LA PARROCCHIA: POPOLO SACERDOTALE, PROFETICO, REGALE,
A SERVIZIO DEL VANGELO
Dividerò l‟intervento in 4 punti, scandendo le diverse sezioni, a partire da una parola-chiave del titolo.
1) POPOLO
2) SACERDOTALE, PROFETICO, REGALE
3) A SERVIZIO DEL VANGELO
4) NELLA PARROCCHIA
E partiamo dall‟inizio…
1) POPOLO
a) Laòs (popolo): nella famiglia „umana‟, il valore dell‟essere „persone‟
b) La „laicità‟ di tutta la Chiesa: unità Chiesa/mondo
c) “Il desiderio di una vita felice, con e per gli altri, all‟interno di istituzioni giuste”
a) Laòs (popolo): nella famiglia „umana‟, il valore dell‟essere „persone‟
Nelle Scheda di lavoro n. 1 (La parrocchia, popolo di Dio), c‟è un richiamo al cap. 9 della Lumen Gentium e
si sottolinea quella che chiamerei una prima sfumatura (la sfumatura più importante, fondamentale) che
dobbiamo dare al termine „popolo‟: “la dignità dell‟essere persone, figli…”, il valore dell‟essere persone
(elemento che è stato al centro anche del vostro Sinodo diocesano).
„Popolo‟ è la parola con cui rendiamo il greco „laòs‟; e laos è una parola che in greco porta in sé un senso
forte di appartenenza; il popolo è sempre il „mio‟ popolo, l‟insieme delle famiglie, delle tribù, delle persone
con cui vivo, che conosco, con cui condivido il mio mondo. Non si può parlare di popolo, senza pensare
subito ad un „noi‟, ad una com-unità.
Hannah Arendt, una filosofa che sicuramente non si definirebbe credente, ma che ha lavorato molto sulla
dimensione della condivisione, della vita pubblica, in un suo testo famoso, dal titolo Vita activa. La
condizione umana (1958), come suggerisce lo stesso sottotitolo, ha cercato di sottolineare alcuni elementi
che caratterizzano la condizione umana, il nostro essere persone. E ad un certo punto scrive: “il mondo è
comune a tutti. (…) Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente (…) avere un mondo in comune,
(…) come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno”.
Mi sembra un‟immagine molto bella, che ci ricorda che… la nostra condizione umana è quella di avere un
mondo in comune.
A differenza dei Greci, che credevano che il „mio‟ popolo è strutturalemente „contro‟ un altro popolo (che è
xenos, straniero, diverso…; non è laos)…; a differenza anche dell‟originaria distinzione tra ebrei e gentili, tra
chi appartiene al popolo di Dio e chi invece è pagano, un‟attenta lettura della nostra condizione umana ci
ricorda che il nostro è sempre un mondo comune, e che quindi non esistono „i‟ popoli al plurale, ma esiste
„il‟ popolo: un unico popolo: che è la famiglia umana. In questo laos che è la famiglia umana, siamo tutti
figli e tutti fratelli: e proprio per questo abbiamo tutti lo stesso valore; e proprio per questo non ha senso
„separare‟, distinguere, mettersi contro l‟altro: perché l‟altro non è un estraneo, uno straniero da combattere,
ma è parte di me.
Se siamo un unico corpo, se andiamo a ferire una parte del corpo, non soffre solo quella parte, ma anche tutto
il corpo.
Possiamo ricordare un film di un po‟ di anni fa, dal titolo biblico: Babel. Interessante rileggerlo nell‟ottica
che stiamo dicendo. Ci sono quattro storie apparentemente diversissime tra loro: una famiglia americana, una
cinese, una marocchina e una messicana; tutte ferite, tutte chiuse nella loro incomunicabilità. Nel corso del
film si capisce che cosa le collega: la ferita di una delle famiglie, a catena, a domino, ricade sull‟altra. Il
fucile del cinese, arriva al marocchino…, che ferisce l‟americana, che è la mamma dei bambini affidati alla
messicana… E tutte le „tragedie‟ di queste famiglie partono da cose apparentemente banali: una moglie che
non riesce a parlare con il marito e a perdonarlo; un fratello che non accetta che l‟altro possa essere più bravo
di lui; una ragazza che non accetta il proprio handicap; ecc.
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Apparentemente cose „singolari‟, che riguardano me. No, invece, se ci facciamo caso, alla fine scopriamo
che sono cose comuni, che riguardano noi: noi tutti.
I care: non è tanto un obbligo morale, ma una necessità ontologica. Non posso non preoccuparmi dell‟altro,
perché l‟altro è anche me.
Dice l‟Apostolicam actuositatem, riprendendo Aristotele: “L‟uomo è per sua natura sociale”.
Per dirla con un altro filosofo, che la Arendt conosceva bene, Martin Heidegger: non esiste l‟uomo, esistono
gli uomini, non c‟è l‟esserci, c‟è il con-esserci.
Sentire l‟unità di essere „un‟ solo popolo, una sola famiglia umana, significa vedere tutti i popoli, tutte le
razze, tutte le culture, tutte le persone come degne di valore. Capiamo quanto questo possa diventare
interessante, se applicato alla logica del dialogo interreligioso ed ecumenico. Ma non è il nostro tema.
Intuiamo, però, come sia importante, come possa essere importante nella logica della parrocchia: ci tornerò
verso alla fine. Se tutti siamo intorno allo stesso tavolo e tutti siamo parte della stessa famiglia, non posso
mettere gli steccati e dire: in questo gruppo c‟è la vera chiesa e in quell‟altro no. La mia associazione è più
importante della tua. I contrasti tra i gruppi e le associazioni fanno male all‟unità: si alimentano della logica
dell‟essere estranei/stranieri uno contro l‟altro, e non della logica dell‟essere popolo, uno.
Il mio parlare male di te… non fa male solo a te, ma fa male a tutti, a tutto il corpo…
Ma torniamo al nostro termine: popolo, laos.
Credo che sia chiaro il primo aspetto: essere popolo/laos, significa riconoscere e vivere la fratellanza
dell‟appartenenza all‟unica famiglia umana: unica e insieme plurale, in cui tutti siamo importanti. È il valore
dell‟essere „persone‟: uniche e irripetibili, e però insieme inevitabilmente legate a tutte le altre…
Ma, se questo è vero, possiamo fare un secondo passaggio.
b) La „laicità‟ di tutta la Chiesa: unità Chiesa/mondo
Da „laos‟ (popolo), come sappiamo, deriva anche il termine laikos: laico. Da un certo punto di vista, dunque,
dal punto di vista antropologico, prima che teologico, „laico‟ è sinonimo di „uomo‟: essere laici significa
essere uomini, appartenere al popolo della famiglia umana. E in questo termine (laici) ci ritroviamo tutti,
come ho cercato di dire finora: credenti e non credenti. Al tavolo del mondo tutti sono chiamati a
banchettare… E noi (in particolare noi credenti) non possiamo escludere nessuno dal banchetto: anzi,
dovremmo essere i primi a chiamare. Vieni anche tu a banchettare!’. Vieni a prendere e offrire il cibo della
ricerca comune del sapere, il cibo della giustizia, il cibo del bene (un bene comune, perché di tutti), il cibo di
questa nostra città, di questa nostra regione! Cibo politico, perché della polis, della comune cittadinanza. E
non c‟è uomo senza polis; e non c‟è laico, allora, senza „politica‟.
Il laico è l‟uomo della relazione (non degli assolutismi); l‟uomo del rispetto dell‟opinione altrui; è chi non si
chiude nella proprie certezze, ma sa camminare con l‟altro, facendo un tratto di strada con lui, con la
consapevolezza che da ogni incontro c‟è da imparare.
E, sicuramente, in questa direzione abbiamo ancora molto da lavorare come Chiesa e come Parrocchie.
…Noi, tutti noi, anche noi cristiani, battezzati, impegnati nelle Parrocchie e nei Movimenti, infatti, siamo
figli della modernità. E senza volerlo, spesso senza rendercene conto, ragioniamo come ragionava la
modernità, in termini dualistici; ma questa è una mentalità che dobbiamo superare, perché le cose non stanno
così: non c‟è qui la Chiesa e lì il mondo: non ci sono qui i buoni e lì i cattivi.
La Chiesa non solo è per il mondo, nel mondo, ma è mondo. La chiesa non solo è per gli uomini e tra gli
uomini, ma è gli uomini.
Questo ce l‟ha detto con chiarezza il Concilio Vaticano II, soprattutto nella Gaudium et spes. Ricordiamo
l‟inizio: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla
vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”
Allora: tutti – in quanto uomini – siamo „laici‟; tutta la Chiesa – come ha sottolineato con chiarezza già Paolo
VI – è „laica‟. C‟è una laicità di tutta la Chiesa. Il che non significa altro che quello che dice la Gaudium et
spes: che non c‟è nulla di umano che non sia cristiano. Che c‟è un livello di pienezza di umanità che tutti
siamo chiamati a coltivare (dal Papa al sagrestano, dal catechista all‟ingegnere non credente, dal vescovo alla
mamma, dalla suora al giovane dei Centri sociali)…
Su questo vi rimando al primo capitolo della Nota, Cristiani nel mondo, testimoni di speranza che i nostri
vescovi hanno scritto dopo il Terzo convegno ecclesiale regionale: Amate la nostra terra!
Non possiamo essere pienamente credenti se non siamo pienamente uomini della terra. Non possiamo essere
pienamente popolo di dio se non siamo pienamente popolo del mondo.
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E, allora, capiamo, la nostra domanda cambia: non mi deve chiedere innanzitutto: come devo essere bravo in
parrocchia? Ma come posso essere me stesso? Pienamente uomo, pienamente realizzato e pienamente felice?
Nella nostra umanità ci giochiamo la nostra vocazione, qualunque essa sia. E, a mio avviso, ci giochiamo
anche la nostra testimonianza, il nostro servizio al Vangelo. Ma su questo ci soffermeremo dopo.
Torniamo, invece, al nostro termine-chiave: popolo, laos.
Abbiamo visto il primo aspetto: l‟essere popolo inteso come essere parte dell‟unica famiglia „umana‟
Abbiamo visto il secondo aspetto: l‟essere popolo come essere laici; ed essere laici significa appartenere al
mondo, essere pienamente uomini e donne del mondo; da questo punto di vista tutti gli uomini sono laici; e
anche tutta la chiesa è laica…
Possiamo passare allora al terzo punto, che vuole rispondere alla domanda che ci siamo appena fatti: come
possiamo essere pienamente popolo, pienamente uomini, pienamente laici, pienamente realizzati?
Per rispondere, prendo spunto da un altro pensatore, in questo caso francese, P. Ricoeur.
c) “Il desiderio di una vita felice, con e per gli altri, all‟interno di istituzioni giuste”
Che significa? Innanzitutto che l‟etica non è un insieme di dovere, imperativi, divieti. L‟etica è un desiderio.
E‟ il desiderio di essere felici. Vivere una vita “compiuta” in tutte le direzioni e le dimensioni di sé. E queste
dimensioni sono tre: il rapporto con se stessi, con gli altri, con le istituzioni.
Felicità è, etica è (I) cura innanzitutto di se stessi.
Quante volte, soprattutto noi più impegnati in Parrocchia… ci pre-occupiamo tanto degli altri… e poi non
abbiamo tempo mai per noi stessi… Non siamo capaci di prenderci innanzitutto cura di noi stessi. Ma Gesù
dice: ama il prossimo tuo „come‟ te stesso. Perché chi non sa amare se stesso, non sa amare. E chi non sa
essere responsabile di sé non può esserlo di altri.
E, poi, etica è (II) …cura di chi ci sta accanto. Dei nostri „tu‟: l‟amico, l‟amato, i familiari, il marito, la
moglie, la consorella, il confratello… (etica dell‟amicizia, etica della famiglia, etica della comunità)
Perché… anche in questo caso: come è più facile volere bene a quelli che sono lontani, piuttosto che a quelli
che ci sono più vicini. Ma alla fine questo non paga. Se non riesco ad amare chi mi sta accanto e a farmi
amare da lui, da lei…, non sono felice. Non lo sarò mai…
Infine: etica è (III) cura delle istituzioni. Perché la nostra vita non può essere compiuta e felice se le
Istituzioni non funzionano. E, allora, ognuno di noi è chiamato a sviluppare una relazione di rispetto, cura e
miglioramento delle Istituzioni, in vista della giustizia sociale: prendendosi cura, così, di „ciascuno‟
Detto questo – che possiamo un po‟ considerare come un elogio dell‟etica sociale e politica – non possiamo,
però, non sottolineare i limiti dell‟etica. Ricoeur li sottolinea con una metafora interessante, e parla di “prosa
della giustizia e poetica dell’amore”. Che cosa significa? Il linguaggio della poesia è diverso da quello
ordinario, della prosa. La prosa quotidiana, anche quando arriva ai vertici della giustizia, resta nello stile
dello „scambio‟, della bilancia, nella logica per cui si dà „a ciascuno il suo‟, il dovuto.
Invece la poetica dell‟amore, è “sovra-etica”.Non è mero scambio, ma dono, consegna di sé. Perciò l‟amore
è sempre il/logico. Segue una „regola altra‟. Poetica, appunto. Non racchiudibile in schemi grammaticali,
sintattici, stilistici. “Senza calcoli e misure”, suggerisce don Salvatore Tardio nella Lectio divina,
Instrumentum laboris del vostro sinodo (cfr. Liber Synodalis, p. 31).
Se questo è vero, che cosa succede quando ci doniamo, quando viviamo l‟amore come dono? Facciamo “un
gesto che produce un‟onda di irradiazione e irrigazione: onda che, in maniera segreta e obliqua, contribuisce
all‟avanzare di una controcorrente nascosta della storia” (P. Ricoeur).
L‟amore ci dice che un‟altra storia è possibile. E ogni azione gratuita lavora in questa direzione.
E, perciò, apre l‟orizzonte alla speranza.
E, allora, sinteticamente, concludendo su questo punto: come possiamo essere pienamente realizzati come
uomini, come popolo, con gli altri? Cosa è chiamato ad essere, ciascuno di noi? Un uomo, una donna… della
prosa, che non dimentica la poesia. Un uomo del dono, che sa distinguere tra il tempo, l‟affetto, il cuore che
„deve‟ ai „tu‟, ai più vicini; e ciò che deve a „ciascuno‟. Un uomo, una donna del presente, che non rinuncia a
scrivere l‟utopia della speranza. E, questo, notiamo, sentiamo, è laico non solo perchè detto in termini laici
(senza riferimenti evangelici e magisteriali). E‟ laico perché evidentemente traccia l‟orizzonte di un ethos
che può accomunare chiunque: a prescindere dalle fedi, o, meglio, dentro qualunque fede. A prescindere dal
fatto che sono suora o prete o mamma o papà. Vale per chiunque: nel nome di ciò che è l‟uomo:
i.
ii.
iii.
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„tu‟ amato/amante
„ciascuno‟ che reclama giustizia
storia che chiede speranza
Ma, ci siamo resi conto (immagino!) che questi tre elementi innanzitutto corrispondono alle tre Enciclicle di
Benedetto XVI e al loro contenuto „etico‟.
i. Deus caritas est
ii. Caritas in veritate
iii. Spe salvi
Amore, giustizia, speranza. Sì. Perché l‟antropologia del Cristianesimo non è un‟altra antropologia. E‟
antropologia. Ed ecco, allora, che, in quest‟ottica, possiamo comprendere anche la seconda parte, su cui sarò
più breve.
2) SACERDOTALE, PROFETICO, REGALE
a) Dal livello antropologico a quello teologico: la radicalizzazione battesimale
b) Vivere l‟Amore,
la speranza,
la giustizia…
c) Essere sacerdoti,
profeti,
re…
Sì, perché, nel battesimo, col battesimo, cosa accade? Lo sappiamo. Riceviamo tre doni, che sono anche tre
compiti: il sacerdozio, la profezia e la regalità. La terza propositio del vostro Libro del sinodo, richiamando
anche LG 31, lo ricorda con chiarezza; ma ovviamente sarebbero da rileggere tutte le Propositiones relative
al laicato (nn. 57 e sgg.). Mi sto riferendo ai ‘tria munera’ battesimali.
Che cosa accade nel sacramento del battesimo? Che la nostra condizione umana, la nostra laicità umana,
viene innestata, radicata nel Mistero della morte e resurrezione di Cristo. E l‟antropologia trova un
„fondamento‟ teologico.
Partecipando al sacerdozio di Gesù, il nostro amore diventa sacerdotale; partecipando all‟ufficio profetico di
Gesù, la nostra speranza diventa profetica; partecipando alla regalità di Gesù, la nostra giustizia diventa
regale.
Ma che cosa significa, concretamente, tutto questo?
Iniziamo dall’aspetto sacerdotale. Tutti gli uomini (credenti e non credenti) sono chiamati a vivere l‟amore
come offerta di sé, come sacrificio, come gratuità, se vogliono essere felici. Ma, nel battesimo –
immergendoci nel sacerdozio di Cristo, partecipando, prendendo parte al suo ufficio sacerdotale – riceviamo
il dono del sacerdozio: che ci aiuta a vivere l‟amore come offerta di noi stessi, come sacrificio, come
gratuità.
Nella GMG del 2000, Giovanni Paolo II incitava i giovani con parole che sono rimaste famose: (*) “è Gesù
che cercate quando sognate la felicità”. Possiamo parafrasare: è il sacerdozio di Gesù che vivete…, quando
amate in Lui, con Lui, come Lui vostro marito, vostra moglie, i vostri amici, le sorelle della vostra comunità
religiosa, i vostri confratelli sacerdoti, i vostri parrocchiani…, è il sacerdozio di Gesù che vivete quando
sapete amare fino in fondo, nel dono di voi stessi, nella gratuità.
E questo comporta, qualche volta, sì, sacrificio. Nella scheda di lavoro n.2, in relazione al tema: La
parrocchia, popolo sacerdotale, troverete il riferimento a Rom, 12, 1-2: “vi esorto a offrire i vostri corpi
come sacrificio vivente”. Sì, ma il sacrificio è la strada, non la meta: la meta è la felicità. Il desiderio di una
vita felice. È il sacerdozio di Gesù che cercate, quando cercate la felicità…
E, poi, secondo aspetto: vivere la speranza, essere profeti.
Tutti gli uomini (anche i non credenti( sono chiamati a vivere la speranza, a vivere controcorrente, a non
accontentarsi del presente, a credere che domani può essere migliore di oggi. Perché se non sono capace di
lottare per un mondo migliore, se non sono capace di sperarlo, sognarlo, non sarò mai felice.
Nel battesimo – immergendoci in Cristo/profeta, partecipando, prendendo parte al suo ufficio profetico –
riceviamo il dono della profezia: che ci aiuta a vivere la speranza, come tensione verso il bene e verso il
meglio. È la profezia di Gesù che viviamo…, quando “forti nella fede e nella speranza, mettiamo a profitto il
tempo presente” (LG, 35). È la profezia di Gesù che viviamo quando “viviamo con pazienza la nostra
speranza, nelle contraddizioni dell'epoca presente” (Cfl, 14). È la profezia di Gesù che viviamo quando
abbiamo “il coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza speranza”, quando,
la “sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa, nonostante tutto, canto di lode” (Spe salvi, 37).
È la profezia di Gesù che cercate, quando cercate la felicità…
E, infine, vivere la giustizia, vivere la regalità.
Tutti gli uomini sono chiamati a lottare per la dignità e la libertà di ogni persona, a costruire un mondo più
giusto. Perché senza dignità e giustizia non c‟è felicità. Nel battesimo – immergendoci in Cristo/Re,
partecipando, prendendo parte al suo ufficio regale – riceviamo il dono della regalità: che ci aiuta a vivere e
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cercare la giustizia, come un lavoro nel Regno, per il Regno di Dio. È la regalità di Gesù che viviamo
quando “ci aiutiamo a vicenda”, quando lavoriamo “affinché il mondo (…) raggiunga più efficacemente il
suo fine nella giustizia e nella pace”, quando lottiamo con e per “tutti gli uomini senza eccezione” (LG 36).
(*) È la regalità di Gesù che viviamo quando “mettendo insieme le forze, risaniamo le istituzioni e le
condizioni del mondo”, facendo attenzione “soprattutto ai più piccoli”, ai più deboli, ai più poveri (Cfl 14). È
la regalità di Gesù che cercate, quando cercate la felicità…
E quindi… essere sacerdoti, profeti e re… non è altro rispetto a vivere l‟amore, la speranza e la giustizia. È
semplicemente… viverli fino in fondo
Questo perché il Cristianesimo è radicalizzazione e senso dell‟umano: non sradicamento dell‟umano (la già
citata Nota della Conferenza episcopale pugliese dice: “Dio non è nemico dell‟uomo”).
Perché il cristiano non è più uomo degli altri. Semplicemente è uomo fino in fondo: nell‟Uomo/Dio.
E questo mi consente di passare alla terza parte.
3) A SERVIZIO DEL VANGELO
Dalla Parola al silenzio: la testimonianza della vita
Mi piacerebbe fermarmi di più su questo punto, ma credo che qualche cenno possa essere sufficiente. La
testimonianza. Ce lo diciamo, ce lo ripetiamo: il nostro tempo non ha bisogno di gente che parla, ma di
testimoni. Lo sappiamo: ma, concretamente, poi, che cosa significa questo?
Significa innanzitutto umiltà. Perché se noi battezzati, ci presentiamo agli altri come più bravi, più uomini,
più giusti…, non dialogheremo mai. L‟orizzonte comune è già perso, nel nome del “di più”. Il Cristianesimo
non ci insegna a pensare un „altro‟ orizzonte, ma – questo „stesso‟ orizzonte – ci invita ad amarlo.
“Un amico, laico, non credente – scrive Mons. Paglia – mi diceva la fede consiste nell‟innamorarsi di Dio.
Capisco allora la mia posizione di non credente: sono uno che non si è innamorato”.
Un cristiano è uno che si è innamorato.
“La nostra vocazione (…) deriva da una relazione vitale con Cristo, da un innamoramento per il Figlio di Dio
e i suoi fratelli” (scrive don Giuseppe Satriano: cfr. Libro del sinodo, p. 352).
Il cristiano, allora, è uno che si è innamorato e che ama non solo se stesso, gli altri, le istituzioni, ma ama
anche Qualcuno, da cui si è fatto coinvolgere. E, certo, questo rende tutto diverso. Ontologicamente diverso.
Così come il fatto di scoprirsi innamorati cambia tutto. E nulla è più come prima.
E cammini per strada, con il tuo segreto; e le vetrine, i marciappiedi, il posto di lavoro, le persone solite, tutto
è diverso. Perché dappertutto vedi i „suoi‟ occhi. E in tutti i silenzi risuonano le „sue‟ parole.
Questo siamo noi, non solo laici…, ma christi-fideles laici; direi di più: christi-amantes laici.
Persone che, nel vivere con e per gli altri, come gli altri portano, silenzioso come il segreto degli amanti, il
sorriso della propria storia. …Pienamente felice. Pienamente realizzata.
Provocazione… per quello stesso sorriso, per quello stesso segreto: gridato senza voce anche nelle situazioni
più assurde, anche là dove non dovrebbe essere gridato. Provocazione silenziosa.
Purtroppo, alle volte, invece, provocazione urlata. Purtroppo. Soprattutto, forse, là dove sarebbe più
opportuno il silenzio.
“Adorate Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi; …con dolcezza e rispetto” (1Pt 3,15-16). Lasciamo che i profeti del nichilismo vadano nelle
piazze a gridare il loro annuncio della morte di Dio! Non è questa la profezia a cui siamo chiamati noi
battezzati.
Il servizio del Vangelo, il servizio della Parola, forse, oggi più che mai, va fatto innanzitutto senza parole.
Sale. Lievito. Seme. Il silenzio dell‟invisibile.
Da cui traspare la luce. …dagli occhi. Ma sempre umilmente, silente. Saranno gli altri, se saremo veramente
ciò che siamo, a chiederci ragione di quella sovrabbondanza che trabocca …più dell‟etica; e più di quanto
gli amori umani riescano umanamente a fare.
Saranno gli altri a chiederci ragione delle nostre scelte vocazionali radicali.
Saranno gli altri a chiederci ragione dei pomeriggi che „sprechiamo‟ in parrocchia, a servizio dell‟educazione
di ragazzi che tra qualche anno perderemo, perché le statistiche non sbagliano e dopo la Cresima se ne
andranno. E lo sappiamo e lo temiamo. Ma rimaniamo comunque lì. A consumare il nostro tempo con loro.
Saranno gli altri a chiederci ragione delle nottate passate in adorazione, o nel servizio, invece che nel caldo
di casa. E risponderemo, allora, come una ragazza che mostra il suo primo anello, nascosto per pudore: è la
mia fede. Nuzialità. Ci tornerò nelle ultime battute.
Siamo nel „cuore‟ del nostro discorso.
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Uno degli obiettivi di questo vostro convegno – a partire dal riconoscimento della centralità della persona e
dell‟importanza della Parrocchia (cfr. quanto dice anche Mons. Talucci, Libro del Sinodo, p. 14) – era
riflettere su alcuni ambiti del vostro sinodo diocesano: in particolare vita sacerdotale e consacrata, e fedeli
laici.
Fin qui abbiamo visto quello che ci accomuna. Forse possiamo provare a dire ora anche qualcosa su ciò che
ci distingue. Perché indubbiamente siamo tutti sacerdoti, re e profeti, nel battesimo, ma ognuno con un
accento e una sfumatura particolare.
Un‟immagine che mi piace molto, su cui mi sono soffermata durante il convegno regionale dello scorso anno
e che vorrei riproporvi è quella dell‟arcobaleno.
San Basilio applicava questa immagine alla Santissima Trinità: un unico Dio, ma tre persone diverse.
“Ti è già capitato di osservare in primavera lo splendore dell‟arcobaleno?” (scrive San Basilio) “Ora questo
splendore è sia continuo, al suo interno, sia distinto. Infatti, avendo molti colori, li mescola, come fiori
variopinti, celando ai nostri occhi l‟incontro tra l‟uno e l‟altro”. Così è per il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo
– conclude San Basilio. Così – mi possiamo dire, per analogia – per la Chiesa: de Trinitate. Immagine Sua.
Perché “l‟essenza che fa brillare lo splendore policromo è una sola, quella riflessa dal raggio del sole”. E una
è la Chiesa. E una è la sua santità, luce da luce, per tutti, uguale, dalla comune fonte battesimale, sorgente del
nostro essere tutti figli, tutti fratelli, tutti re, profeti, sacerdoti. E una è anche la laicità della Chiesa:
dall‟unico Dio, per l‟unico mondo. “Ma il colore dell‟arcobaleno ha molti aspetti”. Tanti quante sono le
vocazioni nella Chiesa. Tutte di pari dignità, ma ognuna con la sua „indole‟ e il suo colore specifico. Tanto
che se mancasse il rosso, non sarebbe arcobaleno. Ma nemmeno se mancasse il viola.
Questo significa che le vocazioni nella Chiesa sono sempre legate tra loro. Vita sacerdotale, vita religiosa e
vita laicale insieme stanno e insieme cadono. E non sono sostituibili.
La nostra forza è nell‟unità. E nella ricchezza della differenza.
Tutti insieme: uniti e diversi: perché la clericalizzazione dei laici, la laicizzazione del clero, la diminuizione
delle vocazioni religiose… non è solo un problema ecclesiale o pastorale, ma è innanzitutto un affronto alla
fantasia della Trinità.
E non si risolve, quindi, solo stabilendo dei „ruoli‟ né solo calibrando le presenze e le assenze nei consigli
pastorali, nei luoghi decisionali, nelle eventuali pretese responsabilità o dalle eventuali pretese di de
responsabilità.
Ma si comprende e si invera solo radicalizzando, insieme, ciò che accomuna e ciò che distingue. E
riscoprendone l‟origine.
La Nota dei nostri vescovi al n. 21 dice: “raccomandiamo a tutti di respingere la tentazione di mortificare la
bellezza della comunione ecclesiale con forme inaccettabili di autoreferenzialità e di contrapposizione, di
clericalizzazione dei laici e laicizzazione dei preti”.
E questo credo sia sufficiente su ciò che accomuna e distingue. Ma resta la domanda. Qual è il colore di
ciascuno di noi? Dove le sfumature specifiche di differenza?
Torniamo alle nostre parole chiave:
Amore
sacerdozio
Speranza
profezia
Giustizia
regalità
La prima colonna ci indica l‟umano, che abbiamo delineato con Ricoeur. La seconda colonna ci indica i
nomi e le prospettive che questo umano assume, nella logica cristiana. Ma possiamo aggiungere un‟altra
colonna, per indicare gli aspetti che i diversi stati di vita sono chiamati ad accentuare.
Amore
sacerdozio
sacerdozio ministeriale
Speranza
profezia
vita consacrata
Giustizia
regalità
laicalità
Il sacerdozio ministeriale distingue – chi lo vive – dagli altri battezzati: ma ricorda a tutti l‟importanza del
sacerdozio comune. La scelta di speciale consacrazione „consacra‟ alcuni stili di vita, ma ricorda a tutti che
per essere cristiani fino in fondo è necessario la profezia della poesia: lo spazio del silenzio e della rinuncia,
la tensione verso l‟Oltre.
La scelta della laicalità, invece, pone maggiormente l‟accento sulla parola, sulla presenza: e ricorda a tutti
che siamo uomini e donne, e non angeli: perché il Signore ci ha voluti così.
Mai, però, i tre aspetti sono totalmente separati, né nella vita e nelle scelte dei singoli (perché non esiste mai
una vita tutta e solo sacerdotale, o tutta e solo profetica, o tutta e solo regale).
E anche nella scelta laicale, nell‟eros che „parla‟, nel lavoro che „crea‟, nell‟utopia che „progetta‟ c'è sempre
lo sfondo e il fondamento del bianco, del silenzio, del non detto e non dicibile.
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E, d‟altro canto, anche la castità che non dice, la povertà che non serve, l‟obbedienza che non realizza… è e
trova senso solo nella logica del „segno‟: profezia di Parola, per la Parola e per le parole.
E questo non significa che i laici devono diventare monaci; o che i presbiteri e i consacrati devono vivere
quelle dimensioni dell‟amore/eros che sono proprie di una coppia, o che debbano vivere quell‟uso del denaro
e dell‟autodeterminazione che è proprio di chi costruisce l‟autonomia (e si costituisce nell‟autonomia) del
proprio spazio familiare. Significa solo che ognuno di noi pone l'accento su qualcosa che tutti siamo e
dovremmo essere e scegliere.
Come una poesia o una musica in cui… chi sceglie la „laicalità‟ pone l‟accento sulla parola, sulla melodia; e
vive il silenzio come il sottofondo che rende possibile tutte le presenze. Chi sceglie la vita sacerdotale o
religiosa, invece, sceglie il silenzio; e vive le melodie e le parole come ciò per cui ha senso e può avere senso
anche una scelta come quella del silenzio.
Se vogliamo, un albero con una doppia radice; un arcobaleno dal doppio sostegno: che da un lato si radica
nella terra e dall‟altro affonda le radici nel cielo. Nella logica dell‟incarnazione. Una Chiesa né solo celeste
né solo terrena, ma umano/divina. Là dove la vocazione secolare (propria dei laici) ricorda a chi radicalizza il
cielo (e in generale a tutta la Chiesa), che esiste anche la terra; e per la terra il Cielo si è fatto carne. E la
vocazione alla vita sacerdotale o consacrata ricorda a chi radicalizza la terra (e ricorda a tutta la Chiesa) che
esiste anche il Cielo; e grazie al Celeste esiste il Terreno; e al Cielo tende anche la Terra.
E quante sfumature in questo arcobaleno… che non ha certo solo tre colori! Pensiamo ai monaci, o ai
sacerdoti che sono anche religiosi, o ai laici che sono anche consacrati. Ma ogni sfumatura è chiamata a
cercare la propria misura. In ogni caso. La propria armonia.
Mi dispiace dirlo, ma quante volte noi persone più impegnate per e nella Chiesa (e qui tutti, laici, preti e
consacrati) siamo così occupati da non aver tempo per noi stessi e per i nostri „tu‟ (che tutti abbiamo e
dobbiamo avere, per essere pienamente uomini e pienamente cristiani)? …E i nostri gruppi e le nostre
Parrocchie diventano inevitabilmente immagine di ciò che siamo: come direbbe F. De Giorgi (cfr. Il brutto
anatroccolo), tra cultualismo vuoto e attivismo cieco!
Non credo sia questa la spiritualità che desideriamo, cerchiamo, per la nostra Chiesa, per le nostre
parrocchie.
Ecco perché invece lo stare insieme, il vivere insieme… con i nostri diversi carismi, con le nostre diverse
vocazioni, in parrocchia è importante. Perché, nell‟unità variegata dell‟arcobaleno, ognuno può aiutare l‟altro
a vedere sia ciò che è, sia ciò che non ha.
L‟occhio non vede se stesso. Ha bisogno che gli altri lo guardino, per conoscere il proprio colore.
Vedendo il presbitero (e il suo sacerdozio ministeriale), posso capire il mio sacerdozio battesimale; ma io
posso aiutare il presbitero… a non dimenticare l‟importanza del mondo, della terra, delle relazioni con gli
altri. Non si tratta di compensarci a vicenda, ma di specchiarci gli uni negli altri: scoprendo nell‟altro – come
dicevamo all‟inizio – una parte di me…, da riconoscere e valorizzare, per il suo e il mio bene.
Ecco, allora, perché „la parrocchia‟: perché è il luogo in cui nella condivisione concreta della vita, della
liturgia, della catechesi, le diversità si conoscono e si vengono incontro. La parrocchia come un microcosmo, un micro-mondo, in cui l‟universalità dei popoli e la cattolicità della chiesa trova la sua espressione
più particolare. E può veramente diventare laboratorio di incontro ed esperienza di servizio… del vangelo…
per il vangelo.
Per riprendere un‟espressione dell‟Introduzione al Liber Synodalis di Mons. Talucci, (p. 9): “piccola
comunità che cammina con un cuor solo e un anima sola”.
E con questo sono già dentro l‟ultimo punto. Che svolgerò lavorando intorno ad alcune metafore (il mosaico,
il ponte, la sposa).
3) NELLA PARROCCHIA
Sono metafore che ho già adoperato nella relazione per il Convegno regionale sui laici, ma in questo caso
vorrei provare ad applicare alle nostre realtà parrocchiali.
Con l‟immagine del mosaico (ed in particolare dei mosaici della cripta di San Pio) si conclude anche la Nota
della Conferenza episcopale pugliese, dopo il III convegno ecclesiale: “alzate lo sguardo alle migliaia di
piccole tessere ben allineate che creano un armonia di colori. Pietre diverse, nessuna più importante
dell‟altra, ognuna con la sua bellezza e collocata al giusto posto, ma tutte necessarie alla realizzazione del
progetto dell‟artista. (…) Non è difficile scoprire su quelle tessere la nostra identità di „pietre vive‟, scolpite
dello Spirito di Dio, ciascuna con la sua bellezza e con una vocazione specifica, tutte importanti nel progetto
di Dio, per formare il volto radioso della Chiesa”.
Pietre vive, tutte diverse. Ognuna con la sua collocazione precisa.
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Qualcuno è chiamto a diventare vescovo o sacerdote o consacrato; qualcuno a vivere la vocazione laicale.
Ma, all‟interno di queste grandi possibilità di vita, resta il fatto che ognuno di noi è diverso dall‟altro; restano
le vocazioni particolari di ciascuno di noi.
Eppure, non dobbiamo nascondercelo, tutti noi abbiamo un modello vocazione in testa, da cui difficilmente
riusciamo a liberarci.
L‟anno scorso parlavo del modello ideale di laico: ovvero colui il quale incarna il trinomio
catechesi/liturgia/vita, che „celebra‟ la Domenica, che „partecipa‟ alla catechesi (magari sia a quella della
Comunità parrocchiale che a quella della propria associazione o movimento), e poi „vive‟ nella famiglia, nel
lavoro, nella società ciò che ha appreso nella catechesi e ciò che è in quanto cristiano. E poi lo annuncia, se
non con le parole, almeno con la testimonianza. E magari poi anche si rende presente nei vari servizi per la
Parrocchia (e per l‟associazione di cui fa parte); e poi magari anche è anche impegnato nel volontariato o nel
sociale. E magari fa parte anche del Consiglio pastorale parrocchiale, o vicariale o diocesano. E contribuisce
corresponsabilmente alle decisioni e alla crescita della comunità.
Questo è il laico che viene „richiesto‟ nelle Parrocchie, nelle Associazioni e nei Movimenti. E non meno di
questo. …Altrimenti già iniziamo a sembrare dei laici di serie B.
Ma possiamo dire che non abbiamo solo un modello di laico in testa: a maggior ragione abbiamo un modello
di presbitero: è quello che coordina il trinomio catechesi/liturgia/vita, che amministra i sacramenti, che guida
la catechesi (e magari tutte le catechesi dei vari gruppi: dei giovani, degli adulti, della terza età, dell‟AC, del
gruppo Santa Rita, Padre Pio, e di tutti i movimenti della parrocchia…); quello capace di condividere le
necessità delle famiglie, di essere amico dei giovani; di andare a dare a visitare gli ultimi, gli ammalati, i
carcerati. Uno che non si lava le mani quando c‟è da prendere posizione rispetto alle dinamiche sociali, un
sacerdote con la tuta da lavoro (per dirla con Don Tonino Bello) e non solo con la stola. Uno che sappia
organizzare i vari gruppi e i vari servizi della Parrocchia, che si fermi in oratorio a giocare con i bambini
(oltre che a preoccuparsi dell‟IC) e che magari qualche volta esca la sera con i giovanissimi. Che sappia far
funzionare il consiglio parrocchiale e ascoltare tutti, ma che sia anche un uomo di preghiera, di molta
preghiera. E magari anche lui… impegnato nel consiglio vicariale o diocesano, o in curia…
Possiamo sorridere, ma anche in questo caso è così. Questo è il sacerdote che vogliamo nelle nostre
parrocchie. Altrimenti già per noi non è un bravo sacerdote.
E vogliamo parlare del modello ideale di vita consacrata che abbiamo in testa? Normalmente pensiamo ad
una suora… Con le sue 24 ore divise bene in tempi di preghiera e servizio. La preghiera (meno male che ci
sono le suore che pregano e adorano il santissimo…, se no chi lo fa? Allora tocca a loro!)… Ma poi se c‟è
una comunità sul territorio parrocchiale, allora, ecco la nostra suora ideale che fa la catechesi ai bambini, e
poi si impegna in base al carisma del proprio istituto, con orfani, poveri, ammalati e sfortunati (se no, a che
serve la sua consacrazione?); e poi non deve essere troppo chiusa in Comunità… (deve girare per le case,
dove c‟è bisogno), ma non deve nemmeno girare troppo…, altrimenti non va bene. E poi deve fare
formazione, per sé e per gli altri. E poi… ecco anche lei impegnata a vari livelli nel proprio istituto:
regionale, nazionale, internazionale… E contemporaneamente ai vari livelli della chiesa locale: parrocchia,
diocesi, curia, ecc.
E poi ci lamentiamo che non ci sono vocazioni alla vita consacrata. Le poche giovani che ci sono…
pretendiamo che siano così… e che facciano tutto… e le facciamo scoppiare.
Ma lo stesso vale per il modello ideale di prete e di laico. È chiaro che un prete così, un laico così che faccia
tutto così, non esiste. Altrimenti sarebbe un marziano o una persona „squartata‟ tra mille impegni.
Perché il primo modello è dato dalla totalità delle pietre che compongono il laicato.
Il secondo modello è dato dalla totalità delle pietre che compongono il presbiterato.
Il terzo modello è dato dalla totalità delle pietre che compongono la vita delle religiose (e dovremmo
aggiungere monaci, frati, istituti secolari, consacrazioni laicali…, ma non ho tempo di farlo: sarebbe facile
però mostrare che anche rispetto a questi… abbiamo dei modelli idealizzanti: che tendono a pensare che tutti
debbano fare tutto…).
Invece mentre ognuno di noi, con le sue forze e limiti, con la sua vocazione, è chiamato a vivere solo un
aspetto di questo ideale (forse due o tre). Viceversa non avremmo la ricchezza dei colori, che reggono la
comunione dei carismi e delle specificità.
E, allora, è sicuramente vero, come leggiamo nella Nota dei nostri vescovi, che modello di laico è
l‟Onorevole Aldo Moro, “che ha saputo compiere un‟armonica sintesi tra i suoi doveri di padre e di marito
(…), la ricerca accademica, la capacità educativa (…), e il delicatissimo ruolo politico e istituzionale: una
testimonianza esemplare ed eroica fino al dono della vita”
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Ma modello è anche Serafina, che per tre volte ha scoperto che suo marito la tradisce e per tre volte l‟ha
perdonato e riaccolto in casa; e ha due bambini piccoli, e non riesce ad andare in Parrocchia per la Catechesi;
ma si alza la mattina presto, di Domenica, per non saltare la Messa; e il parroco a mala pena conosce il suo
nome; ma per chi la conosce è esempio di amore senza misura.
Ed è vero, come leggiamo nella Nota della CEP, che modello di laico è il prof. Giovanni Modugno, “che
ebbe il coraggio di opporsi in modo non violento al regime fascista, rinunciando a tutti i riconoscimenti
accademici e politici, per dedicare le sue energie alla sua (…) vocazione di educatore delle nuove
generazioni…”.
Ma sono laici modello anche Mario (che adora sua figlia) e sua moglie Michela: Michela che ha rinunciato al
suo lavoro e alla sua vita personale, per dedicarsi totalmente a Sandra, affetta da una grave forma di
handicap; e insieme tutti e tre vanno a Messa la Domenica; e vivono una struggente nostalgia d‟amore, nel
ricordo di quando erano giovani e potevano partecipare alle catechesi in Parrocchia, e dare una mano al
Parroco. E ora non più. Ma i loro occhi ripieni di un amore più grande sono una testimonianza più grande,
per chiunque li incontra.
E lo stesso potremmo dire per la vita sacerdotale e consacrata.
Modello è don Luca, che è professore di teologia e assistente nazionale di un importante movimento
giovanile. Ma modello è anche don Carlo, che ha 92 anni e fa da viceparroco, perché nessuno può aiutare il
„suo‟ parroco. E si prepara la sua sobria omelia per iscritto…, chiedendo ogni volta consiglio ai
parrocchiani… per migliorarla.
Modello è don Luigi che accoglie nella sua Parrocchia tutte le associazioni e i movimenti, valorizzandoli
nella loro ricca molteplicità. Ma modello è anche don Franco che in parrocchia non lo trovi mai, ma quando
hai bisogno di lui c‟è sempre.
Modello è suor Angela, che conoscono tutti, perché è una trascinatrice e sa organizzare perfettamente eventi,
catechesi, liturgie. Ma modello è anche Costantina, che …. non è una suora. Ha scelto un istituto secolare. E
nessuno sa che ha consacrato la vita a Gesù. E non „fa‟ niente, se non essere sale e luce lì dove si trova ad
essere.
E potrei continuare. Potremmo continuare. Perché di queste pietre, stupende, ognuno di noi ne conosce
un‟infinità.
Leggiamo nella Nota dei nostri vescovi: “pietre di scarto, splendenti di luce”… che nel Libro dell‟amore (…)
trovano la forza di vincere ogni forma di inverno…”
Che cosa significa, questo? Che l‟appartenenza alla Chiesa è singolare e dunque sarebbe meglio che ognuno
si limitasse a seguire la sua singolare vocazione, a mettere la propria singola pietra al proprio singolo posto,
senza preoccuparsi di modelli e ideali?
Ovviamente no. Sarebbe esattamente il contrario di quello che dicevo prima: nessuno di noi è un‟isola.
Abbiamo bisogno gli uni degli altri, abbiamo bisogno di stare insieme, di vivere il „con‟…, di lasciare
incontrare le nostre singole responsabilità… per farle diventare co-responsabilità; di lasciar incontrare le
nostre singole vocazioni per farle diventare Chiesa.
Sì, ma come?
Forse può esserci d‟aiuto ancora la metafora del mosaico. Può esserci d‟aiuto se ragioniamo sulle „figure‟.
Che cosa accade nelle figure?
Che pietre „simili‟ (cioè con vocazioni simili…) si mettano insieme.
Questo accade nella Chiesa: nei diversi istituti religiosi (persone attratte da uno stesso carisma si ritrovano
insieme); nella comunione presbiterale (che, intorno al vescovo, tiene insieme le diverse pietre dei diversi
presbiteri), nei gruppi, nelle associazioni e nei movimenti laicali.
Per esempio, nella catechesi per l‟iniziazione cristiana, ritroviamo pietre simili, che sono bambini della stessa
età, con bisogni e desideri simili. Indubbiamente più simili rispetto a quelli di persone più grandi di loro.
Oppure, per es., in un gruppo Caritas in parrocchia, è probabile che si ritrovino a fare quel servizio persone
simili, che hanno questo stesso desiderio (fare un servizio caritativo per la Chiesa). E se queste persone le
mettessimo a fare i catechisti o i lettori o altro, non si sentirebbero al loro posto.
E questa è la bellezza delle articolazioni particolari della chiesa. Però non dobbiamo nasconderci i rischi dei
gruppi, delle figure. Primo fra tutti: dimenticare i singoli per valorizzare le figure; pensare che essenziale sia
la figura e non le pietre che la compongono.
Pensiamo alla Parrocchia: lavorare perché funzioni il gruppo, perché funzioni la catechesi, perché funzioni la
liturgia, perché funzioni quel particolare servizio caritativo, e trattare poi i singoli semplicemente come
„frammenti‟, come ruote di ingranaggio di quel particolare servizio.
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Qui la metafora del mosaico può ancora tornare utile. Non esiste „prima‟ il pane, la mano, il panno e poi le
pietre. Esistono le pietre che insieme compongono il pane, la mano, il panno.
Troppe volte le parrocchie, i gruppi, gli istituti, le associazioni, si ritrovano a trattare le persone come mezzi
per portare avanti la struttura stessa. E quanto tempo sprecato, diciamoci la verità, soprattutto dai
responsabili, per organizzare la formazione, la catechesi, il momento di preghiera, i dettagli della
celebrazione liturgica! Quanto tempo impiegato per fare in modo che tutto funzioni! Ma poi magari non
abbiamo tempo di stare con le persone.
E poi un secondo rischio: lo chiamerei: „la chiesa siamo noi‟. Un po‟ quello che dicevo prima con
l‟immagine dei laici di serie B. Il rischio di noi „bravi‟, che stiamo in parrocchia, che ci diamo da fare nei
diversi servizi. Il rischio di pensare che noi siamo i bravi, quelli di serie A. Mentre tutti quelli che stanno
fuori, che non vengono parrocchia, loro non sono bravi!
Noi siamo la Chiesa. Mentre „loro‟, magari persone modello, magari migliori di noi, loro non sono Chiesa,
perché non frequentano la Parrocchia… „come‟ noi.
E questo sulla metafora del mosaico.
Spostiamoci ora sulla metafora del ponte.
I laici sono gli uomini del ponte diceva Paolo VI. È un‟immagine che mi piace molto, su cui ho lavorato
nche durante il Convegno regionale. Sull‟espressione di Paolo IV richiamava la vostra attenzione, durante il
vostro Sindodo, anche il vicario episcopale per il laicato [cfr. A. Diviggiano, Libro del sinodo, p. 247].
E la metafora del ponte viene ripresa lungamente nella Nota dei nostri vescovi, soprattutto nel Cap. IV.
Dunque: i battezzati sono dei chiamati ad essere dei ponti.
Ma potremmo anche dire che le parrocchie, i gruppi, le associazioni sono, dovrebbero essere, dei ponti.
Innanzitutto ponti tra Dio e Mondo, tra i „singoli‟ e il Signore. Ma, in secondo luogo, ponti in quanto luoghi
di unione e comunione. Il ponte è chiamato ad unire due sponde. Così le parrocchie, i gruppi, le
associazioni… sono chiamati ad essere …modelli della chiesa-comunione, modelli di cor-responsabilità,
segni che l‟essere-con, lo stare insieme, il condividere un sogno, una missione, un apostolato, un carisma, il
camminare insieme della Chiesa è possibile; segni della bellezza della Chiesa-comunione.
Ma anche in questo caso vorrei sottolineare alcuni possibili rischi del „con‟ delle nostre comunità.
Il primo lo direi così: „tenere sul ponte‟. La metafora ci aiuta. Un ponte serve per portare le persone al di là;
non per metterci le tende. La struttura parrocchiale, l‟organizzazione in gruppi di catechesi o di servizio è
mezzo e non un fine. Ma anche in questo caso dobbiamo essere sinceri: come è difficile questo! Proprio
perché stiamo bene insieme… (i bambini tra loro, i giovani tra loro, nella caritas tra loro, nell‟AC tra loro,
nel CVS tra noi, presbiteri tra loro, laici tra loro, consacrati tra loro…) tendiamo a „stare‟… e non a
muoverci.
E invece dovremmo muoverci! Da un lato vivendo la nostra testimonianza tra quelli che forse hanno bisogno
del nostro sguardo per uscire dal loro isolamento (le pietre simili a noi, che sono fuori delle mura della
parrocchia e che magari non sanno nemmeno che c‟è un gruppo, un servizio, una possibilita‟, un „con‟…
anche per loro). Dall‟altro lato portando oltre di noi: portando verso il Signore. E anche oltre la Parrocchia.
Verso la Diocesi. Verso la Chiesa universale.
Ma no: noi stiamo bene e ci fermiamo sul ponte. È un primo grande rischio. Ma poi ce n‟è un altro, ancora
più tragico. Lo indico con il titolo di un quadro di De Chirico: Battaglia sul ponte. Nell‟immagine c‟è un
ponte e sul ponte ci sono degli „omini‟ neri, con dei cavalli, che si fanno guerra tra loro. Homo homini lupus,
diceva Hobbes. Su questo ponte la relazione diviene anti-relazione. Sono con l‟altro (sul ponte), ma in realtà
sono contro l‟altro. Ecco allora il rischio: invece di essere degli splendidi modelli di comunione, i nostri
ponticelli, i nostri gruppettini, le nostre parrocchiucce diventano degli Anti-modelli; dei luoghi di battaglia
per chi deve avere il primo posto, per chi deve avere le cariche, per chi deve fare le cose. Delle elite nel
senso peggiore del termine. Realtà isolate, settarie e anche divise all‟interno. Credo che purtroppo tutti noi
facciamo esperienza di questi rischi: che è l‟esperienza dei nostri limiti.
(*) Forse ci aiuterebbe pensarci meno solidamente necessari; strumenti fragili e non assoluti. Ponticelli
fragili e non fissi: pronti ad aprirsi se serve, quando serve, per far passare chi ha bisogno; ma poi pronti a
richiudersi, se non servono. Sicuramenti ponti su cui non si può bivaccare; ponti da attraversare…
E, infine, spostandomi sulla terza immagine, dopo la chiesa-mosaico e la chiesa-ponte, veniamo alla chiesasposa. La Chiesa, anche nella sua dimensione parrocchiale, come sponsa verbi.
È un‟immagine che amo particolarmente e di cui vorrei sottolineare brevemente quattro sfumature
1) L‟appartenenza
2) La corresponsabilità
3) La sacramentalità
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4) L‟universalità
(1) L‟appartenenza della sposalità. Credo sia bello oltre che utile ripensare l‟appartenenza, l‟appartenenza
alla Chiesa e della Chiesa a Cristo in maniera sponsale. È l‟appartenenza di due amanti che si dicono: “ti
appartengo, mi appartieni”. Non è l‟appartenenza di un elemento ad una specie, o di un oggetto al suo
possessore. È l‟appartenenza come nuzialità: e la nuzialità come dualità dell‟amore, cioè come
un‟appartenenza totale e insieme totalmente libera. Pensiamo come sarebbe bello dire: appartengo alla
Parrocchia Buon Pastore… in questo senso, con questa sfumatura sponsale…
Sarebbe bello perché (e vengo al secondo passaggio), ci costringerebbe a ripensare completamente anche la
nostra idea di (2) corresponsabilità. Soprattutto se rileggiamo questa corresponsabilità sponsale a partire
dalla sua icona più trasparente, cioè Maria. Maria: donna della corresponsabilità: sì. Ma di una
corresponsabilità tutta particolare: non fatta di ruoli da dividere, di spazi di co-potere o di co-decisione, di
luoghi da difendere o conquistare, da laicismi e clericalismi o commistioni di genere, non fatta solo di
Consigli e Partecipazioni in prima linea. Donna di una responsabilità fatta di risposta: di un essere secondi e
non primi. Una responsabilità di servizio e non di gestione, dell‟eccomi di chi serve e loda; e non dell‟ecco di
chi si impone e protesta. Una re-sponsabilità sponsale, del „sì‟. Che forse è quella che più ci manca. E quella
di cui più abbiamo bisogno. Perché lo stesso mistero che unisce il Re alla Sposa, mistero di unità e diversità
– possa essere il nostro. Osando estendere l‟immagine: una re-sponsabilità sponsale anche tra laici,
presbiteri, religiosi; e tra le nostre Parrocchie tra loro.
(3) Ma qual è la radice sacramentale di questa sponsalità? Non il Matrimonio o l‟Ordine sacro, ma il
battesimo. Nel battesimo non solo diventiamo popolo di Dio, ma credo che possiamo dire, in una logica più
mistica che dogmatica, nel battesimo diventiamo „sposi‟. Ogni anima è – misteriosamente – Sponsa verbi.
(*) Ad ognuna delle nostre esistenze, il Signore ripete, come alla sposa del Cantico: “Alzati, amica mia, mia
bella, e vieni!” Ogni storia, ogni vita è una vita scelta, amata, sposata: in Cristo. Da Cristo.
Mi piacerebbe molto approfondire questo aspetto. Non posso farlo. Ma capiamo bene che questo (4) ci offre
anche la dimensione veramente universale dell‟appartenenza sponsale. Non esiste persona, per quanto sola,
abbandonata, dimezzata… che non sia scelta, amata, sposata, nella Chiesa, da Cristo.
Questo è un tema che mi vede molto sensibile. Ho timore di quelle letture sponsali che fanno in maniera
assolutistica della Chiesa o della Parrocchia una famiglia di famiglie, e prendono come modello ideale
assoluto di laicità la coppia.
Se così fosse, non apparterrebbero altrettanto radicalmente, sponsalmente alla Chiesa proprio gli ultimi che
una famiglia non la hanno e forse non l‟avranno mai; che un partner con cui vivere la dualità non lo hanno e
non lo avranno mai. Quegli ultimi che, se la Chiesa fosse fatta solo di coniugi, preti e suore, potrebbero
sentirsi una Chiesa di serie B. E invece no. Perché tutti siamo e siamo chiamati ad essere, anche se
diversamente, persone nuziali. Anche chi sacramentalmente non vivrà mai la nuzialità del Matrimonio o
dell‟Ordine sacro o della Vita religiosa.
Su questa scia mi sembra si siano posti profeticamente Jean Vanier (fondatore dell‟Arca) e Luigi Novarese
(fondatore del CVS, che sarà dichiatato Beato l‟11 maggio 2013): sono i piccoli, i semplici, i disabili, i
malati (ma magari anche i celibi che non hanno fatto apparentemente nessuna scelta definitiva, e che si
pongono a servizio degli altri), sono i poveri che dobbiamo porre al centro della comunità, che celebra la
festa della nozze. E se sapremo fare questo, saranno loro a diventare catalizzatori e fonte d‟amore sponsale
anche per la comunità parrocchiale. Per una parrocchia comunità che, nelle diversità ministeriali e
vocazionali che ci caratterizzano (come si legge nell‟Introduzione, nel vostro Libro del sinodo, p. 39) possa
essere “segno dell‟amore di Dio per ogni uomo: comunità fraterna, tutta ministeriale e sinodale”.
Sì, ma con un‟opzione preferenziale, di Dio, proprio per chi non viene scelto da nessuno. Perché non
esistono pietre scartate dai costruttori che non possano diventare testate d‟angolo, agli occhi di un Dio come
il nostro: che sposa „tutta‟ la sua Chiesa, in ogni istante, e per sempre.
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