Pietro Ruffo_Stephano Casertano_it

Pietro Ruffo
Il Limes romano, la Grande Muraglia cinese
e il respiro degli imperi
Stephano Casertano
M a cosa ferm ò
Rom a dal
conquistare
oltre?
1
L’imperatore Traiano nell’anno 116 d. C. portò l’Impero Romano alla sua
massima espansione. Il condottiero riuscì a conquistare l’Armenia e la
Mesopotamia, fino a Ctesifonte, la capitale dell’Impero dei Parti: in quel
momento il dominio di Roma si estendeva per tre continenti, dall’Asia,
all’Europa, all’Africa. Romano era l’ordine del mondo antico, romane le vie
di comunicazione, romano era il sistema economico e diplomatico che
legava popoli dalle culture estremamente diverse. Ma cosa fermò Roma
dal conquistare oltre?
L’impeto espansionistico di Roma non si fermò a causa dello scontro con
popolazioni particolarmente forti sul campo di battaglia. Per gran parte
della sua storia, il limite imperiale fu rappresentato dall’incontro con
eserciti che non combattevano in maniera tradizionale, ma preferivano
veloci imboscate seguite da un rapido ritiro. Come ha scritto Luttwack nel
suo “La Grande Strategia dell’Impero Romano”, «Neppure i romani
potevano impiegare efficacemente le loro forze contro nazioni costituite da
guerrieri che abitavano dispersi nelle campagne, e le cui forze non
dipendevano dalla sopravvivenza di una struttura economica e sociale
basata sulle città. Esisteva pertanto una ragione tecnica e militare alla base
dei limiti geografici dell’espansionismo imperiale. Questi limiti non erano
dovuti semplicemente a questioni di spazio, di distanza o di popolazione;
si trattava piuttosto di limiti di tipo qualitativo, e, cosa più importante,
riguardavano sia la diplomazia coercitiva, sia la guerra. La penetrazione
non avvenne per questo nella sona semidesertica dell’Africa
settentrionale, nelle regioni dell’Europa centrale ancora coperte di foreste,
e nelle pianure dell’odierna Ucraina, nell’arido altopiano iranico e nei
deserti dell’Arabia1».
Quasi due secoli prima di Traiano, Marco Licinio Crasso nel suo tentativo
di guadagnare prestigio contro gli altri due triumviri, Giulio Cesare e
Pompeo Magno, cercò di sconfiggere i Parti, il cui regno spaziava
dall’odierno Iraq all’Afghanistan. Crasso fu impressionato dalla tattica
militare di questa popolazione mediorientale, che consisteva in fulminei ed
effimeri attacchi di unità di cavalleria e di arcieri a cavallo. Ritenne però
che alla base di queste sortite non ci fosse nessun acume militare, ma
solo la codardia. In realtà gli attacchi dei Parti furono estremamente
efficaci e fiaccarono la resistenza dei romani fino alla disfatta nell’unica
battaglia campale, a Carre nel 53 a. C.
Crasso pagò la sua sconfitta con la morte per mano nemica. Fu la
conclusione tragica di un disegno militare dovuto all’ambizione e alla
cupidigia, che si discostava in maniera sostanziale dai precetti strategici
Luttwack, Edward N. (1976), La Grande Strategia dell’Impero Romano, Rizzoli, pp. 68-69 PIETRO RUFFO
L’enfer c’est les autres
1
Era l’interesse
e il calcolo che
portava
all’espansione e,
non diversam ente
da quanto fanno le
m oderne
m ultinazionali, la
crescita si
arrestava laddove
i costi
dell’annessione
superavano i
benefici.
PIETRO RUFFO
L’enfer c’est les autres
dell’impero romano. Campagne di conquista e guerre di Roma non erano
basate sul coraggio dell’esercito o sull’eroismo dei singoli: il principio
fondamentale era improntato al “metodo e alla prudenza” (sempre
Luttwack). L’organizzazione, la preparazione e la gestione accorta delle
risorse erano la chiave per il successo militare.
Si chiarisce con questi aspetti il senso del rapporto dei romani con lo
spazio: era l’interesse e il calcolo che portava all’espansione e, non
diversamente da quanto fanno le moderne multinazionali, la crescita si
arrestava laddove i costi dell’annessione superavano i benefici. Erano in
torto i professori del liceo che, osservando il Limes europeo, ci dicevano
che i romani avevano sbagliato a non spingere il confine fino alla parte più
stretta del continente, che congiungeva idealmente l’odierna Odessa a
Kaliningrad. Rimanere appoggiati alle rive del Danubio era dettato dalla
regola della prudenza e dell’interesse; domare le popolazioni della
“Germania Magna” non serviva a fini strategici e sarebbe stato
dispendioso. È per lo stesso motivo che in Bretagna il confine fortificato
del “Vallo di Adriano”, lungo 118 chilometri, fu preferito al tentativo di
stabilizzare il “Vallo di Antonino”, più a Nord e lungo solo 59 chilometri.
L’essenza del rapporto romano con lo spazio si esprime anche nella
struttura dei confini, che si è evoluta progressivamente nei secoli. Sotto il
sistema “Giulio-Claudio”, grossomodo da Augusto a Nerone, si raggiunse
un livello militare di sole venticinque legioni. Non esisteva un confine
armato come possiamo intenderlo oggi, e la sicurezza era garantita da una
tela di “stati clienti” che venivano ricompensati per la fedeltà a Roma. In
caso di sommosse o invasioni di una certa entità, le legioni mobili
intercettavano il nemico anche all’interno del territorio imperiale.
Fu solo con la successiva dinastia dei Flavi che iniziò il grande lavoro di
fortificazione dei confini. Con l’erezione di mura e torri di guarda non si
arrestò però lo sviluppo delle strategie romane: in un primi periodo, la
forza d’urto militare consisteva nella capacità delle milizie di uscire dalla
frontiera armata e intercettare i nemici all’esterno. Progressivamente, e
infine con la “grande crisi del III secolo”, la tattica virò verso un tipo di
difesa “in profondità”, con un sistema di protezione “interno” per la
sorveglianza delle principali vie di comunicazione e dei centri abitati.
In questo lungo percorso cambiò non solo la concezione militare che
Roma aveva di se stessa, ma anche il rapporto con gli stati clienti. Il
successo della maggiore città-stato dell’antichità fu dovuto anche alla sua
capacità di creare una “struttura economica” inter-culturale, diventando
un “impero egemone”. Proprio la crescita dei vecchi stati clienti iniziò a
rappresentare la principale minaccia per la sicurezza delle popolazioni
romane di confine; e anche per questo l’approccio difensivo approdò alla
strategia di fortificazione.
Oggi potremmo dire che la Roma repubblicana e parte di quella imperiale
basavano il proprio potere non solo sulla forza, ma anche sul “softpower”. Se i confini furono poi “armati e presidiati”, ciò dipese da
influenze interne ed esterne. Le lotte di potere per il controllo del seggio
imperiale costringevano frequentemente a richiamare le truppe dalle
periferie per combattere internamente; al di là del Limes, si temeva che
nuovi “stati clienti” potessero diventare troppo forti e contendere il potere
e l’integrità di Roma.
È a questo punto che nasce il primo concetto storico di “impero
territoriale”, che ha poi contraddistinto il rapporto di molte altre potenze
nazionaliste con l’esterno.
2
“Era necessario
che i popoli che
vivevano oltre il
confine fossero
sensibili alle
m inacce e alle
suggestioni
esercitate dal
sistem a rom ano di
controllo
indiretto.”
Spesso si paragona la Cina all’Impero romano proprio per questa
caratteristica della territorialità. La Grande Muraglia, oltre a essere
un’ambiziosa opera architettonica, è la realizzazione fisica di un attitudine
politica. Dalle prime palizzate erette nel quinto secolo avanti Cristo, fino
alle immani fortificazioni della dinasta Ming (1368-1644), l’idea cinese era
quella di separare il territorio controllabile da quello abitato da tribù
indomite, di origine mongola o manciù. Riprendendo ancora Luttwack,
possiamo impiegare per questo aspetto storico cinese una descrizione
relativa al sistema di confine romano sotto i Flavi: «i metodi di
pianificazione usati dai romani nelle zone di confine richiedevano che gli
abitanti e il territorio fossero adatti all’insediamento e allo sviluppo, in
modo da permettere una sorta di “auto-romanizzazione” volontaria da
parte di una popolazione fiorente, come risposta all’introduzione delle idee
e dei manufatti romani. D’altra parte, dal punto di vista diplomatico, era
necessario che i popoli che vivevano oltre il confine fossero sensibili alle
minacce e alle suggestioni esercitate dal sistema romano di controllo
indiretto2».
Se vogliamo confrontare il progresso strategico dell’impero romano con la
Cina, non possiamo però affidarci a una teoria “deterministica” dello
sviluppo. Non è detto che a una fase egemonica (o, secondo la nostra
definizione, di “soft-power”) ne segua una “territoriale” (che quindi
dovremmo definire di “hard-power”). Si tratta piuttosto di fasi che si
alternano nei cicli di lungo periodo degli imperi.
L’egemonia consente periodi di conquista, perché non si basa su confini
tracciati nella pietra. La territorialità rappresenta l’apice dell’espansione,
ovvero il momento in cui la complessità del sistema esterno supera la
complessità del sistema interno. Il muro stabilisce un confine e consente
di concentrarsi sulla propria situazione domestica, fino a quando
l’espansione non può essere ripresa.
È chiaro che nell’ambito di un impero i due aspetti dell’egemonia e della
territorialità coesistono, poiché uno non esclude l’altro; si deve però
immaginare che il “Respiro degli Imperi” sia contraddistinto da fasi in cui
una di queste caratteristiche prevalga, per poi diminuire e lasciare spazio
all’altra. La territorialità racchiude dentro i propri confini ciò che secondo
l’impero può essere definito come “idea politica nazionale”, quale insieme
di tutte le culture che condividano un’idea culturale, e per questo
economica e sociale, compatibile.
La Cina di oggi è passata da una fase di “territorialità” prevalente fino
all’avvento di Deng Xiaoping, a quella di una maggiore espansione della
propria pretesa egemone tramite lo strumento della “guerra economica3”.
Non è una strategia “nuova”: ha contraddistinto lo sviluppo dei grandi
“cicli di accumulazione del capitale” dell’epoca moderna e contemporanea, dettando le possibilità di emersione della Venezia dei mercanti,
dell’Olanda, dell’Impero Britannico e degli Stati Uniti4.
Deng ha rappresentato la fine della “colonializzazione interna” della Cina:
nel 1978 si era in gran parte completato il processo di nazionalizzazione
2
Luttwack, Edward N., op. cit., p. 122 Per evitare di rimandare al solito Luttwack (Luttwack, Edward N. (1990), From Geopolitics to Geoeconomics. Logic of Conflict, Grammar of Commerce, The Nationali Interest) ci è di aiuto la scuola francese dei primi anni Novanta: Esambert, Bernard (1990), La guerre économique mondiale, Olivier Orban; e Harbulot, Christian (1992), La machine de guerre économique, Economica 4
Braudel, Fernand (1986), Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe-­‐XVIIIe siècle, Armand Colin; e anche Arrighi, Giovanni (1996), Il lungo XX secolo: denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore 3
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L’enfer c’est les autres
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La Cina di oggi
non im pone
m odelli politici
ai suoi principali
partner
com m erciali,
e si lim ita a creare
un sistem a di
“protezione
econom ica” con
le realtà estere.
Han, e il territorio cinese era diventato area di competenza semi-esclusiva
dell’etnia centrale. Con la fine di Mao era venuta meno anche la tensione
civile che vedeva contrapposta l’ormai sparuta opposizione del
Kuomintang al Partito Comunista. Il sistema nazionale domestico è tornato
a un livello di complessità gestibile; oltre la Grande Muraglia le opportunità
offerte dalla crisi sovietica prima, e in seguito dalla fine della Guerra
Fredda, hanno spinto a intraprendere l’espansione.
La Cina come impero socialista è stato più fortunato rispetto a quello
sovietico. Mosca ha vissuto la sua fase di complessità interna fino al 1937,
l’anno del “terrore e del sogno”, in cui il lucido pazzo Stalin fece di Mosca
e di tutto il paese un sistema perfetto per la persecuzione dei dissidenti e
per lo sviluppo di un ideale “utopico di una nuova società5”. La fase
espansionistica si protrasse poi per i pochi, violentissimi anni del secondo
conflitto mondiale, riaffacciandosi poi solo per brevi periodi, fino alla
catastrofe dell’intervento in Afghanistan negli anni Ottanta. L’URSS si
dovette scontrare con la strategia imperiale americana sui suoi confini, in
una globalizzazione del conflitto che ridusse le pretese di Mosca fin dal
1945.
La Pechino di oggi non ha incontrato sul suo cammino recente questo tipo
di limite, e la sua crescita continua in tutti i continenti.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto se lo sviluppo di un “impero
commerciale” possa avere senso. Il principio, come per la territorialità, è
che lo sviluppo in nuovi mercati abbia senso fino a quando i vantaggi non
superino i costi. Pechino, da questo punto di vista, è una realizzazione
ulteriore dei grandi cicli di accumulazione del passato, ma lo è in maniera
più evoluta6. Il grande Impero Britannico è stato criticato dagli storici
marxisti perché caratterizzato da concetti di dominio e sopraffazione; ma è
stato biasimato anche dai liberali, in quanto «proprio perché l’imperialismo
ha distorto il mercato – servendosi di tutto, dalla forza alle tariffe
preferenziali, per modellarlo a vantaggio della madrepatria – a lungo
andare non ha fatto l’interesse neppure dell’economia britannica7».
Alla tentazione di colonizzare il territorio, o almeno di farlo alla maniera
inglese, hanno resistito gli Stati Uniti. Washington ha stimolato la crescita
di economie democratiche, liberali e integrate, per proteggere i confini
demarcati in Europa e in Asia (si veda il sostegno al Giappone); laddove la
frontiera era più incerta, come in Medio Oriente o in Africa, ha finanziato la
crescita di “stati clienti” ricompensando il capo-tribù di turno, che si
chiamasse Reza Pahlavi (in Iran) o Hosni Mubarak (in Egitto).
La Cina di oggi non impone modelli politici ai suoi principali partner
commerciali, e si limita a creare un sistema di “protezione economica”
con le realtà estere. La coesione del sistema politico interno, incarnata
dall’iper-conservatore Partito Centrale, consente di gestire l’espansione
esterna in base a un concetto “prudente e amministrativo”, piuttosto che
“eroico ed effimero”. È sulla stabilità domestica che si basa il potere
estero; ed è sugli obbiettivi nazionali che si fondano quelli internazionali.
La pulsione alla crescita imperiale è data da ideali che vanno oltre
l’economia: è l’idea di eccezionalismo, che sia inglese, americano o
Schlögel, Karl (2010), Terror und Traum, Fischer Taschenbuch Verlag Sia Braudel che Arrighi sottolineano come i grandi cicli di accumulazione non siano da interpretare in maniera “sequenziale”; ma non possiamo negare che ogni realizzazione imperiale-­‐capitalistica abbia colto aspetti dei cicli precedenti, per affinarli ed esprimerli nuovamente. Questo è stato vero soprattutto per il passaggio dal ciclo britannico a quello americano, e sta succedendo nuovamente da parte cinese rispetto al ciclo americano. 7
Ferguson, Nial (2003), Impero, Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Oscar Mondadori, p. 8 5
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cinese, a creare l’ansia di conversione del mondo; l’economia ne è solo
strumento.
Non è credibile che la logica del “disinteresse” cinese per le altrui
questioni politiche possa rappresentare il cardine a lungo termine delle
relazioni di Pechino con il mondo. Ciò è possibile solo in una fase
“espansiva” dell’impero. Con il passare degli anni, sussistono altri rischi:
alle merci scambiate sono attaccati significati politici, che lo si voglia o no.
È politica il fatto che, ai margini della crisi del 2008, Pechino abbia messo
a disposizione miliardi di dollari per rivitalizzare l’industria energetica di
Mosca, cuore dell’economia russa. È politica il fatto che Pechino sia così
timida nel criticare l’Iran e la Korea del Nord nelle proprie ambizioni
nucleari. È politica il fatto che la Cina abbia sostenuto al governo il partito
del discusso presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe.
Se consideriamo questo, possiamo ritenere che la Cina non sia in realtà
ancora un impero, ma solo una forza nazionale nella fase di conquista.
Impero lo diventerà solo se riuscirà a imporre un sistema di valori e
significati sociali, economici, politici. Se accetterà la responsabilità di
essere impero.
Sono in atto già dinamiche che potrebbero portare al ritorno a una fase
territoriale per Pechino. La conflittualità interna è in aumento, e insieme a
questo ci sono zone in cui l’idea nazionale si sta annacquando. Il confine
sino-russo, oggetto di scontri violentissimi negli ultimi secoli, potrebbe
essere il primo a vacillare nel caso di un ritorno alla territorialità.
Nell’ultimo periodo di vita dell’Impero Romano le truppe stanziali presenti
sul Limes germanico avevano ormai acquisito fisionomia e aspetto
culturali delle tribù barbariche, con legionari biondi e alti un palmo in più
rispetto ai colleghi romani. In Cina, a causa di decenni di politiche del
“figlio unico”, ci sono relativamente più maschi; e al confine con la Russia
questo ha incentivato le unioni trans-nazionali.
A Ovest della Cina, la popolazione uigura dello Xinjiang è sempre meno
attratta dal modello centrale, e il “vantaggio atteso della ribellione” sta
superando quello della fedeltà. La Cina per ora è “impero” solo all’interno
dei propri confini statali, e questi segnali suggeriscono che qui Pechino sia
già tornata al territorialismo (posto che ne sia mai uscita).
Altri paesi considerati “stati cliente” stanno imparando dai cinesi
l’organizzazione del lavoro e la produttività. Anche gli Stati Uniti si stanno
riorganizzando, cercando di interessarsi sempre meno alle questioni
politiche altrui, sognando piani per la rinascita delle esportazioni.
La circolarità tra egemonia e territorialità si può interrompere, se
sopravvengono elementi distruttivi di questo tipo. È per questo che
l’Impero cinese, per dimostrare di essere tale, li dovrà affrontare.
Il mondo esterno alla Cina sta tornando a essere più complesso rispetto
agli anni Novanta, ed è per questo che gli apparati interni di Pechino
devono saper rispondere tramite le riforme. Il modello dirigistico del
Partito Centrale ha avuto successo in un sistema frammentato, come
quello post-1989; ma adesso la Cina sarà sottoposta a nuovi impulsi.
Come nell’antica Roma, questi impulsi potrebbero tradursi in tentazioni di
lotta per fazioni e gruppi di potere, portando alla disgregazione. Oppure,
potrebbero ispirare la nascita di una nuova Cina, colorando di rosso gran
parte del mondo. Forse il sistema a guida statale riuscirà a leggere
correttamente la situazione e conservare il vantaggio nazionale: questo
sarebbe un cambiamento epocale. Ma noi vecchi Europei, in fondo,
crediamo che non sia possibile.
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Stefano Casertano (Roma, 1978) è docente di politica internazionale all'Università
di Potsdam, in Germania; MBA della Columbia University e Ph.D. dell'Università di
Potsdam. Dal 2011 è Senior Fellow del think tank tedesco BIGS. Il suo campo
d'interesse è la storia dei rapporti tra le grandi potenze a partire dal dopoguerra, in
particolare nel settore dell'energia.
E' autore di una trilogia sulla geopolitica energetica in completamento nel 2011. Il
primo libro della serie è "Sfida all'Ultimo Barile" (Brioschi Editore, 2009), una storia
della Guerra Fredda per il petrolio dal 1945 a oggi. Nel 2010 questo lavoro è stato
portato avanti con l'uscita di "Oro Blu" (Fuoco Edizioni), dedicato ai rapporti
energetici tra Cina, Russia ed Europa. Quest'anno uscirà "La Guerra del Clima"
(Francesco Brioschi, 2011), sulla geopolitica delle energie rinnovabili.
Stefano Casertano è stato advisor per gli affari internazionali presso il Ministero
dello Sviluppo Economico in Italia nel 2010, e contribuisce come pubblicista per le
riviste dell'Aspen Institute, dell'Istituto Affari Internazionali di Roma, e per l'Istituto
per gli Studi di Politica Internazionale di Milano.
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