L`ARTE NON OCCIDENTALE

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a cura di
A. Vettese
A lato Fig. 1
Maschera facciale del
popolo Fang, XIX secolo.
Gabon.
A destra Fig. 2
Pablo Picasso,
Testa di donna, 1908.
Olio su tela, 73,6x60,6 cm.
MoMA, New York.
L’ARTE NON OCCIDENTALE
PREREQUISITI
• Conoscenza dei rapporti dell’Europa con i Paesi extraeuropei, lungo tutto il ciclo della
sua storia e, in particolare, del fenomeno del colonialismo tra il XIX e il XX secolo e dei
problemi del processo di decolonizzazione.
• Conoscenza dell’evoluzione del concetto di ‘cultura’ da una concezione formale, elitaria ed eurocentrica a una prospettiva antropologica, basata sull’uguale valore del modello di ogni società o comunità, anche dei popoli senza scrittura.
• Conoscenza dei rapporti degli artisti europei (dagli Impressionisti in poi) con espressioni delle arti visive di culture extraeuropee.
OBIETTIVI
• Comprensione dei limiti e delle modalità riduttive con cui gli artisti europei hanno guardato all’arte extraeuropea fino alla metà del Novecento.
• Comprensione dei problemi del multiculturalismo in una società globalizzata.
• Acquisizione di nuovi modelli di analisi nei confronti di culture diverse, nell’ambito di
una società multiculturale.
Collegamenti pluridisciplinari: Storia dell’economia, della società, della tecnica, Sociologia, Psicologia.
A.
ALLA RICERCA DI ISPIRAZIONE NELL’ESOTICO
A partire dal tardo Ottocento si può dire
non ci sia stata corrente artistica che non
abbia guardato a una o più tradizioni esotiche come a un elemento primario di ispirazione.
Qui ricordiamo l’amore per l’arte giapponese che distinse van Gogh e che influì sulla sua pittura; l’interesse per l’arte di Tahiti
da parte di Gauguin, che addirittura scelse
di vivere in quei luoghi; la passione di
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Klimt per le decorazioni bizantine e del vicino Oriente; il gusto di Matisse per il Marocco e per il suo artigianato; il piacere per
le forme sintetiche della scultura africana
che accomunò il fauve Derain a Picasso, a
Braque e all’intero circolo cubista; l’attrazione per l’arte oceanica dimostrata sia dagli Espressionisti sia, più tardi, dai Surrealisti; il rapporto intenso che legò Klee a Tunisi e che gli rivelò, attraverso i suoi cieli ma
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Fig. 3
Henri Matisse,
Due odalische, 1928.
Olio su tela, 50x65 cm.
Stoccolma,
Moderna Museet.
anche mediante la vivacità delle arti applicate, un nuovo senso del colore; la ricerca
di Jackson Pollock e di numerosi altri artisti
americani attorno all’arte delle tribù indiane native; il giapponismo venato di spiritualità zen che incise in modo specifico sull’americano Mark Tobey e, più in generale,
sulla pittura informale; il coinvolgimento di
Yves Klein con le arti marziali e dunque
con la relazione mente-corpo caratteristica
della religiosità orientale; e infine il ‘pas-
saggio in India’ tipico di una intera generazione, di grande importanza per numerosi
artisti attivi dopo gli anni Sessanta.
Questo desiderio di trovare fonti d’ispirazione nell’arte di terre lontane ha avuto
motivazioni differenti. La prima e la più generale è stata la ricerca di metodi che portassero all’arte europea e americana linfa
nuova sul piano delle tecniche e dei temi:
si può affermare che quasi tutti i rinnovamenti del linguaggio artistico occidentale,
A lato Fig. 4
Maschera facciale in legno
usata per le cerimonie ngil
del popolo Fang,
XIX secolo.
Museo del Louvre.
A destra Fig. 5
Amedeo Modigliani, Testa,
1911-13. 63,5x15,2x21 cm.
New York, Salomon
Guggenheim Museum.
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Sopra Fig. 6
Fotografia aerea
di un campo
egiziano coltivato.
Sopra a destra Fig. 7
Paul Klee,
Monumento al Paese fertile,
1929. Acquerello.
Berna, Kunstmuseum.
almeno a partire dal tardo Ottocento, si sono avvalsi di indicazioni provenienti da
tradizioni non occidentali, malgrado il fatto che sovente il contatto con quelle forme
dell’arte fosse superficiale.
Per non fare che due esempi noti, van
Gogh apprezzava e collezionava stampe
giapponesi, ma conosceva ben poco della
cultura sociale e spirituale da cui traevano
origine; Picasso diede una lettura semplicistica delle maschere africane, fondata solo
sul loro aspetto formale. Le indicazioni
provenienti dall’‘altro’, insomma, sono state assunte dagli artisti occidentali come occasioni di conoscenza, ma soprattutto come spunti per aiutare il loro distacco formale dallo stile accademico.
Tuttavia, il gusto dell’esotico si alleava
anche a una critica di carattere morale per
i meccanismi innescati dalla Rivoluzione
Industriale, già così esplicita nelle descrizioni che Baudelaire aveva fatto di Parigi. Il
A lato Fig. 8
Ernst L. Kirchner,
Testa di Erma, 1915.
35,5x15x16 cm.
Beverly Hills (California),
Collezione privata.
A destra Fig. 9
Jacques Lipchitz,
Figura, 1926-30.
Bronzo, 216x98 cm.
Fondazione Beyeler.
Riehen presso Basilea.
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Fig. 10
Emil Nolde,
Ragazze di Papua, 1914.
70x103,5 cm. Berlino,
Staatliche Museum,
Nationalgalerie.
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desiderio di fuga verso terre lontane ebbe
dunque anche una forte implicazione etica
e non a caso, malgrado la superficialità
dell’approccio, molti artisti innamorati del
tribale, del lontano o del diverso furono
anche fortemente critici nei confronti della
civiltà in cui vivevano: si pensi all’esaltazione mistica e antiborghese di Van Gogh,
Gauguin e Kirchner.
La crisi della committenza religiosa fu un
altro fattore determinante: fino a quando,
agli artisti, venne richiesto soprattutto di interpretare gli eventi evangelici o biblici,
non ci fu modo né motivo di attingere a tradizioni non-cristiane. Quando il legame tra
arte e Chiesa si affievolì, non ci fu più la
necessità di rispettare un’iconografia strettamente cristiana e divenne possibile cercare suggerimenti in quella di altre religioni. Lo stesso valse per il venire meno della
committenza nobiliare o monarchica, la
quale nella sua storia aveva spinto gli artisti a utilizzare modelli classici di matrice
greco-romana. La borghesia, nuova classe
acquirente, non chiedeva pittura di storia o
scene di carattere mitologico, ma soprattutto ritratti, paesaggi e più in generale soggetti che concedevano agli artisti una maggiore libertà di ispirazione.
L’impulso a guardare oltre i confini dell’Occidente non sarebbe stato possibile
senza il suo primo presupposto storico: il
grande colonialismo, che si manifestò nell’Ottocento sia sotto forma di protettorato
politico, come in Africa o in India, sia nell’ambito di una relazione commerciale,
come nel caso della Cina. Fu attraverso
questo canale che gli artisti ebbero la possibilità di conoscere l’arte degli altri Continenti. Nulla, ad esempio, trapelò del
Giappone fino a quando il Paese rimase
chiuso a qualsiasi transazione con l’Europa; solamente con l’apertura delle sue
frontiere, dalla seconda metà dell’Ottocento, esso riversò in Occidente il fascino
della sua cultura.
Naturalmente una certa dose di scambi
con il resto del mondo, e in particolare con
l’Oriente, era attiva fin dall’Alto Medioevo
e si era intensificata nell’epoca dei grandi
viaggiatori; dipinti rinascimentali ci raccontano come i prìncipi amassero circondarsi di fiere africane e di stoffe asiatiche.
Le Wunderkammer (Camere delle meraviglie) in cui molti collezionisti raccoglievano piccole curiosità scientifiche, oggetti artigianali bizzarri e meraviglie dal mondo,
ospitavano sovente preziose testimonianze
extraeuropee.
L’arabesco, inteso come forma di decorazione per stoffe o per architetture, esisteva
da quando le popolazioni arabe avevano
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Sopra Fig. 11
Alberto Giacometti,
La coppia, 1926.
Bronzo, 60x50,8x17,5 cm.
Zurigo.
Sopra a destra Fig. 12
Jean Dubuffet,
Ils tiennent conseil, 1947
Olio su tela, 145x112 cm.
Washington, National
Gallery of Art.
avuto forti rapporti con l’Europa; l’influenza della cultura musulmana si coglie anche
in alcuni termini caratteristici dell’arredo,
come le parole ‘divano’ (dal persiano
diwan) e ‘ottomana’.
Tuttavia, solo l’epoca coloniale consentì
l’importazione in dosi massicce di oggetti,
libri, materiali delle civiltà più lontane,
mettendole a disposizione delle classi intermedie e quindi anche degli intellettuali.
Nel ritratto che Manet dedicò a Émile
Zola compaiono un paravento orientale,
alcune stampe che riproducono samurai
giapponesi e un’immagine di provenienza
africana: l’ambiente dello studiolo racconta come simili raffinatezze fossero ormai
alla portata anche di un giovane scrittore.
Ma in che modo venivano accolte queste
testimonianze?
Qualsiasi civiltà tende a considerare se
stessa come centro e misura delle altre.
Questo effetto centripeto è stato fortemente ampliato, nell’Occidente ottocentesco,
dalla superiorità scientifica, militare e politica dimostrata sulle altre parti del mondo.
Se è vero, quindi, che nacquero interi
Musei per testimoniare la vita delle popolazioni extraeuropee, come il Museo Etnografico del Trocadero a Parigi, meta di pellegrinaggio per Braque, Picasso e molti altri, e il Museo d’Arte Orientale E. Chiosso-
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ne a Genova per l’arte dell’Estremo Oriente, in essi, però, si forniva una descrizione
spesso paternalistica e superficiale di quelle culture.
È stato necessario un lungo iter, durante
il quale si sono sviluppate discipline come
l’Etnografia, l’Antropologia, lo studio comparato delle lingue e delle religioni, per
correggere l’attitudine a vedere in qualsiasi ‘altro’ un ‘buon selvaggio’ o anche un
uomo raffinato, ma in errore rispetto ai modelli occidentali.
Quel relativismo culturale che Montesquieu aveva prefigurato in epoca illuminista, nelle sue Lettere persiane, ha impiegato oltre due secoli ad affermarsi e ha richiesto l’impegno di studiosi come Claude
Lévi-Strauss e Margaret Mead nell’antropologia, Michel Foucault nella filosofia, Jacques Le Goff e la scuola delle Annales nella storia, John Kenneth Galbraith nell’economia, eccetera: questi intellettuali, a prescindere dalle loro posizioni ideologiche,
hanno agito anche sotto la pressione di
movimenti ‘dal basso’, tesi a mettere in crisi la supremazia del ‘Primo mondo’ sul
‘Terzo mondo’.
Grazie anche a queste interazioni le tematiche della marginalità e della differenza sono arrivate nelle aule delle Università
e nelle sale di mostre e Musei.
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Fig. 13
Jean-Michel Basquiat ritratto
nel suo studio a New York,
1985.
B.
GLI EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE NELL’ARTE RECENTE
La decolonizzazione, come base per un
mondo futuro retto da rapporti pacifici e di
reciproco rispetto, fu teorizzata dal primo
ministro inglese Churchill e dal presidente
americano Roosevelt già durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1941. La sua attuazione politica fu compiuta entro gli anni Sessanta, ma si può dire che dal punto di
vista sociale essa sia ancora in corso.
Anche nel mondo dell’arte questo processo è stato lungo e problematico: consideriamo che quando, nel 1984, il critico
William Rubin organizzò al MoMA di New
York la mostra più impegnativa mai realizzata sull’Africa e sull’Oceania, non esitò a
definire ‘primitiva’ l’arte di quei Continenti.
L’idea che sta dietro a un simile aggettivo,
oggi pressoché abbandonato, è che l’arte
Fig. 14
Soo-Ja Kim,
Cities on the Move
(Città in movimento), 1997.
Videogramma della
performance 2727
chilometri attraverso
la Corea. Un camion,
vestiti usati, coperte.
Venezia, Biennale 1999.
L’artista rende reale il continuo
viaggio ideale tra Est e Ovest.
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L’ARTE NON OCCIDENTALE
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Sopra Fig. 15
Andrés Serrano,
Klanswomen, 1990.
Sopra a destra Fig. 16
Robert Colescott,
Tra due mondi, 1992.
Acrilico, 84x72 cm.
Phyllis Kind Gallery.
evoluta sia appunto quella occidentale.
Le vicende politiche, economiche e tecnologiche che hanno avuto luogo soprattutto dagli anni Ottanta hanno posto le basi della cosiddetta globalizzazione, cioè di
un mondo in cui devono essere necessariamente riformulati concetti come quello
di confine, di identità personale e collettiva, persino di Stato o Nazione.
Diversi fenomeni vengono a incrociarsi
tra loro, tutti con conseguenze precise nell’ambito artistico:
• Lo spostamento di vaste masse di popolazione da un luogo all’altro del globo,
che trasportano e ibridano le loro culture, ha generato nei Paesi e nelle città più
ricche la necessità di accogliere un sempre maggiore numero di immigrati, diminuendo la tensione sociale anche attraverso strategie culturali.
Se ne vede una traccia nel successo di alcuni ispano-americani trasferitisi negli
Stati Uniti, come Felix Gonzáles Torres e
Andrés Serrano.
Fig. 17
Kcho
(Alexis Leyva Machado),
La Regata, 1994.
600x300 cm (variabili).
Museum Ludwig Köln,
Leihgabe der Ludwig Stiftung.
La cultura cubana, basata sul
mare e sulla pesca, trova una
sua metafora in questa barca
di barche senza mare.
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L’ARTE NON OCCIDENTALE
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Fig. 18
Kara Walker,
They Waz Nice White Folks
While They Lasted, 2001.
Pezzi di carta e proiezione
su parete, 426,7x609,6 cm.
Courtesy
Sikkema Jenkins & Co.
Venezia, Biennale 2007.
Le scene rappresentate nelle
opere di Kara Walker, benché
pudicamente confuse dalla
mancanza di chiaroscuro, sono spesso violente e perverse,
tese a evocare i rapporti di reciproco odio tra bianchi e neri in America ai tempi dello
schiavismo.
• Dagli anni Cinquanta in poi, le cosiddette
minoranze oppresse hanno dimostrato una
capacità di riscatto notevole. Ciò ha dato
luogo, soprattutto negli Stati Uniti, alla necessità di aprire i musei anche ai frutti del
melting pot (l’espressione secondo cui gli
Stati Uniti vengono paragonati a una ‘pentola’ dove si mescolano le etnie). Il caso di
Jean-Michel Basquiat, il primo artista nero
a riscuotere grande successo, è stato seguito da afroamericani di diverse generazioni
come Robert Colescott, David Hammons
e Kara Walker, il cui lavoro denuncia l’oppressione esercitata dai bianchi sulla po-
polazione nera. In altri casi, come per Jimmie Durham, a ottenere dei riconoscimenti è stato un rappresentante dei nativi americani. Il Whitney Museum of American
Art di New York, che è sempre stato un
tempio dell’arte statunitense bianca, dagli
anni Novanta ha effettuato un’apertura in
senso multirazziale.
• L’indipendenza di molti Paesi che erano
stati lungamente oppressi dal colonialismo
europeo ha condotto a una promozione
della loro cultura. Dagli anni Novanta una
serie di pubblicazioni importanti e di grandi mostre ne hanno dato testimonianza: la
Fig. 19
David Hammons,
African-American flag,
1990. Cotone tinto,
152x236 cm.
Courtesy The Monsoon Art
Collection, Londra.
In quest’opera la bandiera
americana è realizzata con i
colori della bandiera universale africana: il nero della pelle, il rosso del sangue e il verde della vegetazione africana.
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L’ARTE NON OCCIDENTALE
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Sopra Fig. 20
Jimmie Durham,
Malinconia, 1988-92.
177x60x89 cm.
Gent (Belgio), SMAK
(Stedelijk Museum voor
Actuele Kunst).
La scultura mostra il connubio
tra un tema iconografico classico della cultura occidentale
e forme di quella indo-americana. Se la collana, per esempio, si riferisce a quest’ultima,
il reggiseno è un’imposizione
dell’etica europea.
Sopra a destra Fig. 21
Chris Ofili, Orgena, 1998.
Acrilico, olio, avorio;
243,8x182,8 cm. Londra,
Victoria Miro Gallery.
Biennale di Johannesburg del 1997 ha presentato un panorama di artisti africani che
hanno subito iniziato a venire riconosciuti
anche in Occidente (tra questi Kay Hassan,
William Kentridge, Olu Oguibe); la Biennale di Venezia del 1999 ha presentato la
più forte rappresentanza cinese mai accolta da una rassegna europea.
• La facilità con la quale i mezzi di comunicazione connettono culture geograficamente molto lontane ha offerto la possibilità di fondare riviste via e-mail o su carta
(come Third Text, fondata da Rasheed
Araeen attorno ai temi della cultura del
‘Terzo mondo’). Va notato come in queste
comunicazioni si siano affermate le lingue
dei Paesi colonizzatori (Francia, Gran Bretagna e Spagna) e soprattutto l’inglese, un
‘esperanto’ che semplifica i contatti, ma ne
appiattisce i contenuti specifici.
L’insieme di questi processi appare irreversibile e sta caratterizzando la prima parte del
XXI secolo, portando alla commistione con
la cultura dominante anche le tradizioni di
popoli che, come è accaduto nell’Europa
dell’Est, hanno vissuto un’oppressione che
non sarebbe esatto definire coloniale.
L’artista anglo-americano solitamente appoggia le sue tele su
palle di sterco di elefante che
hanno un valore simbolico. A
causa di questo uso, che è stato considerato scandaloso dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, l’artista è stato
oggetto di critiche e censure.
In realtà, lo sterco di elefante è
in molte zone dell’Africa un
materiale edilizio prezioso.
Fig. 22
Seydou Keïta,
Senza titolo.
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C.
Sopra Fig. 23
Shirin Neshat,
Way In Way Out,
da Women of Allah, 1994.
Penna e inchiostro
su fotografia, 30,5x22,9 cm.
Sopra a destra Fig. 24
Shirin Neshat,
Faceless,
da Women of Allah, 1994.
Gelatina d’argento,
35,6x28 cm.
Le foto mostrano in sintesi
estrema il rapporto tra preghiera e difesa militare del
proprio credo.
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L’ARTE NON OCCIDENTALE
PROBLEMI E CONTRADDIZIONI POSTI DAL MULTICULTURALISMO
È possibile indicare una data in cui tali
fenomeni hanno trovato una loro esplicita
espressione anche nell’ambito artistico: il
1989, l’anno in cui venne allestita la prima
mostra che riguardasse il rapporto tra culture molteplici, Magiciens de la Terre, organizzata a Parigi da Jean Hubert Martin.
Il teorico indiano Homi Bhabha, nel Catalogo della mostra, indicava la necessità
di attribuire a ogni cultura artistica pari
dignità e autonomia. Nonostante la rassegna sia stata accusata di ridurre a folklore
molta parte dell’arte non occidentale, fu
la prima e la più importante di una serie
di manifestazioni analoghe, tese a mettere in evidenza l’incontro oramai inevitabile tra etnie.
L’iniziativa portò alla luce anche una serie di quesiti metodologici e teorici: è possibile comparare opere provenienti non solo da tradizioni differenti, ma anche da
concezioni dell’arte tra loro molto lontane?
Per esempio da quelle che considerano salienti solo le opere che abbiano una funzione pratica o religiosa? Oppure da quelle che non ritengono un valore la resistenza dell’opera al tempo? Ancora, fino a che
punto è possibile per un occidentale capire l’arte non occidentale, e viceversa? E infine, quanta parte di colonialismo culturale è tuttora implicita in queste manifestazioni di apertura? Quest’ultima domanda è
diventata sempre più rilevante, da quando
la scoperta (o la riscoperta) di artisti africani, sudamericani, cinesi è diventata uno
dei veicoli principali per il prestigio dei curatori di mostre e Musei occidentali.
Tali quesiti non sono affatto risolti e, se
possibile, si sono andati complicando. Gli
artisti non occidentali che hanno raggiunto
la notorietà dagli anni Ottanta in poi, infatti, sono quelli che hanno maggiormente
aderito al modello estetico dominante, che
è pur sempre quello occidentale.
Osserviamo alcune opere per comprendere i termini del problema.
Le grandi fotografie di Shirin Neshat, iraniana trasferitasi a New York, descrivono la
condizione delle donne nel suo paese e in
generale un mondo profondamente segnato dalla guerra e dall’integralismo religioso. Il ricordo della cultura di origine compare anche sotto forma di scritte in arabo
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Fig. 25
Ilya Kabakov,
Installazione presso la
Galerie de France.
Parigi, 1989.
L’opera rappresenta la situazione di confusione e disagio
delle cucine nelle case sovietiche di coabitazione, al termine dei corridoi comuni.
Alle pareti sono appesi dei
quadri di paesaggio, come a
designare il desiderio di evadere da una vita di prigionia.
che coprono parte dei visi o delle mani o
dei piedi delle persone ritratte: una pratica
che ricorda la caratteristica islamica di attribuire un’importanza pedagogica, religiosa e decorativa agli scritti sacri, praticamente l’unica forma di immagine che è lecito riprodurre in una moschea. D’altra
parte la fotografia e la videoproiezione, i
mezzi usati dall’artista, dipendono in maniera completa dalle nuove tecniche artistiche elaborate in Occidente.
Ilya Kabakov, attivo in Unione Sovietica
fino al 1988 e trasferitosi poi negli Stati
Uniti, ha teorizzato e messo in pratica la
tecnica della ‘installazione totale’: a partire da disegni e schizzi a mano libera, egli
crea ambienti percorribili nei quali lo spettatore si trova completamente immerso in
una certa atmosfera.
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Nel caso del lungo corridoio a forma di
labirinto chiuso che l’artista ha dedicato a
sua madre, costruito nello stile e nei colori
delle case sovietiche di coabitazione, viene ricostruita l’atmosfera degli appartamenti in cui erano costrette a convivere
numerose famiglie; in essi il corridoio era
luogo di incontro, ma soprattutto di scontro tra i differenti nuclei familiari. La forma
cieca di questo labirinto ricorda come fosse impossibile per un uomo sovietico cambiare casa o cambiare vita.
Come la maggior parte delle realizzazioni di Kabakov, l’opera può essere considerata come la resa in tre dimensioni di una
illustrazione realista in puro stile sovietico;
ma in quanto installazione ambientale essa
risente del linguaggio elaborato negli anni
Sessanta dalle Avanguardie occidentali,
tanto più che alla generazione di Kabakov
L’ARTE NON OCCIDENTALE
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Sopra Fig. 26
Yinka Shonibare,
Diario di un Dandy vittoriano: ore 14,00, particolare,
1998. Foto ritoccata,
183x228 cm.
Londra, Courtesy dell’artista
e Stephen Friedman Gallery.
Sopra a destra Fig. 27
Cai Guo-Qiang,
Tre fotogrammi dallo
spettacolo pirotecnico
Transient Rainbow, 2002
New York.
venne preclusa in Unione Sovietica ogni
informazione sulle Avanguardie russe del
periodo prerivoluzionario.
Un discorso simile vale per gli artisti del
Centro e del Sud dell’Africa che si sono affacciati al panorama artistico internazionale
negli anni Novanta: si prendano ad esempio
le fotografie modificate di Yinka Shonibare
della serie Diario di un Dandy vittoriano
(1998). Un elegante giovanotto nero domina in un contesto di sapore britannico, dove, in un ribaltamento ironico dei rapporti
di classe, le cameriere e i segretari sono
bianchi.
Il riferimento all’oppressione subita dai
popoli colonizzati durante l’Impero della
Regina Vittoria è evidente, ma l’opera utilizza la tecnica tutta occidentale di una
messa in scena teatrale, fotografata e modificata al computer.
Molte performance del cinese Cai Guo
Qiang prevedono lo scoppio di fuochi
d’artificio secondo coreografie predeterminate, in relazione con l’ampio uso di
polvere da sparo e di manifestazioni pirotecniche che caratterizzano le feste cinesi.
Ma i presupposti tecnici di queste opere
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L’ARTE NON OCCIDENTALE
sono decisamente occidentali: il ‘genere’
performance, l’occupazione temporanea
di uno spazio pubblico, la deperibilità dell’opera e la sua documentazione attraverso un video.
Problematiche di questo tipo valgono per
artisti giapponesi, coreani, sudamericani e
di qualsiasi altra provenienza. Se ne può
concludere che, se dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento sono stati i Paesi ‘altri’ le fonti di ispirazione per gli artisti
dell’Occidente, dalla fine del Novecento i
rapporti sembrano essersi invertiti.
Se si pensa che nessun collezionista aveva pagato un dipinto di Van Gogh tanto
quanto, nei tardi anni Ottanta, un giapponese fu disposto a pagare gli Iris, ci si rende conto di come il modello storico-artistico a cui si stanno uniformando tutti i Paesi
emergenti è quello occidentale; anche la
forma che hanno assunto i Musei nati a
Seoul, Tokyo, Singapore ha un’impronta
euro-americana. È prevedibile, dunque,
che le commistioni di stili e di forme, nelle quali riconosciamo il nutrimento più significativo per la ricerca visiva, condurranno a un rapporto equilibrato tra diverse
culture visive solo nel lungo periodo.
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IL CASO AFRICA
Sopra Fig. 28
Chéri Samba, Le torri di Babele nel mondo, 1998. Acrilico e lucido su tela, 130x203 cm.
Courtesy C.A.A.C. - The Picozzi Collection, Geneva. © Chéri Samba
Per meglio comprendere i problemi che soggiacciono al multiculturalismo, può essere un valido aiuto l’esempio del
Continente africano. Il collezionista, il direttore di museo, il conoscitore occidentale ha lungamente creduto che l’Africa fosse un insieme di culture compatte, omogenee, differenziate a partire dalle diversità etniche e religiose delle
varie tribù. Da queste identità prendeva corpo una produzione artistica considerata di facile catalogazione (statuette
per la fertilità, maschere rituali, amuleti, eccetera) e mai come l’espressione di un individuo singolo, ma di una intera
tribù. Il fatto che queste forme di artigianato potessero avere avuto un’evoluzione stilistica veniva considerato di rado.
Ancora più raramente ci si chiedeva quali trasformazioni fossero intervenute in queste lavorazioni dopo il contatto con
i popoli colonizzatori. Gli occidentali cercavano soprattutto oggetti che potessero testimoniare una ‘autentica’ identità
africana, non avvedendosi di quanto tale ricerca fosse farraginosa. Qualche esempio può venirci in aiuto.
I guerrieri della regione di Ogoja, nel Sud-Est della Nigeria, usavano decorarsi nelle danze successive alle loro vittorie con i teschi del nemico posti sul proprio capo. Nell’epoca coloniale gli scontri tribali vennero meno e i teschi, non
più disponibili, vennero sostituiti a uso dei collezionisti europei da maschere di legno, a volte coperte di pelle per una
maggiore verosimiglianza. La tribù dei Masai, che abita parte del territorio keniota, è nota per le stoffe e i gioielli con
cui si adorna; da quando esiste un pubblico di potenziali compratori, la produzione di queste decorazioni è cambiata, adattandosi nei colori e nei motivi a ciò che gli occidentali usano considerare più ‘autentico’.
Anche le stoffe della popolazione Yoruba, di cotone filato a mano, soffice e molto fragile, hanno mutato la loro consistenza per diventare più resistenti e facilmente esportabili.
Non si deve dimenticare, inoltre, che la vita tribale in Africa risulta oggi marginale: la popolazione si affolla soprattutto in megalopoli come Kinshasa (Congo), Lagos (Nigeria), Nairobi (Kenia). In questi centri i mercati diffondono merci che provengono da tutte le parti del mondo come borse italiane, radioline di Hong Kong e bibite americane, mentre anche Internet dilaga. Ancora, la lunga presenza dei Paesi colonizzatori ha depotenziato il valore delle lingue e
delle culture orali locali, favorendo la diffusione di libri in lingua inglese e francese.
La creazione del sistema scolastico e universitario è anch’essa avvenuta in epoca coloniale e ricalca dunque le caratteristiche principali del sistema europeo.
Come ha rilevato il critico Okwui Enwezor, è difficile e spesso fallace cercare ancora una ‘autentica identità africana’,
mentre occorre comprendere come l’arte africana del XX secolo sia il frutto di successive e inevitabili ibridazioni; tali
‘contagi’ divengono ancora più significativi se si considera che la maggior parte degli artisti africani giunti a una certa notorietà, ad eccezione di Chéri Samba (che vive e lavora a Kinshasa), vivono fuori dall’Africa, perché esiliati (come Olu Oguibe) o perché figli di immigrati di seconda generazione (come Oladelé Bamgboyé e Chris Ofili), mentre l’arte riconosciuta dall’Occidente come ‘autenticamente africana’ spesso non è che il frutto di un artigianato destinato soltanto ai mercatini per turisti.
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