Riti religiosi e riti profani. Sulla natura del rito

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novembre 2007 anno II n°4
RITI RELIGIOSI E RITI PROFANI. SULLA NATURA DEL RITO
di Alessandra Ciattini
Premessa
Consapevoli del ridimensionamento della religione, della religiosità e della ritualità
tradizionali nella società capitalistica avanzata, gli antropologi e i sociologi contemporanei
hanno compreso tuttavia che si tratta di fenomeni non in via di sparizione, ma in
trasformazione.
Da un lato, infatti, molti studiosi hanno analizzato il processo di secolarizzazione subito
dalla civiltà europea, il quale avrebbe finito col relegare il sacro alla vita privata (cfr. Giner,
1994: 129). Secondo Max Weber esso sarebbe stato addirittura favorito da certe forme
religiose come il calvinismo. Dall’altro, è stato osservato che le istituzioni religiose
tradizionali sono entrate in una grave crisi, dovuta per esempio all’incapacità della Chiesa
cattolica, proprio per sua struttura monocratica, di dare soluzione ai problemi delle chiese
locali. Crisi1 che però non ha coinvolto nella sua globalità la dimensione del sacro, inteso
come <<… esperienza intima, che… si sottrae al controllo del magisterio ecclesiastico e
che afferma il dono carismatico al di là ed eventualmente contro il controllo burocratico
della religione di chiesa…>> (Ferrarotti, 1978: 40). Tali caratteri del sacro hanno
aggravato la crisi delle istituzioni ecclesiastiche ed aperto alla ricerca di nuove forme di
religiosità e di ritualità.
Queste nuove forme hanno investito la sfera profana <<attraverso una ritualizzazione
deliberata>>, che pone al suo centro, ad esempio, il culto del corpo o l’attività
imprenditoriale. Oppure secondo alcuni esse appaiono nella vita politica, quasi a
compensare la perdita di importanza della dimensione religiosa (Rivière, 1998: 7).
Questo nuovo modo di rapportarsi al sacro2 ha anche investito le istituzioni religiose
tradizionali, che hanno modificato la loro liturgia dando spazio all’esperienza diretta del
sovrannaturale – come accade nel carismatismo cattolico e nel pentecostalismo
protestante -, utilizzando modalità espressive più spontanee come la musica e il canto.
1
Ferrarotti osserva (1978: 42-43, 45) che molto spesso i culturi della sociologia religiosa sono
sacerdoti, i quali, parlando della presunta crisi del sacro o della secolarizzazione, mostrano un
preoccupazione pastorale e non conoscitiva. Inoltre, insensibili alla diverse manifestazioni del
sacro, sembrano accettare acriticamente <<… la religione-di-chiesa, burocratizzata e
ierocratica, come l’unica esperienza religiosa possibile>>.
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In realtà non c’è niente di nuovo. Tutte le religioni prevedono, privilegiando l’uno o l’altro, un
rapporto mediato dal sacerdote col sacro e un rapporto diretto e mistico.
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Un’altra significativa innovazione in questa direzione è rappresentata dalla organizzazione
dei grandi rituali di massa con forte risonanza mediatica, come quelli organizzati attorno
alla figura degli ultimi papi, il cui denominatore comune è dato da una sorta di
partecipazione mistica o estatica coincidente con la spontanea esperienza del sacro.
Quest’ultima ricorda inequivocabilmente “l’effervescenza collettiva” durkheimiana e
sembra riguardare celebrazioni sia di carattere religioso sia di carattere profano, come ad
esempio la cerimonie che hanno per oggetto il culto della “patria”.
Spetta a Durkheim il merito di aver delineato i caratteri dell’”effervescenza collettiva” e di
averla messa in relazione con la trascendenza dell’ordine sociale rispetto agli individui,
senza la quale non potrebbe esistere nessuna forma di organizzazione collettiva. Infatti,
osserva Ferrarotti (1978: 41), la crisi delle istituzioni ecclesiastiche è dovuta all’<<esaurirsi
di valori condivisi e fondamentali per la costituzione della comunità>>, aggiungendo che
da essa si può uscire solo con la riscoperta del sacro <<come servizio all’uomo e come
tensione collettiva verso un progetto comunitario>>.
Per come intendo queste parole, esse significano che si può trovare una soluzione alla
conflittualità ed alla frammentazione della società capitalistica avanzata, solo se i singoli
sono convinti che costituiscono una parte organica di un ordine armonioso e di una
struttura collocata di fatto e simbolicamente al di sopra di loro stessi e dei loro immediati
interessi.
Se ho ragione – come credo – ciò che conta veramente è la convizione che tale
dimensione esista e sia operante, e non la sua effettiva esistenza3. Seguendo Durkheim
credo che la ritualità religiosa e profana abbia lo scopo di creare e di alimentare tali
convinzioni, ed è per questo legata alle rappresentazioni che i singoli si fanno della vita
sociale, a cui spesso partecipano quali attori inconsapevoli. A mio avviso (e non solo come
si vedrà), dunque, essa è per sua stessa natura strettamente intrecciata con la politica e le
sue manifestazioni. E’ quello che cercherò di mostrare con questo breve scritto.
La relazione di continuità tra sacro e profano che, presentandosi in talune occasioni agli
individui come trascendente, finisce con l’essere sacralizzato, è messa in evidenza da
Henri Hubert e Marcel Mauss, i quali hanno osservato che (1968: 16-17): <<Man mano
che gli dei, ciascuno alla sua ora, escono dal tempio e diventano profani, noi al contrario
3
Intendo dire che in ogni società, in particolare in quelle statuali, vi è una dimensione
trascendente, che sta al di sopra delle nostre teste, ma non sempre questa coincide con il bene
collettivo con il quale spesso è identificata.
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vediamo entravi, in successione, una serie di cose umane, ma sociali: la proprietà, il
lavoro, la persona umana…>>.
Prima ancora Fredrich Engels aveva notato che, nell’evoluzione sociale, dopo i fenomeni
naturali, quelli sociali diventano oggetto di culto. Dobbiamo però distinguere tre diversi
momenti nella sacralizzazione del profano4.Una prima fase, quella a cui si riferisce Engels,
in cui le entità profane sono del tutto identificate con quelle di natura sovrannaturale. In
una seconda fase che coincide con ciò che gli studiosi chiamano “religione civile”, di cui J.
J. Rousseau è considerato al contempo lo scopritore e il fondatore, appaiono valori e
convinzioni ritenute trascendenti, nel senso che non appartengono a una sola epoca
storica, ma che non hanno una natura sovrannaturale. Nella terza fase, in quei contesti, in
cui si vuole salvaguardare un certo regime, caratterizzato dalla profonda divisione
Stato/Società civile, gli oggetti trascendenti, ma di origine umana, vengono assolutizzati e
quindi sacralizzati, ossia messi al posto delle le divinità, la religione civile assume un
carattere conservatore5.
Salvador Giner (1994: 131-132) avanza l’ipotesi che la stessa nozione di “sacro” salga alla
ribalta degli studi sociologici e antropologici proprio nel momento in cui si fa sempre più
netta, almeno teoricamente, la distinzione tra potere politico e potere religioso. Infatti,
ammantandosi di sacralità il potere politico riesce a mantenere quella misteriosa
intangibilità e trascendenza, che aveva rischiato di perdere quando si era reso
indipendente da una qualsiasi giustificazione religiosa. Comunque, secondo Giner la
separazione tra Stato e Chiesa non ha determinato la fine della reciproca legittimazione,
cui queste istituzioni ricorrono, né la scomparsa del conflitto tra i due poteri.
A suo parere la sacralizzazione del potere politico avverrebbe perché le masse, dotate di
una fede religiosa tiepida, trasferirebbero il loro desiderio di trascendenza, la loro
religiosità (nel senso di esser disponibili ad accettare il mistero) alla vita profana. In questo
trasferimento, che sarebbe una caratteristica dell’ipermodernità, si manife-sterebbe la sete
del numinoso, nella quale secondo Giner si incarna l’imperativo religioso, che
dominerebbe l’umanità.
4
Non penso ad una scansione temporale, ma a modi diversi anche compresenti di pensare ed
istituire il trascendente.
5
Sul simbolismo e sul ritualismo, intesi nel secondo senso qui indicato e ritenuti fondati su un
umanesimo integrale, che escluda <<l’irrazionale e il metastorico>>, non posso non menzionare
la breve nota di DeMartino sul Simbolismo sovietico (1962)
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La riflessione degli autori citati ci consente di comprendere che la religiosità non è
qualcosa che scaturisce miracolosamente dai caratteri straordinari degli oggetti osservati
dall’uomo, ma è la modalità di atteggiamento che questi assume dinanzi al mondo. In
questo senso, il religioso, il sacro, il divino è solo ciò che l’uomo considera tale.
Riflettendo sulla complessità del processo di secolarizzazione Brian R. Wilson ha
sottolineato (1996: VI) l’ambivalenza di tale nozione. A suo parere tale ambivalennza
riposa sul fatto che:<<… da un lato, le religioni come storicamente le conosciamo hanno
perso molto potere nelle società contemporanee (si sono per così dire ritirate dalla vita
pubblica o da essa sono state espulse o emarginate)… dall’altro, esse continuano a
funzionare da grandi repertori simbolici per gli individui del nostro tempo>>. Lo stesso
Wilson, da buon durkheimiano, non esclude l’utilizzazione della religione da parte del
potere e dello Stato per creare artificialmente l’unione morale e il legame sociale, che
come si è visto la società moderna per la sua natura conflittuale non in grado di istituire.
Un altro aspetto molto importante della ritualità contemporanea, che sembra avere tratti
criptoreligiosi6, studiato da autori come Claude Rivière (1998) e Martine Segalen (2002),
consiste nella tendenza ad un’estrema formalizzazione dei nostri comportamenti
quotidiani; formalizzazione che potremmo indicare anche con il termine “etichetta”. Essa è
presente nei cosiddetti nuovi rituali, come ad esempio i riti “inventati” per celebrare i
matrimoni o i funerali fuori dallo schema religioso tradizionale, i rituali sportivi con il loro
complesso armamentario di oggetti e abiti, le diverse forme di comportamento festivo a
metà tra la tradizione e l’innovazione. In particolare in questo ultimo caso la nuova festa
tende a trasformarsi in tempo di ozio dedicato al consumo ed i suoi simboli finiscono per
essere svuotati del loro significato tradizionale, per diventare curiosità esotiche e merci da
acquistare.
Che il corpo costituisca un oggetto dell’attività rituale è abbastanza ovvio: si pensi
all’iniziazione in cui può essere praticata agli iniziandi la circoncisione, la limatura dei
denti, il taglio dei capelli. Come vedremo meglio più avanti, tali pratiche hanno lo scopo di
scrivere materialmente sui corpi i comandamenti dell’ordine sociale. Ricordando un
celebre racconto di Franz Kafka7, si potrebbe dire che la società “possiede” interamente
l’individuo solo quando scrive sul suo corpo la sua visione del mondo, la sua
6
Più avanti spiegherò questa nozione.
In tale racconto intitolato Nella colonia penale (1985: 184) <<Al condannato viene inciso sul
corpo con l’erpice il precetto da lui violato>>.
7
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organizzazione, i suoi valori. Non è quindi un caso che i nostri comportamenti quotidiani
abbiano dato luogo a ciò che Segalen chiama (2002: 74) <<corpo feticizzato>>, che
costituisce il supporto fisico di una complessa serie di atti ritualizzati, trasformato nel
condensato dei valori morali ed estetici suggeritici dall’attuale cultura di massa.
Come si può ricavare da questa breve premessa, non sono scomparsi dalla società
contemporanea la religiosità, nel senso di atteggiamento religioso, che prefigura
l’esistenza di una dimensione altra rispetto quella quotidiana e che però si manifesta in
quest’ultima, e la ritualità, intesa come comportamento stereotipato, ripetivo e
simbolicamente sovrabbondante. In un certo senso sono stati addirittura incrementati, ma
hanno assunto forme diverse da quelle proprie della religiosità tradizionale, che
nonostante tutto a continuato a riprodursi.
Schematicamente possiamo dire oggi abbiamo a che fare con nuove forme di religiosità
che si fondano sulla ricerca di un contatto diretto con il sacro in opposizione alla
tradizionale relazione Dio/uomo mediata dal sacerdote.
Inoltre, osserviamo forme di ritualizzazione conservatrice della vita politica legate alla
sacralizzazione del potere politico, che non è stata annullata dall’affermarsi della
separazione tra Stato e Chiesa dovuta al superamento della società feudale, ma che ha
assunto tratti specifici di carattere criptoreligioso. Con questo termine intendo sottolineare
che nella visione laica il potere politico rimane pur sempre trascendente; tale trascendenza
facilita spesso la sua sacralizzazione e divininazione; operazioni necessarie per collocarlo
al di sopra delle contestazioni e delle critiche e per assegnarli così lo status che era prima
delle divinità e delle figure religiose. Da ciò scaturiscono una serie di rituali assai
importanti al cui centro sta per esempio il “culto della patria”, con i suoi monumenti, le sue
date da celebrare e ricordare collettivamente.
Infine, l’altro fenomeno, che come antropologi dobbiamo analizzare, è dato dalla forte
ritualizzazione della vita quotidiana, cui abbiamo già fatto cenno, la cui origine - secondo la
mia opinione - potrebbe essere individuata anche nel fatto che la produzione industriale
pianificata ha bisogno di omologare e standardizzare i comportamenti dei consumatori per
smaltire le sue merci.
La riflessione recente sul rito
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In questo scritto non mi occuperò dei cosiddetti nuovi movimenti religiosi (come il
neocarismatismo cattolico), espressione dell’attuale “fame del sacro” che si manifesta –
come si è detto – nella ricerca del contatto diretto col divino. Tratterò invece i rituali profani
sia quelli collettivi che quelli praticati nella nostra vita quotidiana per impulso sociale e
psicologico, cercando di mostrare il loro stretto legame con il rito religioso, al quale
sarebbero assimilabili perché possiedono in termini generali la medesima struttura e
funzione.
Per sviluppare questo argomento prenderò spunto dalle recenti teorie del rito, ritornato ad
essere dagli anni Ottanta oggetto privilegiato delle indagini antropologiche, che ne hanno
colto la presenza in ambiti tradizionalmente non religiosi.
Così Riviere definisce (1998: 61-62) il rito sia profano che religioso: <<… una struttura
d’azioni sequenziali, di ruoli teatrali, di valori e di finalità, di mezzi reali e simbolici, di
comunicazioni attraverso sistemi codificati>>. Ed aggiunge: <<Ogni fenomeno rituale è
vivificato da una triplice carica: la carica cognitiva di raccolta di messaggi attraverso
significanti che rimandano a significati, la carica affettiva legata all’implicazione emotiva
nella partecipazione, la carica conativa di orientamento all’azione con la manipolazione
psicologica, adesione rinvigorita, evoluzione del processo di negoziazione, etc.>>.
Martine Segalen osserva (2002: 7) invece che il comportamento ritualizzato è presente in
grande misura nella società attuale, ma che non è sempre associato alla dimensione
sacra. Pertanto, ritiene che non abbia oggi molto senso insistere su tale associazione per
definire il rito. Inoltre, benché riconosca che la ripetitività costituisca certamente un aspetto
necessario per fare di un comportamento un rito, tuttavia pensa che non sia sufficiente per
definirlo tale. A suo parere (2002: 8-9) questa istituzione sociale, caratterizzata dalla
plasticità, dalla polisemia, da una grande capacità di adattamento al cambiamento sociale,
è universale, giacché è una forma di comportamento simbolico, di cui nessuna società può
fare a meno.
Per l’antropologa francese (2002: 25) un altro ingrediente fondamentale del rito è
rappresentato dal fatto che esso fa scattare l’adesione mentale, anche inconsapevole, alle
credenze e ai valori da esso simbolicamente espressi. Essa si manifesta nella loro
accettazione e condivisione da parte dei partecipanti al rito.
Sembrerebbe che per Segalen, come per Mary Douglas, la celebrazione di un rito e la
partecipazione ad esso non possono essere mai atti puramente formali, perché ciò
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implicherebbe che gli individui non conoscano il senso profondo delle pratiche che stanno
attuando. A loro parere tale situazione sarebbe paradossale, perché l’insieme delle
relazioni sociali, che si costruiscono su gesti simbolici (o riti) sarebbe deprivata di senso,
mentre
avere
senso
per
gli
individui
sarebbe
una
proprietà
fondamentale
dell’organizzazione sociale.
Mi pare che Douglas e Segalen non prendano in considerazione un’ulteriore possibilità,
ossia il caso in cui l’individuo, in qualche modo costretto a partecipare al rito, non
condivida il significato da esso veicolato e sia anche fortemente critico nei confronti
dell’ordine sociale simbolicamente espresso. Pensiamo, ad esempio, al battesimo
cristiano, imposto agli amerindiani all’epoca della Conquista, i quali, pur sottomettendosi
ad esso non potevano non considerarlo come un atto di sottomissione alla Chiesa
cattolica. Per questa ragione, pur comprendendo parzialmente il senso del rito (esso infatti
cancella anche la macchia del peccato originale), certamente non aderivano al suo
significato profondo, anzi lo rifiutavano.
Vedremo successivamente che per David Kertzer, invece, la partecipazione al rito implichi
sempre un atteggiamento di adesione ai sui contenuti, anche se viene a mancare il
consenso implicito o esplicito dei partecipanti.
Ovviamente la definizione fondata sul carattere simbolico del rito è eccessivamente vaga e
generica; essa è stata formulata dagli antropologi sulla base dell’opposizione tra atto
pratico e utilitaristico, in cui vi è una congruenza
tra mezzi e fini, da un lato e atto
simbolico, privo di tale coerenza dall’altro (Kertzer, 1989: 10).
Per sottolineare quanto la questione sia complessa mi limito a ricordare che, ad esempio
Ernst Cassirer (1964, vol. I) ha descritto forme diverse di pensiero simbolico, ognuna
irriducibile alle altre, tra le quali ha annoverato anche il pensiero scientifico. In particolare,
egli si è soffermato sulle diverse forme di simbolizzazione, affermando che nel linguaggio
e nel mito i simboli partecipano della cosa che simbolizzano, sono fusi con essa (1964,
vol. I.: 24-25). Ad esempio, la croce, simbolo polisemico cristiano, rappresenta il sacrificio
di Cristo e nello stesso tempo il riscatto dalla sofferenza, costituendo essa stessa lo
strumento con il quale egli riceve la morte.
Perciò affermare che il rito è un comportamento simbolico contrapposto a un’azione
utilitaristica, senza specificare quale simbolismo mette in gioco, significa semplicemente
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affermare che esso è un atto umano, in quanto tutti gli uomini sono in grado di attribuire
significati diversi ad uno stesso supporto significante.
La specificità della simbolizzazione rituale spiega la vivacità e la concretezza delle sue
manifestazioni, nelle quali il simbolo si distingue per la sua capacità di unificare o
condensare in una visione sintetica più dimensioni della vita sociale (l’anello nuziale
simbolo della congiunzione affettiva e morale degli sposi); oppure la capacità di esprimere
in maniera forte e carica sensorialmente un certo evento o una certa nozione, stabilendo
un collegamento analogico tra due distinti domini della realtà (la relazione tra capo e
popolo è analoga a quella tra tra testa e corpo e corrispondono a quella che oppone sacro
a profano).
Abbiamo così indicato i meccanismi fondamentali della simbolizzazione (non i soli): la
condensazione o metonimia, la metafora o spostamento.
Ho sviluppato queste considerazioni per ribadire che la simbolizzazione rituale non ha
niente a che fare con la meccanica attribuzione di valori significativi a certi oggetti, come
sembra credere chi afferma che, alla sua base, vi sarebbero codici capaci di trasmettere
mere informazioni.
Tornando alla riflessione di Segalen, essa osserva correttamente che, dopo l’ipotizzato
declino dei rituali degli anni Settanta, dovuto alla già menzionata crisi delle religioni
tradizionali, il rito è diventato in questo secolo un indispensabile strumento per analizzare
la società attuale.
Più o meno sulla stessa linea di Segalen si muove un antropologo americano, già citato,
Kertzer, il cui interesse precipuo è però rappresentato dal rapporto tra simbolismo rituale e
potere, tra rituale e politica, uno temi che intendo trattare in questa sede.
Egli considera il rituale una categoria analitica, che <<… ci aiuta ad orientarci nel caos
dell’esperienza umana>>. Riprende la nota definizione proposta da Durkheim, secondo la
quale i riti <<… sono le regole di condotta che prescrivono come un uomo deve
comportarsi in presenza del sacro>>. (Kertzer, 1989: 17). Sulla base di tale definizione egli
afferma che il rito è <<… un potente mezzo di espressione della dipendenza sociale>> e
nello
stesso
tempo
anche
<<…
un
comportamento
ripetitivo
e
socialmente
standardizzato>>. In questa prospettiva a suo parere non è importante distinguere tra riti
religiosi e riti profani, come invece hanno cercato di fare alcuni altropologi. (Kertzer, 1989:
18).
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Come Segalen Kertzer sottolinea la polivalenza del rito, nel quale operano svariati simboli
che hanno la capacità di veicolare contemporaneamente significati diversi, sia per il
processo di condensazione sia per quello di spostamento, che lega aspetti differenti della
realtà. Per l’antropologo americano, noto in Italia per aver studiato la complessa
interrelazione tra comunisti e cattolici, a causa della polivalenza e della condensazione il
simbolismo rituale finisce col risultare ambiguo. E proprio in tale ambiguità risiederebbe la
forza dei simboli rituali, i quali per la loro plasticità possono essere manipolati dall’attività
creativa degli individui. Inoltre, per l’ambiguità dei suoi simboli il rito può apparire ed
essere al contempo conservatore e innovatore (Kertzer, 1989: 20-22).
Ricordo brevemente che Freud aveva individuato quali meccanismi del simbolismo onirico
la condensazione e lo spostamento, assimilati dai linguisti alle figure retoriche della
metonimia e della metafora. A loro volta queste ultime sembrano coincidere con le famose
leggi della magia simpatica, formulate da James G. Frazer, per il quale i riti magici
operano secondo questi due criteri: il simile produce il simile, agire su una parte implica
agire sul tutto; criteri che distinguono la magia omeopatica da quella contagiosa.
Queste affinità tra i meccanismi simbolici svelano i caratteri specifici del simbolismo
magico-religioso, artistico, psicologico, politico.
Per Kertzer (1989: 20) vi sono altri aspetti del rituale, che meritano di essere evidenziati. In
primo luogo, il suo carattere teatrale e drammatico che ha lo scopo di suscitare nei
partecipanti determinati sentimenti ed emozioni, stabilendo un collegamento tra questi
ultimi e certe nozioni e valori. Si pensi, ad esempio, alla solennità con cui viene innalzata
la bandiera di una nazione, mentre è intonato l’inno nazionale. Gli astanti colgono nell’inno
e nel vessillo la rappresentazione di una realtà direttamente invisibile (la nazione)8, la cui
esistenza non sarebbe recepita emotivamente e con partecipazione e non sarebbe
neppure associata al sentimento di rispetto, se fosse spiegata nel contesto di un’analisi
storica e sociologica pur interessante. Pertanto, secondo Kertzer (1989: 23) si può
asserire che: <<Questi simboli… forniscono una chiave per comprendere le entità politiche
astratte, quali la nazione ad esempio, e un mezzo (una sorta di coazione, in realtà) per
identificarsi in esse>>.
Identificare le istituzioni politiche con le costruzioni simboliche fa sì che esse vengano
reificate, ossia pensate come oggetti, come entità indipendenti dagli individui che invece le
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Ma indirettamente visibile mettendo insieme le sue manifestazioni e articolazioni.
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hanno create e che fanno parte di esse (Kertzer, 1989: 14). Nello stesso tempo,
utilizzando schemi di comportamento ed oggetti simbolici duraturi, il rito finisce per
presentarci come immutabili le cose in esso rappresentate, cancellando la storia e le
inevitabili trasformazioni prodotte dal tempo (Kertzer, 1989: 19). Mediante questi
meccanismi i riti, siano politici o no, dispiegano tutta la loro carica mistificante: essi
nascondono la natura contingente delle cose che rappresentano, facendoci al contempo
credere che, con i loro simboli, ci stanno mostrando il mondo proprio come esso è
(Kertzer, 1989: 245).
Quest’ultimo aspetto, consistente nell’identificazione della rappresentazione con l’oggetto,
costituisce quell’errore, che disconosce il ruolo del soggetto nella costruzione
rappresentativa del mondo e delle cose. Kertzer descrive assai bene (1989: 117) questo
meccanismo: <<Per mezzo del rituale, e, più in generale, per mezzo della cultura, non
soltanto riusciamo a dare un senso al mondo che ci circonda, ma siamo anche indotti a
credere che quell’ordine che vediamo non è un nostro prodotto (culturale) quanto piuttosto
un ordine che appartiene allo stesso mondo esterno>>. Naturalmente questa convinzione,
indotta dal rituale, scoraggia il pensiero critico (Ibidem).
Queste considerazioni fanno comprendere quale forza abbia il rituale nell’elaborare
rappresentazioni della vita sociale e nel renderle credibili ed emotivamente accettabili.
Proprio per questa ragione esso può diventare un potente strumento di persuasione nelle
mani delle ideologie politiche o religiose. Sembrerebbe che siano stati i filosofi confuciani a
cogliere questa funzione, giacché compresero che il comportamento sociale degli individui
solo in minima parte si basa su valutazioni razionali e consapevoli. Gran parte di esso
sarebbe plasmato dall’agire collettivo, ripetitivo e standardizzato, ossia dal rito.
Kertzer cita (1989:: 24) questo passo significativo tratto da un filosofo confuciano:
<<Poiché… i rituali non sono espressi in forma verbale essi non hanno un contrario.
Quindi possono venir utilizzati per produrre un’armonia di volontà e azioni senza
provocare alcuna resistenza: se un uomo svolge la parte che gli è assegnata nel rito (li)
egli di fatto è già in armonia con gli altri…>>.
Ritorna qui la convinzione degli studiosi “ritualisti” che sia l’attività rituale a creare le
rappresentazioni e le credenze, contrapposta all’impostazione intellettualista, per la quale
invece il comportamento collettivo sarebbe il prodotto dell’attività mentale.
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Un altro contributo all’analisi del rito e allo sviluppo di una sua teoria interpretativa ed
esplicativa lo troviamo nel libro curato da Pietro Scarduelli Antropologia del rito.
Interpretazioni e spiegazioni (2000), nel quale sono raccolti vari saggi ed una densa
introduzione. Mi soffermerò solo sull’introduzione, perché più vicina alle questioni che sto
cercando di affrontare in questa sede.
A mio parere l’aspetto più interessante di questo scritto sta nel rifiuto di accettare
spiegazione ed interpretazione del rito (e quindi dei sistemi di pratiche e di credenze)
come procedure alternative, che reciprocamente si escludono (Scarduelli, 2000: 57). Mi
permetto però di aggiungere una serie di osservazioni a quanto scrive Scarduelli su
questo tema.
Sono della stessa opinione dell’antropologo italiano, che ben conosce la complessa e
perlopiù non italiana letteratura sul rituale, ma ritengo che l’opzione teorica e metodologica
su indicata possa essere giustificata anche da altre considerazioni non sviluppate da
Scarduelli.
In primo luogo, mi sembra che nella prospettiva dialettica le interpretazioni indigene dei riti
e le concezioni del mondo in generale non possano essere definite illusorie. Esse
esprimono il modo di concepire la realtà sociale, che è determinato da come essa appare
alla coscienza spontanea. Ciò è ben evidenziato dall’analisi fatta da Maurice Godelier del
rapporto Inca/sudditi (Scarduelli, 2000: 56). Intendo dire che i sudditi dell’Inca hanno una
certa collocazione storico-sociale, che consente loro di vedere solo la relazione di
reciprocità con il loro sovrano. Quindi, in questo senso non si sbagliano. Per vedere le
cose in un altro modo dovrebbero poter cambiare la loro collocazione storico-sociale e
certo non sono in grado di farlo.
Ciò significa che il modo di intendere una certa organizzazione sociale non è qualcosa che
si sovrappone ad essa, ma che ne costituisce un’articolazione importante. Per questa
ragione esso non può essere escluso dall’analisi antropologica, giacché contribuisce a
plasmare la società, a riprodurla, a ricrearla. Ma, d’altra parte, l’analisi antropologica non
può privilegiare questo aspetto, perché – come sappiamo – le dinamiche sociali possono
apparire in un certo modo, ma funzionare in maniera completamente diversa. Quindi
l’antropologo deve dar conto dei due aspetti, usufruendo della distanza che gli è garantita
dall’appartenenza ad un altro orizzonte sociale e culturale, facendo comprendere come un
sistema asimmetrico e sbilanciato possa tuttavia riprodursi senza grandi scossoni, anche
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perché i suoi membri non sono in grado di cogliere questi tratti. Ovviamente la presenza di
queste due dimensioni non riguarda solo le società di interesse etnologico, ma anche la
nostra società contemporanea, che pure ama definirsi “trasparente”.
Se quanto ho affermato ha un senso, si potrebbe capire anche perché le rivoluzioni
compaiono solo nella storia moderna, cioè quando è stato possibile concepire un sistema
effettivamente alternativo all’esistente, mentre nelle fasi premoderne gli strati subalterni
hanno dato vita solo a sommosse, ribellioni, il cui scopo era solo di cambiare il gruppo
dirigente. Per questa ragione
il loro esito è stato sempre negativo e, in molti casi,
sconvolgente (si pensi alla ribellione dei neri haitiani nel 1791). Infatti, solo nell’epoca
moderna si sono costituite classi, le quali hanno compreso che la loro posizione politicosociale all’interno della società poteva essere cambiata, solo se la stessa organizzazione
veniva radicalmente trasformata. Ponendosi dunque nella prospettiva del cambiamento e
della nuova società da costruire, hanno elaborato concezioni della società, che andavano
al di là di quanto appariva immediatamente alla loro coscienza spontanea. Hanno colto
così gli aspetti negativi della loro condizione sociale ed hanno anche individuato la via per
trasformarli, collocandosi nella prospettiva contraria a quella della mera riproduzione
sociale e aprendo la strada alle rivoluzioni dell’epoca moderna, ossia al radicale
cambiamento di struttura sociale.
Insomma, solo se ci si colloca – non con un semplice atto di volontà – al di fuori della
logica della società in cui si vive e si opera, si può avere una visione critica di essa e si
può anche individuare la strada della trasformazione. Ciò significa che dialetticamente
vediamo quanto la nostra posizione storico-sociale (il che implica anche il grado di
sviluppo della coscienza) ci consente di vedere.
Quanto alla questione dell’inconscio, spesso chiamata in causa per interpretare il
simbolismo rituale, ritengo che nelle analisi antropologiche debba essere sostituita dalla
nozione di preconscio o sapere tacito, giacché in tali contesti ha caratteristiche diverse da
quelle psicoanalitiche. In questi casi – come scrive T. W. Adorno (1985) – non si tratta del
contenitore di pensieri, di desideri rimossi, quindi legati al senso di colpa. Si tratta piuttosto
di uno strato, in cui vengono depositate tutte quelle credenze e convinzioni, indotte dalla
vita sociale, che accettiamo senza riflettere e senza criticare (Cfr. Ciattini, 2005).
La nostra stessa esperienza quotidiana ci mostra che in generale le credenze, che
manifestiamo nei nostri comportamenti, non sono espresse esplicitamente. Ci rendiamo
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conto che molto spesso gli attori non dominano le loro stesse concezioni. Per questa
ragione è indispensabile andare a ricercare nei gesti, nei comportamenti i significati
impliciti, non sistematizzati, preconsci nel senso prima indicato9.
Nella prospettiva che ho cercato di delineare anche in passato lo studio della vita sociale
deve fondarsi sull’analisi dei diversi livelli indicati (soggettivo implicito ed esplicito,
oggettivo nel senso di indipendente dalla volontà umana) e del loro complicato e diverso
intreccio nei vari sistemi storico-culturali.
Sulla natura del rito
La trasformazione del rituale e le sue ramificazioni nel politico e nel privato – alimentate
dalla necessità di sacralizzare il potere e di dare spazio al consumismo - ci consentono di
guardare anche al comportamento religioso tradizionale per proporre una visione
d'insieme che sia in grado di cogliere complessivamente la struttura e la natura del rito
stesso. E' come se, con uno sguardo d'insieme, osservassimo la tradizione e i suoi
sviluppi per illuminare la prima con i secondi e i secondi con la prima, nel tentativo speriamo proficuo - di proporre un quadro unitario.
Dalle considerazioni svolte nelle pagine precedenti mi pare si possa ricavare che il rito,
sia esso religioso, profano, individuale e collettivo, consiste nella creazione del
trascendente, nel senso che mediante la messa in pratica di certe regole istituisce un
ordine sociale e culturale, reificato in oggetti e gesti, fissato come permanente ed
evocante una dimensione altra rispetto quella terrena e quotidiana. Per essere più precisi,
il rito rappresenta simbolicamente un certo tipo di ordine che ci viene dall’aldilà, secondo il
quale si struttura e deve strutturarsi una certa organizzazione sociale con le sue credenze
e i suoi valori. Tale ordine e le regole seguite per rappresentarlo e rafforzarlo
simbolicamente non necessariamente sono note ai partecipanti e ai celebranti; possono
far parte di quel sapere tacito o implicito, cui in precedenza si accennava. Tuttavia,
giacché le regole rituali ripropongono le regole proprie di un certo ordine sociale hanno
una natura normativa; il che vuol dire che si presentano agli individui come imperativi cui
debbono sottomettersi o come modelli di comportamento da seguire.
Che tali aspetti siano inerenti alla natura del rito è messo in evidenza anche dalla
Segalen, di cui abbiamo riportato in parte la riflessione. L’antropologa francese sottolinea
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Naturalmente in questa prospettiva l’inconscio non scompare, ma diventa eslcusivo oggetto
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che (2002: 11) <<… l’etimologia di “rito” deriverebbe da ritus che significa “ordine
prescritto”, termine a sua volta associato a forme greche come artus che significa
“ordinamento”, ararisko “armonizzare”, “adattare” e arthmos che evoca l’idea di “legame”,
“congiunzione”.
Questi elementi ci consentono di andare più a fondo nella stessa natura del rito. Essendo
un rito un insieme ordinato di sequenze, costantemente ripetuto con la stessa struttura,
esso contiene in sé la stessa nozione di ordine, la quale nelle differenti forme sociali
diventa espressione di diverse concezioni di ordine: ad esempio, come si vedrà dal rito di
iniziazione orokaiva si ricava che gli iniziati, che hanno incorporato lo spirituale e il
trascendente, hanno una posizione preminente rispetto ai non iniziati. Proprio perché
esprime e incarna nello stesso tempo l’ordine e un certo ordine il rito è normativo anche
quando si riferisce ad atti puramente individuali (Segalen, 2002: 20), e dà vita al
trascendente in quanto colloca la sua stessa struttura ordinata e le sue stesse regole
attuative al di sopra del continuum della vita quotidiana.
Maurice Bloch (2005: 13-14) dà un’interessante spiegazione di come appaia nel rito la
dimensione della trascendenza. Egli scrive che nei riti la vita è descritta come vita celeste
e ultramondana, a cui si accede con l’invecchiamento e con la morte. Per esempio nel rito
di iniziazione gli iniziandi sono uccisi simbolicamente per diventare iniziati. Così Bloch
commenta questo aspetto: << Il significato sociale e politico di tale passaggio consiste
nell’idea che entrando nel mondo che è oltre il processo vitale si possa, attraverso il
viaggio di ritorno, diventare parte di un’entità al di là di quel processo, per esempio membri
di una discendenza. Pertanto, lasciando questa vita sarebbe possibile vedere se stessi e
gli altri come parte di qualcosa di eterno, e quindi trascendente la vita stessa>>.
In definitiva Bloch distingue (2005: 14-15) due momenti in ogni rito, in cui però compare
sempre una forma di violenza. Nella prima parte del rito i celebranti abbandonano la
dimensione quotidiana, perdendo la propria vitalità, per conquistare la trascendenza
presentata come qualcosa di positivo e desiderabile. Nella seconda parte del rito, invece, il
celebrante ritorna al mondo terreno, ma come persona diversa, perché ha inglobato in sé il
trascendente e ha recuperato la vitalità originaria perduta attraverso una violenza
della psicoanalisi.
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simbolica o reale, consumando la vitalità di entità esterne, come animali o piante;
commettendo quindi un’azione violenta contro questi ultimi.
Così Bloch spiega questo passaggio: <<Nelle rappresentazioni rituali, la vitalità originaria
è sostituita da una vitalità conquistata, esterna, consumata. E’ attraverso tale sostituzione
che si definisce la possibilità per gli esseri umani di abbandonare questa vita e accedere
alla trascendenza, senza tuttavia alienarsi dal qui e ora. Essi diventano parte di istituzioni
permanenti, e in qualità di esseri superiori possono reincorporare la vita presente
attraverso l’idioma della conquista o del consumo>>.
Ma a cosa si riferisce Bloch quando parla di violenza e del legame tra violenza, politica e
religione?
In primo luogo vediamo con un esempio i tratti violenti di un rito. Nell’iniziazione orokaiva
(Nuova Guinea) il villaggio viene invaso dagli spiriti, che danno la caccia ai bambini da
iniziare come fossero maiali selvatici. I bambini, simbolicamente uccisi, sono portati fuori
dal villaggio, in una capanna in cui devono rispettare alcuni tabù, sono sottoposti ad
alcune prove e debbono apprendere alcuni segreti. Si crede che si stiano trasformando in
spiriti, i quali ritornano al villaggio non come prede ma come cacciatori dei maiali, che
vengono questa volta effettivamente uccisi e la loro carne distribuita.
A parere di Bloch questo modello di rito, in cui c’è una violenza iniziale, che consente la
conquista della trascendenza, e una violenza di ritorno che permette il reinserimento nella
vita terrena di individui trasformati per il loro legame col trascendente, sarebbe presente in
molti rituali diversi, in alcuni aspetti della politica, nelle idee da cui scaturiscono le regole
dell’incesto, dell’esogamia etc. (2005: 19-23).
A suo parere (2005: 17) la violenza, che analizza dettagliatamente in rituali molto diversi,
non sarebbe frutto di una propensione umana innata, ma sarebbe il <<… risultato del
tentativo di creare la trascendenza in religione e in politica>>10.
10
Bloch scrive (2005: 12) che vuole mostrare la semiuniversalità delle strutture religiose
minime, che sarebbero il prodotto delle caratteristiche generali degli esseri umani. Infatti, egli
ritrova il medesimo schema dell’iniziazione orokaiva in molti altri riti e istituzioni sociali. Per
esempio, nelle tragedie di Euripide dedicate a Ifigenia, i greci avrebbero dovuto sacrificarla,
perché a causa della punizione di Artemide le loro navi non potevano salpare verso Troia, non
essendoci il vento. All’ultimo momento Ifigenia fu sostituita da una cerva, le cui carni furono in
parte bruciate per nutrire con il loro odore le divinità e in parte cucinate per i guerrieri. A questo
punto la violenza iniziale diretta contro Agamennone, padre di Ifigenia, è volta contro i trioiani.
Infatti, Agamennone diventa aggressore e, recuperata la vitalità cibandosi della carne
sacrificale, si dirige con i suoi verso Troia che sarà messa a ferro e fuoco (Bloch, 2005: 45-46).
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Queste osservazioni ci consentono di sviluppare il nostro discorso e di collegarci alla
riflessione di altri studiosi. Il rito non solo crea la dimensione trascendente, che coincide
con un ordine permanente e sacralizzato, ma la istituisce anche mediante la violenza, la
quale consente di trasformare gli individui in esseri che portano in sé il trascendente e il
sacro. In questa prospettiva la normatività delle regole rituali sembrerebbe essere l'altra
faccia della loro trascendenza, giacché quest’ultima ne fa qualcosa di immutabile sul quale
i singoli non possono intervenire. Si potrebbe aggiungere che non solo gli individui
debbono seguire certe regole, ma che addirittura sono le stesse regole che istituiscono un
certo comportamento; dobbiamo, ad esempio, sposarci in un certo modo, perché nel
contesto in cui viviamo solo certi atti trasformano l'unione tra un uomo e una donna in un
matrimonio.
Questa è la cosiddetta funzione performativa del rito o, per dirla con Pierre Bourdieu
(1982), la sua funzione istitutiva. L'organizzazione sociale e le sue autorità avrebbero
attribuito un certo potere generante a determinati atti e determinati simboli, i quali sono
efficaci proprio in virtù di questo conferimento.
Quindi, se da un lato le norme in quanto norme debbono essere rispettate, esse sono
rispettate anche perché effettivamente generano comportamenti funzionali alla vita
sociale, producono effetti, come ad esempio l'individuazione del colpevole di stregoneria
mediante il rito della divinazione.
Non è dunque un caso che molti abbiano notato l’esistenza uno stretto legame tra l'attività
rituale e l'attività giuridica in quanto entrambe “istitutive”, osservando anche che lo
svolgimento di quest'ultima, le sue varie fasi seguano forme altamente ritualizzate e
formalizzate di comportamento.
D'altra parte, è anche abbastanza ovvio che l'interazione sociale, a tutti i suoi livelli, ma in
particolar modo nella sfera dei rapporti riguardanti gli esseri divini e gli esponenti del
potere in tutte le sue manifestazioni, sia formalizzata e quindi non lasciata al capriccio
individuale, o peggio alla volontà di chi voglia sovvertirne l'impostazione, le regole, i valori.
Sulla scia di Durkheim, la necessità della formalizzazione e quindi della ritualizzazione
sono state considerate dagli antropologi sociali uno strumento per ricreare periodicamente
la coesione sociale, messa a repentaglio da inevitabili scontri e conflitti tra gruppi ed
individui. Si potrebbe affermare che tratta di un potente strumento ideologico, che ha lo
scopo di presentare agli individui, anche quando sarebbero nelle condizioni obiettive di
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costruirsene un'altra, una certa immagine della società nella quale vivono, di far credere
loro che i valori condivisi sono fondati sulla roccia della natura dell'universo e dell'uomo, di
suscitare un certo stato d'animo "effervescente", che favorisca l'adesione e l'accettazione
più emotive che ragionate di questi ultimi. Questo processo è reso possibile proprio dal
fatto che il rito è uno strumento intelligente e raffinato per creare la trascendenza, intesa in
vari sensi come abbiamo visto, senza la quale non può darsi nessuna forma di
organizzazione sociale.
A mio parere tutto ciò è abbastanza ovvio, nel senso che ogni forma di società o di
istituzione si fonda su un progetto sociale e politico, ha elaborato una certa struttura di
potere, che debbono esser considerati trascendenti almeno in due sensi: divinizzati, in
quanto realtà assoluta indipendente dal mondo umano, o appartenti al mondo umano, ma
rappresentanti la sua parte migliore ed esprimenti la dimensione supraindividuale,
identificata con il bene collettivo.
Ad esempio, la grande manifestazione che si tiene all'Avana il primo di maggio nella
piazza della Rivoluzione appartiene a questo tipo di fenomeni sociali. Si tratta di un rituale,
messo in pratica secondo certe regole, partecipato per quello che ho potuto vedere, nel
quale gli esponenti politici propongono una certa immagine dell’ordine sociale e dei suoi
valori in un'atmosfera di festa che fa sentire l'individuo non più un granello di polvere
disperso nell'immenso universo, ma una parte di un una forza internazionale che tende
alla realizzazione di obiettivi sovranazionali.
Anche questo rito appartiene alla cosiddetta religione civile, che diventa conservatrice e
dogmatica, se i suoi presupposti non possono diventare oggetto di critica e di azione
trasformatrice.
Molti studiosi hanno sottolineato l’importanza della religione civile negli Stati Uniti, una
società profondamente contraddittoria ed eterogenea. Per esempio, Robert Bellah ha
osservato che la Dichiarazione di Indipendenza statunitense contiene riferimenti a Dio
onnipotente; ha ricordato anche che alcuni ideologi e teologi, in concomitanza con lo
sviluppo
dell’espansionismo
nordamericano,
elaborarono
la
nozione
di
“destino
manifesto”, che Dio avrebbe assegnato a questo paese (cit. in Giner, 1994: 146).
Da parte nostra, possiamo aggiungere che i famosi film western hanno mitizzzato e
avvolto di un’aurea epica il momento della costituzione della nazione, fornendo anche lo
schema interpretativo delle successive vicende storiche.
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Anche Kertzer si sofferma sulla religione civile statunitense, affermando che nelle società
dominate dal pluralismo religioso, il culto dello Stato può diventare lo strumento
dell’integrazione sociale e politica.
Come si vede troviamo nella religione civile statunitense tutti quegli elementi inerenti al
processo di sacralizzazione della dimensione politica non del tutto indipendente
dall’atteggiamento religioso dei gruppi fondamentalisti, che sostengono l’attuale strategia
della Casa Bianca.
Prima di analizzare brevemente la ritualizzazione della vità quotidiana o etichetta, vorrei
citare un altro contributo di Kerzter sulla forza emotivamente coinvolgente del rito. Egli
scrive che <<… il rito può essere utile alle organizzazioni e alle istituzioni sociali per il fatto
che esso è in grado di generare legami di solidarietà senza esigere un’uniformità di
credenze>>. Infatti, a suo parere, proprio perché opera a livello emotivo, la partecipazione
al rito non comporta che tutti i celebranti condividano le stesse credenze, che del resto
spesso non sono mai né chiare né coerenti. E’ questo un altro aspetto, insieme agli altri
analizzati in precedenza, che fa capire come i rituali possano svolgere un’azione
mistificatrice.
E’ noto il parallelo che Freud fa tra religione e nevrosi ossessiva, da lui intesa come una
sorta di religione privata. Tale parallelo si fonderebbe sulla presenza in entrambe di atti
cerimoniali e rituali, il cui scopo sarebbe quello di proteggere l’individuo dall’agoscia
scaturita da un senso di colpa rimosso mediante una serie di azioni stereotipate e
ripetitive, che simbolicamente alludono ai contenuti della presunta colpa o alle cause
scatenanti l’angoscia, come il ripetuto lavaggio delle mani per togliere la macchia-colpa su
di esse impressa. Tuttavia, il parallelo proposto da Freud non occulta una differenza
importante tra religione e nevrosi ossessiva. In quest’ultima gli individui cercano di
risolvere i loro conflitti psichici (sentimento di riprovazione / colpa) in maniera asociale o
privata (Freud, 1976: 105). Invece, nella religione il conflitto, che si svilupperebbe tra la
repressione delle <<pulsioni egoistiche socialmente dannose>>, il senso di colpa derivato
dalla tentazione e l’angoscia suscitata dalla paura della punizione divina, viene risolto
secondo modalità socialmente istituite ed accettate (1972, vol. 5: 347-48).
A mio parere è possibile ripensare l’interpretazione freudiana inserendo la tematica
psicoanalitica nelle argomentazioni che sono state qui sviluppate. In questa prospettiva
l’Io, <<orgogliosa sovrastruttura della mente>> (Freud, 1976: 104), rappresenterebbe la
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dimensione trascendente, continuamente assediata dagli impulsi istintuali scaturiti dalla
nostra più primitiva visceralità. In tale contesto l’atto steoreotipato e ripetitivo, che
caratterizza anche il “normalmente” nevrotico, consiste proprio nel tentativo, mai
definitivamente riuscito, di uscire dall’instintualità e visceralità, costruendo uno strato
“superiore” (l’Io appunto), che è una barriera di difesa contro quest’ultima e che dà una
certa stabilità e permanenza alla personalità, nonostante le tensioni distruttive provenienti
dallo strato “inferiore” rimosso.
In definitiva, se nella vita sociale immanente e trascendente corrispondono alla dicotomia
tra vita quotidiana e strutture di potere, nella vita psichica essi debbono riferirsi il primo allo
strato istintuale, il secondo all’identità psichica del singolo.
Nella società capitalistica avanzata, che si fonda in larga parte su un individualismo
estremo, gli istinti e i bisogni individuali anche elementari sono continuamente sollecitati
(si pensi alla negazione della morte presente nel culto dell’eterna giovinezza o al culto
della sessualità intesa come massima espressione dell’umanità). Ma tale sollecitazione
non può comportare il loro soddisfacimento disordinato, che metterebbe a rischio la
stabilità già precaria della vita sociale; esso viene reso possibile attraverso una serie di
pratiche ritualizzate e di oggetti simbolici11, che forniscono agli individui un’organizzazione
e un ordine, che impedisce loro di dissolversi psichicamente nello appagamento delle loro
pressioni istintuali.
Tale organizzazione è fornita agli individui dalla già menzionata produzione di massa, la
quale si trova a tentare di risolvere la contraddizione ad essa inerente tra l’esigenza di
gratificare gli individui con pratiche sempre più individualizzate o di “nicchia”, e l’esigenza
di creare strumenti ed oggetti che appaghino i desideri di un’ampia platea di individui
all’interno di una cornice artificialmente ordinata.
Ma qual è la conseguenza di questo eccesso di microritualità quotidiana, che contribuisce
anche alla vitalità e all’espansione di molti settori industriali?
Mi sembra si possa dire che l’individuo, imprigionato nella contraddizione tra il
soddisfacimento dei suoi bisogni primari e la necessità di salvaguardare la sua identità
psichica, non sia più in grado di dedicarsi ad altre forme di trascendenza, alle quali si
giunge aprendosi pienamente alla socialità o secondo Freud attraverso la sublimazione.
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