malato, perché ne avevano già fatto esperienza ed erano ormai al sicuro: la malattia infatti non colpiva due volte la stessa persona in modo grave. Oltre alla malattia, aggravava il loro disagio l’afflusso della gente dai campi; e soprattutto questi nuovi arrivati erano in difficoltà. Non essendoci case per loro, ma vivendo d’estate in baracche soffocanti, la strage avveniva nel massimo disordine e, morendo l’uno sull’altro, si aggiravano strisciando per le strade e intorno alle fontane, per il desiderio di acqua. Anche i santuari erano pieni di cadaveri: gli uomini infatti, sopraffatti dalla disgrazia e non sapendo quale sarebbe stata la loro sorte, cadevano nell’incuria del santo e del divino. Tutte le consuetudini che prima si seguivano nel celebrare gli uffici funebri furono sconvolte, e si seppelliva come ciascuno poteva. E molti usarono modi di sepoltura indecenti, per mancanza degli oggetti necessari, dato che numerosi erano i morti che li avevano preceduti: prevenendo chi elevava la pira, gli uni, posto il loro morto su una pira destinata a un altro, vi davano fuoco; altri, mentre un cadavere ardeva, vi gettavano sopra quello che stavano portando, e se ne andavano. Anche in altri ambiti il morbo dette inizio, in città, a numerosi infrazioni della legge. Più facilmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per il proprio piacere, perché vedeva che subitaneo e radicale era il mutamento di sorte fra coloro che erano felici, e morivano improvvisamente, e coloro che prima non possedevano nulla e poi avevano le ricchezze degli altri. Cosicché miravano a godere quanto prima e con il maggior piacere possibile, giudicando effimere sia la vita che le ricchezze. E ad affaticarsi per ciò che era sempre stato considerato nobile, più nessuno era disposto, poiché pensava che era incerto se non sarebbe morto prima di raggiungerlo. Quello che era piacevole già nel presente e che, da qualunque parte venisse, era vantaggioso per ottenere quel piacere, tutto ciò era divenuto bello e utile. Nessun timore degli dei o legge degli uomini li tratteneva, poiché da un lato consideravano indifferente essere religiosi o no, dato che tutti senza distinzioni morivano, e dall’altro, poiché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto dei suoi misfatti; essi pensavano che una pena molto più grande era già stata sentenziata ai loro danni e pendeva sulle loro teste, per cui era naturale godere qualcosa della vita prima che tale punizione piombasse su di loro. Lucrezio, De rerum natura, VI, 1138 - 1286 Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus finibus in Cecropis funestos reddidit agros vastavitque vias, exhausit civibus urbem. nam penitus veniens Aegypti finibus ortus, aeëra permensus multum camposque natantis, incubuit tandem populo Pandionis omni. inde catervatim morbo mortique dabantur. principio caput incensum fervore gerebant et duplicis oculos suffusa luce rubentes. sudabant etiam fauces intrinsecus atrae sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat atque animi interpres manabat lingua cruore debilitata malis, motu gravis, aspera tactu. inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum morbida vis in cor maestum confluxerat aegris, omnia tum vero vitai claustra lababant. spiritus ore foras taetrum volvebat odorem, rancida quo perolent proiecta cadavera ritu. atque animi prorsum vires totius, omne languebat corpus leti iam limine in ipso. intolerabilibusque malis erat anxius angor adsidue comes et gemitu commixta querella, singultusque frequens noctem per saepe diemque corripere adsidue nervos et membra coactans dissoluebat eos, defessos ante, fatigans. nec nimio cuiquam posses ardore tueri corporis in summo summam fervescere partem, sed potius tepidum manibus proponere tactum et simul ulceribus quasi inustis omne rubere corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis. intima pars hominum vero flagrabat ad ossa, flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus. nil adeo posses cuiquam leve tenveque membris vertere in utilitatem, at ventum et frigora semper. in fluvios partim gelidos ardentia morbo membra dabant nudum iacientes corpus in undas. multi praecipites nymphis putealibus alte inciderunt ipso venientes ore patente: insedabiliter sitis arida corpora mersans aequabat multum parvis umoribus imbrem. nec requies erat ulla mali: defessa iacebant corpora. mussabat tacito medicina timore, quippe patentia cum totiens ardentia morbis lumina versarent oculorum expertia somno. multaque praeterea mortis tum signa dabantur: perturbata animi mens in maerore metuque, triste supercilium, furiosus voltus et acer, sollicitae porro plenaeque sonoribus aures, creber spiritus aut ingens raroque coortus, sudorisque madens per collum splendidus umor, tenvia sputa minuta, croci contacta colore salsaque per fauces rauca vix edita tussi. in manibus vero nervi trahere et tremere artus a pedibusque minutatim succedere frigus non dubitabat. item ad supremum denique tempus conpressae nares, nasi primoris acumen tenve, cavati oculi, cava tempora, frigida pellis duraque in ore, iacens rictu, frons tenta manebat. nec nimio rigida post artus morte iacebant. octavoque fere candenti lumine solis aut etiam nona reddebant lampade vitam. quorum siquis, ut est, vitarat funera leti, ulceribus taetris et nigra proluvie alvi posterius tamen hunc tabes letumque manebat, aut etiam multus capitis cum saepe dolore corruptus sanguis expletis naribus ibat. huc hominis totae vires corpusque fluebat. profluvium porro qui taetri sanguinis acre exierat, tamen in nervos huic morbus et artus ibat et in partis genitalis corporis ipsas. et graviter partim metuentes limina leti vivebant ferro privati parte virili, et manibus sine non nulli pedibusque manebant in vita tamen et perdebant lumina partim. usque adeo mortis metus iis incesserat acer. atque etiam quosdam cepere oblivia rerum cunctarum, neque se possent cognoscere ut ipsi. multaque humi cum inhumata iacerent corpora supra corporibus, tamen alituum genus atque ferarum aut procul absiliebat, ut acrem exiret odorem, aut, ubi gustarat, languebat morte propinqua. nec tamen omnino temere illis solibus ulla comparebat avis, nec tristia saecla ferarum exibant silvis. languebant pleraque morbo et moriebantur. cum primis fida canum vis strata viis animam ponebat in omnibus aegre; extorquebat enim vitam vis morbida membris. incomitata rapi certabant funera vasta nec ratio remedii communis certa dabatur; nam quod ali dederat vitalis aeëris auras volvere in ore licere et caeli templa tueri, hoc aliis erat exitio letumque parabat. Illud in his rebus miserandum magnopere unum aerumnabile erat, quod ubi se quisque videbat implicitum morbo, morti damnatus ut esset, deficiens animo maesto cum corde iacebat, funera respectans animam amittebat ibidem. quippe etenim nullo cessabant tempore apisci ex aliis alios avidi contagia morbi, lanigeras tam quam pecudes et bucera saecla, idque vel in primis cumulabat funere funus nam qui cumque suos fugitabant visere ad aegros, vitai nimium cupidos mortisque timentis poenibat paulo post turpi morte malaque, desertos, opis expertis, incuria mactans. qui fuerant autem praesto, contagibus ibant atque labore, pudor quem tum cogebat obire blandaque lassorum vox mixta voce querellae. optimus hoc leti genus ergo quisque subibat. * Praeterea iam pastor et armentarius omnis et robustus item curvi moderator aratri languebat, penitusque casa contrusa iacebant corpora paupertate et morbo dedita morti. exanimis pueris super exanimata parentum corpora non numquam posses retroque videre matribus et patribus natos super edere vitam. nec minimam partem ex agris maeror is in urbem confluxit, languens quem contulit agricolarum copia conveniens ex omni morbida parte. omnia conplebant loca tectaque quo magis aestu, confertos ita acervatim mors accumulabat. multa siti prostrata viam per proque voluta corpora silanos ad aquarum strata iacebant interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum, multaque per populi passim loca prompta viasque languida semanimo cum corpore membra videres horrida paedore et pannis cooperta perire, corporis inluvie, pelli super ossibus una, ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta. omnia denique sancta deum delubra replerat corporibus mors exanimis onerataque passim cuncta cadaveribus caelestum templa manebant, hospitibus loca quae complerant aedituentes. nec iam religio divom nec numina magni pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat. nec mos ille sepulturae remanebat in urbe, quo prius hic populus semper consuerat humari; perturbatus enim totus trepidabat et unus quisque suum pro re cognatum maestus humabat. multaque res subita et paupertas horrida suasit; namque suos consanguineos aliena rogorum insuper extructa ingenti clamore locabant subdebantque faces, multo cum sanguine saepe rixantes, potius quam corpora desererentur. Tale causa di malattie e mortifera emanazione, un tempo, nel paese di Cecrope, rese funerei i campi e spopolò le strade, svuotò di cittadini la città. Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, ove era nato, dopo aver percorso molta aria e distese fluttuanti, piombò alfine su tutto il popolo di Pandione. Allora, a torme eran preda della malattia e della morte. Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi. La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue, e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava, e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue, infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto. Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita. Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante, simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati. Poi le forze dell'animo intero e tutto il corpo languivano, già sul limitare stesso della morte. E agli intollerabili mali erano assidui compagni un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri. E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati. Né avresti notato che per troppo ardore in alcuno bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna, ma questa piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto, e insieme tutto il corpo era rosso d' ulcere quasi impresse a fuoco, come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro. Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino alle ossa, nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci. Sicché non c'era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre. Alcuni immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo. Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi, mentre accorrevano protendendo la bocca spalancata. La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere i corpi, rendeva pari a poche gocce molta acqua. E il male non dava requie: i corpi giacevano stremati. La medicina balbettava in un muto sgomento, mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati, ardenti per la malattia, privi di sonno. E molti altri segni di morte si manifestavano allora: la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore, le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce, le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii, il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli, e stille di sudore lustre lungo il madido collo, sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse. Non cessavano, poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare gli arti, e di montare su dai piedi a poco a poco il freddo. Così, quando alfine si appressava il momento supremo, erano affilate le narici, assottigliata e acuta la punta del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura la pelle nel volto, cascante la bocca aperta; la fronte rimaneva tesa. E non molto dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte. E generalmente quando raggiava il sole dell'ottavo giorno, o anche sotto la luce del nono, esalavano la vita. E se taluno d'essi, come accade, era sfuggito a morte e funerali, per ulcere orrende e nero flusso di ventre più tardi tuttavia lo attendevano consunzione e morte; o anche molto sangue corrotto, spesso con dolore di testa, gli colava dalle narici intasate: qui affluivano tutte le forze dell'uomo e la sostanza del suo corpo. Se poi qualcuno era scampato al terribile profluvio di sangue ributtante, ciò nonostante la malattia gli penetrava nei nervi e negli arti e fin dentro gli organi genitali. E alcuni, gravemente temendo il limitare della morte, vivevano dopo essersi mutilati del membro virile col ferro; e taluni, pur senza mani e senza piedi, rimanevano tuttavia in vita, come altri perdevano gli occhi: tanto si era impadronito di loro un acuto timore della morte. E inoltre un oblio di tutte le cose invase certuni, sicché non potevano riconoscere neppure sé stessi. E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano balzando lontano, per evitare l'acre puzzo, oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente. E d'altronde in quei giorni non era affatto facile che qualche uccello comparisse, e le stirpi delle fiere, abbattute, non uscivano dalle selve. La maggior parte languiva per la malattia e moriva. Soprattutto la fedele forza dei cani, stesa per tutte le strade, spirava penosamente; ché la forza della malattia strappava la vita dalle membra. Funerali senza corteo, desolati, gareggiavano nell'esser affrettati. Né c'era specie di rimedio che valesse sicuramente per tutti; infatti ciò che ad uno aveva dato la possibilità di continuare a respirare i vitali aliti dell'aria e a contemplare gli spazi del cielo, ad altri era esiziale e cagionava la morte. Una cosa, in tali frangenti, era miseranda, e molto, sopra ogni altra, penosa: ognuno, quando si vedeva assalito dalla malattia, come se fosse condannato a morte, perdendosi d'animo giaceva col cuore addolorato e, rivolto a visioni funeree, esalava l'anima in quel punto stesso. E infatti il contagio dell'avida malattia non cessava in alcun momento d'attaccarsi dagli uni agli altri, come se fossero lanute pecore e torme di cornuti bovi. E questo soprattutto accumulava morti su morti. Giacché tutti quelli che evitavano di visitare i congiunti malati, mentre troppo bramavano la vita e temevano la morte, li puniva poco dopo con morte turpe e trista, derelitti, privi di soccorso, la micidiale mancanza di cure. Ma quelli che davano aiuto, se ne andavano per il contagio e la fatica, cui allora li costringevano a sobbarcarsi il senso dell'onore e la carezzevole voce dei languenti con mista una voce di pianto. Questo genere di morte affrontavano, dunque, tutti i migliori * e l'uno sugli altri, gareggiando nel seppellire la folla dei congiunti; tornavano spossati dal pianto e dal cordoglio; poi, in gran parte s'abbandonavano sui letti per l'angoscia. Né si poteva trovare alcuno che la malattia o la morte o il lutto non colpissero in tale frangente. Inoltre languiva ormai ogni pastore e custode di armenti e insieme il robusto guidatore dell'aratro ricurvo; e ammucchiati in fondo ai tuguri giacevano i corpi che povertà e malattia avevano dati in balìa della morte. Su esanimi fanciulli corpi inanimati di genitori avresti potuto talora vedere, e viceversa figli esalare la vita su madri e padri. E in non minima parte dai campi quell'afflizione confluì nella città: la portò la languente folla dei campagnoli, che colpita dalla malattia conveniva da ogni parte. Riempivano tutti i luoghi e le case: tanto più, quindi, nell'arsura così ammassati la morte a caterve li accatastava. Molti corpi prostrati dalla sete per via e stramazzati presso le fontane giacevano distesi, col respiro strozzato dal troppo deliziarsi d'acqua; e in gran numero avresti potuto vedere, per i luoghi aperti al popolo, qua e là, e per le vie, membra languide nel corpo mezzo morto, orride per lo squallore e coperte di stracci, perire nella sozzura del corpo, con sulle ossa la sola pelle, ormai quasi sepolta sotto ulcere spaventose e lordura. Tutti i santuari degli dèi la morte aveva infine riempiti di corpi esanimi; e tutti i templi dei celesti rimanevano ingombri di cadaveri dovunque, perché i custodi avevano gremito di ospiti quei luoghi. E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento. Né si serbava nella città quel rito di sepoltura con cui prima quel popolo sempre aveva usato farsi inumare; infatti, sconvolto, era tutto preso dal panico; e ognuno, mesto, inumava il proprio morto composto secondo la circostanza. E a molti orrori li indussero gli eventi repentini e la povertà. Così con grande clamore ponevano i propri consanguinei sopra roghi eretti per altri, e di sotto accostavano le fiaccole, spesso rissando con molto sangue piuttosto che lasciare i corpi in abbandono.