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Edizioni Simone - Vol. 32/1 Compendio di diritto ecclesiastico
Capitolo 1Definizione e concetto
del diritto ecclesiastico
Sommario1. Il fattore religioso e l’interferenza con lo Stato. - 2. Diritto dei culti ed
evoluzione del diritto ecclesiastico italiano. - 3. I rapporti tra diritto ecclesiastico, diritto canonico e scienze affini. - 4. Collocazione sistematica del
diritto ecclesiastico (dei culti) tra le scienze giuridiche.
1.Il fattore religioso e l’interferenza con lo Stato
A) Generalità e definizione
Ogni essere umano ha da sempre avvertito la necessità di credere in una entità superiore
che ne ispirasse la coscienza e le regole di vita, nonché di scegliere i comportamenti
da tenere nei confronti dei suoi simili e della divinità.
Il fattore religioso spesso interferisce con le istituzioni politiche in quanto mette a
confronto la comunità sociale (i sudditi di uno Stato) con quella religiosa (i fedeli di
una determinata religione).
Da questo doppio legame (l’autorità civile e quella religiosa) può sorgere un contrasto
nella coscienza di ogni individuo che viene messo dinnanzi ad una scelta: obbedire allo
Stato da «buon cittadino» o al credo da «scrupoloso praticante»?
Lo Stato si trova, quindi, a dover risolvere i rapporti con le diverse religioni praticate
sul suo territorio per evitare contrasti tra:
— norme giuridiche e norme religiose;
— diversi credi religiosi nell’ambito del corpo sociale che, nel corso della storia, hanno
inciso non poco sul destino degli individui e del mondo.
Sulla base delle citate affermazioni si può definire il «diritto ecclesiastico» (meglio
«diritto dei culti») come il complesso di norme che, partendo dal dettato costituzionale, si intersecano con il fenomeno religioso e provengono sia da fonti unilaterali
(Stato-governo) che bilaterali (Concordato/intese).
B) Modelli tecnici e atteggiamento dello Stato nei confronti del fenomeno religioso
Nel corso dei secoli, la legislazione dei singoli Stati, nei confronti delle diverse confessioni religiose, ha assunto uno dei seguenti atteggiamenti:
a) favoritivo, che conduce ad un sistema confessionistico. Lo Stato sceglie una religione come propria (ad esempio lo Statuto albertino qualificava come religione
di Stato quella cattolica; l’Iran si qualifica Repubblica islamica) e informa il suo
ordinamento ai principi etici da essxi espressi;
b) avversativo, che da vita ad un sistema statale laico anti-ecclesiastico (si pensi al
fenomeno dell’ateismo di Stato professato nell’ex Unione Sovietica);
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c) indifferente, che porta a uno «Stato separatista» che considera le diverse associazioni religiose presenti sul suo territorio alla stessa stregua delle altre forme
associative.
Pertanto, uno Stato si definisce:
— confessionista, se manifesta un atteggiamento di favore nei confronti di una determinata confessione religiosa, accettando o tollerando la presenza di altre forme
di culto;
— unionista, quando il potere temporale e quello religioso è concentrato nelle mani
della medesima autorità. Il «principio di unione» può condurre sia alla teocrazia,
quando è il potere statuale ad essere subordinato a quello religioso, sia al cesaropapismo, quando è l’autorità religiosa a seguire il potere statuale (esempio tipico
è rappresentato dal monarca inglese che è anche il capo della chiesa anglicana);
— separatista, se tiene rigorosamente separati i due ordini e non introduce alcuna
regolamentazione speciale del fenomeno religioso, né favorevole né limitativa
(tipico esempio è la Costituzione federale degli Stati Uniti d’America del 1787 che
sanciva all’art. VI, comma 3, che nessuna dichiarazione di fede sarà mai richiesta
come condizioni per ottenere un ufficio o incarico pubblico);
— laico, che accoglie la distinzione fra sfera temporale e sfera spirituale e riconosce
e garantisce il pluralismo confessionale.
La nostra Repubblica rapresenta un “ordinamento laico” in quanto l’art. 3 Cost. stabilisce
che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di religione, mentre l’art.
8 Cost. afferma che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Lo Stato italiano non assume, però, un atteggiamento indifferente nei confronti del
fenomeno religioso, in quanto ha stipulato un «concordato» che regola i rapporti tra
Stato e Chiesa cattolica e una serie di «intese» con le altre religioni presenti sul territorio, volte a regolamentare i rapporti con ciascun credo religioso.
C) Il principio di laicità (Rinvio)
La normativa relativa ai culti trova, nel nostro e negli ordinamenti dei paesi democratici,
la sua «fonte delle fonti» nel principio di laicità che presenta un carattere negativo
in quanto più che prescrivere comportamenti positivi (che possono essere oggetto
specifico di «concordati» e «intese») rappresenta un limite alla violazione dei principi
di eguaglianza e libertà.
Il principio di laicità, dunque, è da considerarsi una «qualificazione di sistema» che
non può definirsi una «separazione piena e completa», ma «separazione coordinata».
In particolare, nell’ordinamento italiano i soli rapporti con la religione cattolica sono
disciplinati anche da fonti internazionali (Trattato) e da norme costituzionali rinforzate,
al contrario degli altri culti regolati da «intese» previste dalla Costituzione, ma regolate
attraverso la legislazione ordinaria.
Definizione e concetto del diritto ecclesiastico
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Sviluppi storici
In Europa, nel corso della storia, prima dell’entrata in vigore delle Costituzioni moderne, malgrado
poche eccezioni, l’atteggiamento degli Stati ha assunto carattere quasi sempre confessionale soprattutto
negli Stati assoluti, ove il Sovrano era l’arbitro dei destini del suo regno vigendo il principio «cuius
regio, eius religio», ossia la prevalenza del credo religioso del re e della sua dinastia sugli altri culti.
Peraltro, per tutto il medioevo e l’età moderna, Papa e Imperatore, definiti da Dante nel De Monarchia
«due soli», hanno rappresentato i vertici delle comunità che formavano la Respublica Christiana,
costituendo una «diarchia» (potere religioso, potere civile) in tutto l’occidente cristiano.
Con il Trattato di Westfalia (1648) tale bipolarismo è venuto meno in quanto i singoli Stati europei
spezzarono il loro cordone ombelicale con l’Imperatore d’Occidente (che rimase solo una carica formale attribuita all’imperatore asburgico) e con il Papa. Da allora cominciarono ad affermarsi, accanto
alla nascita degli Stati nazionali (che diedero vita ad una comunità internazionale composta di Stati
«paritari»), anche le diverse chiese nazionali che non sempre rimasero legate all’autorità del Pontefice
(es. Chiesa anglicana in Inghilterra).
Attualmente il fattore religioso, come nota Botta, ha accresciuto notevolmente il suo peso nel mondo
contemporaneo in quanto, dinnanzi alla «desolazione morale della società» e alla diffidenza degli
individui verso la deriva negativa della globalizzazione, la sua presenza apre nuove strade verso una
generale solidarietà fra tutti gli esseri umani.
2.Diritto dei culti ed evoluzione del diritto ecclesiastico italiano
A) Il diritto dei culti
Il rapporto tra Stato e fenomeno religioso è oggetto del «diritto ecclesiastico» che,
come detto, andrebbe definito «diritto dei culti» per ricomprendere qualsiasi culto
alla luce dei principi costituzionali vigenti (Gherro-Miele).
Ciò perché uno «Stato pluralista» non può riferirsi ad una unica fonte di carattere
spirituale, ma è tenuto ad osservare una condotta pluralista e laicista improntata al riconoscimento della «libertà di culto» e dell’«eguaglianza in materia di credo religioso».
Tuttavia, la dottrina italiana, legata alla storica tradizione confessionale, continua a
definire il rapporto Stato-confessioni religiose con «diritto ecclesiastico» la cui deriva
neo-confessionalista resta legata alla prevalenza della Chiesa cattolica sugli altri culti in
virtù del fatto che il suo credo è stato ed è (sebbene oggi in misura minore) patrimonio
condiviso dalla maggioranza dei cittadini.
B) Le fasi del diritto ecclesiastico italiano
Dall’Unità d’Italia (1861) il diritto ecclesiastico ha attraversato tre fasi:
— un primo periodo liberale (1861-1929);
— un secondo periodo, incentrato sui Patti lateranensi (1929-1948);
— un terzo periodo, caratterizzato dall’avvento della Costituzione repubblicana e dalla contrattazione bilaterale ispirata al principio pattizio (artt. 7-8 Cost.).
La legislazione del periodo liberale si caratterizza, in un primo momento (Statuto albertino), per
il riconoscimento della religione cattolica come religione di Stato e per la tolleranza verso gli
altri culti conformi alla legge.
Successivamente, però, vengono promulgate unilateralmente dal Regno d’Italia una serie di leggi eversive del patrimonio ecclesiastico della Chiesa cattolica, che generano forti contrasti col
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Capitolo 1
Papato tanto che lo Stato italiano si trova costretto ad emanare la cd. «legge delle Guarentigie»
del 1871 (1).
Dopo la fine della prima guerra mondiale, la Chiesa e il regime fascista concordarono una soluzione
della questione romana diversa da quella unilaterale offerta dalla legge delle Guarentigie.
Così, dopo una lunga trattativa, si pervenne alla stipula, l’11 febbraio 1929, dei Patti Lateranensi,
che segnavano il ricorso allo strumento pattizio «concordatario», ossia della contrattazione bilaterale
della disciplina dei rapporti fra Stato e Chiesa cattolica.
Nello stesso anno fu approvata anche la legge sui culti ammessi, cui seguì nel 1930 il suo
regolamento di attuazione.
L’avvento della Costituzione del 1948 ha segnato l’ingresso nel nostro ordinamento di alcuni
principi fondamentali in materia religiosa quali:
—
—
—
—
la libertà di religione, riconosciuta sia in forma individuale che associata;
l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose;
il riconoscimento del principio pattizio nei rapporti fra Stato e confessioni religiose;
la conferma di una certa differenziazione fra la posizione della Chiesa cattolica, basata
sui Patti lateranensi, ossia su atti di diritto esterno stipulati fra soggetti di diritto internazionale
(lo Stato italiano e lo Stato della Città del Vaticano), e quella delle altre confessioni, basata su
intese, cioè su atti di diritto interno;
— il disconoscimento del principio della religione di Stato e l’affermazione (più o meno
esplicita) del principio di laicità dello Stato.
Emergeva, con il passare degli anni, la necessità di rivedere le norme concordatarie per armonizzarle
ai principi costituzionali, facendo venire meno quelle in contrasto con la nostra “legge fondamentale”.
Questo processo di revisione concordata, culminò con l’accordo di Villa Madama del 18 febbraio
1984, definito Accordo di modificazione del Concordato lateranense che ha modificato, alla luce
del principio di non discriminazione e di libertà religiosa, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica.
Nel frattempo fu aperta anche la contrattazione bilaterale con le confessioni acattoliche in
attuazione dell’art. 8 Cost.
C) Identità culturale e fenomeno religioso
Parte della dottrina (Botta) ha osservato che oggi il rapporto tra Stato e comunità
religiosa vive una nuova stagione.
Nelle contemporanee società multiculturali, le diverse identità religiose sono più
evidenti e rivendicano ambiti sempre più ampi di autonomia.
Questa situazione, se non disciplinata, può condurre a gravi conflitti ideologici e religiosi, in cui ciascuna istituzione religiosa tenta di condizionare le scelte dello Stato a
partire dal rispetto della propria tavola di valori.
Il problema fondamentale dell’attuale società è trovare un equilibrio tra le diverse
comunità religiose presenti sullo stesso territorio. Per tale motivo, è necessario un
intervento significativo del legislatore volto al soddisfacimento degli interessi religiosi
di tutti i cittadini.
(1) Tale legge, dopo aver riconosciuto al Pontefice immunità, rendite e privilegi in cambio della precedente sottrazione (eversione) di beni (soprattutto immobili), disciplinava in maniera unilaterale i rapporti fra Stato e Chiesa,
cercando di chiudere la questione romana apertasi con la presa di Roma da parte delle truppe italiane il 20
settembre 1870. Il Papa, tuttavia, non accettò mai questa legge e ruppe le relazioni con l’Italia che erano non
basate su un rapporto «paritario», ma disciplinato unilateralmente dal solo Stato e, quindi, in qualsiasi momento
modificabili senza il suo consenso.
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Lo Stato, dunque, ha l’obbligo di tutelare il sentimento religioso:
— a un primo livello, nel momento in cui ci si trova davanti a fattispecie in cui il sentimento religioso rileva in quanto tale, a prescindere da una specifica appartenenza
confessionale, non risultando coinvolti profili di identità personale e collettiva. In
questi casi lo Stato interviene prevalentemente per garantire la libertà religiosa,
attraverso norme ispirate a principi di eguaglianza, libertà e proporzionalità.
— a un secondo livello, quando risultano coinvolti profili di identità e appartenenza ad
una determinata confessione. In tal caso lo Stato interviene utilizzando lo strumento
della contrattazione negoziata della disciplina, introducendo anche particolari forme
di trattamento che, però, non possono intaccare i principi fondamentali del sistema,
tra cui, in primis, il principio laicista.
D)Lo status giuridico delle confessioni religiose
Nel nostro Paese lo status delle confessioni religiose si fonda su due principi:
1. il rispetto di tutte le fedi religiose compatibili con i principi costituzionali e che non
violino il principio del buon costume. Dunque, come vige il principio di libertà
di pensiero in generale, così pure è riconosciuto il principio di libertà di adesione,
pratica e proselitismo per tutti i culti indistintamente;
2. il regime degli accordi: concordato ex art. 7 Cost., intese ex art. 8 c. 3 Cost.
In conclusione, a tutte le confessioni religiose, indipendentemente dall’aver stipulato un
accordo con lo Stato italiano, viene riconosciuta un’autonomia originaria riconosciuta
e riconoscibile. Conseguentemente, lo Stato non deve imporre la propria ingerenza
garantendo a ciascun culto piena libertà in condizione di reciprocità, per cui l’azione
di ciascuna autorità religiosa non deve ledere gli interessi dello Stato.
Infine, come nota Dalla Torre, dalla lettura della Costituzione emerge il riconoscimento
di un favor religionis e un disfavore verso l’ateismo come risposta agli interrogativi
ultimi della vita dell’uomo.
L’attenzione del Costituente al «fattore religioso» (sia nella dimensione individuale
che collettiva, sia positiva che negativa) si concreta nella negoziazione e nel confronto
con i diversi culti e nel rispetto delle loro statuizioni (artt. 7-8) nei limiti dei principi
del nostro ordinamento.
3.I rapporti tra diritto ecclesiastico, diritto canonico e scienze affini
A) Definizione e scopo del diritto canonico
Il diritto canonico può essere definito come «l’insieme delle norme giuridiche, poste
o fatte valere dagli organi competenti della Chiesa cattolica», norme secondo le quali
«la Chiesa è organizzata e che regolano l’attività dei fedeli in relazione ai fini della
Chiesa stessa» (Del Giudice V.).
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Capitolo 1
Da tale definizione si rileva che scopo del diritto canonico è l’organizzazione e la regolamentazione della comunità dei credenti battezzati in Cristo (cd. populus fidelis per
universum orbem dispersus), società che costituisce, nella sua struttura istituzionale,
la Chiesa cattolica (societas iuridice perfecta, in genere suo suprema).
B) Il diverso significato del «diritto ecclesiastico» nella dottrina canonistica
La dottrina «canonistica» definisce «ecclesiastico» il «diritto della Chiesa» che comprende:
— jus sacrum (diritto canonico di origine divina);
— jus pontificium (diritto canonico derivante dall’autorità del Papa e che si esplicita
attraverso le fonti tradizionali pontificie es. bullae etc.);
— jus ecclesiasticum (diritto canonico riguardante la materia residuale).
Il termine «diritto ecclesiastico», quindi, nell’accezione canonistica, indica una branca,
un suo ramo residuale, mentre nel «diritto statuale» indica il complesso delle norme
che riguardano la posizione della Chiesa cattolica entro l’ordinamento statuale.
Quest’ultimo diritto, nella terminologia canonistica, viene detto, invece, «jus publicum
externum».
Secondo Jemolo, la differenza fondamentale fra i due ordinamenti giuridici deriva dal fatto che:
— le norme del diritto canonico sono originarie ed autonome perché fatte valere da uno Stato,
come ha riconosciuto l’art. 7 della Costituzione;
— il diritto ecclesiastico, invece, è un complesso di norme che, per avere efficacia, deve essere
concordato e riconosciuto dall’ordinamento statuale in quanto costituisce un ramo del diritto
interno italiano e fa parte del diritto pubblico.
C) Differenze tra diritto ecclesiastico e scienze affini
Il diritto ecclesiastico non solo non può e non deve essere confuso con il diritto canonico, ma
neanche con le seguenti discipline affini:
— la storia del diritto canonico, che si riferisce a duemila anni di vita giuridica della Chiesa;
— la storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, che riguarda i modelli di relazioni esterne tra i due
poteri (ad es. lo Stato unionista o separatista);
— la storia delle istituzioni religiose, perché le strutture ecclesiastiche e gli ordini religiosi
hanno sempre avuto nel tempo una rilevanza tale da influenzare anche la legislazione di diritto
comune;
— il diritto ecclesiastico comparato, poiché i movimenti religiosi riguardano quasi sempre più
Paesi e quindi più ordinamenti giuridici. La comparazione deve essere effettuata da un punto
di vista interno, e non esterno, all’ordinamento che si considera per non commettere errori di
valutazione.
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4.Collocazione sistematica del diritto ecclesiastico (dei culti) tra le
scienze giuridiche
A) Definizione
Il diritto ecclesiastico (2) costituisce quella parte dell’ordinamento giuridico che ha
per oggetto la disciplina del fenomeno religioso (Tedeschi), cioè il complesso delle
credenze e delle convinzioni dell’uomo organizzate in una visione del mondo fondata
sull’idea del sacro e del divino.
Il fenomeno religioso non coinvolge soltanto l’individuo, come diritto individuale,
ma interessa anche le formazioni sociali in cui si sviluppa la dimensione religiosa della
personalità umana che sono rappresentate dalle comunità di credenti delle diverse fedi
che negli edifici di culto (Chiese, Moschee, Sinagoghe) esercitano un diritto collettivo
quando si riuniscono nella preghiera o quando si associano a diversi fini (es.: assistenza,
proselitismo).
Le norme del «diritto dei culti» non costituiscono un corpo organico unitario, ma si ritrovano in tutti i settori nei quali si articola l’ordinamento giuridico, dal diritto internazionale (al quale
appartengono, ad esempio, le norme delle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo) al diritto
costituzionale (che enuncia i principi fondamentali in materia), al diritto civile (disciplina degli enti
ecclesiastici, matrimonio religioso), al diritto penale (tutela penale del sentimento religioso), al diritto
del lavoro (rapporto di lavoro nelle organizzazioni di tendenza), al diritto amministrativo (edilizia di
culto, beni culturali di interesse religioso).
Altra peculiarità è rappresentata proprio dalla presenza di fonti non solo unilaterali ma anche
di derivazione pattizia, ossia frutto dell’accordo fra lo Stato e le diverse confessioni religiose.
Il diritto ecclesiastico è tradizionalmente considerato una branca del diritto pubblico
anche se in alcuni paesi (Italia, Spagna, America latina) assurge a disciplina «autonoma»
(autonomia scientifica e didattica).
B) Conclusioni
Il diritto ecclesiastico, per sua natura e vocazione, in uno Stato democratico, deve
giovarsi di una struttura policentrica ed articolata che lo connota diversamente dalle
altre scienze giuridiche in quanto:
a) non fa parte del diritto internazionale: il diritto internazionale, infatti, comprende,
nel suo ambito, solo norme che si indirizzano agli «Stati» e alle organizzazioni
considerati come enti sovrani (ciò non esclude, comunque, che esista un «autonomo» diritto ecclesiastico internazionale che regoli i rapporti tra la Santa Sede
e gli altri Stati) anche se vigono e sono riconosciute convenzioni multilaterali o
bilaterali (es. Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite
(10-12-1948), Convenzione dei diritti del fanciullo (L. 176/1991) e numerose
(2) Stando alla etimologia il termine «ecclesia» andrebbe inteso solo come diritto della «Chiesa cattolica» o, al
massimo, delle chiese cristiane. Nella nostra tradizione invece, storicamente si è fatta sempre confusione tra
«diritto dei culti» e «diritto ecclesiastico» che ne rappresenta, invece, una sola parte.
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Capitolo 1
altre convenzioni sulla libertà religiosa delle minoranze nazionali, si lavoratori
migranti etc.) (3);
b) fa parte del diritto interno in quanto trattasi di un complesso di norme che vige
all’interno dello Stato;
c) è un ramo del diritto pubblico (con estensioni nel diritto privato), poiché contempla diritti soggettivi pubblici spettanti a persone fisiche o giuridiche che vivono
nell’organizzazione statale;
d) si relaziona col diritto dell’Unione europea sia convenzionale (trattati) sia non
convenzionale (regolamenti, decisioni e direttive che disciplinano in generale il
fattore religioso, le credenze, etc.).
Si ricordi che le istituzioni dell’Unione europea poste ad un livello separato, ma
preferenziale (primauté del diritto dell’Unione) dai singoli ordinamenti nazionali
finiscono per influenzare i rapporti tra singoli Stati e singoli culti.
La perdita di sovranità dei Paesi membri dovuta al depotenziamento dei rapporti
esclusivi Stato-cittadini creano una convivenza forzata tra i due soggetti sovrani sia in
relazione ai rapporti tra «Parlamenti» (regionali ed europei) sia tra Ministri nazionali
e Consiglio dei Ministri europei sia tra le diverse «corti» in campo giurisdizionale.
Tutto ciò ha determinato una crescita dei punti di accesso e di contatto dei singoli
culti e dei singoli fedeli nei confronti degli organi burocratici nazionali e sopranazionali per la tutela dei propri diritti;
e) non è autonomamente presente in tutti gli ordinamenti: la materia dei rapporti
Stato-confessioni religiose è prevalentemente collocata nell’ambito del diritto
costituzionale e riguarda la disciplina relativa alla discriminazione in materia di
credo religioso, alla libertà di coscienza, di culto, di associazione e riunione etc.
Ciò, però, non esclude che in presenza di comunità sovranazionale il fenomeno
religioso possa essere del tutto «ignorato» dai singoli Stati.
Il metodo del diritto ecclesiastico in senso lato differisce da quello di altri settori
dell’ordinamento in funzione del suo oggetto peculiare. Gli interessi religiosi, infatti,
differiscono significativamente dagli interessi economici o materiali in genere, anche
per il loro carattere immateriale la cui presenza risulta importante nel rispetto dei valori
più intimi dell’uomo: da ciò si evince il favor religionis di cui si è già detto.
Aspetti odierni del diritto ecclesiastico
Numerosi fattori socio-politici hanno influito sullo sviluppo della disciplina in Italia e nell’Occidente:
— la perdita della centralità della Chiesa cattolica e la conseguente crescita degli altri credi religiosi,
del laicismo e dell’ateismo;
— la trasformazione in senso multietnico, multiculturale e multireligioso della società, dovuta
ai forti flussi migratori che hanno rotto l’omogeneità etico-culturale-religiosa;
— la frammentazione dei culti che hanno creato, attraverso le intese, una normativa speciale
differenziata in materia di culti;
(3) Alla luce della dicotomia «diritto ecclesiastico della chiesa cattolica» e «diritto dei culti» occorre rilevare che:
— le fonti del rapporto Stato-chiesa cattolica hanno un fondamento internazionalista (art. 7 Cost.);
— le altre fonti del «diritto dei culti» (intese) hanno rilievo di diritto interno.
Definizione e concetto del diritto ecclesiastico
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— l’importante contributo della giurisprudenza (costituzionale, di legittimità e di merito) che ha
saputo interpretare il cambiamento attraverso coraggiose sentenze (e non sempre ben accettate
dai poteri tradizionali) in cui la voce del popolo si è fatta sentire.
Questionario
1. Quali sono i principali modelli e atteggiamenti che storicamente gli Stati hanno
assunto nei confronti del fenomeno religioso? (§1)
2. Quali sono le fasi del diritto ecclesiastico italiano? (§2)
3. In cosa consiste il diritto canonico? (§3)
4. Quali sono i principi fondamentali in materia religiosa della Costituzione italiana? (§2)
5. Quale principio è stato soppiantato dall’affermarsi della laicità dello Stato? (§2)
6. Cosa si intende per «Questione romana»? (§2)
7. Come si colloca il diritto ecclesiastico nell’ambito delle scienze giuridiche? (§4)
8. Come si giustifica l’autonomia scientifica del diritto ecclesiastico? (§4)
Edizioni Simone - Vol. 32/1 Compendio di diritto ecclesiastico
Capitolo 18Il fenomeno religioso nelle
differenti esperienze attuali
Sommario1. Obiezione e libertà di coscienza. - 2. L’obiezione di coscienza nel pro-
cesso penale e civile: il giuramento. 3. L’obiezione di coscienza al servizio
militare. - 4. L’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria di gravidanza
e all’intervento di procreazione medicalmente assistita. - 5. L’obiezione
di coscienza alla sperimentazione animale. - 6. Il rifiuto dei trattamenti
sanitari. - 7. Lo stato vegetativo cd. «persistente» e il testamento biologico.
8. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso. - 9. Le adozioni da parte
di coppie omosessuali. 10. La procreazione medicalmente assistita. - 11.
La surrogazione di maternità. - 12. L’assistenza spirituale nelle strutture
obbliganti. - 13. L’insegnamento della religione nella scuola. 14. Diritto
penale e fenomeno religioso. - 15. Pubblicità religiosa e trattamento dei
dati personali. - 16. Lavoro subordinato e fattore religioso. - 17. Simboli
religiosi, pratiche religiose e ordinamento statale.
1.Obiezione e libertà di coscienza
L’obiezione di coscienza si collega direttamente alla libertà di coscienza, ossia al
diritto di comportarsi in maniera conforme ai propri convincimenti sia religiosi che
morali o filosofici.
Il tema della libertà di coscienza, riconosciuta in tutti gli ordinamenti a base democratica, è intrecciato con il principio di laicità, in quanto uno Stato laico deve mantenersi
equidistante dalle diverse confessioni religiose per consentire a ciascuno di comportarsi
secondo la propria coscienza e le proprie convinzioni e salvaguardare anche la libertà
di chi non ha alcun credo religioso.
Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza è principio accettato e legalizzato anche
se presuppone un conflitto fra le convinzioni e gli imperativi religiosi e morali dell’individuo, da una parte, e gli obblighi derivanti da norme di legge dall’altra.
In particolare, l’obiezione di coscienza implica che il legislatore consenta all’individuo
di far prevalere i propri convincimenti anche sui doveri inderogabili imposti dalla
Costituzione.
Tale prevalenza non deve, tuttavia, essere assoluta o arbitraria, tenuto conto della necessità
di non pregiudicare il funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse
generale. Allo stesso tempo, l’ordinamento deve pur sempre riconoscere il carattere fondante della libertà di coscienza in quanto rappresenta un diritto fondamentale della persona.
Specifiche norme sull’obiezione di coscienza sono contenute anche nelle leggi che recepiscono
le intese con le confessioni acattoliche: l’art. 6 della legge n. 516 del 1988, ad esempio, nel
prendere atto che la Chiesa cristiana avventista è per motivi di fede contraria all’uso delle armi,
garantisce che gli avventisti, nel caso in cui fossero soggetti all’obbligo del servizio militare, debbano
essere assegnati, su loro richiesta e nel rispetto delle disposizioni sull’obiezione di coscienza, al
servizio sostitutivo.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 191
L’art. 4 della legge n. 245 del 2012 di ratifica dell’intesa con l’Unione buddhista italiana prende
atto della sospensione del servizio militare obbligatorio e stabilisce che, in caso di ripristino di
tale servizio, gli appartenenti agli organismi rappresentati dall’UBI, soggetti all’obbligo del servizio militare, siano assegnati, su loro richiesta e nel rispetto delle disposizioni sull’obiezione di
coscienza, al servizio civile.
Di seguito si evidenziano le principali ipotesi di obiezione di coscienza riconosciute nel
nostro ordinamento, tenuto conto che alcune forme (es. in materia fiscale) non sono
state legalizzate perché si ritiene che non costituiscano diritti fondamentali dell’uomo.
2.L’obiezione di coscienza nel processo penale e civile: il giuramento
Le attuali norme sul processo penale (497 c.p.p.) e sul processo civile (art. 251 c.p.c.)
configurano il giuramento dei testimoni non più come assunzione di responsabilità
davanti a Dio, se credente, o agli uomini, bensì impongono al giudice di avvertire il
testimone dell’obbligo di dire la verità e delle conseguenze penali di dichiarazioni
false e reticenti e configurano la dichiarazione del testimone in termini di impegno a
dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto a sua conoscenza, consapevole
della responsabilità morale e giuridica che si assume con la deposizione.
In realtà, soltanto con l’entrata in vigore dell’ultimo codice di procedura penale si è
avuto un intervento esplicito del legislatore, mentre per adeguare la corrispondente
norma processuale civile sono stati necessari due interventi della Corte costituzionale
(sentenza n. 117 del 1979 e sentenza n. 149 del 1995).
La Corte costituzionale ha evidenziato nelle sue pronunce che la libertà di coscienza
viene egualmente violata quando ad un non credente si impongono atti con significato
religioso. I turbamenti di coscienza, peraltro, possono riguardare anche quei credenti la
cui religione di appartenenza faccia divieto di prestare giuramento. Ad analoga soluzione
la Corte è pervenuta anche per il giuramento decisorio previsto dal codice di procedura
civile (sentenza n. 334 del 1996), che attualmente viene pronunciato nel seguente modo:
«consapevole della responsabilità che col giuramento assumo … giuro…».
3.L’obiezione di coscienza al servizio militare
Tra i doveri inderogabili di solidarietà politica menzionati nell’art. 2 della Costituzione
si inserisce il dovere di difesa della Patria proclamato dall’art. 52 Cost.
In particolare, il co. 1 dell’art. 52 definisce tale dovere come «sacro» non connotandolo
però di alcun significato religioso, dovendosi intendere laicamente come condivisione
collettiva dei principi intangibili della Repubblica da parte di tutti i cittadini.
In questo senso la difesa della Patria può anche assumere diverse forme di solidarietà
nei confronti della comunità diverse dal servizio militare armato.
La Corte costituzionale con sent. 53/1967 ha ritenuto possibile che la legge preveda l’estensione di
tale dovere anche all’apolide e allo straniero (se residente nel territorio della Repubblica) in quanto
appartenenti a una comunità della quale sono tenuti a condividerne la difesa.
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Capitolo 18
Il dovere di difesa della Patria si traduce, ex art. 52, co. 2, nell’obbligo di prestare il
servizio militare nei limiti e secondo le modalità stabilite dalla legge (D.P.R. 237/1964).
Tale obbligo, da sempre oggetto di contestazione da parte degli obiettori di coscienza, ha trovato in
seguito riconoscimento da parte della Corte costituzionale che, con sent. 164/1985 ha sottolineato
come il dovere di difendere la Patria possa essere correttamente adempiuto anche attraverso
adeguati comportamenti di impegno sociale non armato.
Successivamente, la L. 15 dicembre 1972, n. 772 (abrogata e migliorata dalla L. 8 luglio
1998, n. 230), introducendo un servizio civile sostitutivo e alternativo di pari durata
temporale, ha riconosciuto l’obiezione di coscienza quale diritto di quell’individuo che,
contrario all’uso delle armi, non accetti l’arruolamento nelle Forze armate, preferendo
impegnarsi in attività socialmente utili.
Con la L. 14-11-2000, n. 331, il legislatore ha provveduto ad una radicale riforma
delle nostre Forze armate, introducendo il servizio militare professionale, riforma
resa operativa con il D.Lgs. 8-5-2001, n. 215.
L’art. 7 di tale decreto ha sancito la sospensione del servizio obbligatorio di leva a
partire dal 1° gennaio 2005. Nello stesso anno è stata emanata la L. 6-3-2001, n. 64 che
ha istituito il servizio civile nazionale che consiste nel dedicare 12 mesi a iniziative
di solidarietà sociale.
Sulla fitta trama normativa di cui sopra, in attuazione della L. 28 novembre 2005, n.
246, sono stati emanati il D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, cd. Codice dell’ordinamento
militare e il Testo Unico recante disposizioni regolamentari in materia di ordinamento
militare (D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90).
Il Codice dell’ordinamento militare, ripartito in nove libri, tratta al Libro VIII del
servizio militare e del servizio degli obiettori di coscienza in tempo di guerra o di grave
crisi internazionale. Esso, nell’abrogare tutti i precedenti provvedimenti della materia (tra essi anche la citata L. 331/2000, buona parte del D.Lgs. 215/2001 e il D.Lgs.
197/2005), ne riprende in buona sostanza i contenuti, riformulandoli adeguatamente.
È opportuno rimarcare che, in caso di deliberazione dello stato di guerra o in presenza
di una grave crisi internazionale nella quale l’Italia sia coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad un’organizzazione internazionale, la base obbligatoria
dell’organizzazione delle Forze armate può essere sempre attivata. In tal caso la
leva obbligatoria può essere attivata quando il personale in servizio sia insufficiente
e non sia possibile colmare la vacanza di organico mediante il richiamo del personale
volontario cessato dal servizio da non più di cinque anni (art. 192, D.Lgs. 66/2010).
4.L’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria di gravidanza e
all’intervento di procreazione medicalmente assistita
L’obiezione di coscienza nei confronti delle procedure e delle attività dirette a determinare l’interruzione della gravidanza e l’intervento di procreazione medicalmente
assistita (vedi par. 4) è riconosciuta, rispettivamente, dall’art. 9 della legge n. 194 del
1978 e dall’art. 16 della legge n. 40 del 2004 in maniera sostanzialmente simile.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 193
L’obiezione di coscienza riguarda il personale sanitario e quello esercente le attività
sanitarie ausiliarie.
L’obiezione esonera il personale dal compimento delle attività specificamente dirette
a determinare l’interruzione della gravidanza. Siffatta dichiarazione deve essere presentata entro tre mesi dall’entrata in servizio dell’impiegato e può essere dallo stesso
successivamente revocata.
Conformemente la Corte di Cassazione (sent. 2-4-2013, n. 14979) ha statuito che integra il reato di
omissione di atti di ufficio il rifiuto del medico obiettore di prestare assistenza ad una paziente che
ha già subito un intervento interruttivo della gravidanza. La legge, infatti, tutela, dunque, il diritto
di obiezione entro lo stretto limite delle attività dirette alla interruzione della gravidanza, esaurite
le quali il medico obiettore non può opporre alcun rifiuto dal prestare genericamente assistenza.
Per l’interruzione di gravidanza è, altresì, previsto che l’obiezione di coscienza non può
essere invocata quando, data la particolarità delle circostanze, il personale intervento
dell’obiettore si dimostra indispensabile per salvare la vita della paziente che si trovi
in imminente pericolo di vita.
Molto controversa è la questione se rientri nell’obiezione di coscienza la possibilità
del medico di non prescrivere farmaci come la cd. «pillola del giorno dopo», forma di
contraccettivo ad effetto tardivo che, per poter agire efficacemente, deve essere assunto
subito dopo la consumazione di un rapporto sessuale non protetto e, comunque, non
oltre le 72 ore (1).
5.L’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale
La legge n. 413 del 1993 riconosce anche il diritto di obiezione di coscienza a coloro
i quali si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi relativamente ad ogni atto
connesso con la sperimentazione animale (vivisezione etc.).
Tale diritto è riconosciuto a medici, ricercatori, personale sanitario dei ruoli dei professionisti laureati, tecnici ed infermieristici, nonché agli studenti universitari coinvolti
e riguarda tutte le attività ed interventi specificamente e necessariamente diretti alla
sperimentazione animale.
Tale diritto viene esercitato con una dichiarazione formulata in tempi e secondo modalità differenti a seconda di chi esercita il diritto all’obiezione.
6.Il rifiuto dei trattamenti sanitari
L’art. 32, co. 2, Cost. stabilisce che «Nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso
violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
(1) Si precisa che non si può parlare di obiezione in caso di uso della pillola RU486, i cui effetti pacificamente
abortivi fanno sì che il suo utilizzo debba sottostare alla disciplina generale sull’interruzione volontaria della
gravidanza, prevista dalla L. 194/1978, ivi comprese le disposizioni in materia di obiezione di coscienza.
194

Capitolo 18
Da ciò si evince che, al di fuori dei trattamenti sanitari obbligatori (ad es. talune vaccinazioni con scopo profilattico) il principio generale vigente è quello della volontarietà
dei trattamenti sanitari.
Tuttavia il vivace e talvolta aspro dibattito nato attorno al diritto del paziente a non
sottoporsi alle cure mediche e, in taluni casi, come conseguenza, il diritto a lasciarsi
morire, pretendendo dai medici il rispetto della propria volontà a non essere sottoposto
a cura alcuna, dà la misura del perché sia così difficile nell’ordinamento italiano indurre
il legislatore a mettere fine alla disputa che vede contrapporsi giudicati e posizioni
dottrinali.
È evidente che, in assenza di un preciso quadro normativo di riferimento e per quanto
possa essere poco auspicabile, è la giurisprudenza ad assumere un ruolo fondamentale,
come si vedrà nel corso della trattazione.
Riguardo al rifiuto dei trattamenti sanitari per motivi religiosi il problema si è posto
soprattutto in relazione al rifiuto delle emotrasfusioni da parte dei Testimoni di Geova
motivato da una particolare interpretazione di alcuni passi della Bibbia (Levitico 17, 10).
Una manifestazione di volontà in tal senso entra in conflitto con due interessi pubblici
fondamentali: l’interesse dello Stato a tutelare la vita e la salute dei propri cittadini e
l’interesse a salvaguardare l’integrità etica della professione medica, la cui finalità è
proprio quella di assistere dal punto di vista sanitario coloro che si affidano alle terapie.
Al momento, in assenza di leggi che impongono questo tipo di trattamento sanitario
– che pertanto non può ritenersi obbligatorio – si è formato un orientamento dottrinale
(Modugno, Prisco) e giurisprudenziale che ritiene legittimi i provvedimenti giudiziari autorizzatori di emotrasfusioni contro la volontà del paziente, soprattutto
quando vi sia il fondato sospetto che tale volontà non sia il frutto di libera e autonoma
determinazione.
Così la Corte di Cassazione, Civile, Sez. III, che con sent. 23-2-2007, n. 4211 ha ritenuto legittimo il comportamento dei sanitari che pratichino una trasfusione al paziente in pericolo di vita, in
forza di un ragionevole convincimento che il rifiuto, manifestato da quest’ultimo al momento del
ricovero, non sia più valido ed operante; anche il dissenso, come il consenso, deve infatti essere
inequivoco, attuale, effettivo e consapevole.
Si veda anche Cass. penale Sez. IV, sent. 18-5-2006, n. 16995 per la quale lo stato di incoscienza
del paziente priva il diniego, precedentemente manifestato nei confronti della sottoposizione ad
emotrasfusioni, del necessario requisito della attualità del dissenso. Inoltre, il grave stato di necessità impone, in ogni caso, ai sanitari il ricorso a qualunque intervento terapeutico necessario
per salvare la vita del paziente.
Tale orientamento si basa sul presupposto dell’indisponibilità del diritto alla vita e del
corrispondente dovere di curarsi nonché dell’obbligo peculiare del personale sanitario
di prestare sempre e comunque la propria opera a tutela della vita in caso di ricovero.
Tuttavia, parte della dottrina (Moneta) ritiene che si debba dare prevalenza alle convinzioni spirituali e religiose del soggetto rispetto alla tutela della sua stessa vita, una
volta accertata con sicurezza la volontà di non sottoporsi alle emotrasfusioni.
In giurisprudenza tale orientamento è stato fatto proprio dalla Cass., Civile, Sez. III, che con
sent. 15-9-2008, n. 23676 ha ritenuto che nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 195
del paziente, il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata. Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica,
ma concretamente accertata. Ciò non implica che, in tutti i casi in cui il paziente portatore di forti
convinzioni etico-religiose – come è appunto il caso dei testimoni di Geova – si trovi in stato di
incoscienza, debba per questo subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede, ma
comporta che a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale sia o lo stesso paziente con
puntuale ed espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la
trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato in
veste di rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo,
confermi tale dissenso.
Il principio che la decisione terapeutica trova nel consenso informato e nell’autodeterminazione del paziente il suo principio e la sua fine, poiché è il singolo paziente (e
non un astratto concetto di cura, di bene, etc.) il valore primo ed ultimo che l’intervento
medico deve salvaguardare lo stesso principio è stato fatto proprio dal Consiglio di
Stato con sent. 2 settembre 2014, n. 4460.
La Corte ha riconosciuto che «a fronte del diritto, inviolabile, che il paziente ha di rifiutare le cure,
interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte
dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato, non potendo essa contrapporre a tale diritto una propria nozione di prestazione
sanitaria né subordinare il ricovero del malato alla sola accettazione delle cure. Non può dunque
l’Amministrazione sanitaria sottrarsi al suo obbligo di curare il malato e di accettarne il ricovero,
anche di quello che rifiuti un determinato trattamento sanitario nella consapevolezza della certa
conseguente morte, adducendo una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione
sanitaria che, in termini di necessaria beneficialità, contempli e consenta solo la prosecuzione della
vita e non, invece, l’accettazione della morte da parte del consapevole paziente».
In merito ai trattamenti sanitari obbligatori rileva la sentenza della Corte di Cassazione
20 luglio 2015, n. 15138 che ha stabilito che per ottenere la rettificazione degli atti
anagrafici non è obbligatorio l’intervento di adeguamento degli organi riproduttivi.
Nel caso di specie, un trans di 45 anni aveva rinunciato alla demolizione-ricostruzione chirurgica
dei propri caratteri primari, avendo raggiunto un equilibrio psico-fisico dopo 25 anni vissuti come
donna. Sia il tribunale di Piacenza che la corte d’appello di Bologna, a cui la stessa si era rivolta
per ottenere la rettificazione dello stato civile pure in assenza dell’intervento chirurgico, avevano
respinto la richiesta aderendo a quell’orientamento giurisprudenziale prevalente che subordinava
la modifica dei dati anagrafici alla concreta esecuzione del trattamento chirurgico sui caratteri
sessuali primari.
Secondo la Cassazione, in conclusione, l’interesse pubblico alla definizione certa dei
generi, anche considerando le implicazioni che ne possono conseguire in ordine alle
relazioni familiari e filiali, non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della
propria integrità psico-fisica. L’acquisizione di una nuova identità di genere può essere
il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà
e univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia accertata, ove
necessario, mediante rigoroso accertamenti tecnici in sede giudiziale.
196

Capitolo 18
7.Lo stato vegetativo cd. «persistente» e il testamento biologico
L’ampio eco di cronaca suscitato qualche anno fa dalla drammatica vicenda di Eluana
Englaro e da altri casi analoghi ha tenuto a lungo in primo piano il dibattito sui temi legati
alle questioni di fine vita e in particolare sulla possibilità di sospendere la nutrizione
ed idratazione artificiali nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza.
Così si è svolta la vicenda umana e giudiziaria di Eluana Englaro. Nel 1999, a sette anni di distanza
dal tragico incidente, il padre della donna, nominato tutore, resosi conto della situazione disperata
della figlia ha iniziato a chiedere per via giudiziaria la sospensione dell’alimentazione artificiale
e delle terapie. Il genitore ha portato a supporto della richiesta diverse testimonianze volte a dimostrare l’inconciliabilità dello stato in cui si trovava e del trattamento di sostegno forzato che le
consentiva artificialmente di sopravvivere (alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico)
con le precedenti convinzioni della figlia sulla vita e sulla dignità individuale.
Il procedimento è arrivato fino alla Corte di Cassazione che con sent. n. 21748 del 2007 ha fissato
due presupposti necessari per poter autorizzare l’interruzione dell’alimentazione artificiale:
— che «la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a
livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure
flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno»;
— che «tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero
dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo
di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona».
Con decreto del 9 luglio 2008, la Corte d’Appello Civile di Milano ha autorizzato il padre, in qualità
di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata che manteneva in
vita la figlia Eluana per «mancanza della benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile,
recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno».
Le Suore Misericordine di Como, che dal 1994 si sono occupate di Eluana presso una casa di cura
di Lecco, si sono rifiutate di interrompere l’idratazione e l’alimentazione forzate manifestando la
completa disponibilità a continuare ad assistere la paziente. Per tale motivo il padre ha deciso di
trasferire la figlia presso altra struttura ove non vi erano ostacoli a dare seguito alle sue volontà
(certificate nel decreto attraverso le testimonianze).
Il 13 novembre 2008 la Corte di Cassazione (Sez. Unite, n. 27145) ha respinto il ricorso della
procura di Milano contro l’interruzione di alimentazione e idratazione artificiale, accogliendo così
la volontà del padre di Eluana.
Con nota del 22 dicembre 2008 anche la Corte europea per i diritti dell’uomo ha respinto le richieste
di varie associazioni contrarie all’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione non giudicando
sul caso specifico, ma semplicemente considerando la richiesta «irricevibile» quando «i ricorrenti
non hanno alcun legame diretto».
Dopo ulteriori vicende giudiziarie legate al rifiuto di diverse strutture sanitarie di eseguire il protocollo si è
resa disponibile una residenza sanitaria di Udine che ha posto in atto il protocollo di sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale. La morte di Eluana Englaro è, così, sopravvenuta il 9 febbraio 2009.
Il punto di principale divergenza del dibattito parlamentare in Italia verte dunque:
a) nello stabilire se la nutrizione artificiale debba considerarsi terapia o sostentamento vitale e se la loro eventuale sospensione possa essere effettuata da terzi
in mancanza di una diretta ed esplicita volontà del paziente;
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 197
b) nell’introdurre nell’ordinamento il cd. testamento biologico, ossia una dichiarazione anticipata di trattamento che costituisca l’espressione della volontà da parte
di una persona, fornita in condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che
intende o non intende accettare nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire
alle cure proposte (consenso informato) per malattie o lesioni traumatiche cerebrali
irreversibili o invalidanti.
In merito alla prima questione, nell’ipotesi in cui la nutrizione artificiale venga
considerata solo una terapia, la sospensione dell’alimentazione e della idratazione
(configurabili ipotesi di «accanimento terapeutico»), troverebbe riscontro alla sua
applicabilità nell’art. 32 Cost. oltre che nel Codice di Deontologia Medica, dopo
un ragionevole accertamento della originaria volontà del paziente. Viceversa, considerando l’alimentazione e la nutrizione alla stregua di un sostentamento vitale,
la sospensione di tale pratica si configurerebbe come forma di eutanasia, poiché il
paziente che ne venisse privato non morirebbe per le conseguenze dirette della patologia da cui è affetto, come accade per l’interruzione di una cura, ma per l’omissione
di una forma di sostegno.
A livello internazionale, dal punto di vista scientifico e bioetico, le interpretazioni
prevalenti sono quelle di considerare l’alimentazione e l’idratazione forzata, anche
per individui in stato vegetativo persistente, come un trattamento medico liberamente
rifiutabile dal paziente o dal suo rappresentante legale, mentre in Italia il Comitato
nazionale di bioetica si è espresso nel 2005 in senso contrario.
Riguardo alla decisione sulla sospensione delle terapie da parte di terzi, lo stesso
Codice di Deontologia Medica, all’articolo 34, afferma che il medico, in assenza di
una esplicita manifestazione della volontà del paziente, dovrà comunque tenere conto
delle precedenti manifestazioni di volontà dallo stesso, in aderenza alla Convenzione
europea di bioetica del 1997, ratificata dal Parlamento italiano con L. 28-3-2001, n. 145.
La discussione politica in Italia è sfociata in diverse proposte di legge volte a regolare la
materia, nessuna delle quali, però, sembra avere le condizioni per una sua approvazione
da parte dei due rami del Parlamento.
La Chiesa cattolica è contraria al testamento biologico che si risolva in una autorizzazione anticipata della morte con un intervento attivo, ma è favorevole all’introduzione
della dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) che, riconoscendo valore legale
a dichiarazioni inequivocabili e rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato e consentano il rispetto delle
volontà di autodeterminazione dell’individuo anche contro l’accanimento terapeutico. Inoltre, per la Chiesa cattolica, bisogna guardarsi dal pretendere di interpretare
le espresse volontà del paziente come un obbligo costrittivo per l’agire del medico,
soprattutto quando tali volontà fossero in contrasto sostanziale con la sua deontologia
professionale e, soprattutto, con la sua coscienza che sempre va rispettata e tutelata,
al pari di quella del paziente.
Diversa è la posizione sull’argomento delle chiese cristiane non cattoliche.
198

Capitolo 18
La Chiesa valdese (di Milano), ad esempio ha attivato uno sportello pubblico per la
raccolta delle dichiarazioni anticipate di fine vita di tutti i cittadini, valdesi e non,
nel caso vengano a trovarsi in una situazione di perdita della capacità di decidere o
di impossibilità di comunicare, temporaneamente o permanentemente. I valdesi, a
differenza della posizione sostenuta dalla C.E.I., considerano trattamenti sanitari tutti
gli interventi che i sanitari possono mettere in atto, compresi quelli di idratazione ed
alimentazione forzata.
In assenza di una disciplina nazionale, alcune Regioni hanno istituito registri regionali per le
dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario e approvato con legge regionale provvedimenti
per favorire la raccolta della volontà di donazione degli organi e dei tessuti (Legge regionale del
Friuli Venezia Giulia 13 marzo 2015, n. 4).
Allo stesso modo hanno provveduto alcuni Comuni con l’istituzioni di appositi registri (ad es. il
Comune di Napoli ha approvato con delibera n. 125 del 27 marzo 2014 il «Registro dei testamenti
Biologici», che raccoglie le dichiarazioni dei cittadini che vogliono esercitare su base volontaria il
proprio diritto all’autodeterminazione sul trattamento sanitario di fine vita).
8.Il matrimonio tra persone dello stesso sesso
A) Il «punto» sulla questione
Il costante mutamento dei principi di etica collettiva ha determinato, nella realtà sociale
attuale, una presenza sempre maggiore di modelli familiari non fondati sul matrimonio.
Il fenomeno ha seguito di pari passo l’emersione di unioni familiari diverse dal tipo
riconosciuto, così come segnalato non solo dagli operatori giuridici, ma anche da
sociologi e politologi, al punto che oramai si parla di crisi dell’istituzione familiare
tradizionale, determinata sia dal mutato rapporto legge-famiglia, sia dalla perdita di
centralità della famiglia «legittima» nella nuova realtà sociale.
Si parla, dunque, rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio (cd. famiglia legittima)
di famiglia naturale o di fatto, costituita da persone che convivono more uxorio.
La rilevanza giuridica di tale unione è oggetto di discussione in dottrina e in giurisprudenza, soprattutto in considerazione dell’assenza di una compiuta ed espressa regolamentazione del fenomeno, esistendo solo una serie di norme di recente emanazione,
peraltro sporadiche e prive di coordinamento (ad es. art. 337sexies in tema di assegnazione della casa familiare; diritto di subentrare nel contratto di locazione intestato
al partner, art. 6, L. 392/1978; possibilità di ricorrere alla procreazione medicalmente
assistita, art. 5, L. 40/2004 etc.).
Ancor più polemiche ha generato l’eventuale riconoscimento delle unioni omosessuali.
Da tempo, la cultura giuridica europea si è interessata a tali «rapporti parafamiliari» al fine di
riconoscere loro una qualche forma di legalizzazione.
Il quadro europeo in materia non è univoco: alcuni paesi come Olanda, Belgio e Spagna riconoscono il matrimonio fra omosessuali, mentre altri come Danimarca, Norvegia e Svezia riconoscono
tali unioni come fattispecie diverse con precise limitazioni soprattutto in materia di adozione.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 199
Un importante contributo è stato fornito dalla sent. 138/2010 della Corte costituzionale
la quale ne ha riconosciuto la possibilità di tutela in quanto tali unioni costituiscono,
comunque, una species di «formazione sociale». La Consulta, nel contempo, ha invitato
il legislatore a emanare una disciplina generale per regolarizzare i diritti e i doveri di
componente della coppia omosessuale che ex se non presenta le caratteristiche che
possono costituire una species del matrimonio disciplinato dall’art. 29 Cost.
Tali unioni, per la sentenza 138/2010, non sono ancora state «metabolizzate» nel nostro Paese
come forme legali alternative di matrimonio per la notevole influenza del fattore religioso dominante. È necessario, dunque, l’intervento del legislatore al fine di «bilanciare» i diversi interessi
coinvolti, anche per non pregiudicare i caratteri fondanti del nostro sistema (LACATENA). È stati
richiamato l’art. 3 Cost. per evidenziare che, pur rappresentando queste una comunità di vita e
di affetti (rientrerebbero, infatti, nelle formazioni sociali tutelate dalla Costituzione), non ricevono
alcun tipo di tutela, a causa del diffuso senso di riprovazione sociale che accompagna tali legami
nella visione di una parte consistente dei cittadini di orientamento cattolico presente nel nostro
Paese. La Corte costituzionale ha invece affermato che l’unione omosessuale deve considerarsi
«formazione sociale» in quanto idonea a consentire lo sviluppo della persona nella vita sociale:
se tale forma di unione costituisce una stabile relazione di convivenza pari a quella della coppia
non è, comunque, equiparabile al matrimonio dal momento che una disciplina più dettagliata di
tale forma di unione costituisce un compito del Parlamento.
Successivamente, è intervenuta la Corte di Cassazione che, con sent. 4184/2012, ha
stabilito che due persone dello stesso sesso non possono contrarre matrimonio né trascrivere il contratto all’estero, tesi condivisa dalla Corte costituzionale (sent. 4/2011,
138/2010, 167/2010) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Inoltre, con sent. 601/2012 della prima sezione civile della Corte di Cassazione è stata
riconosciuta alle coppie omosessuali (che danno adeguate garanzie) la possibilità di
allevare i minori non essendo scientificamente dimostrato che l’orientamento sessuale
comporti un condizionamento per l’equilibrato sviluppo di un minore. In particolare,
eventuali ripercussioni negative, per assurgere a legittimi motivi discriminatori da tale
diverso contesto familiare, devono essere dimostrate.
Altro episodio che ha destato accesi dibattiti è relativo alla possibile trascrizione
nei registri di stato civile dei matrimoni contratti all’estero da parte dei sindaci
(Bologna, Milano, Roma etc.).
La Corte di Cassazione, con sent. n. 4184/2012 e n. 2400/2015, ha escluso la contrarietà all’ordine pubblico del titolo matrimoniale estero, pur riconoscendone l’inidoneità
a produrre nel nostro ordinamento gli effetti del vincolo matrimoniale.
Tuttavia, il Tribunale di Grosseto, con sent. n. 113/2015, ha decretato che l’Ufficiale di
stato civile provvedesse alla trascrizione nei registri dello Stato civile del matrimonio
celebrato all’estero con rito civile tra persone dello stesso sesso.
Va, infine, menzionata la sent. 170/2014 della Corte costituzionale in base nella quale
sono dichiarate incostituzionali gli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme
in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedono
che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti
200

Capitolo 18
alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di
mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima.
La Consulta, quindi, sollecita il legislatore a introdurre una forma alternativa (e diversa
dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di
massima protezione giuridica a una condizione di assoluta indeterminatezza la quale
comporta un deficit di tutela dei diritti dei soggetti coinvolti.
Il disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili e sulla convivenza di fatto
Il ddl Cirinnà, approvato dal Senato e attualmente all’esame della Camera, prevede una normativa
ad hoc:
— per le unioni di fatto tra persone dello stesso sesso;
— per la convivenza di fatto tra due persone maggiorenni, dello stesso sesso o di sesso diverso,
unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non
vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, che
non intendano o non possano legarsi con un vincolo matrimoniale.
Con la costituzione dell’unione civile, le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri
e sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale
e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. Dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza
morale e materiale e alla coabitazione. Il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello
stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni.
Il ddl Cirinnà prevede una serie di cause impeditive per la costituzione dell’unione civile, la cui
sussistenza determina la nullità:
—
—
—
—
la sussistenza di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso;
l’interdizione per infermità di mente;
la sussistenza di rapporti di affinità o parentela;
la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia
coniugato o unito civilmente con l’altra parte.
La convivenza di fatto richiede, oltre alla coabitazione, la maggiore età dei conviventi (di sesso
diverso o dello stesso sesso), la sussistenza di legami affettivi e di reciproca assistenza morale e
materiale, l’assenza di vincoli di parentela, affinità o adozione oppure derivanti da matrimonio o da
un’unione civile.
I conviventi di fatto:
— hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (ad
es., diritto di visita in carcere);
— in caso di malattia o di ricovero hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso
alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di
assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari.
Ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante in caso di malattia che
comporti incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute, nonché, in caso di
morte, per la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
In caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, al convivente di fatto superstite spetta
il diritto di abitazione per due anni o per un periodo pari alla durata della convivenza se superiore a
due anni fino ad un massimo di cinque anni.
Nel caso di coabitazione di figli minori o di figli disabili del convivente superstite, il diritto di abitazione si protrae per un periodo non inferiore a tre anni.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 201
Il diritto di abitazione viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente
nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.
Il convivente di fatto può succedere nel contratto di locazione della casa di comune residenza nel
caso di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto.
In caso di cessazione della convivenza di fatto il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere
dall’altro convivente gli alimenti, qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere
al proprio mantenimento.
Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro
convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi
nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato
(art. 230ter c.c.).
B) Il punto di vista della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose
La Chiesa cattolica si oppone non solo al matrimonio omosessuale, ma a qualsiasi
tipo di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali.
Il rifiuto della Chiesa cattolica oltre ad essere motivato dall’interpretazione delle Sacre
Scritture, avvalorato dalla Tradizione e dal Magistero, si basa anche su una serie di
ragioni non confessionali.
Si fa rilevare che il matrimonio eterosessuale non è stato inventato dalla Chiesa, ma
è un istituto giuridico riscontrabile in tutte le culture e in tutti i tempi, finalizzato a
garantire l’ordine delle generazioni: di conseguenza non si tratta di difendere un dogma
di fede ma una dimensione del bene umano oggettivo.
Come corollario ne discende che poiché le coppie matrimoniali eterosessuali svolgono il
ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico,
il diritto civile conferisce loro un riconoscimento istituzionale: le unioni omosessuali,
al contrario, non esigono una specifica attenzione da parte dell’ordinamento giuridico,
perché non rivestono il suddetto ruolo per il bene comune. Gli omosessuali, in quanto
esseri umani e in quanto cittadini, possono sempre ricorrere come tutti i cittadini e a
partire dalla loro autonomia privata al diritto comune per tutelare situazioni giuridiche
di reciproco interesse (reversibilità della pensione, subentro nel contratto di locazione,
assistenza ospedaliera, diritti successori etc.).
Fortemente contraria al matrimonio omosessuale e all’omosessualità in genere è anche
la Chiesa ortodossa russa.
Più variegata è la posizione delle Chiese evangeliche dove il tema dell’omosessualità
è stato al centro di recenti prese di posizione da parte di organismi rappresentativi. Il
protestantesimo storico sembra allineato a tesi possibiliste e permissive, anche se in
alcune chiese questo tema suscita vivaci polemiche. Una posizione di apertura è stata
assunta ad esempio, dalla Chiesa presbiteriana U.S.A. che riconosce il matrimonio tra
persone dello stesso sesso dal marzo 2015 e dalla Chiesa evangelica valdese, mentre
un atteggiamento ostile è dominante in larghe frange della Chiesa battista.
L’ebraismo riformato o liberale (maggioritario negli U.S.A.), accetta ormai da molti anni
di celebrare benedizioni delle convivenze fra persone dello stesso sesso. Queste cerimonie
non equivalgono però, alla celebrazione di matrimoni omosessuali in senso ebraico. Questa
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Capitolo 18
scelta trova l’opposizione da parte delle correnti ortodossa e conservatrice, maggioritarie
fra gli ebrei che vivono fuori dagli Stati Uniti d’America, ivi inclusa Israele.
La netta maggioranza degli islamici è fortemente ostile all’ omosessualità e al matrimonio fra persone dello stesso sesso che non è riconosciuto in nessuno degli Stati al
mondo a maggioranza musulmana.
L’islam progressista, invece, riconosce pari dignità alle coppie omosessuali e ai matrimoni religiosi islamici tra persone dello stesso sesso che sono celebrati da vari imam
segretamente in Africa settentrionale e Medio Oriente, pubblicamente in America del
Nord, Europa e Sud Africa.
Nel Buddhismo il matrimonio è considerato un contratto secolare, regolato dalle leggi
dello Stato, del tutto distinto dalla sfera religiosa. Pertanto non si pone alcuna posizione specifica nel Buddhismo in merito al matrimonio tra persone dello stesso sesso, in
quanto appartiene a una sfera, quella matrimoniale, avvertita come totalmente distinta
rispetto alla sfera spirituale.
9.Le adozioni da parte di coppie omosessuali
Conseguente tema eticamente scottante è quello della possibilità di adozioni da parte
di coppie dello stesso sesso. La L. 4 maggio 1983, n. 184 prevede che la dichiarazione
di disponibilità all’adozione debba essere effettuata da una coppia coniugata da almeno
tre anni. Il periodo di convivenza more uxorio è considerato alla stessa stregua di quello
del matrimonio, fermo restando il fatto che la coppia deve comunque essere coniugata
al momento della presentazione della disponibilità. Ne deriva che dal momento che in
Italia l’attuale legislazione vieta il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’adozione
da parte di coppie omosessuali non è possibile (2).
Una timida apertura alle «adozioni gay» si registra con la sent. della Corte di Cassazione 11-1-2013, n. 6 che per la prima volta ha ammesso la possibilità che un bambino
cresca con due genitori omosessuali senza subire un danno psichico al suo sviluppo,
confermando l’affidamento esclusivo di un bambino alla madre, che al momento della
richiesta convive con un’altra donna.
A fare ricorso contro l’affidamento deciso dalla Corte d’Appello di Brescia era stato il padre, un
uomo di religione islamica, adducendo come motivazione il fatto che il bambino fosse inserito in
una famiglia gay, fatto che avrebbe potuto comportare ripercussioni negative sul piccolo.
Il ricorso è stato però respinto dalla Suprema Corte che ha evidenziato come il ricorrente si è limitato a fornire una sintesi del motivo di gravame in questione, dalla quale non risulta tuttavia alcuna
(2) Nel resto del mondo le coppie dello stesso sesso possono accedere all’adozione di minori in 21 Paesi: Spagna,
Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, Islanda, Malta,
Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda.
Altri Paesi, pur non consentendo l’adozione di minori da parte di coppie dello stesso sesso, riconoscono a chi è
in coppia con una persona di sesso uguale l’adozione dei figli naturali e adottivi del partner: «stepchild adoption». Tra questi vi sono Germania, Finlandia e Groenlandia. In Israele nel gennaio 2005 la Suprema Corte ha
permesso alle persone gay di sesso femminile l’adozione dei figli del o della partner. Per le coppie omosessuali
di sesso maschile, vi sono casi aperti presso la Corte Suprema ma non è ancora possibile l’adozione.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
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specificazione circa le concrete ripercussioni negative per la crescita del minore derivanti da tale
ambiente familiare. In tale modo, dunque, si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia
la dannosità di quel particolare contesto per la crescita e lo sviluppo del bambino.
Successive aperture in tema di riconoscimento della genitorialità in favore delle coppie
dello stesso sesso si sono avute con:
— la sentenza della Corte costituzionale 10-6-2014, n. 162 che ha travolto il divieto
di fecondazione eterologa, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, co.
3, L. 40/2004 nella parte in cui vietava le tecniche di procreazione medicalmente
assistita di tipo eterologo anche in presenza di patologie che siano cause di sterilità
o infertilità assolute e irreversibili (v. amplius §10);
— la sentenza del tribunale per i minorenni di Roma 30-7-2014, n. 429 che ha consentito, ex art. 44, lett. d), L. 183/1984, l’adozione di una bambina da parte della
compagna della madre naturale.
Il giudice minorile ha fondato la propria decisione su un’attenta valutazione in concreto del preminente interesse del minore, che assume particolare rilievo proprio nell’istituto dell’adozione in
casi particolari.
Una volta ritenuto che l’art. 44, lett. d), L. 184/1983 possa trovare applicazione al convivente del genitore dello adottando, non avrebbe alcun fondamento logico-giuridico l’esclusione di tale possibilità,
in caso di convivenza tra persone dello stesso sesso, non essendo astrattamente identificabile un
pregiudizio per l’equilibrio psicofisico del bambino legato al fatto di vivere in una famiglia incentrata
su una coppia omosessuale, non potendo questo identificarsi con il diffuso pregiudizio sociale.
Chiaramente negative sono state le reazioni della Chiesa cattolica che lamenta che
tali pronunce «lasciano stupefatti in quanto cancellano tutto ciò che l’esperienza
umana, e con essa le scienze psicologiche, hanno elaborato e accumulato in materia
di formazione del bambino».
Notevoli perplessità, però, sono state avanzate anche da movimenti laicali come il Moige
(Movimento italiano genitori) per il quale il pronunciamento «svuota il principio e il
diritto del bambino ad avere un papà ed una mamma secondo la naturale evoluzione
della vita». Partendo dall’assunto che i minori hanno diritto a stare con due figure
sessualmente diverse, il movimento esprime preoccupazioni circa derive ideologiche
che violando principi scritti nella natura delle cose, consentono sperimentazioni sociali
su un minore.
Critiche sono state espresse anche dalla Società italiana di pediatria preventiva e sociale
e dalla Società italiana di pediatria ospedaliera.
10.La procreazione medicalmente assistita
A) Terminologia
L’espressione «procreazione medicalmente assistita» richiama fenomeni diversi che
prevedono l’intervento artificiale nella prima fase della riproduzione umana e che possono essere ricondotti all’inseminazione artificiale ed alla fecondazione extracorporea.
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Capitolo 18
L’inseminazione artificiale, fecondazione intracorporea, prevede l’introduzione del
seme maschile nelle vie genitali della donna allo scopo di fecondarla usando mezzi
diversi dall’unione sessuale dell’uomo e della donna e si sottodistingue in:
1) inseminazione artificiale omologa (sigla AIH) che avviene utilizzando i gameti
del marito e della moglie;
2) inseminazione artificiale eterologa (sigla AID) che utilizza il seme o l’ovulo di
un donatore.
La fecondazione extracorporea effettua l’incontro dei gameti in vitro cui segue l’impianto nell’utero materno (sigla FIVET) e, ugualmente, si sottodistingue in omologa
ed eterologa.
B) La L. 40/2004 e l’intervento della Corte costituzionale
Nell’intento di fornire una soluzione legislativa al fenomeno della procreazione medicalmente assistita è stata approvata la L. 19 febbraio 2004, n. 40.
La L. 40/2004 consente il ricorso alla sola procreazione di tipo omologo (realizzata cioè
utilizzando gameti appartenenti alla stessa coppia che si sottopone al trattamento) e la
subordina alla presenza di determinati presupposti: in particolare, può farsi luogo a tale
tecnica in caso di accertata sterilità o infertilità della coppia, e qualora non esistano
altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le relative cause.
L’intera disciplina delle modalità di svolgimento della procreazione assistita è improntata al fine di assicurare al concepito il massimo grado di protezione compatibile con
le finalità perseguite dalla legge.
In particolare la legge dispone che le tecniche di produzione degli embrioni non devono
creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e
contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre (art. 14, comma 2).
Scopo di tali limiti è quello di evitare che il ricorso alla procreazione assistita implichi la necessità
di procedere alla crioconservazione o soppressione di embrioni; l’unica eccezione è prevista dal
comma 3 dell’art. 14 per il caso i cui il trasferimento degli stessi nell’utero sia reso impossibile da
una grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non
prevedibile al momento della fecondazione. Lo stesso comma 3 precisa che anche in questo caso,
la crioconservazione è ammessa solo fino alla data del trasferimento degli embrioni nell’utero, che
deve essere realizzato non appena possibile.
Tale disciplina è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale che, in più occasioni, ne ha indicato specifici motivi di incostituzionalità.
Nella sent. 151/2009 la Corte ha evidenziato come tali norme si rivelino potenzialmente lesive della salute della donna che si sottopone al trattamento, e ciò sotto
un duplice profilo.
Per un verso, il divieto di produrre più di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione rende in molti
casi necessaria la moltiplicazione dei cicli stessi, poiché non sempre i tre embrioni prodotti sono
in grado di dar luogo ad una gravidanza. Le possibilità di successo, infatti, variano in relazione
alle caratteristiche degli embrioni, alle condizioni soggettive delle donne che si sottopongono alla
procedura nonché all’età delle stesse.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 205
Il limite legislativo in esame, dunque, rendendo necessaria la reiterazione dei cicli di stimolazione
ovarica qualora il primo impianto non dia luogo ad alcun esito, aumenta i rischi di patologie collegate a tale stimolazione.
Per altro verso, la salute dell’aspirante madre è messa a rischio anche dall’obbligo di effettuare
un unico e contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti.
Tale previsione, infatti, negando al medico la possibilità di individuare in base ad una valutazione del
caso concreto il numero massimo di embrioni da impiantare, aumenta le probabilità di ingenerare
gravidanze plurime (la cui riduzione embrionaria è espressamente vietata dalla legge in esame,
salvo il ricorso all’aborto) ed accresce per tale via i rischi per la salute della gestante.
La disciplina vigente si pone nelle conclusioni della Consulta, in netto contrasto
con l’art. 32 Cost., in ragione del serio pregiudizio da essa arrecato alle esigenze di
salute della donna; nonché con l’art. 3 Cost. nella misura in cui, prescindendo da ogni
valutazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone al
trattamento, predispone una regolamentazione identica di situazioni tra loro dissimili.
Conseguentemente la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2
dell’art. 14, che contiene le descritte previsioni, e del comma 3 dello stesso articolo,
nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni debba essere
effettuato senza pregiudizio della salute della donna.
Peraltro, l’intervento demolitorio della Corte mantiene salvo un principio fondamentale, in base al
quale le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello ritenuto necessario sulla base di accertamenti demandati al medico nella fattispecie concreta.
Con sent. 162/2014, la Consulta ha bocciato nuovamente la L. 40/2004 in relazione
all’art. 4, comma 3, nella parte in cui vieta la fecondazione mediante donatori esterni di
ovuli o spermatozoi (cd. fecondazione assistita eterologa) adottata nei casi di infertilità
assoluta. La preclusione assoluta di accesso alla procreazione medicalmente assistita
di tipo eterologo, secondo la Consulta, introduce un evidente elemento di irrazionalità,
poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione
della famiglia con figli, con incidenza sul diritto alla salute, è stabilita in danno delle
coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis. In definitiva,
viene lesa la libertà fondamentale della coppia di formare una famiglia con dei figli,
non potendosi neppure invocare le esigenze di tutela del nato le quali, in virtù delle
norme vigenti, devono ritenersi già ampiamente garantite.
Conseguentemente, anche l’art. 12, comma 1, recante provvedimenti sanzionatori per
chi pratichi la cd. eterologa, è dichiarato incostituzionale.
Da ultimo, con sent. 96/2015, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali,
per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della
legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche
di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di gravi malattie
genetiche trasmissibili, accertate da apposite strutture pubbliche.
La Consulta ha giudicato “irragionevole” il divieto di accesso alla PMA, con diagnosi
preimpianto, da parte delle coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi
patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni, anche in considerazione del fatto
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Capitolo 18
che l’ordinamento italiano consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo
di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria, attraverso l’interruzione volontaria di gravidanza.
Tale sistema normativo non permette, pur essendo scientificamente possibile, di far
acquisire alla donna un’informazione che le potrebbe evitare di assumere in un secondo
momento una decisione pregiudizievole per la sua salute. La normativa denunciata
costituisce, pertanto, il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in
gioco ed è lesiva del diritto alla salute della donna fertile portatrice (o anche l’altro
soggetto della coppia) di grave malattia genetica ereditaria.
La Corte ritiene, dunque, che il legislatore debba introdurre apposite disposizioni al
fine dell’individuazione (anche periodica, sulla base dell’evoluzione tecnico-scientifica)
delle patologie che possono giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle
relative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione
alla diagnosi preimpianto), nonché di un’opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle.
C) Il punto di vista della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose
Il Magistero della Chiesa cattolica è intervenuto più volte al fine di chiarire e risolvere
i problemi etici posti dalle nuove tecnologie biomediche e particolare rilevanza assume
in proposito l’Istruzione Donum Vitae della Congregazione per la Dottrina della Fede
(22-2-1987), confermata ed aggiornata dall’Istruzione Dignitae Personae (8-9-2008).
Le tecniche di procreazione artificiale, sia intracorporea che extracorporea, sia omologa
che eterologa, vengono considerate moralmente inaccettabili dalla Chiesa Cattolica.
Questo non perché gli interventi in campo biomedico vadano semplicemente rifiutati
in quanto artificiali, ma perché gli stessi debbono essere valutati sotto il profilo morale
in riferimento alla dignità della persona umana intesa come totalità unificata del corpo
umano con un’anima spirituale.
Un punto preliminare per la valutazione morale di tali tecniche è costituito dalla considerazione delle circostanze e delle conseguenze che esse comportano in ordine al rispetto
dovuto all’embrione umano che per la dottrina cattolica è assoluto in quanto ogni
essere umano è individuo umano quando è costituito come zigote in corrispondenza
al momento del suo concepimento.
L’affermarsi della pratica della fecondazione in vitro, presuppone abitualmente una
iperovulazione della donna: più ovuli sono prelevati, fecondati e poi coltivati in vitro
per alcuni giorni. Abitualmente non sono trasferiti tutti nelle vie genitali della donna;
alcuni embrioni, chiamati solitamente «soprannumerari», vengono distrutti o congelati, con il risultato che finalità apparentemente opposte, la vita e la morte vengono
sottomesse alle decisioni dell’uomo, che viene così a costituirsi donatore di vita e di
morte su comando.
Ma vi è di più: per la Chiesa cattolica queste tecniche sostituiscono l’atto coniugale
nella chiamata all’esistenza di una nuova vita umana e pertanto, secondo il Magistero,
si pongono in contrasto con i valori specificatamente umani della sessualità in forza dei
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
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quali la procreazione di una persona deve essere il frutto dell’atto coniugale specifico
dell’amore tra gli sposi.
Le tecniche di procreazione artificiale eterologa inoltre violano l’unità del matrimonio
che, nell’insegnamento della Chiesa, impone agli sposi di diventare genitori esclusivamente l’uno per mezzo dell’altro.
Le posizioni delle altre confessioni religiose sull’argomento possono così riassumersi:
— gli ortodossi accettano l’inseminazione artificiale omologa nonché la fecondazione
in vitro omologa (a condizione che non generi embrioni in soprannumero), mentre
dichiarano moralmente inaccettabile l’inseminazione artificiale eterologa e la fecondazione in vitro eterologa;
— le chiese riformate accettano sia l’inseminazione artificiale omologa sia la fecondazione in vitro omologa. Accettano altresì l’inseminazione artificiale eterologa e
la fecondazione in vitro eterologa purché venga richiesta da coppie eterosessuali;
— gli ebrei accettano, a condizione che ne sia provata la necessità medica, l’inseminazione
artificiale omologa e la fecondazione in vitro omologa mentre vietano come norma
generale l’inseminazione artificiale eterologa nonché la fecondazione in vitro eterologa;
— gli islamici accettano l’inseminazione artificiale omologa e la fecondazione in
vitro omologa mentre vietano perché si oppone alla legge naturale l’inseminazione
artificiale eterologa nonché la fecondazione in vitro eterologa.
11.La surrogazione di maternità
A) Il divieto della Corte di Cassazione
La surrogazione di maternità, o gestazione per altri o gestazione d’appoggio, talvolta
denominata in modo apertamente critico «utero in affitto», è una procedura che fa
riferimento a una madre portatrice o gestante la cui funzione è portare un embrione
concepito con la fecondazione in vitro, generalmente (ma non sempre) con i gameti
dei genitori che vogliono avere il figlio. La surrogazione in pratica si ha quando una
donna si presta a portare a termine un’intera gravidanza, fino al parto, su commissione
di single o coppie sterile.
Nella trama della sentenza n. 162/2014 della Corte costituzionale, richiamata nel paragrafo precedente, sono individuabili delle aperture alla maternità surrogata, laddove
afferma che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile
requisito della famiglia stessa».
D’altronde, la stessa maternità surrogata può essere considerata una forma, sia pure
«estrema», di procreazione medicalmente assistita.
La Cassazione, tuttavia, ha chiuso a tale pratica ogni spiraglio legale: con una recente
pronuncia (sent. 11-11-2014, n. 24001) ha osservato che l’ordinamento contiene, all’art.
12, co. 6, L. 40/2004, un chiaro divieto di surrogazione di maternità, divieto non
travolto dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione
eterologa di cui all’art. 4, co. 3, della medesima legge.
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Capitolo 18
Il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è, secondo la Cassazione, un divieto
di ordine pubblico, come conferma la previsione della sanzione penale, di regola posta
a presidio di beni giuridici fondamentali. In particolare, vengono in rilievo la dignità
umana — costituzionalmente tutelata — della gestante e l’istituto dell’adozione, con
il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto
a tale istituto l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di
legami biologici con il nato.
Per la Suprema Corte, l’interesse del minore si realizza soltanto attribuendo la maternità
a colei che partorisce e affidando all’istituto dell’adozione, realizzata con le garanzie
proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo della parti,
la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico. Si tratta, secondo la
Cassazione, di una valutazione insindacabile del legislatore, che non lascia al giudice
alcuna discrezionalità da esercitare in relazione al caso concreto.
Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte europea dei diritti dell’uomo, pronunciandosi
in termini sostanzialmente favorevoli ala maternità surrogata, con le sentenze emesse
nel giugno 2014, non avrebbe affermato il diritto del nato mediante surrogazione di
maternità di essere riconosciuto come figlio legittimo della coppia committente ma,
piuttosto, avrebbe riconosciuto un ampio margine di apprezzamento discrezionale ai
singoli Stati sul tema della maternità surrogata, in considerazione dei delicati interrogativi di ordine etico posti da tale pratica, disciplinata in maniera diversa nell’ambito
dei Paesi membri del Consiglio d’Europa.
Sotto il profilo penale si è posto il problema di stabilire se la maternità surrogata configuri il reato
di alterazione di stato ex art. 567 co. 2 c.p., qualora il neonato sia dichiarato figlio della donna
per conto della quale è stata portata avanti la gravidanza invece che come figlio della partoriente
o della donatrice dell’ovulo fecondato.
Alcuni giudici (Trib. Milano, sent. 8-4-2014) hanno escluso tale reato se l’atto di nascita è stato
formato validamente nel rispetto della legge del Paese dove il bambino è nato, ipotizzando che la
condotta di chi rende dichiarazioni mendaci sull’identità, lo stato o altre qualità del minore, in epoca
successiva alla formazione dell’atto di nascita, possa eventualmente integrare il meno grave reato
di falsa attestazione o dichiarazione su qualità personali.
Altri giudici (Trib. Brescia, sent. 13-1-2014), invece, hanno concluso in senso diametralmente opposto ritenendo che si configuri il reato di alterazione di stato quando il neonato sia dichiarato
figlio della donna che non ha partorito il bambino e che non ha con esso alcun legame genetico e
che il reato sussista anche se l’atto di nascita è stato formato all’estero e successivamente trascritto
nei registri dello stato civile italiano, se la legge del Paese ove il bambino è nato non consenta il
ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita in concreto praticate.
B) Il punto di vista della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose
Per la dottrina della Chiesa cattolica la volontà legittima ed eccellente di dare la vita a
un figlio non conferisce il diritto al figlio, che permetterebbe ai genitori di rivendicare
allo Stato qualsiasi mezzo per raggiungere questo risultato.
Per le medesime ragioni che portano a rifiutare la fecondazione artificiale eterologa la
Chiesa cattolica è contraria alla surrogazione di maternità.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
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La maternità sostitutiva rappresenta, infatti, una mancanza oggettiva di fronte agli
obblighi dell’amore materno, della fedeltà coniugale e della maternità responsabile;
offende la dignità e il diritto del figlio ad essere concepito, portato in grembo, messo
al mondo ed educato dai propri genitori. Da questo punto di vista si pone su un piano
completamente diverso dall’adozione dove c’è uno stato di abbandono, il bambino non
ha più i genitori e quindi viene ricondotto nell’alveo di un’altra famiglia, che lo accoglie.
Ma anche prescindendo da visioni strettamente confessionali si rileva che la maternità
surrogata si risolve in un contratto che si fa con una donna, la quale porterà nel suo
grembo un bambino che poi all’atto della nascita verrà in realtà dato ad un’altra coppia.
Il fatto che il più delle volte la «prestazione» è a titolo oneroso contrasta decisamente con
la dignità della donna, la dignità del nascituro e in particolare la concezione di famiglia
civile – e non famiglia religiosa – che c’è all’interno del nostro ordinamento civilistico.
In linea di massima anche le altre confessioni religiose concordano con la Chiesa
cattolica sul dichiarare inaccettabile la surrogazione della maternità.
12.L’assistenza spirituale nelle strutture obbliganti
Come precedentemente accennato l’art. 19 della Costituzione riconosce la libertà religiosa di tutti, anche di coloro che si ritrovano, temporaneamente o definitivamente,
all’interno di strutture obbliganti o chiuse come le Forze armate, gli ospedali, gli
istituti penitenziari, i centri di accoglienza per immigrati che, comportando una
diminuzione della libertà personale, possono compromettere l’esercizio della libertà
di culto di fronte alla discrezionalità dell’autorità obbligante (Valsecchi). Necessita,
dunque, che venga riconosciuta a tutti la parità d’esercizio del proprio culto.
Per quanto concerne gli appartenenti alla Chiesa cattolica, l’art. 11 del Concordato
dell’84 espressamente prevede che la Repubblica italiana assicura che l’appartenenza
alle Forze armate, alla Polizia, o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case
di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena
non possono dar luogo ad alcuno impedimento nell’esercizio della libertà religiosa
e nell’adempimento delle pratiche di culto dei cattolici.
L’assistenza spirituale ai cattolici è assicurata dalla presenza in tali strutture di ecclesiastici nominati dalle autorità italiane competenti su designazione dell’autorità ecclesiastica
e secondo lo stato giuridico, l’organico e le modalità stabiliti d’intesa fra tali autorità.
Per i culti acattolici che non hanno stipulato intese recepite in leggi, invece, gli
articoli 5, 6 e 8 del R.D. n. 289 del 1930 consentono ai ministri di culto di prestare
assistenza religiosa ai ricoverati in luoghi di cura o di ritiro, agli internati in istituti
di prevenzione e pena e in caso di mobilitazione delle Forze armate. In tali casi sono
richieste le autorizzazioni delle autorità preposte a tali luoghi o funzioni e l’assistenza
spirituale si svolge nell’osservanza delle norme contenute nei regolamenti che disciplinano tali luoghi, o secondo le indicazioni contenute nelle stesse autorizzazioni.
Per i culti i cui rapporti sono regolati da intese recepite in legge, infine, disposizioni
specifiche sono contenute appunto in tali intese. In particolare, gli oneri finanziari
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Capitolo 18
per lo svolgimento delle diverse forme di assistenza spirituale sono, diversamente da
quanto accade per la Chiesa cattolica, a carico degli organi ecclesiastici competenti e
le stesse non vengono, di norma, soggette a particolari limitazioni.
A) Assistenza spirituale presso le Forze armate
Per gli appartenenti alla Chiesa cattolica il servizio di assistenza spirituale alle Forze
armate dello Stato è disciplinato dal D.Lgs. 15-3-2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento
militare), ed è disimpegnato da sacerdoti cattolici in qualità di cappellani militari.
I sacerdoti in questo caso sono legati da rapporto di impiego con l’amministrazione
militare ed inquadrati nelle gerarchie militari.
L’alta direzione del servizio è affidata all’Ordinario militare per l’Italia e al Vicario
generale militare, che sono assimilati al rango, rispettivamente, di generale di corpo
d’armata e di maggior generale, e da tre ispettori che sono assimilati al rango di brigadiere generale.
Per quanto concerne, invece, i culti acattolici, l’art. 1471 del D.Lgs. citato stabilisce
che i militari di qualunque religione possono esercitarne il culto e ricevere l’assistenza
dei loro ministri.
In ogni caso, compatibilmente con le esigenze di servizio il comandante del corpo o altra autorità
superiore rende possibile ai militari che vi hanno interesse la partecipazione ai riti della religione
professata e a quelle iniziative rivolte ai militari, sia singolarmente sia collettivamente, che sono
proposte e dirette dal personale addetto all’assistenza spirituale alle Forze armate.
Norme ulteriori sono contenute nelle leggi che recepiscono le intese.
Ad esempio, i militari appartenenti alle ADI hanno diritto di partecipare, nei giorni e nelle ore fissate, alle attività religiose ed ecclesiastiche evangeliche che si svolgono nelle località dove essi
si trovano per ragioni del loro servizio militare, oppure potranno comunque ottenere, nel rispetto
di esigenze particolari di servizio, il permesso di frequentare la chiesa più vicina nell’ambito provinciale, previa dichiarazione degli organi ecclesiastici competenti. In assenza di chiese dell’ADI
nel territorio provinciale, i ministri iscritti nel ruolo dell’ADI e competenti per territorio possono
svolgere riunioni di culto per i militari interessati. In caso di decesso in servizio di militari delle ADI
il comando militare adotta, d’intesa con i familiari del defunto, le misure necessarie ad assicurare
che le esequie siano celebrate da un ministro delle ADI. Infine i ministri che prestano servizio militare sono posti in condizione di poter svolgere, unitamente agli obblighi di servizio, anche il loro
ministero di assistenza spirituale nei confronti dei militari che lo richiedono.
B) Assistenza spirituale al personale della Polizia di Stato
La legge n. 121 del 1981 assicura che al personale residente presso alloggi collettivi
di servizio o scuole sia assicurata l’assistenza religiosa, nel rispetto dei principi costituzionali. A tal riguardo, Ministro dell’interno e Presidente della CEI hanno stipulato
un’intesa, in esecuzione dell’art. 11 del nuovo Concordato, recepita nel D.P.R. n. 421
del 1999.
L’assistenza spirituale è assicurata da soggetti estranei all’amministrazione ma da essa
retribuiti, che si occupano della celebrazione dei riti liturgici e dell’attività pastorale, nonché delle funzioni concernenti l’organizzazione di ogni altra opportuna attività culturale.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 211
Soltanto alcune delle intese con i culti acattolici fanno, invece, espresso riferimento
alle forze di Polizia e ad altri servizi assimilati, con una disciplina sostanzialmente
analoga a quella dei militari (art. 5 della legge n. 116 del 1995; art. 5 della legge n.
520 del 1995; art. 8 della legge n. 127 del 2012).
C) Assistenza spirituale nelle istituzioni penitenziarie
I detenuti e gli internati, secondo quanto prevede l’art. 26 della legge n. 354 del 1975
in materia di ordinamento penitenziario, godono della libertà di professare la propria
fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto.
Tale diritto è garantito per i fedeli cattolici attraverso la presenza in ciascuno istituto di
almeno un cappellano, legato da rapporto di impiego con l’amministrazione penitenziaria (L. 4-3-1982, n. 68 recante Trattamento giuridico ed economico dei cappellani
degli istituti di prevenzione e di pena), mentre per gli altri fedeli l’assistenza spirituale
è garantita su richiesta del detenuto. Analogo principio, del resto, era già contenuto
nell’art. 6 del R.D. n. 289 del 1930 con riferimento alle richieste degli internati e dei
loro familiari.
Particolari interrogativi pone il problema dell’assistenza spirituale ai condannati e agli
imputati sottoposti a misure alternative alla detenzione come nel caso degli arresti domiciliari. Questo speciale rapporto di soggezione presenta peculiari caratteri custodiali
e coercitivi che fanno in modo che il soggetto obbligato non possa fruire concretamente
del diritto all’assistenza spirituale senza un positivo intervento dello Stato.
Fino a questo momento, relativamente a questa forma di custodia cautelare e di esecuzione
penale, il legislatore non ha ritenuto opportuno dettare delle norme specifiche a garanzia della
libertà religiosa.
In mancanza di espresse previsioni normative risultano particolarmente interessanti alcune decisioni
della giurisprudenza che, posta di fronte alla richiesta di imputati in stato di arresti domiciliari di
poter partecipare alle funzioni religiose, ha dato risposte diverse alle singole istanze.
Con ordinanza 13-11-1984, il giudice istruttore di Pisa, ha accolto la richiesta presentata da un
imputato, affermando che alla persona sottoposta al regime di arresti domiciliari non poteva
riservarsi un trattamento deteriore rispetto a quello assicurato dalle norme sull’ordinamento
penitenziario agli imputati detenuti. La partecipazione alla Messa del credente rientra tra quelle
«indispensabili esigenze di vita» che consentono al giudice di autorizzare l’imputato «ad assentarsi
nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere
alle suddette esigenze».
Successivamente, in presenza di analoghe istanze le soluzioni adottate dalla giurisprudenza
sono state totalmente diverse. Sia il Tribunale di Milano (ord. 19-8-1986), sia la Corte d’Appello
di Firenze (ord. 24-7-1987), hanno rigettato infatti le istanze presentate, ritenendo soddisfatto il
precetto religioso attraverso la mera fruizione dei mezzi radio-televisivi.
Le leggi che recepiscono le intese contengono la disciplina dell’assistenza spirituale
ai detenuti che, nella sostanza, non presenta particolari difformità fra l’una e l’altra
confessione.
La legge n. 101 del 1989, ad esempio, prevede che l’Unione delle comunità ebraiche trasmetta
all’autorità competente l’elenco dei ministri di culto responsabili dell’assistenza spirituale negli
istituti penitenziari compresi nella circoscrizione delle rispettive comunità che hanno la possibilità
212

Capitolo 18
di visitare gli istituti senza particolare autorizzazione. L’assistenza spirituale è svolta su richiesta dei
detenuti o delle loro famiglie o d’iniziativa dei ministri di culto in locali idonei messi a disposizione
dall’istituto penitenziario. Il direttore informa di ogni richiesta avanzata dai detenuti la comunità
competente per territorio.
D)Assistenza spirituale presso le strutture ospedaliere
La legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, stabilisce (art.
38) che il servizio di assistenza religiosa è assicurato nel rispetto della volontà e della
libertà di coscienza del cittadino. A tal fine l’azienda unità sanitaria locale provvede
per l’ordinamento del servizio d’intesa con gli Ordinari diocesani competenti per
territorio e con le autorità religiose competenti per territorio degli altri culti acattolici.
Nella materia sono intervenute anche le Regioni, stipulando diversi protocolli d’intesa
sia con le Conferenze episcopali regionali che con alcune comunità acattoliche. Per
queste ultime, del resto, norme sono contenute sia nel R.D. n. 289 del 1930 che nelle
leggi che recepiscono le intese, con una disciplina sostanzialmente analoga fra l’una
e l’altra confessione.
La legge n. 449 del 1984, ad esempio, prevede che l’assistenza spirituale dei ricoverati appartenenti alle Chiese valdesi o di altri ricoverati che ne facciano richiesta è assicurata da ministri
di culto iscritti nel ruolo della Tavola valdese. L’accesso di tali ministri è al tal fine libero e senza
limitazione di orario. La direzione degli istituti di ricovero deve comunicare ai ministri di culto le
richieste avanzate dai ricoverati.
E) Assistenza spirituale in centri di accoglienza per immigrati
L’assistenza spirituale nelle strutture destinate al trattenimento degli stranieri
extracomunitari irregolari e destinati all’espulsione (CIE) è disciplinata dall’art.
21, D.P.R. 394/1999.
La norma nel precisare che nei CIE è assicurata la libertà di culto nei limiti previsti
dalla Costituzione, garantisce agli individui trattenuti la libertà di colloquio all’interno
del centro con i ministri di culto.
Mancano al momento, invece, norme precise sull’assistenza spirituale nei CARA. In tali
strutture, istituite con D.Lgs. 25/2008, sono inviati e ospitati gli stranieri richiedenti
asilo al fine di consentire l’espletamento dell’iter procedurale di riconoscimento
dello status di rifugiato. Nel vuoto legislativo circa la libertà del culto e di colloquio
con il ministro di culto si ritiene possa applicarsi quanto disposto dall’art. 21 D.P.R.
394/1999 sopra richiamato (DALLA TORRE).
13.L’insegnamento della religione nella scuola
A) Insegnamento della religione cattolica
L’art. 9, numero 2, co. 1 del nuovo Concordato, innovando profondamente rispetto
alla previgente disciplina del Concordato del 1929, ha chiarito che la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 213
cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, deve continuare
ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione
cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado.
Tuttavia, nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei
genitori, è garantito a ciascun studente il diritto di scegliere se avvalersi o meno di
tale insegnamento (co. 2).
All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto su richiesta
dell’autorità scolastica, senza che tale atto importi nessuna conseguenza discriminatoria (co. 3). Il D.Lgs. n. 297 del 1994 precisa che tale diritto è esercitato nella scuola
materna, elementare e media dai genitori, e dagli alunni solo nella scuola secondaria
superiore, anche se non ancora maggiorenni in quanto l’età matura di tali studenti
consente loro una scelta «religiosa consapevole».
Secondo quanto precisato nella circolare ministeriale 18-12-2014, n. 51, relativa alle iscrizioni alle
scuole dell’infanzia e alle classi delle scuole di ogni ordine e grado per l’anno scolastico 2015-2016,
al momento dell’iscrizione le famiglie degli alunni esercitano la facoltà di avvalersi o non avvalersi
dell’insegnamento della religione cattolica mediante la compilazione dell’apposita sezione on line.
La scelta ha valore per l’intero corso di studi e, comunque, in tutti i casi in cui sia prevista l’iscrizione
d’ufficio, fatto salvo il diritto di modificare tale scelta per l’anno successivo. La facoltà di avvalersi
o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica è, altresì, esercitata dallo studente, se
maggiorenne o se frequentante istituti di istruzione secondaria di secondo grado. La scelta alternativa all’insegnamento della religione cattolica trova invece concreta attuazione nella opzione di
diverse possibili attività:
— attività didattiche e formative;
— attività di studio e/o di ricerca individuali con assistenza di personale docente;
— libera attività di studio e/o di ricerca individuale senza assistenza di personale docente (per
gli studenti delle istituzioni scolastiche di istruzione secondaria di secondo grado);
— non frequenza della scuola nelle ore di insegnamento della religione cattolica.
La scelta specifica di attività alternative, operata all’inizio delle lezioni, ha effetto per l’intero anno
scolastico cui si riferisce.
Il Protocollo addizionale precisa, poi, che l’insegnamento della religione cattolica è
impartito in «conformità alla dottrina della Chiesa» da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica e nominati, d’intesa con essa, dall’autorità
scolastica.
Il Consiglio di Stato con sent. 14-4-2009, n. 2262 ha confermato che il meccanismo compartecipativo
tra Stato e Santa Sede nella selezione del personale cui affidare l’insegnamento della religione
cattolica, frutto di una scelta assunta in sede concordataria, è come tale non solo non incompatibile
con la Costituzione, ma alla stessa pienamente aderente (lì dove viene costituzionalizzata la fonte
pattizia ai fini della regolazione dei rapporti tra Stato e Chiesa, art. 7, co. 2). Del resto, il coinvolgimento dell’autorità ecclesiastica nella scelta dei soggetti cui affidare l’insegnamento della religione
cattolica, non pregiudica il principio di laicità dello Stato né costituisce un vulnus al principio di
uguaglianza tra tutte le religioni (art. 8 Cost.), atteso che il presidio contro tali rischi è ampiamente
assicurato dalla configurazione dell’insegnamento stesso in termini di «non-obbligo» per la platea
dei discenti, come messo in luce dalla Corte costituzionale fin nella sentenza n. 203 del 1989.
Per quanto concerne la necessità della permanenza del nulla osta dell’Ordinario in merito alla
conservazione del posto di lavoro, la Corte di Cassazione, con sent. 24-2-2003, n. 2803 ha sta-
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
Capitolo 18
bilito che la sopravvenuta revoca dell’idoneità all’insegnamento comporta l’impossibilità giuridica
della prestazione e la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro ex art. 1463 c.c. in quanto, in
considerazione del particolare «status» di questi insegnanti, ad essi non possono essere attribuiti
compiti diversi da quello dell’insegnamento della religione. Pertanto, la risoluzione del rapporto di
lavoro determinata dalla revoca da parte dell’autorità ecclesiastica dell’idoneità all’insegnamento
della religione non configura un caso di licenziamento.
Sulla base di intese fra le autorità scolastiche e la C.E.I. verranno determinati i programmi di insegnamento (3), le modalità di organizzazione di tale insegnamento, anche
in relazione alla collocazione nel quadro degli orari delle lezioni, i criteri di scelta dei
libri di testo e i profili di qualificazione professionale degli insegnanti.
Con D.P.R. 20-8-2012, n. 175 è stata data esecuzione all’intesa tra il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Presidente della Conferenza episcopale italiana
per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, firmata il 28 giugno
2012. La citata intesa che aggiorna la normativa del 1995, rivista per l’ultima volta nel
1990, rivede in particolare i profili di qualificazione degli insegnanti portando i titoli
richiesti a livello di laurea.
Quali corollari, la C.E.I. e il Ministero dell’istruzione hanno di comune accordo definito le
specifiche ed autonome attività educative in ordine all’insegnamento della religione cattolica
nelle scuole pubbliche materne (D.P.R. 24-6-1986, n. 539), le specifiche ed autonome attività
d’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche elementari (D.P.R. 8-5-1987,
n. 204), il programma di religione cattolica nella scuola media (D.P.R. 21-7-1987, n. 339) e
nella scuola secondaria superiore (D.P.R. 21-7-1987, n. 350) e, inoltre, gli obiettivi specifici di
apprendimento per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia (D.P.R.
30-3-2004, n. 121), nella scuola primaria (D.P.R. 30-3-2004, n. 122), nella scuola secondaria
di primo grado (D.P.R. 14-10-2004, n. 305) e nel secondo ciclo scolastico dei sistema dei licei
e degli istituti di istruzione e formazione professionale (D.P.R. 16-1-2006, n. 39). Più di recente
con D.P.R. 11-2-2010 sono stati ridefiniti i traguardi per lo sviluppo delle competenze e gli
obiettivi di apprendimento dell’insegnamento della religione cattolica per le scuole dell’infanzia
e per il primo ciclo di istruzione e con D.P.R. 20-8-2012, n. 176 le indicazioni didattiche per
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione professionale.
Proprio il contenuto dell’intesa relativa all’organizzazione dell’insegnamento della
religione cattolica ha sollevato notevoli perplessità sull’effettivo carattere facoltativo
dello stesso. In un primo tempo, infatti, coloro che decidevano di non avvalersi di tale
insegnamento erano tenuti comunque a fruire di un eguale tempo scuola dedicato ad
attività didattiche alternative.
La Corte Costituzionale ha, però, precisato che l’insegnamento obbligatorio della
religione cattolica violerebbe il principio della libertà di coscienza (sentenza n. 203
del 1989) e che l’alternativa per coloro che non intendano fruirne deve consistere in
uno status di «non obbligo».
(3) Come nota A. Valsecchi l’insegnamento della religione deve rientrare nel quadro delle finalità della scuola
(ex art. 9 co. 2 nuovo Conc.) e, pertanto, non può assumere i caratteri del proselitismo o della catechesi professionale, fini che esulano dai programmi didattici.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 215
Successivamente, con alcune circolari, il Ministro dell’istruzione aveva precisato che i
non avvalentisi dell’insegnamento potevano scegliere se frequentare attività didattiche
e di formazione, svolgere individualmente attività di studio con personale scolastico
oppure non dedicarsi ad alcuna attività, senza, tuttavia, potersi allontanare da scuola.
La Corte Costituzionale ha, tuttavia, chiarito che l’eventuale minore impegno scolastico
dei non avvalentisi non può essere considerato una causa di disincentivo per quanti si
avvalgono dell’insegnamento, in quanto tale scelta è motivata da profonde convinzioni
morali e religiose. Pertanto, la libertà di coloro che rifiutano tale insegnamento può
anche offrire la possibilità dell’allontanamento da scuola (sentenza n. 13 del 1991).
A margine segnaliamo che il Consiglio di Stato con sent. 7-5-2010, n. 2749 ha riconosciuto la
legittimità delle ordinanze ministeriali nelle quali si stabiliva che ai fini dell’attribuzione del credito
scolastico, determinato dalla media dei voti riportata dall’alunno, occorre tener conto anche del
giudizio espresso dal docente di religione. Il Consiglio di Stato infatti ha stabilito che, nel caso
l’alunno scelga di avvalersi di questo insegnamento, la materia diventa per lo studente obbligatoria
e concorre quindi all’attribuzione del credito scolastico. Né ciò implica alcuna discriminazione a
carico dei «non avvalentisi» che non optino per insegnamenti alternativi, in quanto questi alunni
hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito
scolastico, rispetto agli studenti che scelgono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi.
Lo status giuridico degli insegnanti di religione cattolica è attualmente disciplinato
dalla legge n. 186 del 2003, che ha sostanzialmente equiparato tali insegnanti agli altri
docenti e previsto l’assunzione mediante concorso, con alcune particolarità legate ai
programmi di esame e ai requisiti richiesti, ad esempio il riconoscimento di idoneità
dell’Ordinario diocesano competente per territorio.
B) Le intese con le confessioni acattoliche
Le leggi che recepiscono le intese con le confessioni acattoliche prevedono anch’esse
alcune disposizioni in materia di insegnamento religioso. Le confessioni firmatarie
dichiarano di non voler svolgere nelle scuole gestite dallo Stato o da altri enti pubblici
l’insegnamento della catechesi o di dottrina religiosa o pratiche di culto, essendo l’educazione e formazione religiosa dei fanciulli e della gioventù di specifica competenza
delle famiglie e delle chiese di appartenenza.
Peraltro, per quanti non si avvalgono dell’insegnamento religioso cattolico e fanno
capo a tali confessioni viene precisato che l’insegnamento religioso non deve essere
svolto in occasione dell’insegnamento di altre materie o secondo orari che abbiano
per tali alunni effetti comunque discriminanti. In nessun caso durante l’insegnamento
scolastico non potranno essere richiesti agli alunni pratiche religiose o atti di culto. È
prevista anche la possibilità che incaricati designati dalle confessioni possano rispondere
ad eventuali richieste di alunni, famiglie od organi scolastici in ordine alla modalità
di studio del fatto religioso e delle sue implicazioni, con oneri a carico degli organi
ecclesiastici competenti.
Tali attività si inseriscono nel più ampio ambito delle attività culturali previste dall’ordinamento scolastico.
216

Capitolo 18
C) Le scuole confessionali
L’art. 33 Cost. riconosce la libertà di insegnamento e ad enti e privati il diritto di
istituire scuole ed istituti di educazione, purché ciò avvenga senza oneri per lo Stato.
Per quanto riguarda le scuole non statali che chiedono la parità, la legge deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a
quello degli alunni delle scuole statali.
Per quanto concerne specificamente le scuole confessionali, si segnala che l’art. 9,
numero 1 del nuovo Concordato riprende i principi sanciti dall’art. 33 Cost., mentre
l’art. 10 sancisce che gli istituti universitari, i seminari, le accademie, i collegi e gli altri
istituti per ecclesiastici e religiosi o per la formazione nelle discipline ecclesiastiche,
istituiti secondo il diritto canonico, continueranno a dipendere unicamente dall’autorità
ecclesiastica.
Disposizioni analoghe sono contenute anche nelle leggi che recepiscono le intese con
le confessioni acattoliche.
La legge n. 62 del 2000 attua tali principi riconoscendo che il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali.
L’art. 1bis del D.L. 5-12-2005, n. 250 (conv. in L. 27/2006) ha introdotto anche la figura
della scuola non statale non paritaria.
Si tratta di istituti scolastici che svolgono un’attività organizzata di insegnamento e che devono
rispondere alle seguenti condizioni:
a) progetto educativo e relativa offerta formativa, conformi ai principi della Costituzione e all’ordinamento scolastico italiano, finalizzati agli obiettivi generali e specifici di apprendimento
correlati al conseguimento di titoli di studio;
b) disponibilità di locali, arredi e attrezzature conformi alle norme e adeguati alla funzione, in
relazione al numero degli studenti;
c) impiego di personale docente e di un coordinatore delle attività educative e didattiche forniti di
titoli professionali coerenti con gli insegnamenti impartiti e con l’offerta formativa della scuola,
nonché di idoneo personale tecnico e amministrativo;
d) alunni frequentanti, in età non inferiore a quella prevista dai vigenti ordinamenti scolastici, in
relazione al titolo di studio da conseguire, per gli alunni delle scuole statali o paritarie.
Le scuole non paritarie che posseggono tali requisiti sono incluse in un apposito elenco affisso
all’albo dell’Ufficio scolastico regionale. Lo stesso ufficio vigila sulla sussistenza e sulla permanenza
delle predette condizioni, il cui venir meno comporta la cancellazione dall’elenco. Le scuole non
paritarie non possono rilasciare titoli di studio aventi valore legale, né intermedi, né finali. Esse
non possono assumere denominazioni identiche o comunque corrispondenti a quelle previste
dall’ordinamento vigente per le istituzioni scolastiche statali o paritarie e devono indicare nella
propria denominazione la condizione di scuola non paritaria.
Le scuole, per ottenere la parità, devono improntare l’insegnamento ai principi di libertà
sanciti dalla Costituzione, devono essere aperte a tutti coloro che ne facciano richiesta
accettandone il progetto educativo, compresi gli alunni e gli studenti con handicap.
Il progetto educativo di tali istituti deve indicare l’eventuale indirizzo educativo di
carattere culturale o religioso. Non sono, comunque, obbligatorie per gli alunni attività extra curriculari che presuppongano o esigano l’adesione ad una determinata
ideologia o confessione religiosa.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 217
Lo Stato adotta un piano straordinario di finanziamento alle Regioni e alle Province autonome
da utilizzare a sostegno della spesa sostenuta dalle famiglie per l’istruzione impartita da scuole sia
statali che paritarie, mediante l’assegnazione di borse di studio fruibili anche mediante detrazione
di una somma equivalente dall’imposta lorda riferita all’anno in cui la spesa è stata sostenuta.
Tali interventi sono realizzati prioritariamente a favore delle famiglie in condizioni svantaggiate. Le
scuole primarie paritarie possono, inoltre, stipulare convenzioni con i dirigenti preposti agli uffici scolastici regionali. Con la stipula della convenzione l’amministrazione scolastica, riservandosi il diritto di
verificare l’adempimento degli obblighi assunti dalla scuola primaria paritaria, si obbliga a corrispondere
all’ente gestore un contributo annuo. La misura del contributo annuo è fissata, in via generale per
tutte le scuole primarie paritarie convenzionate, con decreto del Ministro della pubblica istruzione, nel
limite dello stanziamento di bilancio sull’apposito capitolo di spesa (D.P.R. 9-1-2008, n. 23).
D)Le scuole confessionali come organizzazioni di tendenza
Le scuole confessionali rappresentano evidentemente organizzazioni di tendenza.
Ciò implica la necessità di un bilanciamento fra libertà di insegnamento e libertà dei
discenti di ricevere una istruzione confessionalmente orientata.
Un aspetto ulteriore riguarda l’incidenza dei comportamenti privati dei singoli docenti
di tali scuole in relazione alla valutazione degli stessi relativamente alle mansioni
didattiche svolte.
Le nomine dei docenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore e degli istituti dipendenti sono, ad esempio, subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della
competente autorità ecclesiastica (art. 10, numero 3 del nuovo Concordato). La norma
in esame non innova rispetto all’art. 38 del Concordato del 1929, che subordinava le
nomine al nulla osta da parte della Santa Sede diretto ad assicurare che non vi fosse
alcunché da eccepire dal punto di vista morale e religioso.
Al riguardo si ricordi la sentenza della Corte costituzionale n. 195 del 1972 (punto 6
del Protocollo addizionale) che ha riconfermato la libertà dell’istruzione universitaria
confessionale, considerando legittima la revoca di un nulla osta già concesso sul presupposto che «negandosi ad una libera università ideologicamente qualificata il potere di
scegliere i suoi docenti in base ad una valutazione della loro personalità e negandosi alla
stessa il potere di recedere dal rapporto ove gli indirizzi religiosi o ideologici del docente
siano divenuti contrastanti con quelli che caratterizzano la scuola, si mortificherebbe
e si rinnegherebbe la libertà di questa, inconcepibile senza la titolarità di quei poteri. I
quali, giova aggiungere, costituiscono certo una indiretta limitazione della libertà del
docente ma non ne costituiscono violazione, perché libero è il docente di aderire, con il
consenso alla chiamata, alle particolari finalità della scuola; libero è egli di recedere,
a sua scelta, dal rapporto con essa quando tali finalità più non condivida».
Il carattere di «tendenza» delle organizzazioni assume rilevanza in diverse previsioni legislative. Ad esempio, la legge n. 108 del 1990, in tema di licenziamenti, considera (art. 4)
possibile derogare alla tutela reale del posto di lavoro, cioè mediante reintegrazione nello
stesso, nei confronti di quei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro
attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.
In tal senso anche diverse pronuncie giurisprudenziali (Cass. Civ. 16-2-2004, n. 2912;
21-9-2006, n. 20442; 27-5-2011, n. 11777). Allo stesso modo, il D.Lgs. n. 216 del 2003,
218
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Capitolo 18
in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro,
precisa che non costituiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento basate
sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali
che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o di altre organizzazioni pubbliche o
private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività
professionali svolte da detti enti od organizzazioni o per il contesto in cui esse sono
espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività.
E) Il riconoscimento dei titoli accademici ecclesiastici
L’art. 10, numero 2 del nuovo Concordato prevede che i titoli accademici in teologia
e nelle altre discipline ecclesiastiche, determinate d’accordo fra le parti, conferiti
dalle facoltà approvate dalla Santa Sede, sono riconosciuti dallo Stato, così come i
diplomi conseguiti nelle scuole vaticane di paleografia, diplomatica e d’archivistica
e di biblioteconomia. Previsioni analoghe sono contenute nelle leggi che recepiscono
le intese dei culti acattolici (ad esempio art. 15 della legge relativa ai valdesi, art. 14
della legge relativa alle chiese avventiste, art. 10 della legge relative alle ADI, art. 13
della legge relativa alle comunità ebraiche).
14.Diritto penale e fenomeno religioso
A) Evoluzione storica
La secolarizzazione degli ordinamenti giuridici e la loro piena adesione al principio
di laicità, che ispirano tutte le democrazie contemporanee, hanno cancellato qualsiasi
tendenza teologico-confessionale negli ordinamenti di civil law (Italia, Spagna, Francia etc.) e di common law (Inghilterra, Stati Uniti, Australia etc.) espungendo, così,
qualsiasi fondamento religioso da tali ordinamenti.
In Italia, sotto la vigenza del Codice Rocco (1930), di impronta fascista e confessionale, la religione cattolica ha assunto il rango di «bene giuridico protetto» come si
riscontra dal Libro II, Titolo IV, Capo I intitolato «Dei delitti contro la religione di
Stato e i culti ammessi».
Nel sistema del Concordato del 1929 e della legislazione sui culti ammessi, la tutela
penale della religione era discriminata e differenziata in quanto la religione di Stato,
quella cattolica, riceveva un trattamento di favore in considerazione del suo alto valore
sociale e del fatto che coinvolgeva la schiacciante maggioranza degli italiani.
Alla luce dei principi santici dalla Costituzione repubblicana, le previgenti differenziazioni non hanno più ragion d’essere, configurandosi anzi come violazioni del principio
dell’eguale libertà delle confessioni religiose.
Con l’entrata in vigore della Costituzione è, quindi, sorto il problema della compatibilità dei principi di libertà ed eguaglianza religiosa in essa sanciti con le residue
norme di diritto penale emanate in epoca fascista, che riconoscevano come religione
di Stato la religione cattolica.
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Prima delle pronunce della Corte Costituzionale, infatti, il codice penale trattava preferenzialmente
la Chiesa cattolica rispetto agli altri culti. In particolare:
— l’art. 724 puniva la bestemmia contro la Divinità o i simboli o le persone venerati nella religione
di Stato, e l’art. 402 puniva il vilipendio alla religione di Stato se fatto pubblicamente. Una tutela analoga non era prevista per comportamenti analoghi perpetrati ai danni di culti acattolici
(differenza qualitativa);
— gli artt. 403, 404, 405 punivano, rispettivamente, l’offesa alla religione di Stato mediante vilipendio di persone o di cose, nonché il turbamento di funzioni religiose del culto cattolico con
una pena più severa rispetto a quella prevista per gli altri culti (differenza quantitativa).
B) Il problema del vilipendio del Pontefice e la sua immunità
Ci si chiede in dottrina se tale forma di vilipendio costituisca ancora una autonoma
figura di reato (art. 2 co. 8 del trattato del Laterano, non certificata dal nuovo Concordato) «che equipara le ingiurie verso il sommo Pontefice a quelle rivolte verso il Re».
Oggi tale norma del c.p. è stata sostituita (cfr. nuovo testo dell’art. 278 c.p.) e prevede
per le offese all’onore e al prestigio della figura del Presidente della Repubblica una
pena edittale da uno a cinque anni.
La dottrina (Casuscelli), però, ritiene inapplicabile questa equiparazione (tipica dello
Stato confessionale) riservata unicamente al capo della religione cattolica, pur riconoscendogli le stesse tutele (in tema di ingiuria e diffamazione) riservate al Capo di uno
Stato estero (opinione controversa).
Quanto al problema delle immunità statali riconosciute al Sommo Pontefice, la cui
persona è stata definita dal Concordato «sacra e inviolabile», per Casuscelli essa permane integra poiché prevista dal diritto internazionale consuetudinario (art. 10 Cost.)
e presenta carattere funzionale ed extrafunzionale, sostanziale e processuale, ben più
ampia, cioè, rispetto a quella riconosciuta agli altri capi di Stato esteri.
C) La diversa tutela del fenomeno religioso
Il sentimento religioso si qualifica come interesse non dello Stato, bensì del singolo e
della collettività e rappresenta un corollario del diritto costituzionalmente garantito
della libertà di religione.
Oggi il superamento della soglia di eguale protezione tra i diversi culti inciderebbe sulla
pari dignità della persona ponendosi in contrasto con il principio costituzionalmente
sancito della laicità o non confessionalità dello Stato.
In materia di sentimento religioso, in particolare, non assumono rilevanza il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa di una determinata confessione religiosa e
la maggiore o minore ampiezza e dell’allarme sociale che può seguire alla violazione
dei diritti di una o dell’altra di esse.
Va, inoltre, segnalato che nelle leggi di recepimento delle intese molte confessioni
diverse dalla cattolica dichiarano che la fede non necessita di tutela penale diretta,
oppure reclamano esplicitamente la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti
di libertà religiosa, senza discriminazioni tra i cittadini e tra i culti (art. 2, co. 4 della
legge n. 101 del 1989 che recepisce l’intesa con le comunità ebraiche).
220

Capitolo 18
D)Gli interventi del legislatore
In mancanza della riscrittura globale delle norme speciali che disciplinano culti e
religioni alla luce dei principi sanciti dalla Costituzione il legislatore si è limitato a
«depenalizzare» diversi reati minori trasformandoli da illecito penale a illecito amministrativo, fra cui:
— la bestemmia, che ha per oggetto invettive e parole oltraggiose non più solo contro
la religione di Stato, ma contro un generico concetto di divinità;
— l’uso abusivo dell’abito ecclesiastico (art. 498, co. 1, c.p.).
Il legislatore, inoltre, ha cancellato ogni riferimento alla «religione di Stato» e, in
ossequio al principio di parificazione penale delle confessioni religiose, ha spostato
l’oggetto del «bene giuridico tutelato» al sentimento religioso individuale, inteso
come corollario della libertà di religione (Casuscelli);
— il reato di vilipendio (artt. 402-405 c.p.) che è stato ridimensionato nella sua gravità ed è stato introdotta la presenza del requisito della pubblicità come elemento
costitutivo della fattispecie criminosa.
E) Gli interventi della Corte costituzionale
L’intervento della Corte costituzionale (che ha ripetutamente criticato la prolungata
inerzia del legislatore) sulle norme penali in tema di tutela della religione si è sviluppato
seguendo due atteggiamenti differenti, condizionati dalla sussistenza della riserva di
legge penale in merito (art. 25 Cost.):
— dichiarando illegittima qualsiasi norma che viola i principi costituzionali in materia
(sentenza caducatoria);
— oppure operando una manipolazione sulla pena edittale dichiarando incostituzionali
le norme che prevedevano una pena più grave per la religione di Stato rispetto agli
altri culti (sentenza manipolativa in bonam partem).
In tal modo la Corte ha ridisegnato progressivamente l’intera disciplina dei reati contro
il sentimento religioso alla luce del principio supremo di laicità (Casuscelli).
Attualmente, anche a seguito dell’intervento della legge n. 85 del 2006, che ha modificato il codice penale in materia di reati d’opinione, la disciplina penale del sentimento
religioso si presenta così articolata:
— offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone (art. 403 c.p.):
chiunque pubblicamente (ossia a mezzo stampa, o con altro mezzo di propaganda;
in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; in una riunione
che, per il luogo in cui è tenuta o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od
oggetto della stessa, abbia carattere di riunione non privata) offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è condannato ad una multa
da euro 1.000 a euro 5.000, che diventano rispettivamente 2.000 e 6.000 quando il
vilipendio riguarda un ministro di culto.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 221
Si ritiene che per la configurabilità di tale reato non occorre che le espressioni di vilipendio
debbano essere rivolte a fedeli ben determinati, potendo essere riferite alla indistinta generalità
dei fedeli (Cass. Penale, Sez III, sent. 10-3-2009, n. 10535);
— offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose
(art. 404 c.p.): chiunque, in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto
al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano connesse al culto, o siano destinate
necessariamente all’esercizio del culto, ovvero commette il fatto in occasione di
funzioni religiose, compiute in luogo privato da un ministro del culto, è soggetto ad
una multa da euro 1.000 a euro 5.000. È punito con la reclusione fino a due anni,
invece, chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, deteriora, rende
inservibili o imbratta cose che formino oggetto di culto o siano consacrate al culto
o siano necessariamente destinate all’esercizio del culto;
— turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa (art.
405 c.p.): chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche
religiose del culto di una confessione religiosa le quali si compiano con l’assistenza
di un ministro di culto o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o
aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni, o da uno a tre anni
se concorrono fatti di violenza alle persone o minaccia;
— distruzione o deterioramento di pubbliche affissioni (art. 664 c.p.): chiunque
stacca, lacera o rende inservibili o illegibili scritti o disegni, fatti affiggere dalle
autorità civili o da quelle ecclesiastiche, è punito con la sanzione amministrativa
pecuniaria da euro 77 a euro 464. Se si tratta di scritti o disegni fatti affiggere da
privati, nei luoghi e nei modi consentiti dalla legge o dall’autorità, si applica la
sanzione amministrativa pecuniaria da euro 51 a euro 309;
— bestemmia e manifestazioni oltraggiose (art. 724 c.p.): chiunque pubblicamente
bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la
sanzione amministrativa pecuniaria da euro 51 a euro 309.
Da un esame anche superficiale delle disposizioni penali succitate, emerge che in molti casi la
norma penale fa riferimento a nozioni e concetti che non possono che essere tratti dalle normative confessionali di volta in volta interessate: si pensi alla nozione di ministro di culto, di oggetti
consacrati al culto, di funzioni o cerimonie religiose, di fedele.
F) Il diritto di satira, critica e cronaca
Il diritto di satira negli ultimi tempi presenta rapporti molto tesi con la libertà religiosa:
si pensi, ad esempio, alll’uccisione di dodici persone conseguenza dell’attentato del 7
gennaio 2015 alla sede parigina del settimanale satirico francese «Charlies Hebdo»,
che a più riprese aveva pubblicato vignette dissacranti raffiguranti Maometto (4).
(4) La testata fondata nel 1970 pubblica vignette e articoli caustici e dissacranti nei riguardi della politica e di
ogni tradizione religiosa (soprattutto Cattolicesimo, Islam e Ebraismo).
222

Capitolo 18
Il diritto di satira, secondo alcuni, trova il suo fondamento nell’art. 9 Cost., ossia
nella generica promozione della cultura, oppure nell’art. 33 Cost., che tutela la libertà
dell’arte, o nell’art. 21 Cost., che riconosce la libertà di manifestazione del pensiero.
La satira religiosa, tuttavia, trova il suo specifico fondamento costituzionale nell’art. 19
Cost., che riconosce la libertà religiosa da intendersi anche come libertà dalla religione
o verso la religione. Esso rappresenta, quindi, un bene e interesse costituzionalmente
rilevante, che va, però, bilanciato con altri valori e interessi degni di protezione costituzionale, fra cui rientrano sicuramente la dignità umana, la libertà religiosa e la
protezione del sentimento religioso che appaiono sicuramente prevalente.
Per «satira» si intende una critica corrosiva e spesso impietosa basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso, quindi ne è espressione
anche la caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici,
morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la
rappresentazione scenica (Cass. civ., sent. 8-11-2007, n. 23314).
La satira non necessariamente, però, deve essere considerata come espressione del
diritto di critica, ma può anche essere finalizzata soltanto a suscitare riso e ilarità, e
comunque per sua natura non persegue un fine di carattere etico.
Il diritto di satira, quindi, gode di una certa autonomia dal diritto di critica e proprio
questa autonomia consente alla giurisprudenza di applicare l’esimente del diritto di
satira con una certa ampiezza.
In ogni caso, la satira prende spunto dal vero ma ne costituisce una volutamente grossolana alterazione, tanto da apparire inverosimile. Se così non fosse, la satira costituirebbe
veicolo di informazione e dovrebbe soggiacere ai limiti imposti al diritto di cronaca,
in particolare quelli della verità e della continenza.
Con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 402 c.p., che sanzionava il vilipendio
della religione di Stato, e la sua mancata riproposizione nel codice penale, ovviamente
con riferimento a tutte le religioni e non soltanto a quella cattolica, da parte della legge
n. 85 del 2006, i messaggi offensivi del patrimonio dogmatico o dell’immagine pubblica o del prestigio formale di una confessione religiosa, veicolati attraverso la satira,
possono essere considerati soltanto nei termini della diffamazione (art. 595 c.p.), ossia
dell’offesa all’onore e decoro, in questo caso collettivo, quale bene morale di tutti gli
associati o membri, considerati come unitaria entità capace di percepire l’offesa. Il
reato di diffamazione è perseguibile soltanto su querela di parte. L’eventuale carattere
vilipendioso del messaggio offensivo, in quanto maggiormente pericoloso perché idoneo
ad incidere sull’opinione pubblica, potrà essere preso in considerazione dal giudice ai
fini della pena da irrogare.
Per quanto riguarda, invece, le offese ad una confessione religiosa mediante vilipendio
alle persone veicolate dalla satira, la tutela penale è apprestata, come abbiamo visto,
dall’art. 403 c.p.
Nell’era della globalizzazione e del multiculturalismo, peraltro, si pone l’interrogativo
se sia possibile applicare le esimenti collegate all’esercizio dei diritti fondamentali come
il diritto di critica o di satira a soggetti che appartengono a culture, anche religiose
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 223
(ad esempio quella islamica), in cui gli stessi diritti non sono percepiti con estensione
analoga. Sembra, cioè, diffondersi nella cultura giuridica, soprattutto europea, l’idea che
tali diritti fondamentali debbano essere esercitati responsabilmente, compatibilmente
con le esigenze della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della morale pubblica,
della protezione dei diritti e delle libertà altrui.
15.Pubblicità religiosa e trattamento dei dati personali
A) La pubblicità religiosa
L’uso dei media è entrato a far parte dei mezzi di pubblicità religiosa che può spaziare
dalle semplici comunicazioni ai fedeli fino al proselitismo, dal momento che nel nostro
Paese non è riservata una disciplina autonoma alla pubblicità religiosa e, pertanto,
valgono le regole (nazionali ed europee) della pubblicità commerciale.
Anche per la pubblicità religiosa gli organi di Stato sono orientati a mettere in primo
piano la tutela del sentimento degli utenti (profilo soggettivo) e la pari dignità dei
fatti religiosi (profilo oggettivo) sia sotto il profilo strettamente legale che in obbedienza
al codice etico pubblicitario.
Quest’ultimo, in particolare, all’art. 10, vieta tutte le forme di pubblicità che offendono
le convenzioni religiose dei cittadini.
B) Il fattore religioso nell’ordinamento radio-televisivo
Nell’uso del più importante, diffuso e persuasivo strumento mediatico è di fondamentale
importanza che il principio pluralistico resti il canone interpretativo fondamentale
che, in quanto corollario del principio democratico (art. 7 Cost.), disciplina tale forme
di comunicazione al di là di ogni specifico richiamo all’elemento religioso (Toscano).
Così si spiega l’istituzione nel nostro ordinamento della figura dell’Autorità Garante
delle telecomunicazioni che vigila sul pieno rispetto nelle trasmissioni televisive dei
principi fondamentali della persona e delle formazioni sociali nel segno del pluralismo
e dell’apertura alle diverse voci religiose secondo criteri di obiettività, completezza e
imparzialità dell’informazione (Sent. Corte Cost. 155/2002).
Con specifico riferimento al servizio pubblico generale radiotelevisivo affidato in concessione alla RAI, il Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (D.Lgs.
31-7-2005, n. 177) prevede all’art. 45 che la RAI garantisca tra l’altro, l’accesso alla
programmazione, nei limiti e secondo le modalità indicate dalla legge, in favore di
tutte le confessioni religiose che ne facciano richiesta.
Alcune leggi di recepimento delle intese stipulate con confessioni acattoliche, poi,
prevedono specifiche disposizioni in tema di emittenza radiotelevisiva.
La legge n. 516 del 1988, ad esempio, prevede che, tenuto conto che l’ordinamento radiotelevisivo si informa ai principi di libertà di manifestazione del pensiero e di pluralismo, nel quadro della
pianificazione delle radiofrequenze si tenga conto dalle richieste presentate dalle emittenti gestite
dalle chiese facenti parte dell’Unione delle chiese avventiste operanti in ambito locale, relative
224

Capitolo 18
alla disponibilità di bacini di utenza idonei a favorire l’economicità della gestione ed un adeguata
pluralità di emittenti in conformità della disciplina di settore.
Disposizione identica è contenuta nella legge 116 del 1995 relativa ai battisti, nella legge 128 del
2012 relativa alla Chiesa apostolica in Italia, nella legge n. 126 del 2012 in riferimento alla Sacra
arcidiocesi ortodossa d’Italia, nella legge n. 246 del 2012 relativa all’Unione induista italiana,
nell’intesa con la Congregazione dei testimoni di Geova del 4-4-2007.
C) Il trattamento dei dati sensibili
Il codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs. n. 196 del 2003) definisce
dati sensibili i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti,
sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o
sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
L’art. 26 del codice (D.Lgs. 196/2003) richiede che il trattamento di tali dati necessiti
del consenso scritto dell’interessato e della previa autorizzazione del garante della
privacy, nell’osservanza dei presupposti e dei limiti stabiliti dallo stesso codice, dalle
leggi e dai regolamenti.
Con riferimento ai dati personali di natura religiosa la normativa esposta ammette
alcune eccezioni. In particolare è prevista:
— la completa esenzione delle confessioni religiose dal regime di protezione rinforzata
dei dati sensibili, limitatamente al trattamento dei dati relativi ai propri aderenti e ai
soggetti che per finalità esclusivamente religiose entrino regolarmente in contatto
con esse;
— la deroga al consenso dell’interessato, ma non all’autorizzazione del garante,
quando il trattamento dei dati sensibili è effettuato da associazioni, enti ed organismi
senza scopo di lucro, anche non riconosciuti, a carattere politico, filosofico, religioso o sindacale, per il perseguimento di scopi determinati e legittimi individuati
dall’atto costitutivo, dallo statuto o dal contratto collettivo, relativamente a dati
personali degli aderenti o dei soggetti che in relazione a tali finalità hanno contatti
regolari con l’associazione.
È bene precisare che affinché le eccezioni esposte siano effettivamente operative è
necessario che:
— i dati non siano diffusi o comunicati fuori delle medesime confessioni;
— siano adottate idonee garanzie relativamente ai trattamenti effettuati, nel rispetto
dei principi indicati al riguardo con autorizzazione del Garante.
Relativamente alla determinazione delle confessioni religiose relative alle idonee garanzie per
i trattamenti effettuati, si segnala per la religione cattolica il Decreto generale della CEI recante
Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza, del 20 ottobre 1999, n.
1285, che disciplina la tenuta dei registri, degli archivi, degli elenchi e schedari, del segreto d’ufficio,
degli annuari e bollettini, della elaborazione e conservazione dei dati, delle funzioni di vigilanza
del Vescovo diocesano, della riparazione dei danni e delle sanzioni.
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 225
Il Garante ha confermato la legittimità delle richieste intese a far annotare, a margine
del dato da aggiornare, la volontà degli interessati di non appartenere più alla Chiesa
cattolica (cd. sbattezzo), reputando l’annotazione compatibile con la necessaria documentazione del fatto storico dell’avvenuto battesimo. È stata ritenuta legittima ogni
eventuale attività della Curia volta a richiamare l’attenzione dell’interessato sugli effetti
che l’istanza produce.
16.Lavoro subordinato e fattore religioso
A) Generalità
La garanzia dell’esercizio della libertà religiosa del singolo credente lavoratoresubordinato nell’ambito della comunità multietnica nel quale oggi si vive e si lavora,
deve essere contemperata con le modalità di esercizio della prestazione di lavoro.
La realizzazione di entrambe le esigenze dipendono:
— dal tipo di lavoro svolto e dalla sua flessibilità;
— dalla rigidità delle formalità di svolgimento delle pratiche religiose (si pensi al
fedele dell’Islam e ai suoi tempi di preghiera e di digiuno);
— dagli accordi che, al riguardo, datore di lavoro e prestatore subordinato riescono
a concertare per un bilanciamento equo delle esigenze lavorative e religiose;
— dal grado di vigilanza del datore e dalla tolleranza reciproca che non intacchino
l’eguaglianza dei dipendenti e l’esercizio del proprio culto.
Al riguardo determinante è stato il dettato dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970)
che ha espressamente imposto al datore di lavoro di concedere al prestatore il tempo necessario per adempiere ai suoi doveri essenziali di culto (così anche l’art. 6, L. 39/1958).
Tale tendenza ha trovato adeguata conferma nella Carta Sociale Europea, Trattato
internazionale sottoscritto dai Paesi europei nel 1961, riveduto a Strasburgo nel 1996
e ratificato dall’Italia con L. 30/1999, con cui gli Stati garantivano l’osservanza di
alcuni specifici diritti dei lavoratori rafforzando il principio di non discriminazione
nei suoi ambiti tradizionalmente già identificati e già trasfusi all’art. 3, co. 2, della
Costituzione Repubblicana.
Tali ambiti riguardano in particolare:
— lo svolgimento dell’attività lavorativa e il divieto di svolgere indagini sulle opinioni
religiose del prestatore;
— il diritto della riservatezza successivamente tutelato nello specifico dal Codice in
materia di protezione dei dati personali (D.Lgs. 190/2003);
— l’eliminazione di ogni effetto pregiudizievole derivante da una discriminazione
diretta (trattamento meno favorevole) o indiretta (per l’eventuale svantaggio derivante dall’esercizio di un determinato credo) che danneggi la figura del prestatore.
È prevista come sanzione alle discriminazioni la possibilità dell’esercizio di una
azione civile di risarcimento sia in forma specifica che in relazione al danno non
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
Capitolo 18
patrimoniale nonché la nullità: sia degli atti e degli accordi discriminatori per motivi
di religione (artt. 15, 16, 17 Statuto); sia dei licenziamenti per motivi religiosi (art.
3, L. 104/1966).
B) Lavoro e giorni festivi
L’art. 36 Cost. riconosce al lavoratore il diritto al riposo settimanale, al quale non si
può rinunziare. Tale previsione mira a tutelare le esigenze dei lavoratori ad interrompere il ciclo lavorativo per il recupero delle energie e la cura delle esigenze private e
familiari, fra le quali rientrano anche quelle religiose e di culto.
Attualmente, il D.Lgs. n. 66 del 2003 prevede che il lavoratore abbia diritto ogni sette
giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica. Diverse confessioni religiose prevedono, poi, l’astensione dal
lavoro in occasione di determinate ricorrenze o un giorno alla settimana da dedicare
alla preghiera e all’adempimento delle pratiche di culto.
Relativamente alla religione cattolica, l’elenco delle festività religiose riconosciute come giorni
festivi civili è contenuto nel D.P.R. n. 792 del 1985, in attuazione dell’art. 6 del nuovo Concordato:
—
—
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—
—
—
—
—
tutte le domeniche;
il primo gennaio, Maria Santissima Madre di Dio;
il 6 gennaio, Epifania del Signore;
il 15 agosto, Assunzione della Beata Vergine Maria;
il primo novembre, tutti i Santi;
l’8 dicembre, Immacolata Concezione;
il 25 dicembre, Natale del Signore;
il 29 giugno, SS. Pietro e Paolo, per il Comune di Roma.
Per quanto concerne, invece, le confessioni diverse dalla religione cattolica, la legge n. 516
del 1988 riconosce agli avventisti il diritto di osservare il riposo sabbatico e di fruire, su richiesta,
del riposo sabatico come riposo settimanale.
Tale diritto è esercitato nel quadro della flessibilità dell’organizzazione del lavoro e ferme restando
le esigenze imprescindibili di servizi essenziali previsti dall’ordinamento. In ogni caso le ore lavorative non prestate il sabato sono recuperate la domenica o in altri giorni lavorativi senza diritto ad
alcun compenso straordinario. Nel fissare il calendario di esami le autorità scolastiche adotteranno
opportuni accorgimenti onde consentire ai candidati avventisti che ne facciano richiesta di sostenere
in altro giorno prove di esame fissate in giorno di sabato.
Norme sostanzialmente analoghe sono previste anche per gli ebrei della legge 101 del 1999, con
riferimento al riposo sabbatico. Tali previsioni si estendono anche ad alcune festività religiose ebraiche: il Capodanno, la Vigilia e digiuno di espiazione. la Festa delle Capanne, la Festa della Legge,
la Pasqua, la Pentecoste e il Digiuno del 9 di Av. La data di tali festività viene comunicata ogni anno
al Ministero dell’interno, ai fini della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Le autorità competenti
terranno conto dei riposo sabbatico e delle festività ebraiche nel fissare il diario delle prove di concorso.
Per gli ortodossi, le previsioni della L. 126 del 2012 riguardano le seguenti festività religiose: Circoncisione del Signore, Santa Teofania, Sabato Santo, Domenica della Santa Pasqua, Domenica
della Pentecoste, Dormizione della Madre di Dio, Natale del Signore e Sinassi della Madre di Dio.
Le date delle festività sono comunicate dall’Arcidiocesi al Ministero dell’interno, il quale ne dispone
la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Ulteriori previsioni in materia di festività religiose sono state introdotte dalle leggi di recepimento
intese con i buddisti e gli induisti (leggi nn. 245 e 246 del 2012).
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
 227
In questi casi non si tratta di un riconoscimento ad effetti civili di festività religiose, come avviene
per la religione cattolica, ma semplicemente del diritto di astenersi da attività per poter osservare
i giorni festivi previsti dalla propria religione.
C) Limiti derivanti dalle organizzazioni di tendenza
Lo spazio di libertà religiosa del prestatore viene messo a forte rischio quando l’attività organizzata dal datore esprima un orientamento religioso o ideologico preciso in
contrasto con i convincimenti etico-religiosi del prestatore (Casuscelli).
Tale attività, detta «di tendenza», riguarda in particolare le citate attività a fini religiosi
(ospedaliere, di assistenza, di studio) ideologicamente e religiosamente molto marcate
che, come tali, coinvolgono continuamente il prestatore nello svolgimento della propria
attività lavorativa le cui mansioni, cioè, richiedono un altro grado di adesione ideologica, adesione che assume il rilievo di requisito della prestazione richiesta (Casuscelli).
Al riguardo la Cassazione ha stabilito il principio dell’irrilevanza delle tendenze eticoreligiose del dipendente a meno che il credo religioso non esiga atteggiamenti tali da
interferire sull’adempimento della prestazione (es. cattedra di filosofia o di religione
affidata ad un appartenente a credo religioso diverso e in contrasto con quello della
scuola di tendenza in cui è stato assunto).
17.Simboli religiosi, pratiche religiose e ordinamento statale
A) Considerazioni introduttive
In passato la simbologia religiosa sia negli Stati nazionali che in quelli confessionali
non sollevava nessun problema di rilievo. Oggi a causa del fenomeno dell’immigrazione
che ha creato in molti paesi occidentali delle società multietniche e multirazziali, tale
simbologia ha assunto notevole importanza soprattutto nello «spazio pubblico» dove
si manifesta sia nei simboli che nel vestiario di ciascun credo religioso.
B) Uso di vestiario simbolico
La libertà religiosa abbraccia anche il diritto di manifestare liberamente la propria
identità religiosa attraverso l’uso di simboli nel vestiario.
La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha più volte sancito che l’utilizzo di indumenti
religiosamente connotati, tra cui l’uso del velo islamico o di copricapo quali il turbante
da parte dei Sikh o della kippah da parte degli Ebrei, o di simboli religiosi, quali l’uso
di catenine attorno al collo con appeso il crocifisso, rientrano tra le manifestazioni del
credo religioso «protette» dall’art. 9 della CEDU.
Ne deriva che possono trovare applicazione restrizioni all’uso pubblico di indumenti o
simboli religiosamente connotati solo se, in primo luogo, tali restrizioni sono stabilite
dalla legge e se, ulteriormente, perseguono finalità legittime con mezzi appropriati e
necessari (principi di proporzionalità e necessità).
228

Capitolo 18
Al contrario di quanto avviene in altri Paesi (ad es. la Francia o la Turchia), l’ordinamento italiano si limita solo a vietare l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro
mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico
o aperto al pubblico, senza giustificato motivo (art. 5 L. 152/1975)
La ratio della norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è di evitare che l’utilizzo di caschi o di
altri potenziali mezzi di travisamento abbia la finalità di evitare il riconoscimento in occasione di
manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle che tale usanza comportino (es. carnevale). Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere
difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene «senza giustificato motivo».
Al riguardo l’uso del velo che copre il volto, o in particolare del burqa, non è diretto
ad evitare il riconoscimento, ma è in linea con la tradizione di determinate popolazioni
e culture.
Ne consegue che il citato art. 5 consente di indossare il velo per motivi religiosi o culturali eccetto il divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni pubbliche e dall’obbligo
di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine.
Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o in altre
occasioni possano essere previste dalle autorità locali, anche in via amministrativa,
regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purché esista
una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze
(cfr. Consiglio di Stato, sent. 19-6-2008, n. 3076).
C) Esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici
Venuto meno il principio confessionale che elevava il cattolicesimo a religione di Stato,
è sorto il problema della legittimità, in uno Stato laico, della possibilità di esporre
simboli religiosi (in particolare il crocifisso) all’interno di luoghi pubblici come le
aule scolastiche, quelle giudiziarie o i seggi elettorali. La previsione di tale esposizione
è contenuta in norme secondarie (R.D. n. 1297 del 1928. R.D. n. 118 del 1924, circolare
29 maggio 1926, n. 2134) che, in quanto tali, non possono essere oggetto di giudizio
da parte della Corte costituzionale.
Sul punto si riportano alcuni orientamenti giurisprudenziali in materia:
— un primo orientamento, sostenuto dal Consiglio di Stato in un parere reso nel 1988, ritiene che
il crocifisso, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della
cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente dalla
specifica confessione religiosa, per cui la Costituzione, nel garantire la pari libertà delle confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici locali di un simbolo
che, oltre ad essere un emblema religioso, fa parte del patrimonio storico come il crocifisso;
— un secondo orientamento, espresso dalla Corte di Cassazione penale nella sentenza n. 439
del 2000 a proposito della presenza del crocifisso nei seggi elettorali, ritiene che il principio di
laicità dello Stato presupponga la pluralità dei sistemi di senso e di valore, ognuno dei quali
gode di eguale dignità, per cui i luoghi pubblici in cui può essere inscenata la competizione fra i diversi sistemi devono essere neu­trali rispetto a tale conflitto. Pertanto, il rifiuto
dello scrutatore di svolgere le funzioni alle quali è chiama­to appare motivato dal fatto che egli
è in tale veste pubblico ufficiale imparziale, e la sua imparzialità deve essere garantita anche
dalla neutralità dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale delle competizioni
Il fenomeno religioso nelle differenti esperienze attuali
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elettorali. Nell’ordinanza del Tribunale de L’Aquila del 2003, in merito alla esposizione del
crocifisso in una scuola materna, poi, il superamento della religione cattolica come religione
di Stato fa ritenere al giudice che le giustificazioni addotte per ritenere non in contrasto con
la libertà di religione l’esposizione del crocifìsso sono divenute inconsistenti, e si pongono in
contrasto con la trasformazione culturale dell’Italia e con i principi costituzionali, che impongono il rispetto per le convinzioni degli altri e la neutralità delle strutture pubbliche di fronte ai
contenuti ideologici;
— un terzo orientamento si ravvisa in una parte della giurisprudenza amministrativa (sentenza
del Tar Veneto, Venezia, n. 1110 del 2005 e Consiglio di Stato, sezione III, n. 556 del 2006,
confermativa della precedente), dove il crocifisso viene considerato sia come simbolo
storico-culturale, ma anche come sim­bolo religioso, anche se non riconducibile esclusivamente alla religione cattolica, bensì a buona parte delle confessioni cristiane presenti in Italia.
Tuttavia, proprio perché simbolo religioso il crocifisso è anche sim­bolo di laicità, in quanto
nel nucleo centrale e costante della fede cristiana si può agevolmente individuale il principio di
tolleranza, di libertà religiosa e quindi, in ultima analisi, il fondamento della laicità dello Stato.
Con riferimento specifico all’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie, va segnalata la
pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite che con sentenza n. 5924 del 14 marzo 2011
ha confermato la destituzione di un giudice di pace a seguito del procedimento disciplinare tenutosi
presso il Consiglio Su­periore della Magistratura, per avere rifiutato di tenere udienza, in un primo
momento perché nell’aula c’era il crocifisso, ma poi, apprestata un’aula senza, perché i crocifissi
erano rimasti nelle altre aule di tutti i tri­bunali italiani, e perché non gli era stato consentito almeno
di mettere nella propria aula il simbolo della religione ebraica, il menorah.
Per esporre negli uffici pubblici, tra i quali rientrano le aule di giustizia, simboli religiosi diversi dal
Cro­cifisso — sottolinea la Suprema Corte — «è necessaria una scelta discrezionale del legislatore,
che allo stato non sussiste».
La Cassazione ha rilevato che una simile scelta potrebbe anche essere fatta dal legislatore valutando, però, anche il rischio di «possibili conflitti» che potrebbero nascere dall’esposizione di
simboli di identità religio­se diverse. «È vero che sul piano teorico il principio di laicità — scrive la
Cassazione — è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l’alto (laicità per addizione)
che consenta ad ogni soggetto di ve­dere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria
religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso (laicità per sottrazione)…Tale scelta
legislativa, però, presuppone che siano valutati una pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità
concreta ed il bilanciamento tra l’esercizio della libertà re­ligiosa da parte degli utenti di un luogo
pubblico con l’analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell’ateo o del non credente,
nonché il bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra una pluralità di identità
religiose tra loro incompatibili».
In materia di esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche va segnalata, inoltre,
la sentenza del 18-3-2011 con la quale la Grande Camera della Corte europea dei
Diritti dell’uomo di Strasburgo ha ribaltato una precedente pronuncia della Corte
europea dei Diritti dell’uomo (3-11-2009). Tale pronuncia accoglieva il ricorso di
un genitore di origine finlandese residente in Italia che sosteneva che il simbolo del
Crocifisso fosse un affronto alle sue convinzioni e violasse il diritto dei suoi figli che
non professano la religione cattolica.
La richiesta di riesame avanzata dallo Stato italiano è stata accolta dalla Grande Camera che ha deciso che non vi è stata violazione della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) relativamente
all’articolo 2 del protocollo 1 (salvaguardia della pluralità in materia di istruzione).
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Capitolo 18
Secondo la Corte, se è vero che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono
tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di
questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni. Inoltre, pur essendo
comprensibile che la ricorrente possa vedere nell’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole
pubbliche frequentate dai suoi figli una mancanza di rispetto da parte dello Stato del suo diritto di
garantire loro un’educazione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni filosofiche, la sua
percezione personale non è sufficiente a integrare une violazione dell’articolo 2 del Protocollo 1.
A tal proposito la Corte ha constatato che nel rendere obbligatoria la presenza del crocifisso nelle
aule delle scuo­le pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del Paese
una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico. La Corte ha ritenuto tuttavia che ciò non basta
a integrare un’opera d’indottrinamento da parte dello Stato italiano e a dimostrare una violazione
degli obblighi previsti dall’articolo 2 del Protocollo 1. Quanto a quest’ultimo punto, la Corte ricorda
che ha già stabilito che, in merito al ruolo preponderante di una religione nella storia di un Paese,
il fatto che, nel programma scolastico le sia accordato uno spazio maggiore rispetto alle altre
religioni non costituisce di per sé un’opera d’indottrinamento. La Corte ha sottolineato, altre­sì,
che un crocifisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli
alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose.
In conclusione la Corte ha ritenuto che gli effetti della frequente visibilità che la presenza
del crocifisso attribuisce al cristianesimo nell’ambiente scolastico vadano ridimensionati
perché tale presenza non è associata a un insegnamento obbligatorio del cristianesimo
e per il fatto che lo spazio scolastico è aperto ad altre religioni: il fatto di portare simboli e di indossare tenute a connotazione religiosa non è, infatti, proibito agli alunni;
inoltre, è possibile nella scuola organizzare l’insegnamento religioso facoltativo per
tutte le religioni riconosciute tanto che la fine del Ramadan è talvolta festeggiata anche
pubblicamente in alcune scuole ove sono presenti alcuni alunni di religione islamica.
D)Mutilazioni degli organi genitali femminili e circoncisione
Esistono alcune pratiche a sfondo religioso che trasformano in via diretta il corpo,
dalle più lievi come la rasatura dei capelli, la crescita della barba, i tatuaggi, a quelle
che comportano una menomazione temporanea, come la flagellazione, o definitiva,
come le mutilazioni genitali femminili e la circoncisione.
L’art. 583bis del codice penale vieta le pratiche di mutilazione degli organi genitali
femminili, configurandole come reato. La L. 7/2006 che ha introdotto il citato articolo del codice penale, mira a sensibilizzare sia le comunità di immigrati che lo stesso
personale sanitario al fine di prevenire tali pratiche mutilatorie.
Con riferimento alla circoncisione maschile rituale, si ritiene che la stessa sia lecita
in quanto, ove correttamente effettuata, non determina menomazioni o alterazioni
organiche o nella funzionalità sessuale o riproduttiva maschile.
E) Prescrizioni alimentari e macellazione rituale
Le prescrizioni alimentari proprie della religione islamica ed ebraica non costituiscono
propriamente atti di culto, bensì pratiche di vita motivate da considerazioni religiose.
Tuttavia, qualora agli ebrei e ai musulmani non fosse assicurato il rispetto delle prescrizioni religiose relative al trattamento delle carni animali, gli stessi sarebbero costretti o
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ad escludere le carni dal loro regime alimentare, oppure a rinunciare all’osservanza del
precetto religioso (5). Il rispetto delle prescrizioni alimentari impone, poi, che siano
rese possibili le tecniche di macellazione rituale.
Tali tecniche culminano nella iugulazione, con conseguente dissanguamento totale dell’animale
che al momento della macellazione deve essere sano e vigile. Tale circostanza si contrappone alle
previsioni della legge n. 439 del 1978, che recepiva direttive europee in materia, in base alla quale
era obbligatorio lo stordimento dell’animale prima della macellazione al fine di ridurre al minimo
le sofferenze dello stesso. Tuttavia, l’art. 4 della stessa legge prevedeva che le sue disposizioni
non si applicassero nei casi in cui speciali metodi di macellazione, in osservanza di riti religiosi,
fossero autorizzati con decreto del Ministro della sanità di concerto con il Ministro dell’interno.
A tale previsione è stata data attuazione con il D.M. 11-6-1980, recante Autorizzazione alla macellazione degli animali secondo i riti religiosi ebraico ed islamico che autorizza la macellazione
senza stordimento e richiede che sia effettuata da personale qualificato che sia perfettamente a
conoscenza ed addestrato nell’esecuzione dei rispettivi metodi rituali.
Il decreto ministeriale è stato recepito espressamente nell’intesa con le comunità ebraiche (art. 6,
co. 2 della legge n. 101 del 1989). Successivamente, però, è stata emanata una nuova direttiva
europea, che ha fatto proprie anche le previsioni della Convenzione europea per la protezione
degli animali da macello adottata dal Consiglio d’Europa nel 1979. Il legislatore italiano si è
adeguato ad essa con D.Lgs. 1-9-1998, n. 333.
Da ultimo il D.Lgs. 6-11-2013, n. 131 ha adottato la disciplina sanzionatoria per la violazione delle
disposizioni del nuovo regolamento CE n. 1099/2009 relativo alle cautele da adottare durante
la macellazione o l’abbattimento degli animali.
Questionario
1. È possibile rifiutarsi di svolgere qualunque attività che sia anche indirettamente
connessa all’interruzione volontaria della gravidanza? (§1)
2. Con quali principi costituzionali confligerebbe il rifiuto dei trattamenti sanitari? (§2)
3. Qual è la posizione della Chiesa cattolica in relazione al testamento biologico? (§2)
4. Quali argomenti portano a loro sostegno i fautori della configurabilità nel nostro
ordinamento del matrimonio tra persone dello stesso sesso? (§3)
5. Quali sono i motivi che hanno indotto la Corte costituzionale a dichiarare illegittimo
il divieto di fecondazione eterologa? (§5)
6. L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole è obbligatorio? (§8)
7. Quali sono i reati previsti dal nostro ordinamento a tutela del sentimento religioso? (§9)
8. Esistono delle peculiarità nella disciplina del trattamento dei dati da parte delle
confessioni religiose? (§10)
(5) Un problema del genere si pone, ad esempio, con riferimento all’alimentazione negli istituti di detenzione,
negli ospedali e nelle mense scolastiche in cui siano presenti musulmani o ebrei.
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