CORSO SU DONNE ISTITUZIONI E POLITICA SCHEMA DELLA CONVERSAZIONE DI ANNAMARIA LOCHE SU LA POLITICA DELLA DIFFERENZA: ORIGINI E SVILUPPI CONTEMPORANEI (27/06/06) La conversazione si è svolta sui seguenti punti: 1) uguaglianza e differenza in Mary Wollstonecraft 2) breve schema delle tendenza del “femminismo” contemporaneo; 3) relazione sul pensiero di S. Moller Okin, I.M. Young, C. Gilligan; 4) temi della filosofia della differenza in Europa e in Italia in particolare. Si è preferito far riferimento ad alcuni esempi concreti di pensiero delle donne sulle donne, anziché ricorrere a trattazioni generali, forse più complete, ma anche più generiche e meno chiare. Da qui la necessità di trascurare fenomeni storici, correnti e pensatrici anche di livello molto notevole. Premessa: l’uso del termine femminismo che farò di seguito non è del tutto appropriato alla materia che intendo trattare; si tratta solo di un termine più rapido per l’espressione “pensiero delle donne sulle donne” (alcuni aspetti del), che è il vero oggetto della conversazione. 1.Mary Wollstonecraft: egalitarismo e differenza Mary Wollestonecraft (1759-1797) è considerata la prima coerente filosofa del femminismo. Opere principali: Vindication of the Rights of Man Vindication of the rights of Woman Mary, a fiction Maria or the Wrongs of Woman [gli ultimi due sono romanzi; la Wollstonecraft è autrice anche di alcuni trattati di pedagogia ed educazione]. Nella sua formazione influiscono: la sua storia personale; la frequentazione dei cirocli dei dissenters; la rivoluzione francese. Punto di partenza egalitarista identica natura di tutti gli esseri = necessità di un’educazione simile per maschi e femmine. Wollestonecraft si rivolge alle donne della classe media, più ricettive (né troppo abbrutite, né troppo viziate), che possono essere lo strumento di diffusione della società delle nuove teorie di rieducazione e riappropriazione dei diritti. Necessità di accompagnare a una riforma etica e culturale una riforma politica in senso liberaldemocratico. Identica natura di uomo e donna (creati uguali da Dio) = identica ragione polemica con il pensiero che si è precedentemente occupato delle donne (Rousseau, ma anche altre e altri teorici) perché nessuno si è mai occupato della formazione della donna considerata come essere autonomo (esempio: la Sofia di Rousseau, che viene educata per Emilio). Superiorità della ragione sulla sensibilità demistificazione di comodi pregiudizi per giustificare la subordinazione. Validità dell’educazione pubblica in classi miste, ma con il rispetto di settori di specifico interesse: maternità, legislazione sul matrimonio. Quindi identica razionalità e identica dignità = le donne non devono essere schiacciate sul modello maschile. Coniugazione del valore dell’uguaglianza con quello della specificità (differenza) 2. Le tendenze del “femminismo” contemporaneo: la filosofia e la politica della differenza Assumo qui una duplice definizione (non da tutte condivisa) e distinguo: a) differenza di genere = il problema delle differenze puramente naturali tra esseri umani di sesso diverso viene collegato con le conseguenze non naturali di diversità provocate da cause politiche, economiche, sociali, culturali e poi assunte come naturali dalla cultura di genere (maschile) dominante. Come è stato detto “genere” è «l’istituzionalizzazione della differenza sessuale», che si “costruisce” per cause sociali, culturali, economiche, storiche. b) differenza sessuale = rivendicazione di una differenza “ontologica”, di “essenza” tra maschi e femmine, non determinata da cause storico-politiche, per cui le teoriche della differenza sessuale sono tese a praticare politiche che pongano in luce, difendano, accentuino, tolgano dall’oscurità in cui il predominio maschile ha posto tale differenza. In ogni caso, la politica della differenza si può dire cominci a farsi strada nel pensiero delle donne sulle donne con la crisi dell’egalitarismo, quando cioè, verso la metà degli anni Settanta del Novecento, emerge il fatto che il raggiungimento dell’uguaglianza formale, astratta, di tradizione liberale e peraltro faticosamente ottenuto dalle donne, non elimina se non in parte la discriminazione a cui le donne sono vittime nella società contemporanea (è qui sottinteso che parliamo delle società occidentali). Non è cioè stato sufficiente che nel XX secolo si sia abbandonata la convinzione della inferiorità naturale della donna e che quindi si sia ammessa quest’ultima al voto, all’istruzione, al lavoro retribuito, perché la discriminazione si è stabilita su altre basi. Così esistono, p. es., leggi o prassi che appaiono “neutre rispetto al genere”, solo perché al gruppo sociale dominante – quello maschile – interessa tale neutralità; oppure capita che leggi apparentemente oggettive non sono in realtà tali perché danno per presupposte pratiche, convenzioni o convinzioni sociali che invece non sono affatto ovvie (esempio: a un certo lavoro non può accedere il lavoratore che debba occuparsi di bambini inferiori ai tre anni il termine “lavoratore” è falsamente neutro perché socialmente e convenzionalmente il compito di occuparsi dei bambini piccoli è affidato alla donna). 3. Su alcune posizioni del femminismo statunitense 3.1 La differenza di “genere” e la discussione sulla giustizia Prendo qui come esempio due filosofe che si sono occupate in modi diversi se non addirittura opposti del problema della giustizia, tema centrale nel dibattito della filosofia politica contemporanea ( cfr. J. Rawls, A theory of Justice, 1971, e le discussioni che ne sono seguite). T 3.1.a Susan Moller Okin Prendiamo in considerazione Justice, gender and the family (1989, tr. it. Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo, Bari 1999; ma si veda anche della stessa autrice Women in Western political thought, 1979). La filosofia di Okin si situa entro un discorso di tipo liberal ( n.b. la differenza semantica tra l’inglese liberal e l’italiano “liberale”), quindi in qualche modo vicino alla prospettiva rawlsiana. I temi principali dell’opera di Okin, peraltro strettamente connessi tra loro, sono due: multiculturalismo e famiglia. Il “femminismo” ha agito a lungo in consonanza con altre “minoranze” (razziali, religiose, etniche ecc.) all’interno della società occidentale per il pari riconoscimento della cittadinanza, accompagnato da un riconoscimento delle identità. Si tratta di un problema complesso cui qui non è possibile neppure accennare che implica il riferimento a categorie quali pluralismo, tolleranza, rispetto ecc.. Per quanto riguarda il multiculturalismo, Okin, partendo dal discorso della differenza di genere come precedentemente caratterizzato, afferma che le donne in quanto gruppo definito dal genere non godono pienamente dei diritti di cittadinanza. Se il riconoscimento dei diritti di cittadinanza può essere comune al gruppo “donne” e ad altri gruppi minoritari e/o subordinati, questo non deve comportare una identità di fini nel riconoscimento delle identità. Infatti possono esservi dei gruppi che, per la salvaguardia della propria identità, pretendono di perpetrare all’interno del gruppo la subordinazione delle donne. Moller Okin, in altri termini, vede un pericolo molto forte per la salvaguardia dei diritti delle donne in quelle richieste dei gruppi minoritari che all’interno della cultura occidentale reclamano il riconoscimento dei loro principi anche quando questi confliggono con i diritti dei singoli membri che di tali gruppi fanno parte. Questa situazione è particolarmente pericolosa perché la maggior parte delle culture è imbevuta di pratiche e di ideologie che prevedono la subordinazione delle donne e il loro controllo da parte gli uomini; le minoranze le quali, contro i principi propri delle culture liberal-democratiche, vogliono difendere questo patrimonio di tradizioni e vogliono che questo fatto sia riconosciuto come un diritto loro spettante in quanto minoranze, violano automaticamente i diritti individuali e, in particolare, quelli delle donne. I gruppi minoritari che vogliono difendere i propri diritti tendono a sottovalutare le differenze individuali interne e a considerare se stessi come un gruppo monolite in contrapposizione ad altri gruppi. A parte gli esempi tratti dal mondo contemporaneo non occidentale (Okin richiama il caso della clitoridectomia che viene difesa in nome di principi religiosi, scambiando una identità religiosa assunta per tradizione con la libertà di coscienza e l’assunzione di responsabilità), anche la cultura occidentale a partire dalle sue radici (greche ed ebriaco-cristiane) prevede un ruolo subordinato della donna, che rimane forte nella sfera della privatezza. Da qui la necessità di distinguere il concetto di privato dal concetto di domestico: se si parte dall’assunto, generalmente ammesso, che il “pubblico” copre in ogni caso la dimensione della sfera politica, il privato comporta un discorso più complesso. Esso costituisce una dimensione fortemente difesa dalla cultura occidentale moderna che ad esso assegna grande rilievo ( Costant e la distinzione tra libertà degli antichi e dei moderni; o la distinzione delle sfere dell’Eticità in Hegel); da esso va distinta la dimensione del “domestico” che non ha alcun tipo di riconoscimento “uffciale” e nella quale viene fondamentalmente relegata la donna con il suo lavoro. La famiglia, che secondo Okin, assume i connotati attuali tra il XVII e il XVIII sec. (O. la definisce la «sentimental family») è il luogo prefetto per questo disconoscimento, perché proprio la sua falsa dimensione “sentimental” consente di condurre un discorso per cui, al suo interno, ciascuno “si fida” dell’altro e quindi essa è rappresentata all’esterno solo da uno dei suoi membri, il capofamiglia che è il maschio più autorevole. Nella società contemporanea sussistono tre condizioni fondamentali che segnano la subordinazione della donna: 1)lo sfruttamento; 2) la marginalizzazione; 3) la mancanza di potere decisionale. Tutto ciò – basandosi sulla mistificazione poco sopra indicata – si fonda anche sul fatto che nella sfera pubblica hanno voce in capitolo coloro che vengono pubblicamente considerati economicamente indipendenti, e non si tiene conto del fatto che costoro devono la loro indipendenza pubblica ad una dipendenza privata di chi si occupa dei loro bisogni quotidiani. Da qui l’ipotesi politica di Okin, che riprende e reinterpreta il contrattualismo di Rawls al quale rimprovera: a) di non aver inserito dietro il “velo di ignoranza” la condizione del sesso; b) di non assegnare il giusto rilievo alla famiglia, di cui pure riconosce il ruolo. Rawls infatti assegna un ruolo alla famiglia, soprattutto in riferimento al discorso sulle generazioni future, ma la considera come un “tutto” rappresentato dal capofamiglia (non si dice che deve essere il maschio, ma le condizioni generali della nostra società questo fanno presumere). Per Okin invece la famiglia non deve essere considerata come naturale, ma come un’istituzione con una funzione precisa nel pubblico e dove ciascuno svolge i compiti che meglio si addicono alle proprie capacità e/o dove i ruoli si alternano (si alterna il ruolo della cura). All’interno della famiglia va assunto il concetto di uguaglianza, che non è né metafisico né ontologico, ma politico ed implica non l’assimilazione al modello maschile, ma il riconoscimento della identica dignità. È possibile solo così la libertà verbale e dello sviluppo della personalità, che peraltro per tutti i membri della società deve e può avvenire solo nella famiglia come nucleo di formazione e di assunzione delle responsabilità della persona. Quindi per Okin solo l’abolizione della famiglia fondata sulla differenza di genere e la fissità dei ruoli può consentire una società equa e giusta, alla quale aspira il contrattualismo di Rawls necessità quindi di fondare una famiglia senza genere, con il riconoscimento delle differenze e della pari cittadinanza. 3.1.b Iris Marion Young Il testo di Young cui faccio riferimento è Justice and the Politics of Difference (1990; tr. it.Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996), accomunato a quello della Okin a) per il riferimento alla giustizia; b) per l’assunzione di una prospettiva di differenza di genere; ma distante da esso a) nelle analisi specifiche; b) nella forte critica al rawlsismo; c) nelle proposte (formazione marxista e probabile parziale richiamo alla filosofia di Habermas). Secondo Young, se si parte dalla considerazione delle rivendicazioni dei movimenti definibili genericamente di “sinistra” (dai neri ai pellerossa, ai gay e lesbiche ecc.) appare che il “pacchetto” di beni di cui si occupano le teorie della giustizia distributiva (Rawls e altri) e cioè diritti, poteri, opportunità è limitato e non considera altri beni fondamentali come i processi decisionali, la divisione del lavoro, la cultura ecc. Nella dinamica dei gruppi, ove ve ne siano alcuni privilegiati e altri no, si deve tener conto delle differenze in merito a tutto questo, in una concezione della società dinamica e non statica come quella che presuppongono i distributivisti. Da qui la carenza del paradigma della giustizia, cui Young vuole opporre un diverso paradigma esplicativo il paradigma dell’oppressione. L’atteggiamento universalistico dei liberali impedisce di cogliere le differenze, si serve di una concezione statica dell’individuo (maschio, adulto, bianco...), fa un uso astratto del concetto di uguaglianza. Infatti se si considerano solo gli “uguali”, si escludono i “diversi”, che sono condannati al silenzio, non hanno una dimensione “pubblica” in cui esprimersi, riconoscersi ed essere riconosciuti. Da qui la sostituzione a tutto ciò della funzione del gruppo inteso come gruppo sociale (né ideologico né di interesse), cioè come collettività di persone che hanno affinità reciproche e che si differenziano da altri gruppi. Quindi, perché esista un gruppo, è necessario che ne esista almeno un altro cui contrapporsi. Il gruppo non ha una connotazione ontologica, non è cioè una cosa, ma è una rete di relazioni, in modo che le individualità in esso non si annullino. Il gruppo serve a: a) prendere atto delle differenze; b) portarle alla visibilità; c) porre in luce le facce nascoste dell’oppressione. Da qui il discorso sulle donne come “gruppo” segnato dalla differenza di genere apertura di un discorso “pubblico” (più facile come “gruppo”), ma solidaristico e antiassimilazionistico. Dal discorso pubblico l’utilizzazione della categoria dell’oppressione, che si caratterizza attraverso cinque parametri: sfruttamento: per quanto riguarda le questioni di genere, ha due aspetti: trasferimento all’uomo a) dei frutti del lavoro materiale; b) di energie sessuali e di sostegno emotivo; marginalizzazione: colpisce coloro che per vivere devono dipendere economicamente da altri e implica una limitazione di fatto del diritto di cittadinanza; nel discorso di genere, pone in discussione che il cittadino si caratterizzi attraverso l’autonomia e l’indipendenza economiche; mancanza di potere: il livello decisionale è normalmente ristretto a poche categorie di persone imperialismo culturale: è ciò che rende invisibile il gruppo, definendolo come “altro”, e riconoscendo solo la cultura del gruppo dominante; violenza: violenza fisica e sociale che si esercita prevalentemente contro i gruppi sottoposti ai precedenti elementi di oppressione. Da qui una nuova definizione di privato non ciò che è escluso dal pubblico, ma quell’aspetto della vita da cui si decide di escludere l’altro. 3.2 L’“etica della cura”: una proposta di differenza sessuale? La prima e massima teorica dell’etica della cura è Carol Gilligan che pubblica nel 1982 In a Different Voice (tr.it. Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987) dove si parte dall’assunto che uomini e donne hanno un modo diverso di pensare (pensiero razionale e astratto contro le disposizioni intuitive ed emozionali), che porta a una differenziazione del senso morale e quindi del comportamento verso gli altri. 1) Una prima presa di posizione polemica di Gilligan è contro la psicologia morale evolutiva dello psicologo Lawrence Kohlberg, che ipotizza tre livelli di sviluppo della coscienza morale (preconvenzionale, convenzionale e postconvenzionale) e dai cui test emerge che le ragazze non raggiungono mai l’ultimo stadio di sviluppo. Secondo Gilligan ciò significa non che le ragazze non siano in grado di raggiungere un completo sviluppo delle capacità morali, ma che le donne hanno un diverso sviluppo di tale capacità, cioè che esiste un’etica femminile che si basa su parametri diversi da quelli utilizzati da Kohlberg. Si tratta di un’etica basata sul contesto, che considera i rapporti inseriti in reti di relazioni e in riferimento ad “altri” concreti. 2) Da qui la seconda critica di Gilligan che si rivolge all’universalismo liberale, cui contrappone la persona nella sua concretezza. Non esiste un’etica universalistica dei principi; esiste invece una pluralità di etiche e l’etica della cura come etica femminile si basa sulla cura degli altri. Le tesi di Gilligan si fondano quindi su una particolare concezione: a) delle capacità morali: disposizione “giusta” nel rapportarsi agli altri; b) del ragionamento morale: risposte particolari a casi particolari; c) dei concetti morali: affermazione di principi che fanno riferimento a relazioni e responsabilità. Le critiche rivolte alle tesi di Gilligan sono riassumibili nei seguenti punti: il pericolo che il riferimento alle relazioni sociali includa solo quelle esistenti e dominanti e escluda gli emarginati; la semplificazione nella critica all’ “io universalizzato”, che nel liberalismo non è così astratto come Gilligan presuppone; la struttura dell’etica della cura non concepisce il rapporto diritto/dovere e quindi il concetto di diritto è inteso come semplice non-interferenza; l’etica della cura finisce per sanzionare da un punto di vista femminista ciò che gli uomini hanno sempre voluto (un ghetto in cui relegare le donne con i loro principi e i loro compiti); l’impostazione di tale etica nega che le “due” etiche possano, se valide, essere usate sia da uomini che da donne; l’etica della cura, sottolineando le diversità tra le etiche, trascura e/o nega le identità che tra esse possono sussistere. 4. La filosofia e la politica della differenza sessuale nel conteso europeo La filosofia della differenza sessuale ha una maggiore e più netta caratterizzazione in Europa (o almeno ha un Europa un suo particolare sviluppo) che ha il suo primo punto di riferimento in un testo del 1974 della filosofa belga Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna (tr. it. Feltrinelli, 1975). In questo testo si intende sottoporre a critica radicale la psicoanalisi freudiana, partendo dalle tesi (peraltro assunte in modo molto critico) di Lacan. Irigaray sostiene l’essenzialità della differenza sessuale e fa di essa l’origine della subordinazione; il compito che si propone è mostrare come, facendo assumere alla differenza sessuale una connotazione ontologica, si possa e si debba leggere tale differenza in positivo, rovesciando la situazione di soffocamento in cui versa la sessualità femminile. Il titolo del testo del ’74 è polemico proprio nei confronti di Lacan che aveva sostenuto come l’esperienza dello specchio nell’infanzia sia il primo passo per acquisire la propria identità, il proprio status come essere separato dalla madre; immediatamente dopo tale acquisizione, assume il suo ruolo il Padre che attraverso la parola impone la sua legge e fissa per sempre i ruoli sessuali. Lacan definisce “ordine simbolico” quello imposto dal Padre attraverso le parole e questo elemento è molto importante per le tesi della differenza che si impegnano molto nel lavoro di decostruzione del linguaggio. A questa prospettiva, Irigaray contrappone quella dello strumento medico dello speculum. Lo specchio è la dimensione pubblica che mostra al maschio la sua “superiorità” sulla donna, vista come “mancanza”, vuoto; da qui il maschio costruisce la sua posizione di potere, utilizzando il linguaggio come strumento per porre se stesso al di sopra di tutto; ma lo speculum mostra come il vuoto della donna sia un pieno, è cioè un luogo dotato di una propria identità e funzione, indipendente da quella dell’organo sessuale maschile, non fatta per esso né ad esso subordinato. Da qui la critica radicale a Freud (l’ “invidia del pene”). L’uomo ha però bisogno di ignorare tutto questo (di ignorare “l’altra donna”) e di cercare conforto dell’immagine che ha di se stesso come essere superiore nello specchio “pubblico”; la cultura occidentale, da Platone fino ai giorni nostri, si è tutta costruita su questa base e Irigaray ne conduce una serrata “decostruzione”: è proprio il linguaggio dominante che va decostruito, demistificato, sostituendo alla sua struttura fallocentrica, una diversa struttura “femminile”, portatrice di linguaggi diversi. Tra i vari sviluppi che hanno avuto le tesi di Irigaray, concludiamo con un sintetico cenno alla situazione italiana, dove la filosofia della differenza ha avuto due centri principali, la Libreria delle donne di Milano e la comunità filosofica di Diotima di Verona, e due teoriche di particolare rilievo, Luisa Muraro (Milano) e Adriana Cavarero (Verona). Al di là delle diversità e degli sviluppi successivi, possiamo schematicamente ricordare che il percorso teorico dei due gruppi ha inizialmente avuto in comune la decostruzione del linguaggio, a critica all’egalitarismo formale, la critica all’universalismo, della differenza. Quest’ultima si ottiene con la solidarietà di gruppo, la pratica dell’affidamento (della donna più debole verso la più forte) l’affermazione dell’ “ordine simbolico” della madre (L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991). Tale ordine costruisce una genealogia al femminile, utilizzando una forma di linguaggio e di comunicazione diverse da quelle del padre e del maschio in genere. Da qui anche la critica a tutta la cultura maschile (A. Cavarero, Nonostante Platone, Editori Riuniti, Roma 1990) e al linguaggio da essa utilizzato, che rende difficile alle donne “pensare” in modo autonomo e originale la differenza sessuale. Da qui, anche, le pratiche della separatezza e il rifiuto dell’egalitarismo moderno, che Cavarero ricostruisce in questo modo: 1) in un primo momento l’epoca moderna pone il problema dell’uguaglianza tra tutti i “cittadini” (maschi); 2) in seguito la cittadinanza è riconosciuta a tutti, ma in modo incoerente, perché mistifica l’effettiva diversità tra uomini e donne (= “si consente” alle donne di diventare uguali agli uomini, ma si vuole che restino “donne, cioè diverse e, soprattutto, subordinate); 3) l’uguaglianza reale è quella pensata dagli uomini per gli uomini, per i loro interessi e per la loro identità e le donne che vogliano accedervi devono rinunciare alla loro differenza. LA POLITICA DELLA DIFFERENZA – BIBLIOGRAFIA MINIMA Butler, J. Corpi che contano. I limiti discorsivi del corpo, Feltrinelli Milano 1996; Camparini, A. Donna, donne, femminismo, in Il pensiero politico contemporaneo, a cura di M. Bravo e S. Rota Ghibaudi, FranciAngeli, Milano 1987, vol. 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