PROMETEO Dicembre 2008 Anna Ferraris Oliverio PROPAGANDA E PUBBLICITA’: PERSUASORI AL LAVORO Le tecniche di manipolazione vengono utilizzate sia nelle campagne commerciali che in quelle elettorali <<La nostra è la prima epoca in cui molte migliaia delle migliori menti si sono occupate a tempo pieno di analizzare la psicologia collettiva per manipolarla, sfruttarla e tenerla sotto controllo>>. E’ questa una frase famosa di Marshall McLuhan, caposcuola della Scuola di Toronto di comunicazione multimediale, autore nel 1976 del saggio La galassia Gutenberg in cui spiegava l'importanza assunta dai media nella storia dell’uomo. Prima di lui, nel 1957 il sociologo americano Vance Packard aveva già messo in guardia dai persuasori di professione: <<Vi sono degli specialisti>> spiegava nel volume I persuasori occulti <<che studiano sistematicamente le nostre segrete debolezze e vergogne nell’intento di influenzare più efficacemente il nostro comportamento>>. La presenza di manipolatori di professione non è certamente una novità, oggi però questi operatori della comunicazione appaiono assai più agguerriti di un tempo, sia per le maggiori conoscenze in ambito psicologico e comunicativo, sia per le tecniche di intervento di cui dispongono. I loro interventi sugli individui, i gruppi e le masse sono “scientifici”, sistematici. Inutile dire che l’arte della manipolazione ha origini antiche. I Sofisti greci riuscivano a dimostrare tutto e il contrario di tutto attraverso un uso scaltro e sapiente della retorica che Platone bollava come immorale. Nonostante venisse condannata, l’arte della persuasione non smise però mai di essere usata in modo strumentale in ogni epoca storica e in ambiti diversi: sentimentale, politico, commerciale. Nell’Antica Roma, ad esempio, il raggiro nel commercio era noto, tollerato e persino codificato. Nel diritto romano c’era la figura del “dolus bonus” per spiegare che una certa dose di inganno è sempre presente nelle transazioni commerciali e che, di conseguenza, gli acquirenti ne sono consapevoli (o dovrebbero esserlo), per cui l’inganno (il “dolus”) non risulta dannoso (è, quindi, “bonus”). Duemila anni fa però non si faceva ancora ricorso alle raffinate tecniche di persuasione multimediali cui si ricorre oggi su vasta scala. Sempre a Roma, ma molti secoli più tardi, per l’esattezza nel 1599, un papa, Clemente VIII, fondò la Sacra Congregatio de Propaganda Fide allo scopo di riavvicinare uomini e donne alla Chiesa e propagare la dottrina nelle missioni in terre lontane. Interrotta per alcuni anni, l’iniziativa fu poi rilanciata in forma stabile da Gregorio XV. La parola propaganda proviene dal latino; declinata al gerundio designa ciò che della fede deve essere propagato: le credenze, i misteri, le leggende dei santi, i racconti dei miracoli. Non si tratta quindi di trasmettere una conoscenza obiettiva e accessibile a tutti attraverso la ragione, ma di convertire a delle verità nascoste che promanano dalla fede e non alla ragione. I regimi dittatoriali e totalitari del Novecento hanno fatto, com’è noto, un largo uso della manipolazione e della suggestione a scopi propagandistici. Le grandi adunate naziste, sovrastate dalla voce ipnotica del fuehrer e dalla sua gestualità imperiosa, sono un documento straordinario sia pur tragico della forza della suggestione: uno stato psicologico che, create le opportune scenografie (si pensi al senso di potenza che comunicavano le adunate militari del Terzo Reich, allo stato di esaltazione provocato dalla musiche guerresche, alla sapiente sceneggiatura delle olimpiadi del ‘38…), emerge quasi automaticamente e si autoalimenta grazie al contesto in cui gli individui si trovano ad essere inseriti. Joseph Goebbels, che a fianco di Hitler gestì con successo la macchina propagandistica del Terzo Reich, sapeva che in una folla le emozioni obnubilano la mente e si diffondono per contagio. Sapeva anche come incanalarle e trasformarle, a seconda del momento, in devozione sottomessa al fuehrer oppure in rabbia e risentimento verso delle minoranze più esposte e attaccabili. D’altro canto esisteva già in quegli anni un sapere su come mescolare la fiction alla realtà per suggestionare e persuadere. Nel 1928, negli Stati Uniti, era stato pubblicato un libro di Edward Louis Bernays (americano d’adozione ma viennese di nascita) dal titolo Propaganda che associava le idee di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle a quelle di Sigmund Freud sull’inconscio. Benché televisione e internet fossero molto al di là da venire, in quel saggio Bernays intuiva lo sviluppo che le tecniche della comunicazione avrebbero avuto nel corso del XX secolo sia in campo economico che politico e militare e riportava un esempio significativo: <<Se la Cecoslovacchia ha ufficialmente acquisito lo statuto di stato indipendente il lunedì 28 ottobre 1918, non domenica 27, è perché il professor Masaryk, aveva capito che all’inizio della settimana il mondo avrebbe recepito meglio la proclamazione della libertà del suo paese. Dalla conversazione che abbiamo avuto su questa questione>> continuava Bernays <<Masaryk mi ha detto “Se cambio la data di nascita della Cecoslovacchia come nazione indipendente, confezionerò la storia per il telegrafo”. Questo aneddoto illustra il ruolo della tecnologia nella nuova propaganda. Il telegrafo fa la storia, e la data fu modificata>>. Per Bernays però l’uso della propaganda non aveva nulla di reprensibile era bensì al servizio delle “relazioni pubbliche”, di cui egli è considerato l’inventore. Altri avevano però ben chiaro, sin da allora, l’uso che si poteva fare della propaganda. Per esempio, Serge Tchakhotine, sociologo di origine russa, scrisse nel 1922 un libro dal titolo inequivocabile Lo stupro delle folle da parte della propaganda politica in cui attaccava un autore tedesco, Kurt Hesse, autore del libro Maresciallo Psicologo in cui veniva tracciato il ritratto (profetico) di un Fuehrer che attraverso la parola sapeva agire sugli animi umani e portare il popolo tedesco, umiliato dalla sconfitta, verso il riscatto e la vittoria. Nei paesi occidentali attuali i dittatori sono considerati obsoleti, un archetipo del passato, e in Europa come negli Stati Uniti, in Canada come in Australia l’unica forma di governo possibile è la democrazia. Ciò non significa però che le tecniche di persuasione e di manipolazione siano state accantonate. La verità è che se ne fa un uso continuo e martellante, assai più che in passato anche se in altre forme, con altri obiettivi e in diversi contesti. Le tecniche si sono evolute, la comunicazione è in tempo reale, lo strumento non è più il telegrafo ma il satellite. <<Le parole, signor Bond, ecco le nuove armi>> spiega un magnate della stampa a James Bond nel film Il domani non muore mai (1997) <<Cesare aveva le sue legioni, Napoleone la sua grande armata. Io ho le mie divisioni: televisioni, giornali, magazine… Da qui a mezzanotte, avrò raggiunto più persone di chiunque altro nella storia, a parte Dio!>>. Ma la comunicazione non passa solo attraverso la parole, ci sono anche le immagini (in movimento, scioccanti, seduttive, sostenute da suoni, musiche, rumori…) che rappresentano un valore aggiunto di grande impatto, sia in campo pubblicitario che propagandistico. Il cosiddetto neuromarketing deve la sua fortuna alla forza delle immagini. <<Si deve riconoscere che il pubblicitario, per certi versi, è un manipolatore di cervelli quanto un neurochirurgo, anche se i suoi attrezzi e i suoi strumenti sono diversi>> scriveva nel lontano 1957 Advertising Age la più importante rivista di pubblicità a livello mondiale. L’autore di queste righe usava la metafora del neurochirurgo come un’iperbole, nello stile esagerato tipico della pubblicità che per vincere la concorrenza deve cercare di colpire. A distanza di cinquant’anni però questo paragone non sembra più tanto iperbolico. Nel 2003 Read Montague, un neurologo che lavora a Huston, riuscì a dimostrare l’esistenza di un divario sorprendente tra gusto e vista. Invitate ad indicare ad occhi bendati una preferenza tra due bibite concorrenti, la Coca-Cola e la Pepsi, la maggior parte delle persone che si sottoposero al test si dissero più favorevoli al gusto della Pepsi che a quello della Coca-Cola. La stessa cosa però non si verificò quando quelle stesse persone non più bendate espressero nuovamente il loro parere: molti di coloro che alla prima prova avevano scelto la Pepsi, alla seconda affermarono di preferire la Coca-Cola. Montague ne dedusse che il logo della CocaCola, era più radicato di quello della Pepsi nell’immaginario dei consumatori e che la Pepsi doveva accontentarsi del secondo posto. La Coca-Cola, nata molto prima della concorrente e tramandata da una generazione all’altra, si era conquistata una “quota mente” nel cervello dei consumatori. Questa conclusione non spiega però il motivo di un divario così sorprendente tra gusto e vista. Per capirne di più Montague è ricorso ad una tecnica sino ad allora utilizzata soltanto per scopi medici (individuazione dei tumori e di lesioni cerebrali): la cosiddetta risonanza magnetica. Seguendo l’attività cerebrale dei suoi “pazienti” con l’aiuto di questa tecnologia, il professore osservò che quando una persona guarda l’immagine di un prodotto viene sollecitata una regione precisa del suo cervello caratteristica dei mammiferi: la corteccia prefrontale mediana. Mentre il test con gli occhi bendati coinvolge l’area cerebrale del cosiddetto nucleo accumbes (o “striato ventrale”) - una struttura cerebrale legata alla sensazione del piacere - la corteccia prefrontale mediana si avvale della memoria, ossia di tutti i ricordi, le immagini, le sensazioni, i sentimenti che in una persona sono connessi a quel prodotto (abitudini quotidiane, ricordi infantili, pubblicità ecc.). La Coca-Cola è in circolazione da molto più tempo rispetto alla Pepsi e non ha mai smesso di fare pubblicità di ogni tipo: da quelle a carattere sessuale a quelle natalizie. Tre anni prima, ad Atlanta, l’istituto Brighthouse, fondato dal pubblicitario Joe Reyman, aveva costituito un gruppo di studio, il Brighthouse Neurostrategies, col compito di commercializzare le scoperte ottenute nel campo delle neuroscienze. Il suo direttore scientifico, Clint Kilts, giunse alle stesse conclusioni di Montague: anche lui affermò di avere localizzato nella corteccia prefrontale mediana la zona del cervello reattiva alla immagini pubblicitarie; ma aggiunse che questa reazione è tanto più significativa quanto più il soggetto visualizza una immagine in cui si identifica e che lo spinge a riconoscersi in quel prodotto. E’ come se dicesse “quello sono esattamente io!”. E in effetti, la regione prefrontale mediana è anche associata all’immagine di sé e alla conoscenza intima che uno ha di sé stesso; i pazienti, infatti, la cui corteccia prefrontale mediana è stata danneggiata soffrono spesso di un cambiamento di personalità. Convinto di avere trovato “la regione chiave del neuromarketing” Kilts non ha esitato ad affermare che i “neuromarketers” come lui sono in grado di certificare ad una azienda se i prodotti che intende lanciare sul marcato possono avere un successo di vendita oppure no. Verità scientifica o ciarlataneria ad uso delle aziende? Alcuni neuroscienziati sono scettici sulla possibilità di disporre di uno strumento scientifico così preciso. Ciò però non significa che questo genere di studi sia stato accantonato. E’ vero invece il contrario. Per esempio, a Ulm, in Germania, uno psichiatra, Henrik Walter, ha fatto un esperimento per conto della Daimler Chrysler per vedere come reagiscono gli uomini di fronte ad una serie di autovetture nuove. Ne è emerso che le autovetture vengono guardate come se si trattasse di un oggetto amato (nel fronte dell’auto molti vi vedono un viso: i fari sono gli occhi...). La conclusione è stata che una pubblicità ben riuscita non deve limitarsi a far sì che il consumatore si rifletta o si riconosca nel prodotto ma, nel caso dell’automobile, deve anche mobilitare in lui una volontà “arcaica” di appropriarsi di un oggetto di seduzione. Si tratta dunque di rinforzare la classica associazione tra desiderio sessuale e pulsione all’acquisto, già presente in moltissime pubblicità. <<Il consumatore deve poter sentire la marca, e aggrapparvisi come ad un amante>> è la filosofia espressa da un noto pubblicitario della agenzia Saatchi & Saatchi. La pubblicità che parla del prodotto e ne esalta la qualità è roba d’altri tempi, oggi il pubblicitario lavora, insieme allo psicologo, sull’inconscio delle persone, cerca cioè di evocare le loro memorie infantili, di risvegliare gli impulsi, di suscitare stati emotivi diversi. Ne sono consapevoli gli “esperti” e ne sono consapevoli anche coloro che in televisione mandano gli spot pubblicitari. Nel corso di un seminario, un dirigente della tv di stato francese si è espresso in questi termini: <<Perché un messaggio pubblicitario sia percepito, bisogna che il cervello dello spettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni hanno come obiettivo di renderlo disponibile: ossia di divertirlo, di rilassarlo per prepararlo nell’intervallo tra due messaggi. Quello che vendiamo allo sponsor è del tempo disponibile del cervello umano>>. Campando sul denaro degli inserzionisti, chi fa televisione è perfettamente consapevole dello stretto legame che deve esistere tra programmi e pubblicità. Un passo ulteriore nella creazione di un’amalgama tra i contenuti dei vari programmi e gli spot che in essi sono inseriti è stato compiuto dalle cosiddette “promofiction” o “promoserial”, dove la separazione tra pubblicità e narrazione risulta sempre meno evidente in quanto il pubblicitario utilizza personaggi o aspetti salienti della fiction nella pubblicità. Per esempio, in uno spot inserito nella fiction del Dr. House, il dottore non compare per intero, si sente però la sua voce, si vedono i suoi jeans, le sue scarpe da tennis, la sua canna… Il classico stacco tra programma e pubblicità è, in pratica, abolito. Spot e fiction si fondono e si confondono. L’obiettivo è trasferire le emozioni, che gli spettatori provano quando guardano la “loro” fiction, sulla marca (o logo) dei prodotti che compaiono nello spot. <<Una marca è essenzialmente una relazione>> spiega Steve Denning, un guru della pubblicità, in un libro recente (The Leader’s Guide to Storytelling): questa relazione può essere tenue, fragile, limitarsi ad una vaga familiarità del consumatore col nome della marca, oppure durare nel tempo. Il paradosso del marketing contemporaneo è che deve fidelizzare dei comportamenti d’acquisto divenuti mutevoli, labili, imprevedibili. In più, molti prodotti concorrenti sono estremamente simili tra loro nella sostanza se non addirittura uguali (per es. i detersivi). Si tratta quindi di trovare il modo di ingaggiare il consumatore in una relazione emotiva con una determinata marca, che duri nel tempo. L’ultima strategia del “marketing relazionale” consiste nell’inserire le pubblicità nelle fiction e/o realizzare dei minifilm di due o tre minuti che raccontano una storia in cui il consumatore possa identificarsi, riconoscersi o vivere delle emozioni coinvolgenti. Per esempio alcuni anni fa la Disney ebbe l’idea di commercializzare dei video pedagogici intitolati Baby Einstein. La “storia” che raccontò alle mamme dei neonati in quell’occasione fu che quel video avrebbe stimolato le capacità mentali dei loro bambini facendoli diventare dei piccoli Einstein. Un storia di successo che fruttò alla Disney 14 milioni di dollari malgrado il video non avesse alcun impatto positivo. Se si ricorre sempre più alle “storie” per convincere è perché il racconto ha una sua forza intrinseca che, dalle parabole alle favole, dai poemi antichi alle narrazioni moderne, non è mai stata smentita. Vedremo più avanti come a questa strategia non ricorra solo il marketing ma anche la politica. Un target ambito dalle multinazionali sono i bambini. Le multinazionali spendono oltre due miliardi di dollari ogni anno in pubblicità rivolte all’infanzia, ossia oltre venti volte in più di quanto spendessero quindici anni fa. Ma la novità è che ora queste aziende non si accontentano di raggiungere gli adolescenti e i bambini della scuola materna: oggi vogliono catturare anche le menti e i cuori dei piccoli al di sotto dei tre anni. I motivi per cui bambini di tutte le età sono diventati un target pubblicitario molto ambito sono fondamentalmente tre. Il primo è che essi rappresentano già di per sé un mercato importante. A loro sono destinati giocattoli, dolciumi, bibite, alimenti eccetera. A fare gli acquisti sono i genitori, ma i bambini possono “assillarli” per ottenere ciò che vogliono. Questo fenomeno è stato definito dai pubblicitari stessi nag factor, fattore assillo. Una sorta di cuneo fatto di capricci, lagnanze, malumori con cui i bambini cercano di spezzare le difese dei genitori. Il secondo motivo è che, con le loro assillanti richieste, i bambini non solo chiedono i prodotti a loro destinati ma anche altri tipi di prodotti di cui hanno visto le pubblicità in televisione. Il che significa che al supermercato il bimbo indicherà alla mamma i biscotti “più freschi”, la pasta “migliore”, il riso che “non scuoce”, l’acqua minerale del campione di calcio. Il terzo motivo, più importante di tutti è la fedeltà alla marca, definita dai pubblicitari il “Santo Gral”. I bambini di oggi rappresentano il mercato adulto di domani. I loro gusti vanno coltivati e orientati in modo da “fidelizzarli” precocemente ad un marchio prima ancora che a un prodotto. Ed è qui che il contributo degli psicologi diventa prezioso per i pubblicitari, i quali hanno bisogno di penetrare sempre meglio e sempre più a fondo nella mente dei piccoli consumatori, seguire passo passo i tempi dello sviluppo intellettivo ed emotivo, lavorare sui bisogni e sugli affetti. Poiché la concorrenza è sempre più agguerrita, chi arriva prima nella creazione di uno slogan efficace ha maggiori probabilità di riuscire a imprimere nella mente del consumatore il proprio logo come un tatuaggio (vedi il caso della Coca-Cola), chi riesce a inventare una confezione che faccia sognare oppure a creare un jingle simpatico, realizzerà un vantaggio sulla ditta avversaria misurabile in centinaia di migliaia di euro. Questa offensiva della pubblicità nei confronti dei più piccoli, in atto ormai da svariati anni, non può che creare disagio in chi conosce gli effetti che il condizionamento e il modellaggio possono avere su delle menti in via di sviluppo. Se è innegabile infatti che alcuni spot sono di pregevole qualità e intelligenti, ciò non toglie che il loro obiettivo sia la seduzione di soggetti in tenera età, la cui mente è sicuramente molto plastica e recettiva ma anche estremamente ingenua e come tale priva di difese. <<Ciò che rende i bambini bersagli così attraenti per le corporation e gli esperti di marketing è la loro estrema recettività alla pubblicità>> scrive Joel Bakan autore del volume The Corporation e sconsolato conclude: <<Nell’universo psicopatico delle corporation, la vulnerabilità è una sollecitazione allo sfruttamento, non un motivo di tutela>>. Il lavoro che i “creativi” fanno sulle emozioni di adulti e bambini è subdolo e continuo. Per loro si tratta di attività lavorativa. Per altri invece di fredda strumentalizzazione. I media promettono emozioni e ne abusano. Non c’è nulla di male, ovviamente, nel vivere delle emozioni attraverso uno spettacolo, una fiction o una notizia del TG. Dalla drammaturgia greca al romanzo ottocentesco ai racconti contemporanei le emozioni sono sempre state al centro delle narrazioni umane. Il problema nasce quando si confonde emozione con informazione. Il messaggio, insidioso, che implicitamente inviano programmi di informazione che cedono al fascino dello spettacolo e strumentalizzano le emozioni è il seguente: <<Se l’emozione che provi di fronte a questa notizia è vera, è vera anche la notizia>>. <<Se ti commuovi e le tue lacrime sono vere, l’evento che ha causato quelle lacrime è vero anch’esso>>. Ma il fatto di provare un’emozione, anche molto intensa, non garantisce – ahimè! – che l’informazione sia vera. Può esserlo ma anche non esserlo. Ecco un esempio famoso, che forse alcuni ricordano, di come le emozioni possano essere del tutto disgiunte dalla realtà dei fatti. Il 5 febbraio del 1990 Gianni Minoli nel corso di una puntata di Mixer, un settimanale di informazione della Rai, esibì un documentario d’epoca in cui il giudice Sansovino confessava di avere truccato, d’accordo con altri membri del tribunale elettorale, i risultati del referendum del 1946 con cui venne abolita la monarchia in Italia, sostituita dal sistema repubblicano. Molti spettatori, soprattutto coloro che nel ’46 avevano partecipato al referendum, seguirono il programma in preda ad un’emozione crescente. Soltanto al termine della proiezione Minoli rivelò l’inganno: il giudice che compariva nel filmato era in realtà un attore, il “vecchio” documentario, in bianco e nero, era stato girato in studio qualche settimana prima con dei figuranti. Tutto era falso ad eccezione della profonda emozione vissuta da milioni di spettatori. <<Abbiamo voluto mostrare>> spiegò in conclusione il giornalista <<come si possa manipolare l’informazione televisiva. Bisogna ormai imparare a diffidare della televisione e delle immagini che ci vengono presentate>>. Le stesse tecniche che vengono utilizzate per indurre le persone a comprare dei prodotti vengono usate nelle campagne elettorali. Si lavora sui manifesti stradali, sugli spot e direttamente sul look dei candidati insegnando loro come muoversi, vestirsi, parlare. Poiché compaiono sugli schermi, la cura dell’immagine mediatica è diventata una preoccupazione che non riguarda più soltanto gli attori ma anche i politici che per avere più attenzione e successo si affidano ai professionisti dell’immagine. Il corpo ha assunto un’importanza crescente. Significativi, a questo proposito, sono i consigli e le osservazioni di un’agente che ha a lungo lavorato con i politici che vanno in tv. <<La prima cosa che notiamo di qualcuno in televisione è la sua faccia e la sua pettinatura o acconciatura. Se siete un politico e prima dell'intervista avete dormito poco, state attenti a non presentarvi stanchi e con il viso impastato di sonno. Apparire in forma è importante per chiunque, ed è a questo che serve una buona mano di make-up prima di andare in onda! Può sembrare insignificante ma i capelli in disordine, il viso teso, la cravatta storta, distolgono l'attenzione dello spettatore da ciò che state dicendo. L'immagine creata dalla televisione ha un effetto enorme sull'opinione che gli spettatori si fanno di colui che sta parlando>>. E prosegue con queste inquietanti osservazioni: <<Ciò che voi dite quando siete in televisione è certamente importante, ma gli analisti sostengono che la reazione dell'audience alle vostra presenza sullo schermo può essere così sintetizzata: 58 per cento dall'apparenza 35 per cento dal timbro della voce 7 per cento al significato delle parole. Il tono di voce è molto importante. Il piglio con cui si dà una notizia o si inizia un discorso serve a creare un clima e preparare l'umore dell'audience>> (Mather, 1995). I fatti, le statistiche, i programmi, i piani di spesa, hanno un impatto assai meno rilevante sullo schermo del look, del corpo, dei riferimenti alla vita privata che, apparizione dopo apparizione, possono trasformare un politico in personaggio familiare, affidabile, carismatico. <<La gente non vuole avere più informazioni>> scrive Annette Simmons autrice del volume The Story Factor (2002) <<vuole credere in voi, nei vostri obiettivi, nel vostro successo, nella storia che gli raccontate. E’ la fede che fa muovere le montagne, non i fatti. I fatti non fanno nascere le fede. La fede ha bisogno di una storia che la sostenga.>> Di qui l’importanza delle pratiche di autolegittimazione, di autovalutazione e del cosiddetto “storytelling” ossia racconti o parabole che assumono un valore simbolico e che per la loro concretezza si impongono all’attenzione collettiva più delle cifre, dei ragionamenti o di una compilazione di fatti. Il leader/guru non fa riferimento ad un sapere ragionato e consapevole, cerca invece di raggiungere l’immaginazione e il cuore della sua audience con storie commoventi. Gli spin doctors che organizzano le campagne elettorali negli Stati Uniti, puntano molto su questo aspetto perché sanno che coloro che ricercano motivazioni valide, che hanno un bagaglio culturale solido e sono abituati a ragionare, costituiscono una minoranza. E’ questa una delle fragilità delle democrazie che molti cinicamente sfruttano. Gli Stati Uniti hanno svolto in quest’ambito il ruolo di apripista grazie anche al kow-how accumulato dall’industria cinematografica hollywoodiana. E non è un caso che il primo presidente ad avvalersi di questa modalità di comunicazione in forma sistematica e consapevole sia stato proprio Ronald Reagan, ex attore di Hollywood che spesso nei suoi discorsi evocava episodi tratti da vecchi film di guerra come se appartenessero realmente alla storia degli Stati Uniti. Bill Clinton, appena eletto, assunse lo stesso direttore della comunicazione di Reagan, il quale gli insegnò a raccontare le storie che piacciono alla gente e ad inserire episodi della sua infanzia nei discorsi ufficiali. Anche George Bush imparò la lezione e ne fece un uso spregiudicato. Nel primo anniversario dell’11 settembre, per esempio, nelle tv locali fu mandato in onda, decine di migliaia di volte, un videoclip in cui un uomo spiegava come la figlia sedicenne si fosse chiusa in se stessa dopo l’assassinio della madre alle torri gemelle e come soltanto la visita di Bush le avesse restituito la speranza e la voglia vivere. <<E’ l’uomo più potente del mondo ed è venuto di persona ad accertarsi che io stia bene>> spiegava poi la ragazza mostrando una foto in cui la si vedeva stretta al presidente. Il clip terminava con Bush inquadrato di profilo, in una attitudine di raccoglimento, avvolto dalle forti note di una melodia. Secondo gli spin doctors, riuscire a raccontare delle buone storie è uno dei fattori che può aiutare un uomo politico a diventare popolare. Secondo un esperto in storytelling e celebre guru del marketing americano, Seth Godin, John Kerry perse le elezioni pur godendo di una popolarità superiore al suo rivale perché non aveva raccontato una storia coerente, toccante. Kerry, troppo intellettuale, <<non ha voluto raccontare una menzogna che la gente avrebbe ricordato. Che piaccia o no Bush invece ha incarnato con straordinario talento il personaggio del dirigente forte, convinto e infallibile.>> Un’idea condivisa anche da Richard Nixon che anni prima nelle sue memorie aveva scritto che i presidenti postmoderni <<devono essere dei maestri nell’arte di manipolare i media, non solo per vincere le elezioni, ma per portare a buon fine la loro politica e sostenere le cause in cui credono. Devono al tempo stesso evitare a tutti i costi di essere accusati di manipolare i media>>. Di lui è rimasto famoso il cosiddetto "discorso di Checkers", pronunciato nel 1952 quando era candidato alla vicepresidenza degli USA. Poiché era stato accusato di essersi indebitamente appropriato di denaro per la sua campagna elettorale, Nixon affittò mezz'ora di televisione per spiegarsi alla nazione. Le sue parole, in realtà, non chiarirono le accuse che gli erano state rivolte, ma l'aspirante vicepresidente ebbe modo di spiegare che egli era un buon padre, un buon marito, un buon cittadino, un buon americano. E mentre parlava, la telecamera si soffermava sul suo fedele cane Checkers, accucciato davanti al camino... La trasmissione si concluse con un appello ai telespettatori: Nixon li invitò a scrivere al comitato nazionale del partito repubblicano per stabilire se doveva restare candidato al vicepresidenza o dimettersi. L'effetto fu immediato e massiccio: al comitato del partito repubblicano giunse una valanga di lettere, telegrammi e telefonate in suo favore. Nixon fu premiato non perché avesse dimostrato di essere onesto, ma perché la sua immagine televisiva, la storia del buon padre di famiglia che aveva raccontato accanto al caminetto e il muso “onesto” di Checkers avevano fatto breccia nel cuore degli spettatori. Le tecniche americane di personalizzazione e narrazione hanno attraversato l’oceano e ora vengono applicate anche in Europa. Secondo il francese Christian Salmon, autore del volume Storytelling, durante il confronto elettorale tra Nicolas Sarkozy e Ségolène Royal <<gli uomini politici e i media, i giornalisti e gli esperti hanno bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi e si sono messi a raccontare delle storie. Per la prima volta, la destra non rivendicava più l’indipendenza nazionale né la sinistra il progresso sociale. Da entrambi i lati è trionfato il kitsch. L’opinione pubblica l’ha capito d’istinto, propagando allegramente i pettegolezzi sui menage familiari, le rotture e infedeltà coniugali […]. Il dibattito televisivo tra i due candidati non ha visto il confronto tra due progetti della società ma, fino alla caricatura, due posture, due intrighi. Questo tipo di confronto è culminato nell’episodio della scolarizzazione dei bambini portatori di handicap: un soprassalto di compassione, una lotta al coltello dei due candidati per le vittime… Nello stesso modo, spiega ancora Salmon, in cui gli spin doctors repubblicani avevano costruito la campagna elettorale di George W. Bush nel 2000 a partire dalla sua vittoriosa storia personale contro l’alcool, Nicolas Sarkozy ha adattato i temi della sofferenza e della redenzione per elaborare la sua versione francese del conservatorismo passionale: “ho cambiato perché le prove della vita mi hanno cambiato. Lo voglio dire con pudore ma lo voglio dire…”>>. E Ségolène non gli fu da meno nel raccontare storie strappalacrime che arrivassero al cuore degli elettori. Il politico “comunicatore” che mette in scena narrazioni promozionali su di sé e sulla propria vita privata, che trae vantaggi dai gossip come dai siparietti televisivi preparati ad hoc è presente, ormai da tempo, anche nel nostro Paese. (Si veda ad esempio lo sketch in un Porta a Porta del 15/9/2008 realizzato dalla campionessa olimpionica di fioretto e il presidente del consiglio in cui, sotto l’occhio compiaciuto del famoso conduttore, il presidente viene celebrato sia come leader “carismatico” che come maschio ambito da ogni donna.) D’altro canto, le televisioni e i magazine sono affamati di storie, emozioni, gossip e scoop, mentre il lavoro di schiere di agenti, curatori di immagine e consiglieri della comunicazione è proprio quello di fornire ai mass-media storie in grado di “formattare” i desideri e le scelte della gente, standardizzare le emozioni di fasce sempre più ampie di pubblico. Non tutto è perduto, però. La buona notizia è che non sempre ci riescono, sia perché anche i guru della comunicazione sono fallibili e sia perché contrastati dalla concorrenza. Un’altra buona notizia è che le persone hanno tutte quante un cervello che possono sempre decidere di usare, anche quando sembrano ormai totalmente omologate. Bibliografia: Bakan J., The Corporation. La patologica ricerca del profitto e del potere. Fandango, Roma Godin S. (2007), Tous les marketeurs sont des menteurs. Maxima, Paris Mather D. (1995), Surviving the Media. Harper Collins, London Oliverio Ferraris A. (2008), La sindrome Lolita. Rcs, Milano Salmon C. (2007), Storytelling. La Découverte, Paris Simmons A. (2002), The Story Factor. Basic Book, Cambridge Biografia: Psicologa e psicoterapeuta è nata a Biella e ha studiato a Milano e a Torino. Dal 1980 è professore ordinario di Psicologia dello sviluppo all'Università "La Sapienza" di Roma. E' autrice di saggi, articoli scientifici e testi scolastici in cui affronta i temi dello sviluppo, dell'educazione, della famiglia, della scuola, dei rapporto con la tv e i nuovi media. E' stata membro della Consulta Qualità della Rai e del Comitato Nazionale per la Bioetica. Collabora con Il Messaggero, Prometeo, Scuola dell'infanzia e altre riviste. Dirige Psicologia Contemporanea. L’ultimo libro, pubblicato nel 2008, è La sindrome Lolita (RCS).