Intervento di S.E. Rev.ma Mons. Luigi Negri Vescovo di S. Marino-Montefeltro al Dantis Poetae Transitus in occasione del 685° annuale della morte di Dante Alighieri Ravenna, Basilica di S. Francesco, 13 settembre 2006 Il commento del XXV Canto del Paradiso, canto della speranza, in cui Dante è interrogato su questa virtù da San Giacomo, dopo essere stato interrogato nel XXIV da San Pietro sulla fede e poi, nel XXVI, da San Giovanni sulla carità, permette di introdurre, innanzitutto, due considerazione su come Dante Alighieri “sia stato” nella religione cattolica per tutta la Chiesa e quindi per i Sommi Pontefici. Durante il suo pontificato Benedetto XV ha dedicato, in occasione del transito di Dante Alighieri, una Enciclica importantissima la In Praeclara Summorum; Paolo VI nell’anniversario della nascita di Dante gli aveva dedicato quel “Signore dell’altissimo canto”, motu proprio, e una lettura di questi due documenti consente di dire che Dante Alighieri ha espresso con una grandezza poetica di straordinaria profondità ed intensità la sua appartenenza al popolo di Dio, la sua fede alla chiesa, il suo amore alla chiesa e alla guida della Chiesa. Le espressioni dure usate nei confronti di alcuni papi, dice Paolo VI, sono spiegate all’interno del suo travolgente amore per la chiesa che la desiderava bella e senza macchia di fronte al mondo. Paolo VI dice che la Divina Commedia è l’espressione geniale, poetica, artistica di due grandi filoni che confluiscono nella vita di Dante e la caratterizzano: il senso religioso e la fede cattolica. Con il senso religioso arriva a Dante tutta la grande tradizione greca quella della ricerca appassionata e continua del senso ultimo delle cose a partire dall’uso aperto, spregiudicato della ragione come richiamato proprio l’altro ieri, a Ratisbona, da Benedetto XVI. Quindi, è tutta la grande cultura umana, naturale che fermenta dentro la vita e l’attività poetica di Dante ma, insieme, in maniera ben più determinante vi fermenta la certezza della fede, la certezza della definitiva rivelazione di Dio in Cristo Signore, il suo essere l’inizio reale di un mondo nuovo e il criterio di giudizio ultimo sulla vita e sulla storia. Non senza un riferimento a quel sentiero che va dal senso religioso alla fede e dall’inizio storico della fede verso il senso religioso che è la straordinaria esperienza della tradizione biblica. Questo è il contesto e, vorrei dire, l’elemento genetico della poesia di Dante. La poesia di Dante, ed è il secondo fattore, è una grande proclamazione dell’umanità che in Cristo, se si accetta Cristo, cammina e si allontana dalla dispersione, dall’errore, dal peccato, dalla costituzione di un mondo sbagliato e apparente,e questo è l’inferno. L’umanità ha costruito questo inferno sulla terra quando ha rifiutato la presenza di Cristo. E’ quindi una antropologia piena, adeguata, diceva Giovanni Paolo II, che si attua inesorabilmente nella vita del cristiano quanto più segue il mistero di Cristo presente nella Chiesa e vi appartiene incondizionatamente. E’ una antropologia nuova, che viene vissuta e proclamata, e che di fronte ad ogni generazione rappresenta un grande invito, un grande annunzio: la speranza colora questo annunzio in maniera determinante, indimenticabile. La speranza è portata nella vita dell’uomo dalla grazia della fede, ma la grazia della fede incontra la libertà e questa si gioca nella grazia della fede con piena e totale integralità. Così la speranza è la certezza di positività nella vita che fa affrontare le circostanze con la certezza che sono inserite in un ordine di bontà, di bene e ciascun uomo può investire di questa certezza e di questa bontà ogni momento della sua vita. Speranza è la virtù della chiesa pellegrina sulla terra, è la virtù di “quel già e non ancora” che caratterizza la cultura che nasce dalla fede, che caratterizza l’ethos determinato dalla fede, che caratterizza il crearsi stesso di rapporti culturali, sociali, politici. La certezza che la vita non è inutile ma non come affermazione teorica, astratta come coscienza viva di una esperienza. Di un entrare sempre più profondamente nel mistero di Cristo e alla luce di questo vivere le cose concrete di tutti i giorni, ma nell’orizzonte dell’eterno. Il mio grande maestro Don Giussani spesso ripeteva che “l’istante, ogni istante della vita cristiana ospita l’Eterno”. Credo, e con questo concluderei, che ci sia un collegamento fra la bellissima e intensissima serata di Ravenna, dedicata alla lettura viva con il fatto di trovarsi di fronte ad una comunità viva; Dante è vivo se la chiesa che lo legge è viva, Dante è vivo se l’umanità che lo legge è viva, cioè sente e vive il senso religioso. In questa bellissima serata, poi, è stato evidente il nesso fra questo evento della riscoperta di Dante vivo e il tema del grande convegno della Chiesa italiana di Verona, dal 16 al 20 ottobre, soprattutto dall’intervento del Prof. Ornaghi, Magnifico Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dal quale si comprende cosa deve fare la chiesa italiana: proseguire, riprendere, rinnovare questa capacità di vivere la speranza per sé e di offrire questa speranza al mondo. In sostanza, Dante Alighieri è un grande esempio di speranza vissuta e alla luce di questo speranza di missione, continuamente vissuta nelle circostanze concrete della vita, si spiega quanto sia costata al Sommo Poeta questa fedeltà a Cristo, alla Chiesa e alla verità della sua vita: l’esilio, l’essere morto lontano dalla sua patria e, in fondo, l’emarginazione da una società già preoccupantemente percorsa da movimenti economici e di potere come se fossero dei fattori determinanti.