Lo specchio della realtà: immagine e verità nel

Lo specchio della realtà: immagine e verità nel pensiero
fenomenologico
di Elena Tripaldi
(Classe III D – A.S. 2009/10)
L'immagine è sempre stata per l'uomo occidentale una fascinazione
irresistibile, portando con sé la tentazione e il mistero di una realtà riprodotta e
pertanto, paradossalmente, irreale e, in un certo senso, perfetta o perfettibile.
L'immagine, come simulacro, come rappresentazione, come materia della cura
del corpo e dell'estetica, è stata fulcro di tutta la riflessione della cultura greca.
In ambito filosofico, l'immagine si può ritrovare tematizzata nel concetto di
dòxa così come, da Parmenide, fu ripreso e presentato da Platone.
La dòxa, l'apparenza del mondo ai nostri sensi, è data come qualcosa di
fallace, inesistente, come sono fallaci le manifestazioni “materiali” rispetto al
loro corrispettivo “ideale” dell'iperuranio, ed è quindi contrapposta al concetto
di alétheia, verità.
Questa opposizione, a prima vista presentata come una dicotomia netta si
mostra, come molte delle coppie di opposti utilizzate dal pensiero greco, come
non poi così definitiva, laddove la rilevanza dei due concetti sta nel loro
rapporto reciproco.
Quello che infatti è problematizzato, nella contrapposizione di apparenza e
verità, è la stessa verità della realtà e, come vedremo, di un sapere della
totalità intorno ad essa.
Su questi temi lo stesso Platone si concentra in due dei suoi dialoghi più
discussi, probabilmente concepiti come l'uno continuazione dell'altro e in
trilogia con il Politico: il Teeteto e il Sofista.
Socrate, senza mezzi termini, interroga nelle prime righe del dialogo omonimo
Teeteto circa l'essenza del sapere, che il discepolo non esita ad identificare con
l'aisthesis, ovverosia la sensazione. Avrà gioco facile il maestro a metterlo
davanti all'evidenza che tale affermazione non ha alcuna consistenza: la
sensazione non è infatti altro che una riflessione sullo stesso fatto del sentire,
prova ne é il fatto che le sensazioni si danno nella nostra esperienza come
armonizzate tra loro, e non si presentano mai, nel quotidiano, “una per volta”.
Non posso infatti vedere il colore del fiore impedendomi di percepirne l'odore,
come non posso vedere il cielo azzurro senza rallegrarmene. In questo senso,
la sensazione esiste soltanto in qualità di dia-noein, ovverosia di “apprendere
attraverso”, nel doppio senso di accogliere e mettere davanti a sé.
Tale approdo, non è un porto dove si possa sostare a lungo, e Teeteto non
mancherà di farne esperienza nel secondo dialogo dove una nuova domanda,
apparentemente innocente, lo trae di nuovo in una rete di contraddizioni più
intricata della precedente. L'allievo si vede domandare la definizione di
“filosofo” e di “sofista”e , contrariamente alle aspettative più ingenue, la
definizione a cui bisognerà dedicare maggiore tempo e riflessione è quella di
sofista. Egli è colui che ci convince di opinioni che sono false, produce
apparenze di verità, cioè come maestro dell'”arte dell'imitare” riproduce le
strutture di dimostrazioni vere per applicarle ad argomenti falsi, facendo
sembrare essere il non-essere, per imitazione.
Tuttavia, se di fatto tali opinioni false si danno nella mia mente, di modo che io
le possa classificare come tali, mostrano di avere un innegabile grado di realtà.
In questo senso il sofista, si dirà, si è nascosto nel luogo in cui è più difficile
scoprirlo: nella verità della falsità. L'illusione che il falso sia sempre e soltanto
falso è il più semplice e per questo il più pericoloso dei tranelli del sofista.
Sembra dunque che egli, rifugiatosi nella trama ombrosa dell'illogicità della
logica più ferrea, una volta scoperto e catturato da preda si trasformi in
predatore, obbligando Teeteto e il maestro ad ammettere la fallacia della loro
stessa mente in quanto produttrice di dòxa.
Il problema che si cela dietro lo svolgimento del dialogo, è proprio quello della
difficile integrazione tra la struttra rappresentativa della coscienza e il concetto
di “verità” (comprendente le nozioni di “reale” e “essere”), il quale da un lato la
eccede e allo stesso tempo non si situa altrove che nella coscienza stessa.
Si giunge a tale formulazione dalla considerazione della dòxa, l'apparenza della
sensazione (aisthesis), in quanto questa è da un lato una considerazione
sempre seconda alla cosa, un apparire della cosa (svelamento) e allo stesso
tempo un suo sembrare (velamento), e dall'altro lato è quanto di più
immediato l'uomo possa avere del reale.
Per questo, nello stesso Sofista, la dòxa sarà detta un téras, qualcosa di
miracoloso perché implica il superamento dello stesso soggetto che lo conosce
e lo produce a sé stesso.
La coscienza infatti, in termini “quotidiani” il pensiero, funziona come un
“parlare silenzioso” ovverosia ogni volta che ci rapportiamo ad una cosa non
possiamo che osservarla “come in uno specchio” nella determinazione
“linguistica” con cui noi “la diciamo a noi stessi”.
In questo senso, possiamo dire che noi ci muoviamo sempre all'interno di
dòxai, rappresentazioni del reale in quanto tali necessarie alla sua stessa
conoscenza. L'apprendimento maggiore che si può mediare da questi due
dialoghi platonici è di fatto che la verità non può darsi prescindendo dallo
studio del campo di possibilità della non-verità, ovverosia, alétheia non può
darsi senza il suo “contrario” dòxa, che ne diviene pertanto parte costitutiva a
tutti gli effetti.
Detto questo, si tratta ora di abbandonare la filosofia come sapere incapace di
comprendere il reale? Resiste il pensiero di tipo “scientifico” alle conclusioni
appena tratte? Di certo no, dal momento che di fatto la formulazione scientifica
di un fenomeno, proprio perché limitata al mero fenomeno, cioé alla dòxa della
cosa ne rende conto per lo meno tanto quanto la “filosofia” vista nelle stentate
risposte di Teeteto.
Si tratta allora di una questione ben più radicale: bisogna abbandonare ogni
possibilità del sapere sul reale?
Non dobbiamo, tuttavia, dimenticarci di quanto la “caccia al sofista” ci aveva
insegnato: tenere ferme le determinazioni di vero e reale come se queste
esistessero in sé e per sé non può che costringerci ad ammettere che
contrapposto ad un vero in sé vi è un falso in sé che nella misura in cui é falso,
in qualche modo si dà nella mia mente e quindi é. Per non ricadere nella
contraddizione distruttiva della vertà della falsità, si deve di fatto accettare la
struttura rappresentativa della coscienza (che abbiamo visto lavorare “come
uno specchio”) come punto di partenza nell'interrogarsi sulla verità, la quale si
trova dunque a coincidere con la domanda sul sapere del sapere, cioé sul
sapere come di fatto avviene che le cose si sappiano.
Tale indirizzo di indagine, prenderà il nome di “fenomenologia” e trova la sua
matrice originaria nelle grandi intuizioni del pensiero trascendentale kantiano e
fichtiano, così come queste vengono sviluppate dal pensiero di Hegel.
Il punto dell'interrogazione hegeliana sarà di fatto questo: il ritrovamento del
soggetto di quel sapere di una cosa, ovverosia quel soggetto che è consapevole
del fatto che quella cosa è in quanto è saputa da lui. Illuminante per capire
cosa si intende qui, è l'esempio che lo stesso Hegel ci fornisce nell'introduzione
della sua Fenomenologia dello Spirito: il sapere di una cosa è un raggio che
riflette su di un vetro. Questo significa che non devo conoscere né vetro in sé
né raggio in sé, ma devo “semplicemente” comprendere il movimento per cui
tutti gli elementi comunicano tra loro: il raggio, il vetro, la rifrazione e io che li
osservo.
In questo senso, i confini della nozioni di “reale” si trovano completamente
ridefiniti: reale è quanto appare alla mia coscienza e vero è quanto io riesco a
ricomprendere nel fatto che si è esposto a me nel presentarsi alla mia
coscienza.
Il sofista si trova ora sprovvisto di zone d'ombra dove rifugiarsi: non c'è un
falso in sé, ma c'è il fatto, reale, che il falso mi si presenta in una
rappresentazione coscienziale.
Si comprende perché allora la Fenomenologia avrebbe dovuto titolare,
originariamente, Scienza dell'Esperienza della Coscienza.
Inoltre, in questa direzione interpretativa, le nozioni di “Spirito” e “Sapere
Assoluto” perdono la loro astrattezza per acquisire indiscutibile dinamicità. Se
infatti Spirito è totalità del presentarsi delle cose del mondo passando
attraverso la rappresentazione di Sé nella coscienza individuale e Sapere
Assoluto è sapere del fatto che la totalità delle cose del mondo si presenta
come sapere esposto attraverso le coscienze individuali di un “popolo”, diventa
chiaro che il reale, o il vero, non può essere inteso come un contenuto di
razionalità che si trova al di là del mondo ma è al contrario frutto di un
continuo rilancio del movimento della comprensione.
L'indagine del pensiero fenomenologico sarà ripresa da Husserl e giungerà, con
un debito speculativo forse mai completamente riconosciuto, al pensiero
heideggeriano, per quanto riguarda gli aspetti di distruzione e superamento
della metafisica e nella rivalutazione di un concetto di “verità”
etimologicamente fedele all'alétheia greca, ovverosia come processo di
svelamento che non può prescindere da un movimento di velamento. Un
processo che avviene sotto gli occhi di una coscienza “in lei e per lei” e che per
questo non è altro che l'essenza dell'uomo stesso come un continuo es-porsi e
chiamarsi in questione nell'esposizione.
In questa rivalutazione della struttura rappresentativa della coscienza, si vede
un recupero di quell'immagine che, sia come dòxa sia come simulacro o come
oggetto estetico, è sempre stata relegata ai limiti del reale dalla cultura
occidentale.
Un problema aperto dunque per la filosofia come disciplina squisitamente
greca, e sconosciuto, non a caso, alla riflessione orientale, la quale non
soltanto non presenta una filosofia separata da una religione e una teoria
separata da una pratica, ma anche vede una dimensione estetica estesa a tutta
l'esperienza del reale, in un rispecchiamento microcosmo-macrocosmo senza
che si diano gradi diversi di realtà tra i due.
La prospettiva fenomenologica, nell'intuizione hegeliana da un lato e nella
problematizzazione husserliana dall'altro, non smette di fornire interrogativi
all'occidente, richiamando in questione grandi problemi come la temporalità,
la scientificità della conoscenza, la decostruzione della soggettività “cartesiana”
e la questione sul valore del linguaggio tra dialogicità e narratività.
In questo senso, infine, il pensiero fenomenologico ha anche mostrato come la
filosofia non possa fare a meno, se vuole trovare una rinnovata legittimazione
nel campo delle scienze, del confronto con discipline “limitrofe” quali la
letteratura e la psicanalisi. Una sfida questa che il pensiero contemporaneo, in
particolare quello di ambito francese, non ha mancato di raccogliere.
Consigli di bibliografia
Platone, “Sofista”
Platone, “Teeteto”
Martin Heidegger, “L'essenza della verità”, Milano 1997, Adelphi ed. (In
particolare parte II)
Illetterati, Giuspoli, Mendola “Hegel”, Roma 2010, Carocci ed.