ex - Padis

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UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA
Dottorato di ricerca in diritto penale
LA RESPONSABILITÀ PENALE OMISSIVA ALLA LUCE
DEL PRINCIPIO DI SEPARAZIONE TRA POLITICA E
AMMINISTRAZIONE
CANDIDATO
Dott. Luigi Pacifici
Matr. 1185239
TUTOR
Prof. Franco Carlo Coppi
1
A tutti coloro che
mi sono rimasti vicini
nei momenti più difficili
2
INDICE
Introduzione ………………………………………………………………………p. 5
I Parte prima: premessa di diritto penale …………..………………………… p. 8
I.1L’omissione penalmente rilevante …………………………………………….. p. 9
I.2 La distinzione tra reati omissivi propri e impropri ……...…………………… p. 17
I.3 Rapporti tra l’omissione penalmente rilevante ed il principio di offensività ... p. 20
I.4 In particolare: il reato omissivo improprio …………………………………... p. 22
I.5 Le diverse tipologie di posizione di garanzia: obblighi di protezione, di controllo e
d’impedimento di reati ……………………………………………………….….. p. 40
I.6 Concorso omissivo e connivenza ………………………………………….… p. 51
I.7 Cenni sulle principali ipotesi applicative di concorso omissivo nel reato
commissivo ……………………………………………………………………… p. 55
II Parte seconda: premessa di diritto amministrativo …….………………… p. 62
II.1 I diversi modelli di Pubblica Amministrazione che emergono dalla
Costituzione……………………………………………………………………… p. 63
II.2 Il principio di separazione tra politica e amministrazione ………………..… p. 66
II.3 La riforma ad opera della legge n. 142 del 1990 …………………………… p. 67
II.4 Il decreto legislativo n. 29 del 1993 ………………………………………… p. 68
II.5 La legge n. 81 del 1993 ……………………………………………………... p. 71
II.6 Il principio di separazione delle funzioni nell’ambito della finanza e della
contabilità locale ………………………………………………………………… p. 73
II.7 La riforma Bassanini: legge n. 127 del 1997 ……………………………..… p. 74
II.8 Il decreto legislativo n. 80 del 1998 ………………………………………… p. 77
II.9 Il testo unico degli enti locali: d.lgs. n. 267 del 2000 ……………………..... p. 79
II.10 La disciplina derogatoria per i comuni minori …………………………….. p. 93
II.11 Il d.lgs. n. 165 del 2001 e le modifiche ad opera della legge n. 145 del
2002…………………………………………………………………………….... p. 95
3
II.12 L’illegittimità costituzionale dello spoil system una tantum …………….. p. 100
II.13 La riforma Brunetta: d.lgs. n. 150 del 2009 ……………………………… p. 104
II.14 Le deroghe al principio di separazione tra politica e amministrazione
nell’ambito delle leggi regionali in materia di banche di credito cooperativo … p. 106
II.15 Considerazioni finali sul principio di separazione tra politica e amministrazione.
Prospettive de iure condendo ………………………………………………...… p. 115
II.16 La relazione tra politica e amministrazione nei principali Paesi europei.... p. 124
III Parte terza: analisi specifica del tema ……………………...……………. p. 132
III.1 Responsabilità omissiva impropria monosoggettiva: insussistenza di una
posizione di garanzia a carico degli amministratori pubblici per la protezione di tutti i
cittadini da qualsiasi pericolo ………………………………………………….. p. 133
III.2 Responsabilità per danni da uso delle strade …….……………………….. p. 134
III.3 La responsabilità del Sindaco quale autorità locale di protezione civile .… p. 149
III.4 Responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da parte
dell’organo di indirizzo politico: a) nei casi eccezionali in cui l’organo politico abbia
poteri gestori …………………………………………………………………… p. 151
III.5 Segue: b) nei casi regolari di separazione tra politica e amministrazione ... p. 157
III.6 Prospettive di riforma …………………………………………………….. p. 165
III.7 L’atto di nomina del dirigente da parte dell’organo d’indirizzo politico configura
una delega di funzioni? ………………………………………………………… p. 167
Bibliografia ……………………………………………………………………. p. 173
4
INTRODUZIONE
La tesi mira ad approfondire i riflessi penalistici della riforma dell’assetto della
Pubblica Amministrazione che ha portato all’introduzione della separazione delle
funzioni tra organi d’indirizzo e programmazione, da un lato, e quelli di gestione
amministrativa, dall’altro. Il lavoro prende quindi le mosse da una premessa di diritto
penale che consta di un’analisi generale sul concetto di omissione penalmente
rilevante, per approfondire in seguito il tema classico della posizione di garanzia.
Delineate le coordinate penalistiche, si passa alla premessa di diritto amministrativo,
che tende ad evidenziare la progressiva affermazione del principio di distinzione tra
politica e amministrazione, ripercorrendo le varie tappe delle riforme intervenute a
partire dalla legge n. 142 del 1990. L’excursus storico compiuto, unitamente alla
descrizione dell’attuale disciplina normativa, consente di trarre le conclusioni sul
tema e di sollevare alcune considerazioni critiche. In particolare, si fa riferimento non
solo alle non trascurabili deroghe che il principio di separazione incontra nella
disciplina positiva (si pensi ad esempio alle norme relative ai Comuni di minori
dimensioni o alle attribuzioni del Consiglio Comunale ex art. 42 del d.lgs. n. 267 del
2000), ma anche al sistema ordinario dei rapporti tra vertice politico e burocrati.
Infatti, il legislatore, nello stesso momento in cui proclama solennemente la
distinzione delle funzioni e l’autonomia della dirigenza dal ceto elettivo, sottopone la
classe degli amministrativi al controllo degli organi politici, titolari del potere di
nomina e revoca relativo agli incarichi dirigenziali. Con ciò creando inevitabilmente
una situazione di soggezione della dirigenza verso la politica, se è vero che non vi
può essere reale autonomia tra due attori istituzionali qualora l’uno sia sottoposto al
controllo dell’altro e le relative progressioni di carriera siano nelle mani dell’organo
verso cui si assume di voler garantire l’indipendenza. Sulla base dei rilievi critici
5
emersi si propongono, quindi, due diverse prospettive di riforma finalizzate ad evitare
gli aspetti problematici dell’attuale disciplina.
Conclusa la premessa di diritto amministrativo, si procede all’analisi specifica del
tema, che presenta particolare interesse alla luce della sua novità nel panorama
dottrinale italiano e di alcune recenti pronunce rese dalla Suprema Corte.
In particolare, si affronta, in primo luogo, la questione della configurabilità di una
responsabilità omissiva impropria monosoggettiva in capo agli amministratori
pubblici, con particolare riferimento al tema degli eventi lesivi ricollegabili all’uso
delle strade. Tale analisi permette di cogliere i riflessi penalistici del riparto di
competenze tra organi politici e organi amministrativi, anche alla luce degli
orientamenti espressi dalla recente giurisprudenza di legittimità. Lo studio della
questione offre inoltre lo spunto per una ricognizione delle principali tesi emerse con
riguardo all’istituto della delega di funzioni e per una loro applicazione ai fini che
interessano in questa sede.
In secondo luogo, la ricerca si sofferma sulla sussistenza di una responsabilità
plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da parte dell’organo
d’indirizzo politico, sia nei casi eccezionali in cui gli organi elettivi abbiano poteri
gestori, sia nelle ipotesi regolari di separazione tra politica e amministrazione. Al
riguardo, atteso l’esiguo numero di contributi dottrinali e di pronunce della Suprema
Corte, si possono ipotizzare possibili tesi, anche alla luce di quelle offerte
nell’analogo tema della responsabilità dei sindaci delle società per i reati commessi
dagli amministratori. Le ricostruzioni proposte sono diverse a seconda che si versi
nella regola della separazione di funzioni o nelle eccezioni della confusione dei ruoli
e si fondano su un’applicazione al problema in esame delle teorie elaborate con
riguardo alla posizione di garanzia. La specificità del tema impone, tuttavia,
un’adeguata ricognizione della disciplina extrapenale che regola il riparto di
competenze all’interno della Pubblica Amministrazione, i diritti e i doveri dei
dipendenti pubblici e la responsabilità erariale degli stessi.
6
Le soluzioni offerte sulla base della disciplina vigente, infine, confermano
l’opportunità di una riforma dell’attuale configurazione del principio di separazione
tra politica e amministrazione. Nella parte conclusiva del lavoro, pertanto, si
analizzano i possibili riflessi penalistici delle diverse proposte di riforma della
disciplina amministrativa.
7
I PARTE PRIMA:
PREMESSA DI DIRITTO PENALE
Al fine di analizzare lo specifico tema dei riflessi penalistici del vigente principio di
separazione tra politica e amministrazione, giova effettuare una premessa generale sul
reato omissivo improprio e, prima ancora, sul concetto di omissione penalmente
rilevante. In questa sede, infatti, verranno tracciate le coordinate essenziali da
applicare poi al tema oggetto di più specifica analisi in questo studio. In seguito, nella
parte seconda, ci si soffermerà più nel dettaglio sulla questione, prettamente
amministrativistica, della separazione di funzioni tra gli organi di indirizzo politico e
quelli di gestione amministrativa, il che costituirà l’imprescindibile preludio
all’analisi specifica del tema. Essa si svolgerà nell’ultimo capitolo e trarrà alimento
dalle conclusioni raggiunte nelle due premesse di diritto penale e di diritto
amministrativo.
8
I.1 L’omissione penalmente rilevante
Come evidenziato dalla dottrina prevalente1 ed in via di prima approssimazione,
l’omissione può definirsi come il mancato compimento, da parte di un soggetto,
dell’azione possibile che era da attendersi.
Sul piano storico può notarsi che, fino alla fine dell’800, sotto l’influenza
dell’ideologia liberale e individualista, la responsabilità per omissione costituiva
l’eccezione, giacché il sistema era di tipo essenzialmente conservativo. Con la
conseguenza che la legislazione penale si connotava per una netta prevalenza dei
divieti, ossia di obblighi di astenersi dal violare la sfera degli altrui diritti intangibili,
mentre i doveri di attivarsi a favore degli interessi altrui erano quantitativamente
ridotti ed i reati omissivi concernevano solamente la prestazione del servizio militare,
il pagamento delle imposte e l’omissione di soccorso delle persone in pericolo.
Nei regimi totalitari sorti durante i primi anni del ‘900, invece, si manifestò la
tendenza alla creazione di un modello penale propulsivo, ovvero incentrato
prevalentemente su comandi, poiché l’ideologia autoritaria concepiva il singolo in
funzione degli interessi superiori ed assorbenti della Nazione o del Partito. Ne
discendeva una serie numerosa di obblighi di attivarsi ed il conseguente incremento
dei reati omissivi.
In seguito alla conclusione del secondo conflitto mondiale, poi, l’affermarsi dello
Stato solidaristico di diritto determinò l’insorgere di molteplici obblighi positivi,
finalizzati alla rimozione degli ostacoli che, di fatto, limitavano la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini, oltre ad impedire il pieno sviluppo della persona umana e
BONUCCI, L’omissione nel sistema giuridico, Perugina, 1911; VANNINI, i reati commissivi mediante omissione, Roma,
1916;GRISPIGNI, L’omissione nel diritto penale, in Riv. it. di dir. e proc. pen., Milano, 1934, p. 592; GUARNERI, il
delitto di omissione di soccorso, Padova, 1937; DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria
generale del reato, Milano, 1950; SPASARI, L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Milano, 1956;
CARACCIOLI, Omissione (diritto penale), in Nov. Dig., XI, Torino, 1965, p. 895; FIANDACA, Reati omissivi e
responsabilità penale per omissione, in Archivio penale, Napoli, 1983, p. 3; FIANDACA; Omissione, in Dig. Disc. pen.,
VIII, Torino, 1994, p. 546; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2006, p. 538 e ss.; STILE,
Omissione rifiuto e ritardo di atti d’ufficio, Napoli, 1974; GALIANI, Il problema della condotta nei reati omissivi,
Napoli, 1980; NUVOLONE, L’omissione nel diritto penale italiano, in L’indice penale, Padova, 1982, p. 434;
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 2007, p. 126; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale,
Milano, 2008, p. 325; Per la dottrina tedesca: ROXIN, An der Grenze von Begehung and Unterlassung, in Festschrift
Engisch, 1969, p. 380; GALLAS, Studien zum Unterlassungsdelikt, Heidelberg, 1989; RADBRUCH, Der Handlunsbegriff
in seiner Bedeutung für das strafrechtssystem, 1904 (ristampa 1967), p. 132 e ss.
1
9
l’effettiva partecipazione dei singoli all’organizzazione politica, economica e sociale
del Paese (art. 3 c. 2 Cost.). Pertanto, si verificò un progressivo aumento delle
fattispecie penali omissive (si pensi alle norme in materia di rapporti di lavoro, di
assistenza familiare, di istruzione e mantenimento della prole, di previdenza sociale
etc…), con il derivante abbandono dell’idea della responsabilità omissiva come
eccezione ad un modello penale essenzialmente incentrato su ipotesi commissive,
senza tuttavia trascurare l’esigenza di adeguata protezione della libertà individuale,
come accaduto, invece, nei regimi totalitari. Il fenomeno in questione, d’altro canto,
interessò non solo l’ordinamento italiano, ma, come testimoniano talune indagini
comparativistiche2, si diffuse in tutti gli ordinamenti europei, anche se con minore
incidenza nell’ordinamento inglese dove rimase (ed è) ancora radicato il tradizionale
spirito individualista.
Sempre in questa direzione, la nascita della cosiddetta era tecnologica ha determinato,
a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, un ulteriore aumento della sfera degli
illeciti omissivi, soprattutto al fine di tutelare l’incolumità pubblica e la vivibilità
dell’ambiente (si pensi ad esempio alle norme in tema di sicurezza del lavoro, di
circolazione stradale, di tutela dell’ambiente etc…), con evidente sviluppo in specie
del diritto penale extracodicistico.
Come emerso dalla succinta analisi storica del reato omissivo, esso pone
inevitabilmente il problema politico-criminale di trovare un punto di equilibrio tra
due opposte esigenze fondamentali: da un lato, garantire la libertà individuale;
dall’altro, dare attuazione al principio solidaristico3.
Quanto al primo aspetto, occorre dare atto che, secondo l’orientamento tradizionale,
il comando di agire in un determinato modo, che l’omissione viola, vincolerebbe il
cittadino in misura più intensa rispetto al semplice dovere di astensione sotteso al
reato commissivo; infatti si ritiene che il soggetto tenuto a compiere una specifica
azione è costretto a rinunciare a tutte le altre che potrebbe, nel medesimo tempo,
2
CADOPPI, Il reato omissivi proprio, Padova, 1988, p. 327 ss.; VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale
inglese, Padova, 1992, p. 151; FIANDACA, Omissione, cit., p. 550
3
MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 127.
10
liberamente compiere; il divieto di realizzare un’azione, invece, consente il
compimento di tutte le possibili azioni concomitanti4. Di qui la manifesta ostilità
dell’ideologia liberale nei riguardi della responsabilità penale omissiva, storicamente
testimoniata dalla esiguità del numero di fattispecie di omissione fino alla
conclusione del XIX secolo. Tuttavia, bisogna segnalare che l’assunto della ritenuta
maggiore incidenza sulla libertà personale dei comandi rispetto ai divieti è stato di
recente sottoposto a revisione critica, al punto da risultare ormai ridimensionato5. Si è
notato, infatti, che nella moderna società l’individuo non è più un’entità astratta e
isolata che può disporre della propria libertà fuori da ogni vincolo esterno. Ogni
soggetto, invece, in quasi tutti i momenti della vita, è sottoposto a una fitta rete di
obblighi sia negativi, sia positivi, di natura etico-sociale e/o giuridica, sicché il
precetto penale omissivo, lungi dal sacrificare una illimitata libertà dei cittadini, può
finire col confliggere con obblighi di agire in altra direzione; ne consegue che il vero
problema diviene ormai quello di appurare quale sia l’obbligo giuridicamente
prevalente sugli altri.6 In secondo luogo, inoltre, si è evidenziato che per stabilire se
sia più costrittivo un divieto o un comando di agire non bisogna effettuare una
valutazione astratta, ma occorre un accertamento in concreto. Vi sono infatti divieti
che limitano la libertà dei cittadini in misura più accentuata di quanto non facciano i
comandi in quanto tali: ad esempio, il divieto di non superare il limite di velocità per
l’automobilista stanco che ha fretta di far rientro a casa, può essere percepito come
ben più costrittivo di una prestazione di soccorso alle vittime di un incidente stradale
attuabile mediante la semplice chiamata di un’autoambulanza tramite telefono
cellulare7. D’altra parte, la dottrina moderna nemmeno ha condiviso la considerazione
per cui, mentre l’adempimento di un comando richiede la spendita di un’ energia
positiva, il rispetto di un divieto implica la mera rinuncia al proposito criminoso, per
sua natura meno dispendiosa; la psicologia individuale, infatti, ha chiarito che la
rinuncia ad un’azione criminosa particolarmente attraente può comportare maggiori
4
FIANDACA, Omissione, cit., p. 549.
JAKOBS, Strafrecht, AT, Berlin-New york, 1983, p. 642 e ss.
6
FIANDACA, Omissione, cit., p. 550.
7
FIANDACA, Omissione, cit., p. 550.
5
11
sacrifici psichici rispetto alla spendita d’energia richiesta dall’adempimento di un
comando di agevole esecuzione8. D’altra parte, nemmeno va sottaciuto che sussistono
fattispecie penali costruite in modo tale per cui la responsabilità trova il suo
fondamento non già nelle caratteristiche attive o omissive del comportamento tipico,
ma nel ruolo giuridico-sociale rivestito dal soggetto attivo e nel rapporto di
particolare vicinanza che lo lega al bene protetto e che lo rende, perciò, garante
dell’intangibilità di esso9. Ci si riferisce, ad esempio, ai cosiddetti “reati di obbligo”
(Pflichtdelikte)10, i quali sono realizzabili indifferentemente mediante azione o
omissione, come nel caso dell’art. 380 c.p., che punisce il consulente tecnico il quale,
in violazione dei suoi doveri personali, arreca nocumento agli interessi della parte
assistita; infatti, la fattispecie de qua può essere integrata anche dalla dolosa
omissione da una doverosa attività processuale11. Nello stesso senso si pensi, ancora,
ad alcune delle ipotesi di illecito omissivo improprio punibile, anch’esse
caratterizzate dalla sussistenza dell’obbligo di impedire l’evento in ragione della
posizione giuridica rivestita; in effetti, per la realizzazione dell’ipotesi di omicidio, è
indifferente se la madre uccida il bambino soffocandolo nel sonno o negandogli il
nutrimento oppure se il medico provochi la morte del paziente a lui affidato
iniettandogli una dose di veleno o omettendo di praticargli la cura salvavita12.
Ciò posto con riguardo al principio di libertà individuale, occorre evidenziare, con
riferimento all’opposto principio solidaristico, che in una moderna visione il soggetto
non vive isolatamente, ma in un contesto sociale che gli assicura notevoli benefici e
verso il quale, di conseguenza, è tenuto ad adempiere a taluni obblighi tesi appunto a
tutelare, in particolare, interessi collettivi o superindividuali. Nondimeno, essi non
possono divenire per numero e qualità così invasivi da ridurre eccessivamente la
libertà individuale e da spostare il pendolo dell’ordinamento verso la sponda
dell’autorità.
8
FIANDACA, Omissione, cit., p. 550.
FIANDACA, Omissione, cit. p. 551.
10
ROXIN, Täterschaft und tatherrschaft, 1984, p. 354 e ss.
11
FIANDACA, Omissione, cit. p. 551.
12
FIANDACA, Omissione, cit., p. 551.
9
12
Quanto alla struttura del reato omissivo, la dottrina si è soffermata in primis sulla
natura dell’omissione. Secondo la tesi tradizionale, la stessa avrebbe essenza fisiconaturalistica al pari dell’azione. Tale teoria era mossa dall’esigenza, in passato
particolarmente avvertita, di ricercare un concetto unitario di condotta penalmente
rilevante, capace di comprendere in sé tanto il fare, quanto l’omettere13. Negli ultimi
tempi, invece, è emerso un orientamento che, preso atto dell’impossibilità di
rinvenire un simile concetto, tende a ridimensionare l’importanza delle categorie
unitarie e a scomporre la teoria del reato in sottosistemi autonomi, corrispondenti alle
diverse tipologie criminose (reati dolosi e colposi, da un lato; commissivi e omissivi,
dall’altro)14.
La teoria dell’essenza fisico-naturalistuca dell’omissione, peraltro, si è divisa al suo
interno in diversi orientamenti che hanno seguito percorsi diversi per dimostrare il
medesimo assunto.
In particolare, secondo una prima ricostruzione15, l’omissione consisterebbe nel non
aver agito in un determinato modo, ossia in un nihil facere; in senso contrario, però,
si obietta che la tesi sarebbe inidonea a distinguere l’omissione dalla mera inerzia,
priva di alcuna valenza penale16.
In base ad altra teoria17, l’omissione si sostanzierebbe in un aliud agere, ossia nel
compiere una determinata azione positiva ed in ciò sarebbe rinvenibile la sua essenza
fisico-naturalistica. Tuttavia, si è rilevato che chi omette di agire può non aver posto
in essere un’altra azione, ma essere rimasto totalmente inerte, continuando ad
esempio a dormire; in secondo luogo, si è evidenziata l’impossibilità di individuare
l’azione diversa quando l’obbligo di agire deve essere adempiuto entro un termine
più o meno ampio, durante il quale il soggetto compie una molteplicità di azioni,
salvo che si consideri l’ultima azione, compiuta nella imminenza della scadenza del
13
MARINUCCI, Il reato come <<azione>>. Critica di un dogma, Milano, 1971; ROXIN, Il concetto di nei più recenti
dibattiti della dommatica penalistica, in St. Delitala, III, Milano, 1984, p. 2087 e ss; ANTOLISEI, Manuale di diritto
penale, Parte generale, Milano, 2000, p. 219.
14
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2006, p. 188.
15
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2000, p. 224 e ss.
16
GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 326.
17
LUDEN, Abhanlungen aus dem gemeinem deuttschen Strafrecht, II, 1840, p. 250 e ss; MASSARI, Il momento esecutivo
del reato, Pisa, 1923; MASSARI, Le dottrine generali del diritto penale, Spoleto, 1929.
13
termine; infine, si è notato che l’azione diversa è comunque irrilevante per l’esistenza
del reato, posto che il giudice deve accertare solamente che il soggetto non abbia
tenuto il comportamento dovuto e non già che lo stesso abbia realizzato tale diversa
azione. Ad esempio, nel caso in cui nel termine di alcuni mesi debbano essere
denunciate le armi possedute, il giudice non indaga che cosa il reo abbia fatto in
questo periodo di tempo, ma si limita a stabilire se, pur potendo, egli non abbia
eseguito la prescritta denuncia18.
Per un ultimo orientamento19, infine, l’omissione consisterebbe in un movimento
interno nervoso con cui si arresta un impulso ad agire. In senso critico si è però
rilevato innanzitutto che tale sforzo psichico non si rinviene in tutte le omissioni e
che in particolare difetta in quelle incoscienti20. Sotto altro profilo si è notato che la
tesi riduce comunque l’omissione ad un’entità meramente psichica ed in tal modo
tradisce l’ispirazione di fondo tesa a riconoscere all’omissione un’essenza fisico
naturalistica21. Quando si fa riferimento alla fisicità, infatti, si intende una consistenza
fisica esteriore, ossia un atto di volontà esteriorizzato che, anche ad aderire a tale
impostazione, in ogni caso non sussisterebbe22.
Le critiche suesposte, concernenti i vari sforzi volti ad introdurre, nella struttura
dell’omissione in quanto tale, uno spessore naturalistico di cui essa è
irrimediabilmente priva, hanno indotto la dottrina più recente a prendere atto che
l’azione e l’omissione stanno nello stesso rapporto di contraddizione in cui si
pongono “A e non A”23. Infatti, l’azione rappresenta qualcosa di reale nel mondo
esterno, ossia un fenomeno dotato di fisicità e perciò naturalisticamente percepibile
con i sensi; ne consegue che essa è stata definita come “un movimento corporeo
dell’uomo che provoca una modificazione osservabile del mondo esterno” 24. Non si
può trascurare, tuttavia, che l’importanza del concetto naturalistico di azione è stata
18
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 224 MANTOVANI, Diritto penale, cit. p. 128; GAROFOLI, Manuale di
diritto penale, cit., p. 326.
19
BELING, Grundzüge des Strafrechts, Tübingen, 1925.
20
MANTOVANI, Diritto penale, cit., p.128.
21
GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit, p. 326.
22
MANTOVANI, Diritto penale, cit., p.128.
23
RADBRUCH, Der Handlunsbegriff in seiner Bedeutung fur das Strafrechtssystem, 1904, p. 132 e ss.
24
FIANDACA, Omissione, cit., p. 547.
14
posta in discussione dalla dottrina tedesca e da una parte di quella italiana25. In effetti,
sono state sostenute teorie tese a dimostrare l’esistenza di un concetto sociale di
condotta, o di una nozione negativa di azione (che si sostanzierebbe nel non evitare
ciò che il diritto comanda di non compiere), o l’assorbimento della condotta nella
tipicità e nella antigiuridicità (con la conseguenza che non avrebbe tanto rilievo
l’agire umano, quanto la qualificazione che ne dà l’ordinamento), oppure, da ultimo,
la qualificazione dell’azione come manifestazione di personalità26. Tali ricostruzioni,
però, sebbene abbiano apportato contributi di rilievo alla studio del tema, non sono
riuscite a convincere la maggioranza degli interpreti né a superare la tesi prevalente
della natura fisico-materialistica dell’azione.
L’omissione, al contrario, è un quid materialmente intangibile, ovvero un dato privo
di substrato naturalistico, in altri termini un “nulla”27. Per questi motivi, la tesi ormai
prevalente28 attribuisce all’omissione un’essenza non già fisico-naturalistica, ma
normativa, poiché essa consiste nel “non compiere l’azione possibile, che il soggetto
ha il dovere giuridico di compiere”, ossia in un non facere quod debetur29. In altri
termini, mentre l’azione appartiene al mondo del sein (ossia dell’essere), l’omissione
riguarda il terreno del sollen (ovvero del dover essere), ed è pertanto inconcepibile in
assenza di una norma qualsivoglia (religiosa, morale, sociale o giuridica), che
imponga di agire. Le omissioni rilevanti giuridicamente, però, sono solo quelle
consistenti nella violazione di un dovere giuridico di fare e non già le altre; ai fini del
presente studio, invece, interessano solo, tra le omissioni giuridiche, quelle che sono
sanzionate da norme penali e integranti perciò fattispecie omissive di reato 30. La
25
JESCHEK, Lehrbuch des Strafrechs, parte generale, Berlin- München, 1969, p. 149; MARINUCCI, Il reato come azione.
Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 167 e ss.
26
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2000, p. 220; ROXIN, Il concetto di azione nei più
recenti dibattiti della dommatica penalistica tedesca, in Studi in memoria di Delitala, cit., p. 2087 e ss.; DOSI,
Categorie giuridiche e categorie psicologiche. Nota sullo sviluppo del concetto di azione nella teoria giuridica del
reato, in Delitti e pene, 1986, p. 135.
27
FIANDACA, Omissione, cit., p. 547.
28
GRISPIGNI, Diritto penale italiano, II, Padova, 1947, p. 34; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 140; FIORE,
Diritto penale, Torino, 1993, p. 228; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 128; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p.
544; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 326 e ss.
29
MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 128;
30
E’ noto che, in base ad una concezione formale di reato, ciò che contraddistingue la norma penale è la sanzione da
essa astrattamente comminata, ossia la pena. In particolare, è reato ogni fattispecie che sia sanzionata con le pene
principali, ovvero ergastolo, reclusione, multa, arresto e ammenda (art. 17 c.p.): MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 14.
15
distinzione tra queste ultime e le fattispecie dei reati di azione si fonda, dunque, sul
carattere, rispettivamente, positivo o negativo della condotta che sta al centro del
fatto tipico. In altre parole, mentre l’illecito commissivo ha alla base un’azione in
senso stretto, il reato omissivo si risolve nel mancato compimento di un’azione
doverosa31. Di conseguenza, la norma penale che configura il reato di azione si
atteggia a divieto, in quanto vieta di realizzare la condotta positiva prevista ex lege; la
fattispecie penale omissiva, invece, ha la struttura del comando, poiché impone un
comportamento attivo e ne punisce la violazione32.
Tanto premesso sulla natura del reato omissivo, occorre dare atto che, secondo
autorevole dottrina33, lo stesso non sussiste in due casi: in primo luogo, qualora vi sia
l’impossibilità concreta di adempiere al dovere di agire (ad impossibili nemo tenetur),
che può dipendere da condizioni personali psico-fisiche (ad es. il soggetto gravato
dall’obbligo di soccorso non sa nuotare) o esterne (ad es. eccessiva distanza dal luogo
del soccorso); in secondo luogo, in caso di insuccesso dell’azione idonea, tenuta dal
soggetto obbligato, ove il fallimento sia dovuto a circostanze esterne (es. denuncia di
reato spedita ma non pervenuta per disguidi postali non imputabili al pubblico
ufficiale). In entrambi i casi il reato non sussiste per difetto della tipicità (aderendo
alla teoria tripartita34) o per insussistenza dell’elemento oggettivo (se si segue la tesi
bipartita35), posto che in dette situazioni non pare proprio integrata la condotta
omissiva prevista dal legislatore. Inoltre, laddove si tratti di doveri di agire che
incombono su più soggetti, e che non presuppongono necessariamente un
adempimento di tipo personale, l’assolvimento dell’obbligo da parte di uno dei
coobbligati può far venir meno i presupposti della situazione tipica e, quindi, può
rendere penalmente irrilevante l’omissione degli altri che rimangano successivamente
31
FIANDACA, Omissione, cit., p. 547.
FIANDACA, op. cit., p. 547.
33
MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 129.
34
ALIMENA, Appunti di teoria generale del reato, Milano, 1938, p. 35 e ss. DELITALA, Il fatto nella teoria generale del
reato, 1930, in Raccolta degli scritti, I, Milano, 1976, p. 5 e ss. MAGGIORE, Diritto penale, Parte generale, Bologna,
1951, p. 205; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990., p. 124; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit.,
p. 155.
35
MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, I, Torino, 1961, p. 607; FLORIAN, Parte generale del diritto penale, I,
Milano, 1934, p. 398; FIORELLA, Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, p. 786; ANTOLISEI, Manuale di diritto
penale, cit., p. 212; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 101 e ss.
32
16
inerti36. In quest’ultimo caso, peraltro, altra parte della dottrina37 esclude la
sussistenza del reato per difetto di offensività, atteso che, ad esempio, non vi può
essere alcuna lesione o messa in pericolo per l’interesse al normale funzionamento
della giustizia38 allorché la denuncia di reato sia stata presentata solo da uno dei
pubblici ufficiali tenuti (art. 361 c.p.).
I.2 La distinzione tra reati omissivi propri e impropri
Fin qui si è fatto genericamente riferimento al concetto di omissione penalmente
rilevante; tuttavia, è noto che dottrina e giurisprudenza pacificamente distinguono due
tipologie di illeciti di omissione: i reati omissivi propri (delicta omissiva) e quelli
impropri (delicata commissiva per omissionem). Orbene, se non sussiste alcun dubbio
sulla necessità di tale separazione concettuale, molto incerti risultano, invece, i criteri
di divisione tra le due categorie.
Secondo un primo orientamento39, la distinzione tra reati omissivi propri e impropri si
fonderebbe sul carattere della norma violata, ovvero di comando in quelli propri e di
divieto negli illeciti commissivi per omissione; in questi ultimi, infatti, la norma
trasgredita vieta la causazione di un evento e non impone un comportamento attivo.
Ne consegue che, secondo tale impostazione, i reati omissivi impropri sarebbero mere
forme di manifestazione dei reati commissivi, onde l’espressione delicta commissiva
per omissionem.40
Tale tesi è stata però oggetto di critiche giacché la differenza tra comandi e divieti si
basa sulla natura della condotta richiesta: i divieti impongono l’omissione, mentre i
comandi esigono l’esecuzione di un’azione. Pertanto, i reati omissivi impropri sono
36
FIANDACA, Lesività e dolo nel delitto di omessa denuncia di reato, in St. Costa, Milano, 1982, p. 95 e ss. Per una
ricostruzione dell’ipotesi in chiave di difetto di offensività si veda MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p.
216 e infra nel testo.
37
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 216.
38
ERRA, Denuncia penale (omessa o ritardata), in Enciclopedia del diritto, XII, Milano, 1981, p. 199 e ss.
39
LUDEN, Abhandlungenaus dem gemeinem teutschen Strafrecht, 2 Band, Ueben den Thatbestand des Verbreches,
Gottingen, 1840, p. 219; VANNINI, I reati commissivi mediante omissione, Roma, 1916, p. 48 e ss.; MANZINI, Trattato di
diritto penale, I, Torino, 1961, p. 690-691.
40
GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 327.
17
reati omissivi a tutti gli effetti, poiché sono realizzati in violazione di norme di
comando.
In base ad altro orientamento41, il criterio distintivo tra le due categorie si baserebbe
sulla tecnica di tipizzazione utilizzata: i reati omissivi propri sarebbero previsti
espressamente dalla legge (sia o no presente un evento naturalistico nella loro
struttura), mentre quelli impropri risulterebbero dalla combinazione della norma di
parte speciale, configurante una fattispecie di azione, con la clausola generale di cui
all’art. 40 c. 2 c.p. Con la conseguenza che i reati di omesso impedimento
dell’evento, esplicitamente previsti in norme di parte speciale42, andrebbero
considerati come reati omissivi propri, visto che per essi vi è una espressa
tipizzazione legislativa. Tale scelta classificatoria è ritenuta preferibile da tali Autori,
giacché mette meglio in risalto la specifica problematica del reato omissivo improprio
quale figura criminosa priva (almeno in parte) di tipizzazione normativa espressa e,
perciò, di dubbia compatibilità con i principi di legalità e sufficiente determinatezza
della fattispecie43.
La tesi, tuttavia, non appare condivisibile perché si fonda su un dato eventuale ed
estrinseco, quale la tecnica di tipizzazione normativa utilizzata, e non già sulla
struttura intrinseca delle due tipologie di reati. Per questi motivi, appare preferibile il
criterio di distinzione seguito dalla dottrina prevalente, che si basa sulla ontologia
delle fattispecie: tale teoria, infatti, ritiene che, mentre i reati omissivi propri sono
integrati dal mero mancato compimento di un’azione imposta dalla legge, quelli
impropri, invece, sono caratterizzati dal mancato impedimento di un evento
naturalistico; ne consegue che, in quest’ultimo caso, l’omittente assume la veste di
garante del bene protetto e risponde, perciò, anche dei risultati connessi al suo
mancato attivarsi. Pertanto, gli illeciti omissivi propri sono reati di mera condotta,
41
FIANDACA, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Rapporto italiano al Colloquio preparatorio del
XIII Congresso dell’Aciation Internazionale de droit pénal sul tema Infractions d’omission et responsabilità penale
pour omission, Urbino, 7-10 ottobre 1982, in Foro It., 1983, V, c. 29 e spec. nota (8); FIANDACA, Omissione, cit., p.
549; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 542; GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura
obiettiva della fattispecie, Milano, 1983, p. 3 e ss.
42
Ad esempio l’art. 450 c.p., che punisce il fatto di far sorgere il pericolo di un disastro ferroviario con la propria azione
od omissione colposa, o l’art. 650 c.p., che incrimina il mancato impedimento dello strepito di animali.
43
In particolare, FIANDACA, Omissione, cit., p. 549.
18
laddove quelli impropri sono reati di evento. Da ciò discende che, seguendo tale
impostazione, le ipotesi di omesso impedimento dell’evento previste nella parte
speciale del codice penale (ad es. il mancato impedimento di strepiti di animali ex art.
659 c.p.) rientrano nella categoria dei reati omissivi impropri, poiché ciò che rileva ai
fini del distinguo non è la tecnica di tipizzazione utilizzata accidentalmente dal
legislatore, ma la diversità strutturale esistente tra le due tipologie di illecito
omissivo.
Nei reati omissivi propri, quindi, gli elementi costitutivi sono dati: in primis, dalla
situazione tipica, ossia dall’insieme dei presupposti da cui scaturisce l’obbligo di
agire; in secundis, dalla condotta omissiva, che consiste nel mancato compimento
dell’azione richiesta al soggetto dalla norma giurdica; in tertiis, dal termine, esplicito
o implicito, entro cui l’azione deve essere adempiuta44.
Sulla struttura dei reati omissivi impropri si tornerà in seguito in modo più
approfondito. Per ora è sufficiente precisare che i tratti essenziali della categoria sono
rappresentati dal mancato compimento dell’azione doverosa impeditiva imposta da
un obbligo giuridico, dall’evento naturalistico e dal nesso di causalità tra il primo ed
il secondo elemento45.
Con riferimento ai soggetti attivi dei reati omissivi, autorevole dottrina 46 ha
evidenziato che quelli impropri sono tutti reati propri, poiché la qualifica soggettiva,
su cui poggia l’obbligo di garanzia, deve essere preesistente al precetto penale,
mentre i reati omissivi propri possono essere reati propri o comuni a seconda che
l’obbligo di attivarsi abbia come destinatari soggetti con qualifica soggettiva
preesistente (es. art. 328 c.p.) o meno (es. art. 593 c.p.).
44
CADOPPI, Il reato omissivo proprio, cit., p. 865; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 328.
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 129.
46
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 130.
45
19
I.3 Rapporti tra l’omissione penalmente rilevante ed il principio di offensività
Come già esposto nella ricostruzione storica dell’istituto, il legislatore ha
progressivamente incrementato il numero delle fattispecie penali omissive al fine di
soddisfare finalità di natura collettivo-solidaristica, con la conseguenza che si è posto
con insistenza il problema della compatibilità tra la punibilità delle omissioni ed il
principio di offensività. Infatti, mentre il reato di azione reprime la modificazione in
peius di una situazione preesistente, e cioè la lesione di un bene giuridico, l’illecito
penale omissivo, invece, tende a promuovere in melius il progresso e il benessere
collettivo, onde si corre il rischio che il diritto penale si trasformi da strumento di
tutela di beni giuridici a mezzo di “governo della società”47. Da ciò discende il
pericolo di una strumentalizzazione politica dell’individuo che si porrebbe in tensione
con i principi costituzionali in materia penale (soprattutto con quelli di offensività e
di extrema ratio). Per questi motivi, una parte della dottrina48 considera il reato
omissivo un illecito di pura disubbidienza, mentre altri autori, in senso
sostanzialmente analogo, ritengono che il disvalore dell’illecito omissivo consista
non tanto nella lesione di un bene giuridico preesistente, ma nella mancata
produzione di una utilità futura49. Ne consegue che, da questo angolo visuale, si
auspica, de iure condendo, la depenalizzazione degli illeciti di pura omissione.
Tale impostazione non ha però convinto autorevole dottrina50, la quale ha notato che
una disamina approfondita del tema consente di distinguere tra ipotesi di pura
disobbedienza e altre nelle quali la fattispecie omissiva è posta a tutela di beni
giuridici. Infatti, si sostiene che in taluni casi possa assurgere al rango di bene
meritevole di protezione penale proprio l’interesse attuale al conseguimento di utilità
future. Ciò si verifica, in specie, nelle ipotesi di “beni prestazione”, costituiti dalle
47
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 540; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p.
128.
48
A tale impostazione ha aderito per primo il BINDING, Compendio di diritto penale, trad. it. del Prof. A. Borettini,
Roma, 1927; nella dottrina italiana: CADOPPI, Il reato omissivo proprio, I, Padova, 1988, p. 374 e ss; MATOVANI,
Diritto penale, Parte generale, cit., p. 128.
49
ZAFFARONI, Panorama attual da problematica da omissão, in Revista de direito penal e criminologia, 1982, p. 30 e
ss.
50
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 541.
20
disponibilità economico-finanziarie necessarie per assolvere le funzioni tipiche di uno
Stato sociale: ad esempio, l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi, leso
dall’evasione fiscale. Almeno in questi casi il problema non è allora quello della
compatibilità dell’omissione con il principio di offensività, ma, semmai, la necessità
di verificare di volta in volta se sia necessario il ricorso alla sanzione penale o se
possa dirsi, invece, sufficiente la predisposizione di sanzioni amministrative, in base
ai dettami del principio di extrema ratio51.
Altri Autori52, invece, al fine di non ingenerare confusioni, hanno più correttamente
analizzato i rapporti tra omissione e principio di offensività distinguendo tra illeciti
omissivi propri e impropri, pur chiarendo in via generale che entrambi sono
conciliabili con esso non in termini naturalistici (attesa l’inconsistenza fisica
dell’omissione), ma normativi53.
Quanto ai primi, si sostiene che sia possibile un recupero degli stessi sotto l’egida del
principio suddetto a patto che tali fattispecie siano costruite in termini di offesa, ad
esempio mediante la loro trasformazione in reati di evento, e che la loro
interpretazione sia volta all’accertamento della offensività in concreto, con la
conseguenza che il reato dovrebbe essere escluso qualora il bene tutelato non risulti
in concreto pregiudicato dall’omissione. Ad esempio, nell’ipotesi di cui all’art. 328 c.
2 c.p. l’offensività in concreto difetta se il pubblico ufficiale pone in essere un atto
diverso da quello dovuto, ma parimenti in grado di soddisfare l’interesse del
richiedente. Del pari, nel caso dell’omissione di soccorso (art. 593 c.p.), non sussiste
il delitto qualora la situazione di pericolo sia rimossa da altri.
Nei reati omissivi impropri, invece, la compatibilità con il principio di offensività è
possibile attraverso la loro lettura in termini di equiparazione, sotto il profilo del
disvalore sociale, dell’offesa non impedita a quella cagionata. Ne consegue che a tal
fine è necessario: in primo luogo, che il legislatore formuli le fattispecie commissive,
51
CADOPPI, Il reato omissivo, cit., p. 571 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 541.
STILE, Omissione, rifiuto e ritardo di atti d’ufficio, Napoli, 1974; MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito
penale, Milano, 1983, p. 158; CADOPPI, “Non evento” e beni giuridici “relativi”: spunti per una reinterpretazione dei
reati omissivi in chiave di offensività, in L’indice penale, Padova, 1999, p. 373; MANTOVANI, Diritto penale, Parte
generale, cit., p. 216.
53
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 130.
52
21
convertibili ex art. 40 c. 2 c.p., come reati di offesa; in secondo luogo, che l’obbligo
di garanzia venga delimitato nei termini di cui in seguito si darà conto54; infine, che la
condotta doverosa sia quella idonea ad impedire l’evento55, poiché essa assume un
ruolo centrale nella struttura del reato omissivo improprio.
I.4 In particolare: il reato omissivo improprio
Tanto premesso in generale sull’omissione penalmente rilevante e chiarita la
distinzione tra reato omissivo proprio e improprio, occorre soffermarsi in modo più
approfondito sui reati commissivi mediante omissione, poiché, come si vedrà, tali
ipotesi assumono un ruolo centrale nell’analisi dello specifico tema oggetto di studio.
Come si è già notato, il reato omissivo improprio, pur possedendo un’autonomia
concettuale rispetto alla fattispecie commissiva-base, nasce da un processo di
conversione di quest’ultima ad opera dell’interprete. Tale fenomeno non fa altro che
recepire ciò che da tempo è pacifico nella coscienza sociale, ossia che in taluni casi il
mancato impedimento di un evento equivale a cagionarlo: si pensi, ad esempio, al
famoso caso della madre che lascia morire di fame il bambino. E’ facile, quindi,
intuire che il problema fondamentale diviene quello di definire compiutamente le
condizioni in presenza delle quali il non impedire un evento equivale a cagionarlo.
D’altro canto, sul piano del principio di legalità, si pone il non lieve dilemma di come
ricondurre la condotta di mancato impedimento a fattispecie di parte speciale di tipo
commissivo56. Di fronte a tali rilevanti questioni i vari ordinamenti giuridici
forniscono soluzioni diverse. Infatti, mentre in Francia e in Belgio il rilievo attribuito
al principio di legalità57porta a ritenere punibili i soli casi di mancato impedimento
dell’evento espressamente previsti da norme di parte speciale, nei Paesi di common
54
Infra Pr. I.4.
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 217.
56
FIANDACA, Omissione, cit., p. 554.
57
Si ricordi che in tali sistemi il giudice è definito come mera “bocca della legge”, mentre sul piano costituzionale il
Parlamento, in quanto organo rappresentativo della volontà popolare, assume un ruolo centrale.
55
22
law si ammette in via giurisprudenziale (in assenza quindi di una norma di legge ad
hoc) la rilevanza penale dell’omissione impropria, purché sul reo incomba un obbligo
giuridico di agire. Infine, in Germania, in Austria, in Portogallo e in Italia si segue
una via per certi versi mediana: infatti, nella parte generale del codice penale è
contenuta una clausola di equivalenza che si combina con le singole norme di parte
speciale commissive. In tal modo, da un lato, si rimedia alla difficoltà di prevedere
puntualmente nella parte speciale del codice tutte le ipotesi di mancato impedimento
dell’evento punibili e, dall’altro, si riduce l’attrito tra l’illecito omissivo improprio e
il principio di legalità58. Tale sistema normativo, tuttavia, finisce inevitabilmente per
responsabilizzare l’interprete, giacché in definitiva gli si affida la determinazione
degli ambiti di applicabilità della clausola di equivalenza contenuta nella parte
generale, onde l’importanza di delimitare con esattezza le condizioni, in presenza
delle quali il non impedire sia assimilabile al cagionare59. Nel prosieguo, pertanto ci
si soffermerà sulla portata dell’art. 40 c. 2 c.p., sì da fissare le coordinate teoriche da
applicare poi alla specifica problematica oggetto del presente studio.
Al riguardo si può innanzitutto notare che la clausola di equivalenza tra il cagionare e
l’omettere, di cui all’art. 40 c. 2 c.p., è stata posta dal legislatore sotto la rubrica
relativa al “rapporto di causalità”, il che costituisce un significativo indice normativo
della applicabilità della stessa ai soli reati di evento in senso naturalistico, giacché
solo per essi assume rilevanza il rapporto di causalità60. Peraltro, occorre aggiungere
che non tutti i reati di tal tipo sono suscettibili di conversione ai sensi dell’art. 40 c. 2
c.p., ma solo quelli cosiddetti causali puri, ossia quei reati commissivi la cui carica di
disvalore si incentra tutta nella realizzazione dell’evento, indipendentemente dal tipo
di condotta posta in essere, come nel classico esempio dell’omicidio. Al contrario,
non rientrano nella sfera di operatività dell’art. 40 c. 2 c.p. i reati di evento a forma
vincolata61, ovvero quelli nei quali la legge richiede che l’azione produttrice
58
CADOPPI, Il reato omissivo, I, cit., p. 316 e ss.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 15 e ss.;
JESCHECK-GOLDMANN, Die Behandlung der unechten Unterlassungsdelikte im deutschen und auslandischen Strafrecht,
in ZStW, 1965, p. 109 e ss.
59
FIANDACA, Omissione, cit., p. 554; FIORELLA, Responsabilità penale, in Enc. dir., Milano, 1988, p. 1300.
60
FIANDACA, Omissione, cit., p. 554.
61
SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, p. 103.
23
dell’evento si articoli in determinate modalità (es. nel furto l’impossessamento della
cosa deve avvenire mediante sottrazione) o attraverso determinati mezzi (es. nella
truffa l’induzione in errore deve avvenire attraverso artifici o raggiri). Poiché,
dunque, in tali ultime ipotesi il legislatore seleziona, tra le possibili condotte
offensive del bene protetto, quelle perseguibili penalmente, ne consegue che esse
sono compatibili solo con una causazione in forma attiva del risultato lesivo, in base
alle specifiche modalità previste nella norma di parte speciale. Per questi motivi, una
parte della dottrina62 nega che la truffa possa essere integrata mediante il semplice
silenzio serbato su circostanze atte a trarre in inganno la vittima, giacché il mero
tacere tali circostanze non sarebbe sufficiente ad integrare gli artifici o raggiri
richiesti dall’art. 640 c.p., né la truffa potrebbe mai combinarsi con la clausola
generale di cui all’art. 40 c. 2 c.p., posto che si tratta di reato a forma vincolata in cui
le specifiche modalità della condotta sono rappresentate appunto dagli artifici o
raggiri. Occorre però segnalare che sul punto la giurisprudenza prevalente è orientata
in senso opposto ed ammette, dunque, la configurabilità della truffa mediante silenzio
“maliziosamente serbato” ogni volta che il soggetto, violando norme giuridiche,
anche extrapenali (es. l’art. 1337 c.c.), induca in errore la vittima 63. La suprema Corte
ritiene, quindi, o che la clausola di equivalenza ex art. 40 c. 2 c.p. sia estensibile
anche alla truffa o che nel concetto di raggiro possa rientrare anche l’omessa
comunicazione di informazioni giuridicamente dovute. Al riguardo si può osservare
che pare cogliere nel segno la dottrina citata nel momento in cui evidenzia la natura
di reato a forma vincolata della truffa, con la conseguenza che l’unico modo per poter
ritenere integrato l’art. 640 c.p. dalla condotta di chi tace è non già l’utilizzo del
processo di conversione disposto dall’art. 40 c. 2 c.p., ma solo quello di affermare che
già la norma di parte speciale di per sé sia sufficiente per la punibilità dell’ipotesi de
qua, atteso che nel concetto di raggiro astrattamente ben può rientrare anche il
62
FIANDACA, Omissione, cit., p. 555; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 550; FIANDACAMUSCO, Diritto penale, Parte speciale, II, Bologna, 1997, p. 140; MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale, Delitti
contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 162.
63
Ad esempio, Cass., 14 aprile 1978, in Giust. pen., 1979, II, p. 231; Cass., 21 novembre 1973, in Cass. pen. Mass.
Ann., 1975, p. 534; Cass., 2 marzo 1996, Capra, in Massimario delle decisioni penali, 204030; Cass., sez. VI, 3 aprile
1998, Antonino, n. 5579, in C.E.D. 199805579.
24
silenzio circostanziato. In queste ipotesi, perciò pare che non si possa invocare il
reato omissivo improprio, ma che, al più, si debba porre il problema, tipicamente di
parte speciale, della corretta esegesi della locuzione “artifici o raggiri”.
Tornando alla portata applicativa dell’art. 40 c. 2 c.p., si può notare che, secondo
parte della dottrina64, essa andrebbe ulteriormente circoscritta ai soli reati causali puri
posti a tutela di beni giuridici di rango elevato, come la vita o l’incolumità personale,
in linea, del resto, con l’indagine storica e comparativistica, la quale mostra che i
settori accennati sono appunto quelli in cui con minore incertezza si ammette
l’equivalenza tra il cagionare e il non impedire65. Tale orientamento, tuttavia, non
appare convincente poiché la lettera dell’art. 40 c. 2 c.p. non ammette restrizioni in
merito al bene giuridico tutelato66, onde la configurabilità di una responsabilità per
omesso impedimento dell’evento anche con riguardo a reati posti a tutela di beni
patrimoniali.
Come emerso dall’analisi fin qui compiuta, la portata applicativa dell’art. 40 c. 2 c.p.
è sostanzialmente rimessa all’opera dell’interprete, con il rischio di un eccesso di
discrezionalità giudiziale, che, di per sé, si pone in frizione con il principio di legalità
e con l’esigenza della calcolabilità ex ante delle conseguenze del proprio agire.
Proprio al fine di evitare i conseguenti rischi di arbitrio, parte della dottrina propone,
de iure condendo, di abrogare la clausola generale di cui all’art. 40 c. 2 c.p. e di
introdurre un sistema, sul modello di quello francese, basato su una tipizzazione
legislativa espressa nella parte speciale delle ipotesi di equivalenza tra il cagionare e
il non impedire67.
Quanto alla struttura del reato omissivo improprio, occorre evidenziare che gli
elementi costitutivi sono dati: in primo luogo, dal presupposto di fatto che genera una
situazione di pericolo per il bene da proteggere, rendendo doveroso il compimento
dell’azione tesa all’impedimento dell’evento; in secondo luogo, dall’omissione, ossia
FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 40 e ss.; VIOLANTE, Considerazioni sull’art. 40
cpv., in Indice pen., 1983, p. 734.
65
FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, cit., p. 40 e ss.
66
ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, p. 53.
67
FIANDACA, Omissione, cit., p. 555.
64
25
dal mancato compimento dell’azione volta all’impedimento dell’evento, in presenza
della c.d. posizione di garanzia; in terzo luogo, dall’evento naturalistico descritto
nella fattispecie commissiva di parte speciale; infine, dal rapporto di causalità tra la
condotta negativa e l’evento68.
Con particolare riferimento all’omissione, si è già visto che essa, a differenza
dell’azione, è una condotta priva di essenza fisico-naturalistica, con la conseguenza
che non è in grado di dare l’avvio a processi causali reali69; è stata infatti abbandonata
l’artificiosa teoria ottocentesca della “causalità dell’omissione”70 e
la causalità
omissiva è oggi ritenuta pacificamente una causalità non naturalistica, poiché
l’omissione, essendo un mero non facere, non possiede un reale valore condizionante
(ex nihilo nihil fit). Pertanto, l’evento è naturalisticamente attribuibile non già
all’omissione, ma alle forze causali della natura che sono in svolgimento: ad esempio,
la morte del paziente è cagionata dal processo patologico in atto e non dall’omessa
terapia da parte del medico. La causalità omissiva è, quindi, una causalità soltanto
normativa, in quanto è la legge che equipara il non impedire al cagionare. Ne
consegue che il rimprovero che si muove al reo è di non aver impedito l’evento e non
certo di averlo causato. A ciò si aggiunga che la causalità omissiva, proprio in
ragione delle sue peculiarità, si presenta come una causalità doppiamente ipotetica, in
quanto occorre, prima, domandarsi se l’evento sia stato cagionato da una certa causa
naturale (ad es., il paziente è morto per infezione tetanica?) e, poi, se l’azione omessa
sarebbe stata in grado di eliminare la causa naturale dell’evento (sempre nello stesso
esempio: la cura antitetanica avrebbe eliminato l’infezione in atto?). In quest’ultimo
caso, quindi, il giudizio controfattuale va realizzato, anziché eliminando mentalmente
l’azione del reo, sostituendo teoricamente l’omissione con l’azione (c.d. addizione
mentale)71. Anche nell’ambito della causalità omissiva, però, resta valido il criterio
della sussunzione sotto leggi scientifiche, onde il giudice dovrà rinvenire la legge
68
GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 329.
FIANDACA, Omissione, cit., p. 555.
70
Riferimenti in MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 152; CONTRA, STELLA, La nozione penalmente
rilevante di causa: la condizione necessaria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, p. 1217 e ss., il quale contesta la tesi della
causalità omissiva come causalità meramente ipotetica; per la dottrina tedesca si veda SOFOS, Mehrfachkausalität beim
Tun und Unterlassen, Berlin, 1999, p. 199 e ss.
71
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 153
69
26
scientifica o la regola di esperienza, in base alla quale si possa sostenere che, ove
ricorrano determinati antecedenti, vengano meno conseguenze del tipo di quelle che
si sono verificate nel caso di specie. D’altra parte, poiché i giudizi ipotetici sono
esposti inevitabilmente a margini di incertezza, la dottrina ha sostenuto che, in sede di
accertamento del nesso di condizionamento tra la condotta omissiva e l’evento, non si
possa raggiungere lo stesso livello di rigore esigibile nell’accertamento del nesso di
causalità attiva; pertanto, nell’applicare il criterio della condicio, ci si accontenta di
esigere che la condotta doverosa, supposta come realizzata, sarebbe valsa ad impedire
l’evento con una probabilità prossima alla certezza72. Sul punto in giurisprudenza si è
assistito ad un’evoluzione scandita da quattro passaggi fondamentali, che hanno
contribuito a dissolvere le incertezze, in particolare con riguardo alla responsabilità
medica, ma con considerazioni estensibili a tutte le ipotesi di responsabilità omissiva,
di cui si darà succintamente conto nel prosieguo73. L’orientamento tradizionale della
Suprema Corte si esprimeva in modo molto severo, ispirandosi espressamente
all’esigenza di tutela dei beni fondamentali, come ad esempio la vita. In questa fase
la giurisprudenza seguiva, quindi, il criterio della c.d. “volatilizzazione del rischio” 74,
che comportava una sovrapposizione tra rapporto di causalità e regola cautelare
trasgredita e, dunque, il sostanziale svuotamento dell’accertamento relativo al nesso
di causalità, ricondotto senza residui alla verifica circa gli estremi della colpa 75. Per
questi motivi, nel 199176 la Corte di Cassazione ha aderito alla diversa tesi delle
“serie ed apprezzabili probabilità di successo” della condotta omessa, formula che gli
stessi giudici concretizzavano in una percentuale molto bassa di successo (30 %).
Anche tale ricostruzione non è andata esente da critiche da parte della dottrina, che ha
evidenziato la sua incompatibilità con il principio di legalità, posto che il criterio
attribuiva all’interprete un eccessivo margine di discrezionalità nell’individuazione
72
FIANDACA, Causalità (Rapporto di), in Dig. Disc. pen., II, Torino, 1998, p. 126 e ss.
PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. Med. Leg., 1992, p.
821; CARCANO, sub artt. 40 e 41 c.p., in Lattanti-Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina,
Milano, 2000, p. 14 e 61; CANAIA, Causalità medica, in CARINGELLA-GAROFOLI, Studi di diritto penale, Milano, 2002,
p. 433 e ss.
74
PALIERO, La causalità dell’omissione, cit., p. 823.
75
GAROFOLI, manuale di diritto penale, cit., p. 380 nota 145.
76
Cass., sez. IV, 12 luglio 1991, Silvestri, in Foro it., 1992, II, p. 363, con nota di GIACONA, Sull’accertamento del
nesso di causalità tra la colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente.
73
27
del rapporto di causalità, e con il principio della responsabilità penale per fatto
proprio, che implica “un più accentuato rigore nel perseguimento del livello di
certezza, in specie scartando quelle soluzioni genericamente probabilistiche che
lasciano residuare consistenti o comunque significativi margini di aleatorietà sulla
spiegazione della riferibilità di quel concreto evento ad una specifica condotta che
l’agente doveva (e poteva) tenere”77. Aderendo a tali obiezioni della dottrina, la
Suprema Corte ha nuovamente mutato orientamento con tre storiche pronunce del
200078, con cui la Cassazione ha preso le mosse dalla ricostruzione della natura della
causalità omissiva, sostenendo l’identità dell’accertamento relativo al rapporto di
causalità nei reati tanto omissivi che commissivi. Pertanto, in base a tale teoria, ai fini
della sussistenza del nesso di causalità occorre il riscontro di una percentuale di
successo prossima alla certezza. Ne consegue che, secondo le sentenze citate, le leggi
di copertura utilizzabili nell’accertamento causale sono solo quelle universali o quasi
universali, ossia provviste di un coefficiente probabilistico vicinissimo ad uno 79. Tale
impostazione, pur annotata favorevolmente dai primi interpreti80, non è risultata in
seguito del tutto convincente. Infatti, il livello di certezza imposto dalle pronunce in
esame è talmente difficile da raggiungere da rendere concreto il rischio dell’impunità
anche per condotte dotate di evidente incidenza sul decorso causale, specialmente in
quei settori (come il campo medico) caratterizzati dall’incertezza del risultato
dell’intervento del garante. Anche alla luce di tali considerazioni le Sezioni Unite 11
settembre 2002, Franzese, hanno nuovamente cambiato orientamento, chiarendo la
distinzione tra probabilità statistica e probabilità logica: infatti, mentre la prima
riguarda l’individuazione della frequenza che caratterizza una determinata
successione di eventi, la seconda “contiene la verifica aggiuntiva, sulla base
dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica
per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento
77
ALESSANDRI, sub art. 27, c.1 Cost., in Commentario della Costituzione, curato da G. BRANCA e continuato da
PIZZORUSSO, Bologna-Roma, 1991, p. 34.
78
Cass., sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, Baltrocchi; Cass., sez. IV, 28 novembre 2000, n. 21123, Di Cintio; Cass.,
sez. IV, 29 novembre 2000, n. 2139, Musto; tutte e tre in Riv. it. Dir. e proc. pen., 2001, p. 277 e ss., con nota di
CENTONZE, Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità.
79
In dottrina: STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 2003, p. 306 e ss.
80
CENTONZE, op. cit., p. 290
28
giudiziale”81. Alla luce di tale distinguo la sentenza Franzese ritiene che
l’accertamento del nesso di causalità non debba basarsi sull’adozione di un
determinato coefficiente (più o meno alto) di probabilità statistica, ma vada condotto
verificando, in primo luogo, la riferibilità della legge scientifica al caso di specie e, in
secondo luogo, l’esclusione di decorsi causali alternativi. Con la conseguenza che, in
questa logica, anche coefficienti di probabilità non prossimi ad uno possono, in un
contesto probatorio caratterizzato dal raggiungimento della prova dell’insussistenza
di altri fattori eziologici, condurre ad un accertamento positivo dell’esistenza del
nesso causale82; allo stesso modo, coefficienti elevatissimi di probabilità non
potranno di per sé soli giustificare il riconoscimento della sussistenza del nesso
causale in presenza di un quadro probatorio inidoneo ad escludere la presenza di
spiegazioni causali alternative a quella incentrata sulla condotta del reo.
Ai fini della sussistenza del reato omissivo improprio, peraltro, non basta
l’accertamento del nesso di causalità (doppiamente ipotetico) tra omissione ed evento
naturalistico, ma occorre un elemento ulteriore, che “assume un rilievo fondamentale
proprio perché serve a compensare il divario tra la causalità reale dell’azione e la
causalità normativa dell’omissione”83, ossia la violazione di un obbligo giuridico di
impedire l’evento84. Nel tentativo di dare una corretta interpretazione a tale
espressione è fiorito un vasto dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che può
schematicamente essere sintetizzato nelle tesi di seguito esposte.
81
Sezioni Unite, 11 settembre 2002, Franzese, cit.; STELLA F., Causalità omissiva, probabilità, giudizi
controfattuali. L’attività medico-chirurgica, in Cass. pen., 2005, 1062 ss.; DI MARTINO A., Il nesso causale
attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento, in Dir. pen. proc., 2003, 58 ss.; DI GIOVINE
O., Il problema causale tra scienza e giurisprudenza (con particolare riguardo alla responsabilità medica), in Ind.
pen., 2004, 1125 ss.
82
Si pensi, ad esempio, al caso del soggetto che sia morto per avvelenamento e che abbia mangiato solo un fungo
per il quale sussiste una percentuale statistica bassa di esiti letali; orbene, l’esclusione di decorsi causali alternativi (è
provato infatti che il soggetto non abbia ingerito altro) può far ritenere accertato il nesso causale pur in presenza di
una probabilità statistica esigua di morte da avvelenamento (ad esempio solo del 5%). Esempio tratto da DI
GIOVINE O., Lo statuto epistemologico della causalità penale tra cause sufficienti e condizioni necessarie, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2002, p. 634 ss.
83
FIANDACA, Omissione, cit., p. 556.
84
PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, Milano, 2003, p. 37 e ss.; MARCONI,
rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 65 e ss.
29
Secondo la teoria tradizionale85, espressione del liberalismo giuridico ottocentesco86,
a causa dell’insufficienza ai fini della responsabilità ex art. 40 c. 2 c.p. della mera
violazione del generale principio del neminem laedere87, soltanto alcuni atti sarebbero
in grado di creare, di volta in volta, per soggetti determinati, l’obbligo giuridico di
impedire l’evento. Si sostiene, infatti, che detto obbligo debba trovare scaturigine in
fonti qualificate sul piano formale, come la legge penale, la legge extrapenale di
diritto pubblico o di diritto privato, i regolamenti, i provvedimenti amministrativi, il
contratto (che ex art. 1372 c.c. ha forza di legge tra le parti), la consuetudine, la
precedente attività pericolosa (ad es. apertura di una buca nel cortile della casa) e,
infine, la negotiorum gestio (vincolante ex art. 2028 c.c.).
Tale orientamento, tuttavia, ha sollevato molti rilievi critici88, onde il suo progressivo
superamento nella moderna letteratura penalistica. In primo luogo, infatti, si è
evidenziato che esso determina la subordinazione del diritto penale agli altri rami
dell’ordinamento, poiché individua, tra gli obblighi penalmente rilevanti, quelli posti
da fonti di diritto privato evidentemente per soddisfare esigenze di tutela di natura
diversa rispetto a quelle tipiche del diritto penale. In secondo luogo, si è sottolineato
che tale tesi determina un’eccessiva estensione della punibilità, poiché ritiene
sufficiente la mera previsione formale dell’obbligo di agire, con la conseguenza che
essa sarebbe inidonea a selezionare, tra i molteplici obblighi di attivarsi, previsti
dall’ordinamento, quelli che realmente sono tali da giustificare l’equiparazione
all’azione causale dell’omissione non impeditiva. In terzo luogo, sono state segnalate
le inaccettabili conseguenze derivanti dalla rigida adesione a tale teoria, in particolare
nei casi di nullità o annullamento del contratto produttivo dell’obbligo di garanzia. In
queste ipotesi, infatti, aderendo al criterio meramente formale, si dovrebbe escludere
85
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 257 e ss.; BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1982, p.
280; PANNAIN, Manuale di diritto penale, Parte generale, Torino, 1967, p. 383. In giurisprudenza tra le molte si
segnalano: Cass., sez. IV, 13 settembre 1994, Di Martino, in Massimario delle decisioni penali, 1995, 200141; Cass.,
sez. IV, 4 agosto 1990, Mearini, in Massimario delle decisioni penali, 1990, 185161; Cass., sez. IV, 29 novembre 1988,
Tondelli, in Rivista penale, 1989, p. 994; Cass., sez. IV, 2 maggio 1988, Catalano, in Rivista penale, 1989, p. 630
86
FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinem in Deutschland gültigen peinlichen Rechts, Gieben, 1826, 24, il quale, partendo
dalla premessa dell’eccezionalità della responsabilità penale omissiva, riteneva che il reato omissivo improprio potesse
sussistere solo in presenza di obblighi giuridici di agire, aventi fondamento nella legge o nel contratto.
87
Cass., sez. III, 24 febbraio 1967, Bencini, in Giustizia penale, 1967, II, p. 580.
88
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 155; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, p.
330.
30
la responsabilità ex art. 40 c. 2 c.p., posto che non sussiste o è venuto meno l’obbligo
giuridico di impedire l’evento, perfino qualora vi sia stata la effettiva presa in carico
del bene da proteggere (ad es. la bambinaia ha preso in custodia il bimbo). D’altra
parte, siffatto orientamento porterebbe specularmene (e intollerabilmente) a ravvisare
la posizione di garanzia qualora il contratto sia valido, ma non vi sia stata la presa in
carico del bene da tutelare (ad es. la baby sitter non si è presentata all’ora e nel luogo
pattuito). Infine, si è notato che la tesi tradizionale risulta incoerente nella misura in
cui ammette una responsabilità penale omissiva per la precedente attività pericolosa,
malgrado essa non sia, invero, riconducibile alle fonti formali, giacché non si fonda
né su una consuetudine (per mancanza dell’usus e dell’opino iuris), né sul principio
del neminem laedere (che per taluni Autori impone solo divieti e non obblighi di
fare89).
Alla luce di tali rilievi critici, parte della dottrina90, in linea con la letteratura
tedesca91, ha sostenuto la c.d. teoria funzionale dell’obbligo giuridico di impedire
l’evento, in base alla quale si dovrebbe guardare, più che all’obbligo formale che
grava sul soggetto, all’effettivo potere di controllo e di dominio su alcune condizioni
essenziali per il verificarsi dell’evento. In questa prospettiva, la funzione della
responsabilità penale omissiva diverrebbe quella di tutelare in modo rafforzato taluni
beni giuridici a causa della incapacità di adeguata protezione da parte del titolare,
attraverso la predisposizione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento in capo a
taluni garanti, ossia soggetti che si pongono in uno speciale vincolo di tutela con il
bene. Tale tesi ha l’evidente pregio di non limitare la sua indagine alla fonte formale
dell’obbligo di agire, ma di accentuare l’attenzione sul contenuto materiale
89
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 155. CONTRA, a favore della configurabilità di una responsabilità
civile omissiva ai sensi dell’art. 2043 c.c., GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 709 e Cass. n. 21641
del 2005 e n. 488 del 2003, in CIAN-TRABUCCHI, Commentario breve al codice civile, Padova, 2007, p. 2103.
90
PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 162 e ss.; GRASSO, Il reato omissivo, cit., p. 277 e ss.; FIANDACA, Il reato
commissivo, cit., p. 21 e ss. e 24 e ss. FIANDACA- MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 562; GIUNTA, La
posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 620 e ss.;
RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., p. 384 e ss.
91
GRÜNWALD, Zur gesetzlichen Regelung der. un. Unterlas., in ZStW, 1958, p. 412; KAUFMANN, Die Dogmatik der
Unterlassungsdelikte, Göttingen, 1959, p. 282; ANDROULAKIS, Studien zur problematik der unechten
Unterlassungsdelikte, 1963; BÄRWINKEL, Die Struktur der Garantieverhältnisse bei den un. Unterlas., 1968;
HERZBERG, Die Unterlas. Im Strafrecht und das Garantenprinzip, 1972; BRAMMSEN, Die Entstehnungsvoraussetzungen
der Garantenpflichten, 1986; VOGEL, Norm und Plifcht bei un. Unterlas., 1993.
31
dell’obbligo, al fine di selezionare, tra i molteplici obblighi di agire previsti
dall’ordinamento, quelli che sono realmente rilevanti ai fini della clausola generale di
conversione di cui all’art. 40 c. 2 c.p., sì da contribuire alla concretizzazione
interpretativa del reato omissivo improprio.
La teoria funzionale, però, si pone inevitabilmente in frizione con il principio della
riserva di legge, giacché si fonda esclusivamente su criteri fattuali. Inoltre, la tesi non
soddisfa adeguatamente il principio di tassatività, poiché non consente di
circoscrivere la responsabilità penale per omissione impropria entro confini certi,
attesa la diversità dei vari criteri elaborati per individuare in concreto le posizioni di
garanzia92.
Per questi motivi, la dottrina ormai prevalente ha tentato di realizzare una sintesi tra i
due orientamenti suesposti, proponendo una teoria mista formale-fattuale93, che tenta
di selezionare, tra gli obblighi giuridici previsti da fonti formali, quelli che
rispondono a criteri sostanziali di individuazione della posizione di garanzia. Nella
sua versione94 più evoluta e preferibile, la tesi si propone di conciliare la clausola
generale di equivalenza ex at. 40 c. 2 c.p. con i principi costituzionali rilevanti in
materia penale. Pertanto, in base al principio della riserva di legge (art. 25 c. 2 Cost.),
l’obbligo di agire deve avere origine in norme giuridiche. In base al principio di
tassatività (art. 25 c. 2 Cost.), l’obbligo di garanzia deve essere specifico, con la
conseguenza che bisogna escludere gli obblighi indeterminati, che non sono idonei a
tipizzare il reato omissivo improprio; pertanto, in quest’ottica non appare
condivisibile quanto sostenuto da una parte della giurisprudenza 95, incline a ravvisare
nel generico dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. un obbligo giuridico rilevante ai
sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. In base al principio di solidarietà (art. 2 Cost.), invece, i
beneficiari dell’obbligo di garanzia devono essere solo i soggetti incapaci di adeguata
autotutela (ad es. i minori o i malati); in base al principio di libertà (art. 13 Cost.), i
destinatari dell’obbligo di garanzia devono essere specifici, poiché esso non può
92
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 156.
GRASSO, Il reato omissivo, cit, p. 242 e ss.
94
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 156.
95
Cass., 6 dicembre 1990, in Cass. pen., 1992, n. 2726.
93
32
gravare su tutti i consociati, ma solo su specifiche categorie predeterminate di
soggetti, che si trovano in un particolare rapporto giuridico con il bene da proteggere
(ad es. genitori, medici) o con la fonte di pericolo da controllare (ad. es. proprietario
dell’edificio pericolante). Per questi motivi, come si è già visto96, il reato omissivo
improprio non è mai un reato comune, ma è sempre un reato proprio. Ne consegue,
ad esempio, che il “chiunque” obbligato a prestare soccorso ex art. 593 c.p. non potrà
mai assurgere a garante in senso penalistico del mancato impedimento della morte del
soggetto in pericolo e, ove l’esito letale si verifichi, sarà integrato non certo un
omicidio mediante omissione, ma un reato di omissione di soccorso aggravato
dall’evento morte; infatti, nella situazione tipica prevista dall’art. 593 c.p., la
presenza del soccorritore è soltanto occasionale e manca una speciale relazione di
tutela preesistente al manifestarsi del pericolo sulla quale l’ordinamento possa fare
previo affidamento97. In base al principio della responsabilità penale personale (art.
27 Cost.), infine, il garante deve essere titolare di poteri giuridici impeditivi, ossia di
vigilanza sull’insorgenza di situazioni di pericolo e di intervento (personale o tramite
terzi) sulle situazioni di pericolo in atto, conferiti all’obbligato da una specifica
norma giuridica. Infatti, l’obbligo di garanzia e l’affidamento della tutela del bene in
tanto hanno senso in quanto il soggetto abbia i correlativi poteri giuridici impeditivi.
Occorre quindi verificare se l’evento in concreto verificatosi rientri nei poteri
impeditivi spettanti all’obbligato. Peraltro, non va trascurato che il potere-dovere
impeditivo deve preesistere al presupposto di fatto che lo rende attuale, “poiché solo
così il garante può esercitare i poteri-doveri di vigilanza ed intervento e, quindi, di
tutela anche preventiva, del bene affidatogli”98. A ciò si aggiunga che deve sussistere
la possibilità materiale per il garante di tenere l’azione impeditiva idonea, poiché
altrimenti viene meno l’obbligo di garanzia, secondo il noto brocardo ad impossibilia
nemo tenetur99.
96
Retro pr. I.2.
FIANDACA, Omissione, cit., p. 556.
98
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 157; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, p. 331; in
giurisprudenza: Cass., 19 febbraio 2008, in Cass. pen., 2009, p. 597.
99
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 157.
97
33
La necessità che sussistano tutti i citati requisiti, imposti dai principi costituzionali
rilevanti in ambito penale, fa sì che l’obbligo di garanzia, in tal modo delineato, si
distingua dagli altri obblighi giuridici di agire, che sono inidonei a fondare
l’equivalenza normativa di cui all’art. 40 c. 2 c.p. e che possono al più integrare un
reato omissivo proprio, ove una norma penale di parte speciale ne sanzioni
specificamente l’inadempimento100. Tra gli obblighi di agire diversi rispetto a quello
di garanzia la dottrina ormai prevalente101 ritiene che si debba effettuare un’ulteriore
distinzione tra obblighi di sorveglianza e obblighi di attivarsi.
I primi sono gli obblighi giuridici che gravano su specifiche categorie di soggetti, i
quali sono dotati dei poteri di vigilanza sulle altrui attività e di informazione al
titolare o al garante del bene, ma sono privi dei poteri giuridici di intervento
impeditivo. Al riguardo si fa spesso l’esempio dei sindaci delle società per azioni
(artt. 2403 e 2407 c.c.), ma, come si vedrà in seguito, la giurisprudenza prevalente102
tende a ravvisare in dette ipotesi non già dei meri obblighi di sorveglianza, ma delle
vere e proprie posizioni di garanzia, onde l’operatività della clausola di equivalenza
ex art. 40 c. 2 c.p. In ogni caso, la dottrina citata ritiene che, attesa l’insussistenza di
poteri giuridici impeditivi, coloro che sono gravati da obblighi di sorveglianza, in
caso di inadempimento, non possano essere chiamati a rispondere ex art. 40 c. 2 c.p.,
né a titolo autonomo né per concorso omissivo nell’altrui reato commissivo del
soggetto sottoposto a sorveglianza, giacché si tratterebbe di una responsabilità per
fatto altrui, salvo che non abbiano posto in essere un’ulteriore condotta attiva, come
ad es. l’istigazione dell’autore materiale, con la promessa della futura omessa
vigilanza. In altre parole, non si può muovere un rimprovero di omesso impedimento
dell’evento a chi non è fornito di adeguati poteri d’intervento per impedire che lo
stesso si verifichi, pena l’introduzione di un’inammissibile e incostituzionale
100
GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, p. 332.
FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985, p. 173 e 382; LEONCINI,
Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 57 e ss; PISANI, Controlli sindacali
e responsabilità penale nelle società per azioni, cit., p. 50 e ss.; MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per
omissione impropria, cit., p. 61 e ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 158 e ss.; GAROFOLI, Manuale di
diritto penale, Parte generale, cit., p. 332.
102
Cass., 28 febbraio 1991, in Cass. pen., 1991, p. 1849; Cass., sez. V, 27 luglio 2004, n. 32730 in C.E.D. 200432730;
Cass., sez V, 10 novembre 2005, n. 40815 in C.E.D. 200540815.
101
34
responsabilità per fatto altrui. Pertanto, l’omessa sorveglianza è punibile solo nei casi
espressamente previsti da norme di parte speciale, onde gli inevitabili vuoti repressivi
che, però, secondo tale tesi, dovrebbero essere colmati non già tramite l’improprio
utilizzo del combinato disposto degli artt. 40 c. 2 e 110 c.p., ma con l’introduzione
nella parte generale di una norma che sanzioni la violazione degli obblighi di
sorveglianza e ne fissi una volta per tutte i requisiti, oppure aggiungendo alla parte
speciale del vigente sistema penale nuove fattispecie di violazione degli obblighi in
esame103.
Gli obblighi di attivarsi, invece, sono individuati in via residuale come tutti quelli
imposti a soggetti privi di poteri giuridici impeditivi e di sorveglianza. Ne consegue
che per essi l’obbligo di agire sorgere al verificarsi del presupposto di fatto previsto
dalla norma incriminatrice, senza che sussista, perciò, alcuna preesistente relazione
giuridica di garanzia o di sorveglianza tra obbligato e bene protetto dall’ordinamento.
Quanto ai destinatari degli obblighi di attivarsi, essi possono essere o la generalità dei
consociati, come ad es. negli art. 355 e 679 c.p., o specifiche categorie di soggetti,
come ad. es. negli artt. 361 e 365 c.p., sicché possono dar luogo sia a reati comuni sia
a reati propri.
Esempio paradigmatico che permette di cogliere con chiarezza la differenza tra gli
obblighi di attivarsi, da una parte, e quelli di garanzia, dall’altra, è dato dall’art. 593
c.p.. Orbene, la norma impone l’obbligo di soccorso a chiunque ritrovi un soggetto
che versi in condizioni di pericolo, con la conseguenza che il soccorritore occasionale
non ha, come il garante, il preesistente potere giuridico di impedire il sorgere della
stessa situazione di pericolo, né, come il soggetto gravato da un obbligo di
sorveglianza, quello parimenti preesistente di vigilare sulla medesima, ma può solo
impedire che la situazione di pericolo si evolva in evento lesivo o che lo stesso si
aggravi. Si dia allora il caso di alcuni bambini che, alla presenza della madre e di un
estraneo, che osserva la scena, stiano ponendo in essere giochi pericolosi in un parco;
successivamente, uno dei bimbi si ferisce, ma né la madre né l’estraneo intervengono
103
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 158.
35
per soccorrerlo, benché entrambi si siano resi conto dell’incidente; a seguito
dell’aggravarsi della lesione, il bambino muore ed è dimostrato che cure repentine lo
avrebbero salvato. Orbene, mentre il genitore, in quanto garante, ha il preesistente
potere di vietare al figlio tali giochi e, quindi, di impedire il sorgere della situazione
di pericolo, onde può rispondere di omesso impedimento dell’evento verificatosi ex
art. 40 c. 2 c.p., l’estraneo non può vietare ai bimbi tali giochi, ma può solo
soccorrerli ad incidente già avvenuto, con la conseguenza che, in caso di inerzia
anche da parte dell’estraneo e di morte dei fanciulli, questi risponde non di omicidio
mediante omissione, ma di omissione di soccorso aggravata dall’evento morte, ai
sensi dell’art. 593 c. 3 c.p.104. In senso contrario si potrebbe però sostenere che, se è
vero che il soccorritore occasionale non ha i poteri per impedire il sorgere della
situazione di pericolo, è altrettanto vero, tuttavia, che egli può evitare che la stessa,
una volta verificatasi, si evolva in evento lesivo o che il medesimo, dopo la sua
realizzazione, si aggravi; perciò, nella misura in cui egli è titolare di tali poteri
impeditivi potrebbe essere ritenuto un garante e rispondere di omesso impedimento
dell’evento che si verifica successivamente all’assunzione di tale posizione
qualificata. Per questi motivi, autorevole dottrina105 ritiene che in tali ipotesi sia
integrato l’omicidio volontario ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. ove la condotta omissiva
e l’evento morte siano coperti dal dolo. E’ bene però notare che si tratta di
ricostruzione minoritaria che non ha convinto la dottrina prevalente, la quale ritiene,
invece, che, in caso d’inosservanza di un mero obbligo di attivarsi, esattamente come
si è visto per gli obblighi di sorveglianza, non sia applicabile la clausola di
equivalenza ex art. 40 c. 2 c.p., ma il soggetto sia punibile solo ai sensi di una norma
di parte speciale che preveda un reato omissivo proprio 106, eventualmente aggravato
dal verificarsi dell’evento, come nel caso dell’art. 593 c. 3 c.p.
104
FIORELLA, Il trasferimento di funzioni, cit. p. 202; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di
sorveglianza, cit., p. 314 e ss.; MANTOVANI, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di
solidarietà, di libertà e di responsabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 344; PISANI, Controlli sindacali, cit.,
p. 52.
105
PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1996, p. 368.
106
MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 159.
36
Quanto alle fonti dell’obbligo di garanzia, la tesi mista ormai maggioritaria reputa
che esse possano essere solo quelle formali e, precisamente, la legge ed il negozio
giuridico. Più nel dettaglio, la legge dovrebbe essere solo quella extrapenale, di diritto
pubblico o di diritto privato. Andrebbero quindi escluse sia le fonti sublegislative
(regolamenti, atti amministrativi e consuetudini), in ossequio al principio di riserva di
legge ex art. 25 c. 2 Cost., sia la legge penale, perché si ritiene che gli imprescindibili
poteri giuridici impeditivi siano conferibili solo da una previa e compiuta
regolamentazione extrapenale della posizione di garanzia107. Inoltre, per la tesi in
esame, non rientrerebbe tra le fonti dell’obbligo di garanzia la precedente attività
pericolosa, poiché, altrimenti opinando, si verificherebbe un vulnus inaccettabile al
principio di riserva di legge, posto che non esiste una norma che preveda un siffatto
agire come fonte di un generale obbligo di garanzia; né pare che al riguardo si possa
invocare l’art. 2050 c.c., giacché esso si riferisce ad attività non precedente ma in
atto. E’ stata quindi disattesa la teoria dell’ingerenza, in passato utilizzata per le
azioni pericolose già compiute, per quelle in atto e perfino per situazioni statiche di
pericolo, non riconducibili ad un’azione del soggetto, ma da lui dominabili (es.
proprietà di animali pericolosi) e che aveva il suo antecedente storico nella dottrina
tedesca del XIX secolo, la quale, per la difficoltà di spiegare l’autonoma efficacia
causale dell’omissione, era costretta a far leva sulla precedente condotta attiva del
soggetto. Tale tesi, però, non ha riscosso consensi nella dottrina italiana moderna, sia
per il già evidenziato contrasto con il principio di legalità, sia perché permette a
chiunque di assurgere al rango di garante, per il solo fatto di aver commesso
un’azione pericolosa, sia perché, come si vedrà in seguito, ingenera pericolose
confusioni tra causalità attiva ed omissiva, giacché chi apre, ad es., una buca in un
cortile dovrebbe rispondere di reato commissivo e non certo ai sensi dell’art. 40 c. 2
c.p. Infatti, si ha causalità attiva nei casi di azione pericolosa posta in essere dal reo,
considerato che la componente omissiva della colpa, pur presente anche in tali casi,
non può trasformare in omissivi reati commissivi, giacché obbligo di diligenza e
107
LEONCINI, op. loc. ult. cit.; MANTOVANI, op. loc. ult. cit.
37
obbligo di garanzia si muovono su due piani diversi, visto che il primo attiene
all’elemento soggettivo, mentre il secondo al nesso di causalità108.
Con riferimento, invece, alla fonte negoziale, si può notare che la forza vincolante del
contratto (tipico o atipico che sia) trova il suo fondamento direttamente nella legge
che, all’art. 1372 c.c., attribuisce tale valore all’incontro dei consensi delle parti.
Peraltro, l’efficacia vincolante del contratto non è da sola sufficiente a determinare la
nascita dell’obbligo di garanzia, giacché è del pari necessario che il bene sia
concretamente affidato alla parte. Ne consegue che se per es. la baby sitter non si
presenta all’ora stabilita, ma i genitori decidono comunque di uscire, lasciando il
bambino da solo, potrà ipotizzarsi un inadempimento della bambinaia sul piano
civilistico, ma non certo una responsabilità penale omissiva per omesso impedimento
degli eventi eventualmente occorsi al bimbo, posto che il bene non le è stato
concretamente consegnato. Inoltre, ai fini dell’integrazione di una responsabilità per
omissione impropria, è altresì necessario che il negozio sia concluso con il titolare
dell’interesse da proteggere o con un precedente garante, onde non sorge una
posizione di garanzia nel noto esempio del filantropo che, prima di una gara di nuoto,
assume un pescatore affinché stia con la sua barca nei pressi del tratto di mare in cui
si svolge la competizione in modo da salvare eventuali concorrenti in difficoltà.
Pertanto, in caso d’inadempimento del pescatore e morte di un nuotatore, sussiste
senza dubbio un illecito civile contrattuale, ma non è ravvisabile una responsabilità
penale per omissione impropria.
Si è poi posto il problema se gli obblighi di garanzia possano sorgere anche da
un’assunzione unilaterale della posizione di garante. Al riguardo, una parte della
dottrina109 risponde positivamente, utilizzando lo schema civilistico della gestione
d’affari altrui ex art. 2028 c.c. Altri Autori110, invece, sostengono che, ai fini della
sussistenza di una posizione di garanzia, è sufficiente che l’intervento del garante
determini o accentui un’esposizione a pericolo del bene da proteggere, o perché
108
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 170.
GRASSO, Il reato omissivo, cit., p. 274 e ss.
110
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 568; SCHMIDHÄUSER, Srafrecht, AT, Studienbuch,
Tübingen, 1982, p. 290.
109
38
induce ad affrontare un pericolo che altrimenti non si sarebbe corso (ad es. l’alpinista
decide di affrontare una difficile scalata proprio in conseguenza della spontanea
presenza di una guida) o perché impedisce di attivare istanze di protezione alternative
(ad es. la madre non provvede ad allattare il bambino, confidando nell’intervento di
un’amica che si è spontaneamente impegnata a nutrirlo in sua vece). Altra tesi111
ancora, infine, riconduce tali situazioni ai contratti atipici, giacché all’assunzione
unilaterale della posizione di garante corrisponde pur sempre un’accettazione del
servizio da parte del beneficiario, mentre esclude che l’art. 2028 c.c. possa essere il
fondamento di una posizione di garanzia, visto che esso è la fonte di un mero obbligo
di attivarsi, poiché, rispetto all’obbligo di garanzia, è privo dei requisiti della
preesistenza del rapporto giuridico tra soggetto e bene e dei poteri-doveri impeditivi
dell’insorgenza della situazione di pericolo; il gestore, infatti, non ha il potere di
prevenire la situazione di pericolo, ma può solo intervenire per eliminare la stessa,
una volta che questa si sia realizzata.
Sull’argomento occorre segnalare un recente arresto della Suprema Corte112, secondo
cui tra le fonti dell’obbligo di garanzia rientrano non solo i contratti tipici, ma anche
quelli atipici e le iniziative unilaterali assunte di fatto, pur in assenza di uno specifico
obbligo giuridico113. In particolare, secondo la citata pronuncia, le assunzioni
unilaterali della posizione di garante assumono rilevanza o aderendo alla teoria
civilistica sul contatto sociale qualificato114 o valorizzando la effettiva presa in carico
del bene protetto.
111
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 163 e 167.
Cass., sez. IV, 4 luglio 2007, n. 25527, in Guida al diritto, 2007, n. 43, con nota di AMATO, Anche l’assunzione
volontaria può essere motivo di addebito, p. 80; e in www.altalex.com.
113
Nel caso di specie, a seguito di una cena tenutasi in un rifugio, i partecipanti fecero ritorno in albergo con alcuni
slittini, accompagnati da una guida del posto che li precedeva su di una motoslitta, tramite il cui faro veniva indicata la
strada da seguire. Mentre procedevano verso valle, uno degli slittini intraprendeva una strada errata e, a causa della
ripidità della pista, si infrangeva contro un albero, determinando la morte di una delle passeggere. Alla guida veniva
contestato il delitto di omicidio colposo (per non aver evitato l’evento letale), malgrado avesse assunto spontaneamente
l’incarico, in assenza cioè di un previo accordo contrattuale.
114
CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, p. 45 e ss.
112
39
I.5 Le diverse tipologie di posizione di garanzia: obblighi di protezione, di controllo
e d’impedimento di reati
Tanto premesso sui caratteri dell’obbligo di garanzia e sulla differenza rispetto a
quelli di sorveglianza e di attivarsi, occorre ora segnalare che la tesi ormai
maggioritaria115 distingue, all’interno delle posizioni di garanzia, tra quelle di
protezione, di controllo e di impedimento di reati.
Quanto alle prime, si tratta di obblighi di tutela di determinati beni rispetto a tutte le
fonti di pericolo che possono minacciarli; essi sono posti in capo a soggetti che si
trovano in una particolare relazione con il titolare del bene da proteggere, il quale, a
sua volta, versa in una situazione di incapacità di preservare l’intangibilità dei beni di
sua appartenenza, onde l’ordinamento vi fa fronte attribuendo poteri salvifici al
garante116. Ne consegue che, secondo la dottrina, la posizione di protezione presenta
due condizioni fondamentali: in primo luogo, il titolare del bene protetto deve essere
incapace di contrastare, facendo appello alle proprie forze, i pericoli che possono
mettere a repentaglio il bene medesimo; in secondo luogo, deve sussistere un
rapporto di protezione tra un soggetto che assume la veste di garante dell’integrità del
bene in questione e il titolare del bene oggetto di garanzia117. Proprio al fine di
compensare l’incapacità di autodifesa del soggetto da proteggere, l’ordinamento
attribuisce al garante specifici poteri di vigilanza e di prevenzione, attraverso i quali è
possibile l’opera di presidio dei beni da salvaguardare contro tutte le eventuali fonti
di pericolo in grado di investirli118. I poteri d’impedimento conferiti al garante, per
intensità e incidenza, non sono diversi da quelli che potrebbe avere, in ipotesi anche
in misura superiore, qualunque terzo, del tutto estraneo alla posizione di garanzia,
sicché la presenza del garante non incrementa di per sé la possibilità di tenere
indenne il bene minacciato, se non nella misura in cui sopperisce all’incapacità del
115
FIANDACA, Omissione, cit., p. 556; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 565; MANTOVANI,
Diritto penale, Parte generale, p. 168; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 332.
116
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 168; MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 68;
117
FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 172; GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obiettiva della
fattispecie, Milano, 1983, p. 294 e ss.
118
LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 82.
40
titolare e riporta quindi alla normalità un livello di tutela che altrimenti sarebbe
inferiore rispetto alla media. Questo profilo costituisce il principale elemento di
differenziazione tra gli obblighi di protezione e quelli di controllo, posto che, in
presenza di questi ultimi, il garante è invece munito di particolari poteri fattuali di
intervento e di inibizione che conferiscono una tutela rafforzata al bene119.
Quanto alla tipologia degli obblighi di protezione, la maggior parte di essi sono
previsti dal diritto di famiglia, come per esempio quelli dei genitori e dei tutori di
proteggere la vita e l’incolumità personale dei figli minori e degli interdetti 120. Altri
obblighi di protezione sono sanciti da leggi speciali che, in ragione del ruolo sociale
svolto dal garante o della sua posizione giuridica, affidano allo stesso la salvaguardia
della vita, dell’incolumità e della salute del garantito. Ad esempio, le norme
sull’ordinamento penitenziario fanno carico ai dipendenti dell’amministrazione
carceraria di proteggere la vita e l’incolumità personale dei detenuti e degli internati;
allo stesso modo, le norme sul servizio sanitario nazionale (art. 32 Cost., d.lgs. n. 502
del 1992, d.lgs. n. 229 del 1999 e d.lgs n. 168 del 2000) impongono al personale
medico e paramedico di consigliare e fornire, mediante gli opportuni approcci
diagnostici, appropriate terapie ai pazienti al fine di preservarne la salute, nella più
ampia prospettiva di assicurare esigenze di cura individuale e collettiva121. Elemento
comune di tali specie di obblighi di protezione è il fatto che i titolari dei beni da
preservare si trovino in una situazione di minorata capacità, con la conseguenza che
l’ordinamento affida alle cure del garante la tutela degli stessi. In particolare per i
trattamenti sanitari, però, gli obblighi di protezione vanno bilanciati con il principio
consensualistico (artt. 2, 13 e 32 Cost.), atteso che l’ordinamento ha ripudiato
BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. e proc.
pen., 1997, p. 1365.
120
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 168; FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 173 e ss.; GRASSO,
Il reato omissivo improprio, cit., p. 295 e ss.
121
MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 71; ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, I, Milano,
2004, p. 387.
119
41
impostazioni paternalistiche, onde le cure non possono essere somministrate al
paziente dissenziente122.
Le posizioni di controllo, invece, si sostanziano negli obblighi di monitorare talune
fonti di pericolo per proteggere tutti i beni ad esse esposti; esse presuppongono che
tali fonti di pericolo siano sotto i poteri giuridici di signoria del garante, con la
conseguenza che i soggetti minacciati non potrebbero autoproteggersi se non con
un’inammissibile ingerenza nella altrui sfera giuridica123. Da quanto esposto discende
che le posizioni di controllo si distinguono da quelle di protezione perché, mentre
queste ultime concernono la tutela di determinati beni giuridici nei confronti di ogni
tipo di lesione, al contrario, gli obblighi di controllo riguardano solo la sorveglianza
di una determinata fonte di pericolo in grado di compromettere gli interessi di tutti i
terzi che possono venire in contatto con essa124. Pertanto, per il sorgere di una
posizione di controllo occorre sia la sussistenza in capo al garante di una situazione
giuridico-fattuale di dominio su un oggetto materiale o sullo svolgimento di
un’attività pericolosa, sia l’impossibilità per i soggetti minacciati di tutelarsi dalla
fonte di pericolo, giacché il controllo della stessa è di esclusiva pertinenza del
garante. Ne consegue che nelle posizioni di controllo i titolari dei beni protetti si
trovano in una situazione di minorata capacità di tutela non già per le loro
caratteristiche psico-fisiche, ma perché non possono ingerirsi nella gestione della
fonte di pericolo, che spetta solo al garante. Solo questi, infatti, è titolare di poteri di
vigilanza e di intervento sulla medesima, onde si può affermare che egli abbia una
posizione particolare rispetto al bene o all’attività da cui sorge la minaccia e che
possa assicurare una protezione rafforzata dei beni esposti a pericolo, tramite
l’utilizzo di poteri non comuni alla generalità dei consociati 125. Dunque, in tali
situazioni l’ordinamento impone la tutela dei terzi, sia perché essi sono privi del
122
Tra la ricca giurisprudenza sul punto si segnala la pronuncia delle Sezioni Unite penali, 21 gennaio 2009, n. 2437, in
Guida al diritto, n. 7 del 2009, p. 54 e ss., la quale offre un esauriente elenco dei principali arresti della Suprema Corte
in materia.
123
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 169; FIANDACA, Omissione, cit., p. 556; ROMANO, Commentario
sistematico al codice penale, cit., p. 386; MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano,
2003, p. 136.
124
MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 71.
125
BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui, cit., p. 1365; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 96 e ss.
42
potere di signoria sulla fonte del pericolo, che è di esclusiva competenza del garante,
sia perché un eventuale intervento di fatto compiuto dagli stessi sulla sorgente della
minaccia non potrebbe non trasformarsi in un’illegittima intrusione nella sfera
giuridica del garante. Per questi motivi, si è notato che la posizione di controllo si
manifesta con tratti opposti rispetto a quella di protezione. Infatti, la prima riguarda la
relazione non tra un bene specifico e le capacità di tutela comuni del garante nei
confronti delle potenziali fonti di minaccia, ma tra le capacità di tutela specifiche (e
non comuni agli altri soggetti) del garante e una determinata fonte di pericolo, idonea
a minacciare i beni di chiunque126. Alla luce di quanto esposto, parte della dottrina
ritiene che le posizioni di controllo comprendano unicamente doveri di sicurezza a
carattere preventivo, ma non l’obbligo di salvataggio del bene posto in pericolo a
causa dell’inadempimento. Infatti, qualora a causa dell’inosservanza di tali doveri si
verificasse l’evento che andava impedito, si creerebbe una nuova e diversa situazione
di fatto, del tutto estranea allo scopo di protezione dei doveri di sicurezza, i quali non
includono l’obbligo di soccorso127. Dai caratteri accennati delle posizioni di controllo
si evince che la responsabilità per l’inosservanza dei relativi obblighi presenta
maggiori analogie con la responsabilità per la condotta attiva, anziché con quella ex
art. 40 c. 2 c.p. Infatti, come nella causalità attiva, i beni tutelati sono tutti quelli che
possono entrare in contatto con la fonte di pericolo, in relazione alla quale il garante
possiede speciali poteri, e non i soli beni previamente individuati e affidati al
soggetto che si trova in un rapporto di vicinanza con gli stessi. Inoltre, si ritiene che
le posizioni di protezione sussistano sia in caso di oggetti materiali del garante
potenzialmente idonei a cagionare danni a terzi, sia in caso di attività pericolose
svolte dallo stesso, analogamente a quanto accade nella causalità commissiva 128. Al
riguardo occorre però segnalare che, secondo una parte minoritaria della dottrina129,
non sono riconducibili alle posizioni di controllo gli obblighi di diligenza connessi ad
attività pericolose e consistenti nell’adozione di misure cautelari, giacché si tratta di
126
BISORI, op. loc. ult. cit.
LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 99.
128
FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 189; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 320.
129
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 169.
127
43
meri obblighi di attivarsi, non di garanzia, e perché, essendo l’evento riconducibile ad
una condotta attiva pericolosa (es. trattamento dei dati personali), si versa nell’ambito
della causalità attiva e non già di quella omissiva. Il medesimo Autore, infatti, per
evitare le frequenti confusioni tra causalità attiva ed omissiva, precisa che sussiste
sempre e solo causalità attiva nei casi di azione pericolosa del reo, anche se con
connesso obbligo di diligenza, espressamente imposto e sanzionato per legge (es. art.
2050 c.c.), poiché si tratta di un mero obbligo di attivarsi e non di garanzia, atteso che
di questo difettano i preesistenti poteri impeditivi. Invero, la componente omissiva
della colpa (inosservanza dell’obbligo di diligenza) non può trasformare in omissivi i
reati commissivi, giacché obbligo di garanzia e obbligo di diligenza si muovono su
due piani diversi. Infatti, mentre l’obbligo di garanzia attiene alla causalità, quello di
diligenza riguarda l’elemento soggettivo. L’inosservanza di quest’ultimo, perciò, è
requisito tanto del reato commissivo che di quello omissivo improprio colposo ed è
oggetto di accertamento distinto ed ulteriore rispetto al requisito della causalità, attiva
od omissiva che sia, e perciò, dell’inosservanza dell’obbligo di garanzia130.
Come esempi di posizioni di controllo si annoverano i proprietari, i possessori e i
detentori di cose o di animali pericolosi, ai quali si impone di adottare misure
impeditive di danni a terzi e, più in generale, i soggetti che dispongono di un potere
di organizzazione o di gestione di situazioni potenzialmente pericolose. Al riguardo
la giurisprudenza131 ha ritenuto sussistente una posizione di controllo in capo agli
organizzatori di una gara automobilistica, con particolare riferimento alla idoneità
tecnica e ai requisiti di sicurezza del circuito. Con la conseguenza che è stata
affermata la responsabilità ex art. 40 c. 2 c.p. degli stessi per il decesso di spettatori e
di un pilota in seguito ad un incidente verificatosi lungo il medesimo tracciato.
Secondo una parte della dottrina132, inoltre, rientrano nelle posizioni di protezione gli
obblighi gravanti sulle persone dotate di un particolare potere di direttiva o di
orientamento, derivante da un rapporto di educazione, istruzione e cura da esercitare
130
MANTOVANI, op. loc. ult. cit.
Cass., sez. IV, n. 9367 del 1981, in GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 517.
132
FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 74; ROMANO, Commentario, cit., p. 386; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit.,
p. 97.
131
44
su minori, infermi, di mente o su individui comunque non in grado di autogovernarsi,
ai quali deve essere impedito di cagionare eventi dannosi. Altri133, invece, come si
vedrà, collocano tali doveri in una categoria autonoma: i cosiddetti obblighi di
impedimento dei reati altrui.
Tanto premesso sulle posizioni di protezione e su quelle di controllo, giova ora
segnalare che entrambe si dividono in originarie e derivate, a seconda che spettino in
considerazione del ruolo svolto o della posizione rivestita oppure per effetto del
trasferimento compiuto dal garante ad altro soggetto, generalmente tramite
contratto134.
Come si è già accennato, secondo una tesi autorevole135 esiste una terza tipologia di
posizione di garanzia: gli obblighi di impedimento di reati commessi da soggetti
sottoposti ai poteri giuridici impeditivi del garante, il quale, ove ne sussistano i
requisiti, risponde di concorso omissivo nel reato non impedito. Come noto, infatti,
l’omissione nel concorso di persone può manifestarsi sotto due forme: o come
concorso nel reato omissivo, o come concorso omissivo nel reato commissivo. La
prima ipotesi si può realizzare, a sua volta, in due modi diversi: o sotto forma di
concorso mediante omissione, che si ha qualora tutti i soggetti siano obbligati a
tenere una certa condotta e si accordino ciascuno per non adempiere (es. i genitori di
comune accordo lasciano morire di fame il figlio), nel qual caso il concorso ha una
funzione al più di disciplina, ma non incriminatrice, posto che essi rispondono già per
la loro omissione in base alla fattispecie omissiva monosoggettiva; oppure attraverso
una condotta commissiva che si innesta su una omissiva (es. il privato cittadino
convince il pubblico ufficiale a non denunciare il reato), nel qual caso il concorso di
persone può avere una funzione incriminatrice ove taluni dei concorrenti non siano
già obbligati ad attivarsi.
Il concorso omissivo nel reato commissivo altrui, invece, presuppone, sul piano
oggettivo, due requisiti: il primo, comune a tutte le forme di partecipazione, consiste
133
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 169; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 329 e ss.
GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 332.
135
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 519; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 292 e ss.
134
45
nella rilevanza causale (condizionalistica o agevolatrice) dell’omissione rispetto alla
verificazione dell’evento; il secondo, peculiare della responsabilità omissiva,
concerne il ruolo di garante dell’impedimento dell’evento in capo al soggetto attivo,
cioè la presenza di un obbligo giuridico alla cui violazione è subordinata l’operatività
dell’art. 40 c. 2 c.p.136. Sul piano soggettivo è necessario il dolo, da ravvisarsi nella
coscienza e volontà di concorrere con altri alla realizzazione di un reato comune. A
tal fine la giurisprudenza ritiene che il comportamento successivo al reato, tenuto dal
soggetto che omette i controlli di sua competenza, possa costituire un elemento
significativo di prova della volontà criminosa137.
Quanto all’ambito applicativo di tale posizione di garanzia, occorre dare atto del
contrasto esistente nella dottrina italiana. Infatti, secondo la tesi prevalente138, il
concorso omissivo è configurabile rispetto a tutti i reati altrui, siano essi di evento o
di mera condotta, a forma libera o a forma vincolata. A sostegno di tale assunto si
evidenzia che l’art. 40 c. 2 c.p. possa combinarsi con la norma generale sul concorso
di persone nel reato (art. 110 c.p.), con la conseguenza che il termine “evento” di cui
all’art. 40 c. 2 c.p., dovrebbe essere inteso anche come “altrui reato”, senza necessità
di limitare la portata di tale equiparazione solo ad alcune tipologie di illeciti penali.
Inoltre, si segnala che la validità di tale conclusione troverebbe conferma nella
previsione dell’art. 138 c.p.m.p., in base al quale “ferma in ogni altro caso la
disposizione del secondo comma dell’art. 40 c.p. è punito il militare che per timore di
un pericolo o altro inescusabile motivo non usa ogni mezzo possibile per impedire
l’esecuzione di alcuno dei reati contro la difesa o la fedeltà militare, o di rivolta o di
ammutinamento che si commetta in sua presenza”. Orbene, la clausola di rinvio
all’art. 40 c.2 c.p., si sostiene, non avrebbe alcun senso se quest’ultima norma non
disciplinasse la partecipazione omissiva al reato commesso da altri.
136
Cass. 10 ottobre 1985, in R. pen, 1986, p. 827.
Cass. 22 settembre 1994, citata in Commentario breve al codice penale, Padova, 2008, p. 423.
138
FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 181; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 139 e ss.; VINCIGUERRA,
Sulla partecipazione atipica mediante omissione a reato proprio (in tema di concorso del custode alla sottrazione di
cose pignorate commessa dal proprietario), in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, p. 307; MANTOVANI, Diritto penale, Parte
generale, cit., p. 519 e ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 2003, p. 562 e ss.; MARINUCCIDOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2003, p. 281 e ss.
137
46
Una tesi minoritaria139, invece, limita l’ammissibilità del concorso omissivo ai soli
reati causali puri, esattamente come si è già visto, mutatis mutandis, con riguardo al
reato omissivo improprio monosoggettivo. Al riguardo, tali Autori osservano che
l’eccezionalità della responsabilità omissiva ed il principio di frammentarietà del
diritto penale impediscono di ritenere che la clausola di equivalenza di cui all’art. 40
c. 2 c.p. possa avere nel concorso omissivo un ambito di operatività più ampio di
quello che si riscontra nella responsabilità omissiva monosoggettiva. Occorre però
segnalare che, nell’ambito di tale teoria minoritaria, sono emerse due posizioni
diverse. Secondo una parte dei sostenitori di siffatta impostazione restrittiva,140 il
concorso omissivo non sarebbe proprio configurabile, attesa l’assenza di un valido
fondamento normativo, onde la punibilità del non impedimento del reato dovrebbe
desumersi direttamente dal combinato disposto dell’art. 40 c. 2 c.p. con la norma sul
reato commissivo e non già sulla base degli artt. 40 c. 2 e 110 c.p. Infatti, si reputa
che una cumulativa applicazione delle due clausole di estensione della punibilità,
rispettivamente previste dagli artt. 40 c. 2 c.p. e 110 c.p., si porrebbe in insanabile
conflitto con il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. Altri141, invece, sempre
nell’ambito dell’impostazione minoritaria, ritengono che il concorso omissivo sia
ammissibile, ma che sia limitato ai soli reati di evento a forma libera, posto che
l’”evento” di cui all’art. 40 c. 2 c.p. dovrebbe essere inteso come evento naturalistico,
in ossequio ai principi di legalità e frammentarietà propri del diritto penale. Infine, i
fautori della tesi restrittiva sottolineano l’inidoneità dell’art. 138 c.p.m.p.- che, come
si è visto, è invocato come argomento dalla dottrina tradizionale- a fornire indicazioni
sulla portata della figura generale del concorso omissivo, giacché si tratterebbe di
fattispecie del tutto autonoma rispetto a quella risultante dagli artt. 40 c. 2 e 110 c.p.
La teoria suesposta non ha però convinto la maggior parte degli interpreti, i quali
hanno replicato puntualmente alle argomentazioni poste alla base dell’impostazione
139
RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato. Contributo ad una teoria delle clausole
generali di incriminazione suppletiva, Milano, 2001, p. 450; RISICATO, La partecipazione mediante omissione a reato
commissivo. Genesi e soluzione di un equivoco, in Riv. It. Dir. proc. pen., 1995, p. 1294; CARACCIOLI, Manuale di
diritto penale, Parte generale, Padova, 1998, p. 620 e ss.; BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina
e nella giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1369.
140
RISICATO, op. loc. ult. cit.
141
FIANDACA, op. loc. ult. cit.
47
restrittiva. Infatti, si è detto che il richiamo al principio di frammentarietà non è nella
specie pertinente, perché, se è vero che esso permette di escludere che la clausola di
equivalenza ex art. 40 c.2 c.p. operi rispetto alle fattispecie monosoggettive a forma
vincolata, con riguardo alle fattispecie plurisoggettive, invece, o esso porta ad
escludere la punibilità di qualsiasi contributo atipico, attivo o omissivo che sia,
oppure non consente di discriminare tra contributi atipici, in quanto ciascun
concorrente fa proprio l’intero fatto142. A ciò si aggiunga che il fondamento
normativo del concorso omissivo sussiste e va rinvenuto: nell’art. 116 c.p., che fa
riferimento indifferentemente all’azione o all’omissione; nell’art. 138 c.p.m.p., in cui
la clausola di riserva non avrebbe senso se l’art. 40 c. 2 c.p. richiamato non
comprendesse anche il concorso omissivo; infine, nelle ipotesi di agevolazione
colposa realizzabili anche mediante omissione (artt. 335 e 350 c.p.), giacché bisogna
evitare l’assurdo di considerare punibile il contributo omissivo colposo e non quello
omissivo doloso, sicché quest’ultimo deve necessariamente rientrare nella norma
generale sul concorso di persone nel reato143. Da quanto esposto discende che,
secondo la teoria maggioritaria e preferibile, gli artt. 40 c. 2 c.p. e 110 c.p. possono
combinarsi tra loro e dar luogo alla generale figura del concorso omissivo nel reato
commissivo altrui. Ciò del resto è confermato dalle funzioni rispettivamente
assegnate dal legislatore alle due norme citate: infatti, l’art. 110 c.p. ha il compito di
incriminare tutti i contributi atipici, compresi quelli omissivi; l’art. 40 c.2 c.p., invece,
delimita l’ambito applicativo dell’omissione impropria, sancendo la necessaria
sussistenza di una posizione di garanzia144. Pertanto, non appare condivisibile
un’aprioristica delimitazione ai soli reati causali puri delle fattispecie rilevanti ai fini
del concorso omissivo nell’altrui reato commissivo. Né pare che una tale
ricostruzione possa trovare ostacoli di sorta nell’esegesi del termine “evento” di cui
all’art. 40 c. 2 c.p., poiché è ben possibile che questa espressione, nell’ambito del
concorso di persone, assuma il significato non già di evento naturalistico, ma di reato
142
MANTOVANI, Diritto penale,Parte generale, cit., p. 520.
LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 362.
144
LEONCINI, op. cit., p. 363.
143
48
commesso da altri. Infatti, l’art. 40 c. 2 c.p. fa rinvio all’obbligo di garanzia, sicché la
determinazione del contenuto dello stesso è demandata alla fonte legislativa
dell’obbligo medesimo, con la conseguenza che ad essa occorre avere riguardo anche
per chiarire il significato dell’evento da impedire. Quindi, bisogna esaminare i singoli
obblighi di garanzia previsti dall’ordinamento per assegnare il giusto significato
all’espressione “evento” contenuta nell’art. 40 c. 2 c.p. Inoltre, la scelta di limitare
l’equivalenza tra il cagionare e l’impedire ai soli reati a forma libera, se ha un senso
rispetto alle fattispecie monosoggettive, attesa l’ontologica impossibilità di sussumere
nel detto meccanismo reati a forma vincolata, non pare invece giustificata rispetto
alle fattispecie plurisoggettive, poiché la punibilità del contributo omissivo,
necessario o agevolatore, costituisce normale applicazione dell’art. 110 c.p. Né può
sostenersi145 che il ricorso alla combinazione degli artt. 40 e 110 c.p. sia inutile, visto
che il contributo solo agevolatore e non necessario può assumere rilievo solo
nell’ambito del concorso di persone nel reato, non anche nelle fattispecie
monosoggettive. E’noto, infatti, che nell’ambito del concorso di persone la tesi
prevalente146 ammette la configurabilità di un contributo meramente agevolatore da
parte dei concorrenti, mentre nei reati monosoggettivi il nesso di causalità che lega la
condotta
all’evento
naturalistico
risponde
alle
logiche
della
causalità
condizionalistica. A ciò si aggiunga che, come ha evidenziato autorevole dottrina147,
nella fattispecie plurisoggettiva l’azione impeditiva giuridicamente obbligatoria
riguarda di regola l’altrui condotta illecita e non un processo causale determinato da
forze naturali; pertanto, in caso di contributo omissivo, il secondo termine del nesso
di causalità è sempre rappresentato dalla realizzazione del reato da parte di altri,
perfino nelle ipotesi di reati causalmente orientati. Del resto, si è notato che la
funzione che l’ordinamento assegna all’art. 110 c.p. consiste proprio nel dar vita, per
effetto della combinazione con la norma di parte speciale, ad una nuova e autonoma
145
Come fanno invece RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato, cit., p. 450 e
BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui, cit., p. 1369.
146
FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 46; ALBEGGIANI, Imputazione dell’evento e struttura
obiettiva della partecipazione criminosa, in Indice pen., 1977, p. 412 e ss.
147
LEONCINI, obbligo di attivarsi, cit., p. 367 e 368.
49
fattispecie plurisoggettiva eventuale, nell’ambito della quale risultano punibili anche
condotte che non lo sarebbero ai sensi della fattispecie monosoggettiva148. Ne
consegue che dovrebbe considerarsi punibile, ai sensi dell’art. 110 c.p., il contributo
omissivo che, pur inidoneo di per sé ad integrare l’ipotesi tipica monosoggettiva,
abbia fornito comunque un contributo necessario o anche solo agevolatore alla
realizzazione del reato. Per questi motivi, alla dottrina maggioritaria è apparsa
fuorviante l’affermazione della tesi restrittiva, in base alla quale l’attribuzione di
rilevanza penale ai contributi omissivi, nell’ambito di fattispecie diverse da quelle
causali pure, rischierebbe di produrre un vulnus al principio di frammentarietà.
Invero, mentre il richiamo ad esso risulta pertinente con riguardo alle fattispecie
monosoggettive, al cui interno non possono infatti trovare conversione ex art. 40 c. 2
c.p. reati a forma vincolata, per quanto concerne, invece, le fattispecie plurisoggettive
eventuali, una rigida applicazione del principio di frammentarietà porterebbe
all’assurdo di escludere rilevanza penale a qualsiasi contributo atipico, attivo o
omissivo, il che, evidentemente, finirebbe con il contraddire la stessa ratio della
norma estensiva della punibilità di cui all’art. 110 c.p. Si deve quindi ritenere che,
nell’ambito della fattispecie plurisoggettiva, sia essenziale solo la realizzazione della
specifica modalità di aggressione tipica della norma di parte speciale, e che, al
contrario, resti irrilevante se l’integrazione di essa sia avvenuta ad opera di uno, di
più o di tutti i concorrenti149. Nel concorso di persone, infatti, ciascuno dei
concorrenti risponde anche per i contributi degli altri (come se fossero i propri), e,
quindi, dell’intera condotta tipica prevista dalla norma di parte speciale, posto che,
per aversi responsabilità concorsuale, è sufficiente la produzione di un contributo
atipico della minima importanza (artt. 110 e 114 c.p.)150. Pertanto, deve ritenersi che
l’omittente, il quale collabori con altri alla realizzazione di un fatto di reato, faccia
inevitabilmente proprio l’intero fatto tipico realizzato dai correi, sia esso un reato di
evento o di mera condotta, a forma libera o a forma vincolata. Del resto, non
148
LEONCINI, op. cit., p. 365; MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 236.
In relazione al concorso di perone nel reato, infatti, la tesi dell’accessorietà è stata ormai disattesa dalla dottrina
nettamente prevalente. Sul punto si veda l’esauriente analisi di PADOVANI, Codice penale, Milano, 2000, p. 535.
150
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 520.
149
50
sembrano esserci dubbi sul fatto che l’art. 116 c.p., laddove utilizza il termine
“evento”, in realtà si riferisce al reato commesso, il che evidentemente fornisce un
chiaro fondamento di diritto positivo alla tesi maggioritaria151. Si può quindi
concludere che la tesi restrittiva propugnata dalla dottrina citata, nella parte in cui
sostiene la rilevanza del concorso omissivo solo con riguardo ai reati di evento a
forma libera, non appare condivisibile. Tuttavia, non va trascurata la giusta esigenza
sottesa alla teoria in esame, ossia quella di contenere una forma di responsabilità che,
più delle altre, è in grado di incidere sulla sfera di libertà dei singoli. Lo strumento
per soddisfare tale scopo, però, dovrebbe essere rappresentato dalla individuazione
restrittiva dei requisiti soggettivi e oggettivi del concorso omissivo nel reato
commissivo152 e non già da aprioristiche limitazioni delle fattispecie di reato
convertibili. A tal fine appare dirimente una corretta verifica della sussistenza di un
obbligo di garanzia, la quale tenga nel dovuto conto le ricostruzioni dottrinali
esaminate e, in particolare, la distinzione tra obblighi di attivarsi, di sorveglianza e di
garanzia, con la conseguenza che il dato centrale di siffatta analisi dovrebbe essere
l’accertamento della sussistenza o meno in capo all’omittente di un obbligo di
impedimento delle azioni illecite di terzi. La tesi maggioritaria e quella restrittiva,
quindi, pur nelle diversità dei punti di vista, finiscono col concordare sulla non
sussumibilità dei meri obblighi di sorveglianza nell’ambito del concorso omissivo nel
reato commissivo153.
I.6 Concorso omissivo e connivenza
Come si è visto, uno dei tratti peculiari del concorso omissivo, che vale a distinguerlo
dalle altre forme di partecipazione all’altrui reato, è dato dalla presenza di un obbligo
d’impedimento dell’evento, secondo il generale canone del reato omissivo improprio,
151
LEONCINI, op. cit., p. 365.
MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 238.
153
LEONCINI, op. cit., p. 372, per la tesi estensiva; RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., p. 412, per quella
restrittiva.
152
51
di cui all’art. 40 c. 2 c.p. Per tale ragione nello studio di tale istituto è fondamentale
tracciare il più possibile con precisione i confini tra concorso per omissione e mera
connivenza. Quest’ultima, infatti, consiste nel comportamento di chi assiste alla
perpetrazione di un reato senza intervenire, non avendo però alcun obbligo giuridico
di impedirne la commissione154. In tal caso, non è ipotizzabile alcuna responsabilità
penale in capo al soggetto rimasto inerte, poiché nel vigente ordinamento non
incombe sui cittadini un generale obbligo di impedire i reati altrui, salvo che si tratti
di persone che rivestono una posizione di garanzia. Si è già notato155, infatti, che uno
dei tratti peculiari di essa, secondo un’esegesi costituzionalmente orientata, è dato
dalla specificità dei destinatari dell’obbligo di impedimento, in ossequio al principio
di libertà ex art. 13 Cost. Ciò del resto trova conferma, in primo luogo, nella
facoltatività del soccorso difensivo ai sensi dell’art. 52 c.p.156, giacché non vi è
dubbio che la norma non imponga un obbligo di difendere i diritti altrui contro i
pericoli attuali di offese ingiuste; in secondo luogo, l’assunto pare corroborato dalla
specifica previsione di obblighi impeditivi a carico di determinati soggetti, posto che
essi altrimenti non avrebbero senso se esistesse un generale dovere di questo genere;
in terzo luogo, tale ricostruzione argomenta dall’omessa previsione di un
generalizzato obbligo del singolo di cooperare a fini di polizia, come si evince a
contrario dagli artt. 364, 652 e 709 c.p. Anche tali fattispecie, infatti, apparirebbero
prive di una reale giustificazione se tutti i cittadini soggiacessero a un simile obbligo.
Sul piano teorico, dunque, sembra ormai un dato acquisito che la mera connivenza
debba essere considerata penalmente irrilevante, ma ciò non ha eliminato il dubbio
che essa possa assumere rilievo ad altri fini. Ci si è chiesti, invero, se la stessa possa
integrare un illecito civile in base al canone del neminem laedere di cui all’art. 2043
c.c. Orbene, sul punto giova segnalare che la giurisprudenza prevalente157 ritiene che,
anche ai fini risarcitori, l’omesso impedimento di un evento assuma significato solo
154
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 512; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit.,
p. 897; Cass., 22 gennaio 1996, in Mass. Dec. Pen., 1996, m. 203.797; Cass., 14 marzo 1989, in Cass. pen., 1990, I, p.
1283; Cass., 6 luglio 1987, in Riv. Pen., 1989, p. 511.
155
retro, pr. I.3.
156
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 250.
157
Cass. civile n. 11207 del 1992; Cass. n. 7698 del 2000; Cass. n. 1859 del 2000; Cass. n. 488 del 2003; Cass. n. 21641
del 2005.
52
nei casi tassativamente previsti, sicché la mera connivenza non dovrebbe integrare un
illecito aquiliano. Tuttavia, merita di dar conto di una innovativa tesi dottrinale158,
secondo la quale, in primo luogo, l’art. 2 Cost. è norma precettiva nei rapporti
interprivati, in ossequio alla cosiddetta drittvirkung; in secondo luogo, poiché
l’ingiustizia del danno ex art. 2043 c.c. si fonda su un giudizio sintetico-comparativo,
la soluzione della questione non andrebbe ricercata in astratto, ma attraverso
un’analisi in concreto e caso per caso; in terzo luogo, si afferma che nel diritto civile
non esistono le esigenze di tassatività proprie del sistema penale, attesa la logica non
già sanzionatoria, ma riparatoria. Con la conseguenza che si dovrebbe ritenere che
l’art. 2 Cost. imponga a tutti i cittadini di impedire la realizzazione di eventi dannosi,
nei limiti in cui tale impedimento non si traduca in un apprezzabile sacrificio,
secondo la nota teoria di BIANCA sull’obbligo di buona fede159. Merita quindi
interrogarsi se, alla luce di tale ultima tesi, la connivenza - penalmente irrilevante non possa invece assumere rilievo ai fini di una responsabilità aquiliana per
omissione, in base al combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 2 Cost.
Tornando alle problematiche più strettamente penalistiche, si è già detto che in caso
di mera connivenza non sussiste responsabilità. Al contrario, qualora vi sia un
concorso attivo (morale o materiale), sempre che ne sussistano i presupposti richiesti
dalla legge, rimane ferma la punibilità anche del concorrente sul quale non gravi una
posizione di garanzia. Peraltro, mentre la differenza tra concorso attivo materiale e
connivenza non dovrebbe creare notevoli problemi, in quanto il primo consiste in una
collaborazione nella concreta esecuzione del reato, sorgono, invece, grandi difficoltà
nel distinguere in concreto tra concorso attivo morale – penalmente rilevante - e mera
connivenza – penalmente irrilevante. Come noto, il concorso attivo morale si
manifesta o come determinazione in altri del proposito criminoso (ad es. Tizio
convince Caio ad uccidere Sempronio) o come rafforzamento di un proposito già
esistente (un’amica istiga il medico titubante a lasciar morire il paziente). Al riguardo
giova segnalare che, in tema di responsabilità del proprietario dell’area per l’opera
158
159
CARINGELLA, Manuale di diritto civile, II, Milano, 2006, p. 786.
BIANCA, Diritto civile, 3, Milano, 2000, p. 162 e ss.
53
abusiva da altri realizzata, la giurisprudenza tradizionale160, seguendo la tesi
funzionale circa l’obbligo di impedimento dell’evento, ravvisava una posizione di
garanzia in capo al titolare del diritto di proprietà sul terreno, considerata la
disponibilità giuridica e di fatto dell’area allo stesso spettante. In seguito, la Suprema
Corte ha mutato orientamento e la tesi oggi prevalente161 esclude che in tal caso
sussista un obbligo di impedire l’abuso edilizio altrui. Ne consegue che, in base a tale
esegesi, una responsabilità del proprietario possa configurarsi solo in caso di
concorso attivo materiale o morale. Tuttavia, occorre segnalare che la stessa
giurisprudenza tende ad interpretare in senso lato il concetto di concorso attivo
morale, posto che presume una istigazione del coniuge proprietario nella semplice
circostanza che il manufatto abusivo, realizzato dal coniuge non proprietario, sia
destinato alla vita in comune della famiglia162.
Allo stesso modo, si è notato che, se sul piano astratto può risultare agevole tracciare
la distinzione tra concorso morale nel reato e mera connivenza penalmente
irrilevante, nel momento della valutazione del caso concreto sorgono notevoli
difficoltà, soprattutto quando si tratta di accertare quali siano stati gli effetti derivanti
dalla mera presenza di un soggetto nel luogo del reato. La questione si è posta di
frequente in giurisprudenza con riguardo ai delitti di violenza carnale, estorsione e
rapina. Al riguardo, la Suprema Corte ha seguito inizialmente una linea di particolare
rigore, affermando che la mera presenza sul luogo del reato abbia necessariamente
un’efficacia rafforzativa dell’altrui proposito163; in seguito la Cassazione ha precisato
i termini della distinzione tra concorso morale e connivenza, ponendo l’accento sulla
necessità di accertare caso per caso quale sia stata la condotta tenuta dal soggetto, sia
sotto il profilo materiale, sia sul piano dell’elemento soggettivo, distinguendo la mera
presenza passiva, penalmente irrilevante, dal comportamento oggettivamente
160
Cass., sez. III, 14 ottobre 1999, n. 859, in C.E.D. Cass. n. 215598 e in Guida al diritto, 2000, n. 8, p. 90; Cass., sez.
III, 24 agosto 1988, in Riv. giur. edil., 1990, I, p. 315; Cass., sez. III, 8 luglio 1983, in Cass. pen., 1984, p. 2263.
161
Cass., sez. III, 3 ottobre 2002, n. 38193, in C.E.D. Cass. n.222658; Cass., sez. III, 1 ottobre 2003, n. 44160, in
C.E.D. Cass. n. 226589; Cass., sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, in C.E.D. Cass. n. 231645; Cass., sez. III, 12 aprile
2005, n. 26121, in C.E.D. Cass. n. 231954.
162
Sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, cit.
163
Cass.,7 febbraio 1992,n. 1172 e Cass., 24 agosto 1993, n. 79851, citate in GAROFOLI, Manuale di diritto penale,
Parte generale, cit., p. 897.
54
rafforzativo del proposito criminoso altrui ed accompagnato dall’adesione
psicologica al fatto criminoso164.
I.7 Cenni sulle principali ipotesi applicative di concorso omissivo nel reato
commissivo
La giurisprudenza si è occupata in varie occasioni del complesso tema del concorso
omissivo nell’altrui reato commissivo, con soluzioni che hanno contribuito non poco
a tracciare le linee generali di assetto dell’istituto. Pertanto, ai fini del presente studio,
appare opportuno analizzare, sia pur sinteticamente, le principali questioni che sul
punto sono state affrontate e risolte dalla Suprema Corte.
Per quanto concerne gli appartenenti alle forze dell’ordine, la tesi tradizionale ritiene
che essi abbiano l’obbligo giuridico di impedire che in loro presenza si realizzino
reati. Secondo un’interpretazione più restrittiva, invece, perché sorga una
responsabilità per concorso omissivo, occorrerebbe la presenza di uno specifico
obbligo di protezione (come accade ad es. per gli agenti di scorta), mentre negli altri
casi l’agente risponderebbe eventualmente solo per omissione di atti d’ufficio ex art.
328 c.p., ove ne ricorrano i presupposti. In senso critico, però, si è notato che le
preoccupazioni della tesi restrittiva, circa un’eccessiva estensione dell’obbligo in
esame, sono infondate, poiché la posizione di garanzia delle forze dell’ordine trova
comunque un limite nella effettiva possibilità per gli agenti di intervenire. Inoltre, si
evidenzia che l’interpretazione restrittiva rischia di minare in parte il ruolo
istituzionale delle forze dell’ordine, legato proprio all’impedimento dei reati.
Altra questione assai controversa in dottrina e giurisprudenza è quella concernente la
responsabilità dei sindaci delle s.p.a. per i reati commessi dagli amministratori, la
quale ha dato luogo ad un vasto dibattito che in questa sede è possibile solo
164
DELLA VALLE, Concorso nel reato omissivo e concorso mediante omissione, in CARINGELLA-GAROFOLI, Studi di
diritto penale, Milano, 2002, p. 1179; Cass., sez. I, 11 ottobre 2000, n. 12089, in C.E.D. Cass. n. 217347.
55
sintetizzare165. E’ noto, infatti, che il ruolo tradizionalmente assegnato al collegio
sindacale nell’ambito delle società consiste nel controllo sull’andamento della
gestione, sicché si è posto il problema della configurabilità di un concorso omissivo
dei sindaci per i reati commessi dagli amministratori nello svolgimento delle loro
funzioni. Al riguardo una parte della dottrina166 si esprime in senso negativo, poiché
ritiene che i sindaci siano privi di poteri impeditivi dell’evento, ma che abbiano solo
un obbligo di sorveglianza, in quanto tenuti a controllare e informare gli organi
societari preposti. Ciò - si dice - trova conferma nel testo dell’artt. 2403 c.c., che
prevede genericamente l’obbligo dei sindaci di “vigilare sull’osservanza della legge”,
senza imporre loro l’impedimento della commissione di illeciti.
La tesi prevalente in dottrina167 e giurisprudenza168, invece, ravvisa in capo ai membri
del collegio sindacale una posizione di garanzia, con la conseguenza che si ritiene
ipotizzabile una responsabilità per omesso impedimento dei reati realizzati
nell’attività gestionale. Più nel dettaglio, aderendo alla teoria funzionale circa
l’obbligo di impedimento dell’evento, si sostiene che la posizione dei sindaci sia di
controllo, considerato che gli stessi sono tenuti a vigilare sull’attività di gestione degli
amministratori. A sostegno di tale assunto si adducono diversi argomenti. In primo
luogo, si ritiene che l’art. 2403 c.c., ove sancisce l’obbligo del collegio sindacale di
vigilare “sull’osservanza della legge”, in realtà faccia riferimento anche alla legge
penale, con la conseguenza che i sindaci dovrebbero rispondere per l’omesso
impedimento dei reati degli amministratori. In secondo luogo si fa leva sull’art. 2407
c. 2 c.c., il quale prevede una responsabilità solidale dei sindaci con gli
amministratori “per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe
165
DE PALMA, La responsabilità penale dei sindaci per i reati commessi dagli amministratori di società anche alla luce
della riforma del diritto societario, in Diritto e formazione, 2003, p. 4.
166
PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. società, 1962, p. 285; MANTOVANI, Diritto penale,
Parte generale, cit., p. 160; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 412; PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 231.
167
GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 357; MAZZACUVA, La responsabilità penale dei sindaci, in Le Società,
1989, p. 379; STELLA-PULITANÒ, La responsabilità penale di sindaci di società per azioni, in Riv. trim. dir. pen.
Economia, 1990, p. 557 e ss.
168
Cass., sez. V, 26 giugno 1990, n. 15850, in Cass. pen., 1991, p. 828; Cass., sez. V, 22 aprile 1998, n. 8327, in Cass.
pen., 1999, p. 651; Cass., sez. V, 13 dicembre 2006, n. 17393, in C.E.D. Cass., n. 236630; Cass., sez. V, 4 novembre
2009, n. 10186, in C.E.D. Cass., n. 246911; Cass., sez. V, 1 luglio 2011, n. 31163, in C.E.D. Cass., n. 250555. In
dottrina: PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, Giuffrè, 2003, p. 185 e ss.;
CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Giuffrè, 2009, p. 227 e ss.
56
prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”,
sicché - si assume - la norma parrebbe configurare l’attività di vigilanza come
strumento per impedire che gli organi amministrativi pongano in essere atti
pregiudizievoli per la società. In terzo luogo, si reputa che l’art. 2405 c.c., laddove
impone ai sindaci di partecipare alle riunioni del consiglio di amministrazione,
implicitamente conferisca ai membri del collegio sindacale il potere di intervenire, di
avvertire gli amministratori circa le conseguenze di una determinata scelta e, perfino,
di chiedere l’inserimento a verbale di proprie osservazioni. Altrimenti opinando - si
dice - il controllo esercitato dai sindaci sarebbe solo formale e non già sostanziale,
così come la loro partecipazione alle sedute del consiglio di amministrazione non
sarebbe reale ed effettiva. Infine, si nota che i membri del collegio sindacale, possono
denunciare le irregolarità gestionali all’autorità giudiziaria e/o alle Amministrazioni
preposte alla vigilanza sul settore in cui opera la società (ad es. Banca d’Italia e
Consob). Più nel dettaglio, si evidenzia che il potere di denuncia all’autorità
giudiziaria (art. 2409 c.c.), a seguito della riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, si
configura come possibilità per i sindaci di rivolgersi direttamente al Tribunale mentre in passato potevano solo sollecitare l’intervento del Pubblico Ministero - onde
un incremento degli strumenti impeditivi che l’ordinamento mette a disposizione dei
membri del collegio sindacale. Dai citati argomenti, dunque, la tesi in parola fa
discendere la sussistenza di una posizione di garanzia in capo ai sindaci sub specie di
obbligo d’impedimento dei reati commessi nella gestione sociale. Ciò posto, tale
orientamento si è interrogato sull’ampiezza di siffatta Garantestellung e, in
particolare, sulla tipologia di reati che i sindaci avrebbero l’obbligo giuridico di
impedire. Al riguardo, la giurisprudenza ha fornito risposte non omogenee. Infatti,
secondo un primo orientamento, rileverebbero a tal fine solo i reati commessi dagli
amministratori dai quali sia derivato un danno all’integrità del patrimonio sociale,
come ad esempio quelli societari o fallimentari, giacché l’art. 2407 c.2 c.c. prevede la
responsabilità dei sindaci per omesso controllo sugli organi di gestione in relazione ai
danni patrimoniali arrecati alla società. Peraltro, si è precisato che può trattarsi di un
57
reato qualsiasi, purché idoneo a produrre un danno al patrimonio sociale, con la
conseguenza che tra i reati che i sindaci hanno l’obbligo giuridico di impedire
possono essere inclusi anche quelli in materia edilizia che abbiano compromesso il
patrimonio della società, come nel caso, ad esempio, della perdita economica di
denaro impiegato nella realizzazione di una costruzione abusiva soggetta a
provvedimento di demolizione169. Altre pronunce della Suprema Corte, invece,
intendono in senso ancor più lato la posizione di garanzia de qua, poiché interpretano
il termine “legge”, di cui all’art. 2403 c.c., come comprensivo di tutte le norme
penali, sicché i sindaci avrebbero l’obbligo giuridico di impedire qualsiasi reato
commesso nel corso della gestione amministrativa. Più nel dettaglio, si sostiene che i
membri del collegio sindacale siano tenuti ad impedire non solo i reati realizzati in
danno della società, ma anche quelli posti in essere a danno di terzi entrati in contatto
con la società. Ad esempio, si è ritenuta sussistente la responsabilità dei sindaci per
omesso impedimento di una truffa a danno di terzi commessa da parte degli
amministratori, attraverso il collocamento di strumenti finanziari, posto in essere
sulla base di un prospetto informativo falso170. In senso critico, però, si è notato che,
per affermare la responsabilità omissiva dei membri del collegio sindacale, deve
sussistere un collegamento tra il reato commesso dall’amministratore e l’oggetto del
controllo assegnato ai sindaci, con la conseguenza che la posizione di garanzia dei
sindaci dovrebbe riguardare solo i reati propri degli amministratori e non anche quelli
comuni realizzati in danno di terzi171.
Sempre nell’ambito del diritto societario, una recente sentenza della Suprema
Corte172 ha affermato la responsabilità degli amministratori senza deleghe per omesso
impedimento dei reati realizzati da parte degli amministratori delegati. In tale
pronuncia i giudici di legittimità hanno ribadito la configurabilità di un concorso
omissivo nell’altrui reato commissivo, chiarendone i presupposti. Più nel dettaglio, la
169
Cass., 31 agosto 1993, Minelli, in Cass. pen., 1994, p. 716.
Trib. Milano, sez. II, 28 novembre 1987, Cultrera, in Banca, borsa e titoli di credito, 1988, p. 623; App. Milano, 13
giugno 1990, in Giur. Comm., 1991, II, p. 619; Cass., sez. V, 28 febbraio 1991, in Cass. Pen., 1991, I, p. 1849.
171
STELLA-PULITANÒ, responsabilità penale di sindaci di società per azioni, cit., p. 560.
172
Cass., sez. V, 9 dicembre 2008, n. 45513, in La Rivista Neldiritto, 2009, 1, p. 80 e ss., con nota di CANTAGALLI, La
responsabilità dell’amministratore di società per omesso impedimento del reato commesso da altro amministratore.
Conf. Cass., sez. V, 19 giugno 2007, n. 23838.
170
58
Corte di Cassazione ha sostenuto che, ai fini della sussistenza di una responsabilità
penale di tal tipo, sono necessari: in primo luogo, una fonte formale dell’obbligo di
garanzia; in secondo luogo, l’esistenza di poteri giuridici impeditivi in capo
all’omittente; in terzo luogo, la prova della conoscenza del reato in itinere da parte
del garante; in quarto luogo, il dolo del soggetto rimasto inerte, che può assumere
anche la forma del dolo eventuale. Infine, i giudici hanno notato che possono essere
considerati elementi significativi, ai fini della prova della sussistenza del dolo
eventuale, i cosiddetti “indici d’allarme”, dei quali deve essere dimostrata l’avvenuta
percezione da parte del soggetto rimasto inerte. Con particolare riferimento al caso
sottoposto al suo esame, la Corte ha ritenuto che su ogni amministratore di s.p.a,
benché non delegato, gravi una posizione di garanzia, fondata sull’art. 2392 c. 2 c.c.,
che lo obbliga a porre in essere ogni possibile condotta per impedire fatti
pregiudizievoli per la compagine sociale, ivi compresi i reati compiuti da altro
amministratore. I giudici di legittimità, inoltre, hanno sottolineato la necessità di
accertare, in capo al titolare della posizione di garanzia, la sussistenza di un adeguato
potere impeditivo del fatto, che, nel caso di specie, è stato individuato nella
possibilità, per gli amministratori imputati, di opporsi all’approvazione del bilancio,
attraverso l’espressione del voto contrario. In senso critico, però, parte della
dottrina173 ha evidenziato che la possibilità di esercitare il voto contrario non espleta
una reale capacità impeditiva in tutte le ipotesi in cui l’adozione della delibera
consiliare sopravvive alla cosiddetta prova di resistenza, ovvero nei casi in cui la
maggioranza necessaria all’approvazione della delibera collegiale (che realizza
l’illecito o costituisce una fase dell’iter criminis) sarebbe stata raggiunta anche con
l’espresso dissenso del singolo amministratore. Né - si è detto - può considerarsi
potere giuridico impeditivo la possibilità per gli amministratori di impugnare la
delibera consiliare ex art. 2388 c. 4 c.c., quantomeno laddove il reato sia già
consumato con l’adozione della stessa.
CANTAGALLI, La responsabilità dell’amministratore di società per omesso impedimento del reato commesso da altro
amministratore, cit., p. 85.
173
59
Procedendo nella rassegna delle pronunce più rilevanti della Corte di Cassazione in
materia di concorso omissivo nel reato commissivo, giova segnalare che, di recente, i
giudici di legittimità hanno escluso la sussistenza di una posizione di garanzia di tal
fatta in capo al titolare di un internet point per i reati realizzati dai clienti, attesa la
ritenuta mancanza di un obbligo giuridico di impedire l’evento sullo stesso
incombente. A ciò si è aggiunto che, non solo il soggetto de quo non ha l’obbligo
giuridico di controllare i contenuti dei file utilizzati dai propri clienti, ma, se anche lo
facesse, commetterebbe il reato previsto dall’art. 617-quater c.p., con la conseguenza
che gli è addirittura vietato di esercitare i poteri di vigilanza necessari perché possa
ipotizzarsi una posizione di garanzia174.
Sempre sul tema in oggetto, la Suprema Corte ha ritenuto che il concorso mediante
omissione si differenzi dall’omessa denuncia di reato (art. 361 c.p.), perché in
quest’ultima ipotesi il pubblico ufficiale ometterebbe o ritarderebbe di denunciare un
reato di cui è venuto a conoscenza, mentre nell’altra egli ometterebbe non la semplice
notizia, ma il doveroso comportamento positivo (impedimento del reato) che poteva
materialmente attuare e non ha attuato, così concorrendo al compimento del reato
stesso175.
In materia di diritto di famiglia, inoltre, la Corte176 ha affermato che il dovere di
generica sorveglianza sui minori, attribuito a chi su di loro esercita la patria potestà,
non è sufficiente per farne derivare una responsabilità penale della madre per i reati
di induzione alla prostituzione e corruzione di minorenni. Altra pronuncia177, invece,
ha ritenuto che, in base al precetto generale contenuto nell’art. 147 c.c., il genitore è
costituito garante anche dell’integrità morale e della libertà sessuale dei figli, così da
rendere responsabile, a titolo di concorso in atti di libidine, una madre che aveva
tenuto un atteggiamento di sostanziale acquiescenza ai fatti ripetutamente commessi
sui suoi figli minori dal convivente. In un caso assai simile, la Suprema Corte178 ha
174
Cass., sez. IV, 11 febbraio 2009, n. 6046, in La Rivista Neldiritto, 2009, 3, p. 370 e ss.
Cass., 8 maggio 1984, in Cass. pen., 1985, p.1830.
176
Cass., 20 maggio 1963, in Riv. pen., 1963, II, p. 471.
177
Cass., 19 ottobre 1987, in Cass. pen., 1989, p. 39.
178
Cass., sez. III, 21 novembre 2007, n. 42981, in Guida al diritto, 2007, 50, p. 73, con nota di CISTERNA, Oltre alla
denuncia del colpevole sono poche le soluzioni efficaci.
175
60
escluso la responsabilità di una madre che aveva ritardato la denuncia contro il
marito, il quale abusava della figlia, poiché la donna si era comunque attivata
informando i familiari e ottenendo dall’uomo la promessa che avrebbe cessato le
molestie sulla bimba. Pertanto, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la denuncia
dei fatti di reato a danno dei figli minori non sia un passaggio obbligato per la tutela
degli stessi, ma possa essere efficacemente sostituita da iniziative diverse, parimenti
finalizzate alla protezione dell’integrità psicofisica della prole.
61
II PARTE SECONDA:
PREMESSA DI DIRITTO AMMINISTRATIVO
Le coordinate penalistiche tracciate nella parte prima sono funzionali all’analisi dello
specifico problema oggetto del presente studio, ossia i riflessi penalistici del principio
di separazione tra politica ed amministrazione. A tal fine occorre effettuare una
seconda premessa, questa volta di diritto amministrativo, al fine di un migliore
inquadramento del tema.
62
II.1 I diversi modelli di Pubblica Amministrazione che emergono dalla Costituzione
Secondo la tesi dottrinale ormai prevalente, dalla Costituzione emergono due modelli
di Pubblica Amministrazione del tutto differenti.
Il primo di essi è quello che si ricava dall’art. 95 c. 2 Cost.: “i ministri sono
responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri e, individualmente,
degli atti dei loro dicasteri”. Tale disposizione, nel prevedere la responsabilità del
vertice politico per gli atti della struttura amministrativa cui è preposto, sembrerebbe
implicare un modello di amministrazione come apparato necessariamente dipendente
dall’autorità politica. Alla responsabilità del Ministro per gli atti della pertinente
struttura burocratica deve infatti corrispondere la possibilità per lo stesso di esercitare
un controllo sul suo dicastero179. Altrimenti opinando, del resto, non avrebbe senso
sancire una responsabilità del vertice politico per l’attività amministrativa senza i
correlativi poteri di controllo e di influenza sulla medesima. D’altro canto, la
delineazione di una Pubblica Amministrazione organizzata in modo piramidale, con
al vertice il Ministro, risponde ad una chiara esigenza di legittimazione democratica
dell’agire pubblico, posto che il Ministro riceve la fiducia dalle Camere e quindi,
indirettamente, dagli elettori. Nel modello di Stato elaborato da Montesquieu180,
infatti, il potere esecutivo è legittimato dalla fiducia del Parlamento che si pone in
posizione centrale, pur nella sostanziale parità dei poteri, in quanto a sua volta diretta
emanazione del popolo, unico legittimo depositario della sovranità181 (art.1 c.2 Cost.).
Ne consegue che la responsabilità del Ministro ex art. 95 c. 2 Cost. ha come
presupposto necessario l’attribuzione allo stesso di una posizione verticistica
nell’ambito del dicastero, la quale, a sua volta, è strumentale a conferire investitura
democratica all’attività amministrativa, attraverso il circuito di responsabilità politica
del Governo di fronte alle Camere. Mutatis mutandis, le stesse considerazioni
ovviamente valgono in relazione agli organi politici delle Regioni e degli enti locali
179
CHIEPPA- GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, Milano, 2009, p. 102.
MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, libro XI, Torino, 2005.
181
CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, p. 647.
180
63
nei rapporti con le rispettive amministrazioni. Anche in questi ambiti, infatti, la
presenza di organi politici (Presidente della Regione, Presidente della Provincia,
Sindaco, Consigli e Giunte) all’interno delle relative amministrazioni contribuisce ad
attribuire legittimazione democratica alla funzione esecutiva in esse svolta, posto che
tali organi sono rappresentativi della volontà popolare.
E’ dunque evidente il profondo fondamento costituzionale e logico del modello di
amministrazione innanzi tracciato. Esso tuttavia non è l’unico, giacché gli artt. 97, c.
1 e 3, 98 e 51 Cost. sembrano fissare un modello diverso che mira invece a preservare
la P.A. e i suoi dipendenti da possibili influenze politiche182. Infatti, l’affermazione
del principio di imparzialità, l’accesso agli impieghi pubblici tramite concorso, il
principio per cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione sono
strumentali a garantire l’indipendenza della struttura burocratica dalle pressioni della
politica, per sua natura parziale ed espressione di una fazione (ancorché
eventualmente maggioritaria), e non già dell’intera collettività.
Si pone dunque un conflitto tra i due modelli amministrazione evincibili dalla
Costituzione: il primo, orientato ad attribuire un ruolo verticistico agli organi politici
per esigenze di legittimazione democratica della funzione esecutiva, ed il secondo,
preoccupato di preservare l’indipendenza della Pubblica Amministrazione dalle
influenze della politica.
La dottrina che si è occupata del tema ha tentato di risolvere tale contrasto attraverso
una lettura capace di conciliare i due modelli. Infatti, si è affermato che il sistema
desumibile dall’art. 95 Cost. si riferisce alla Pubblica Amministrazione in senso
tradizionale, la quale presuppone che la struttura amministrativa costituisca lo
strumento utilizzato dal Governo per l’attuazione dell’indirizzo politico: in tal caso il
Governo deve essere messo nelle condizioni di imporre alla struttura burocratica il
proprio indirizzo politico, onde evitare che i propri programmi siano neutralizzati da
un eventuale ostruzionismo dei funzionari nominati per concorso 183. Al contrario, il
secondo modello funge da fondamento costituzionale per le Autorità Amministrative
182
183
CHIEPPA- GIOVAGNOLI, op. cit., p. 102.
CHIEPPA- GIOVAGNOLI, op. cit., p. 102.
64
Indipendenti (Banca d’Italia, Consob, Isvap etc..), le quali, pur essendo Pubbliche
Amministrazioni184, non concorrono all’attuazione dell’indirizzo politico, proprio
perché sono preposte alla cura di interessi sensibili che l’ordinamento ha inteso
sottrarre alle ingerenze della politica ed affidare ad enti indipendenti composti
esclusivamente da soggetti dotati di competenze tecniche. Non è questa la sede per
approfondire la tematica concernente le Autorità Amministrative Indipendenti, ma
per mere esigenze di completezza giova segnalare che i loro principali tratti distintivi
sono: 1) l’indipendenza dal Governo; 2) la neutralità rispetto agli interessi su cui la
loro attività incide, non già quindi il perseguimento in modo imparziale dell’interesse
pubblico; 3) l’esercizio di funzioni cosiddette giusdicenti (regolare un settore e
decidere in modo neutrale); 4) il deficit di legittimazione democratica, compensato
attraverso deroghe alla disciplina comune in materia di partecipazione e motivazione
nell’ambito dell’esercizio dei poteri regolamentari; 5) l’alto tasso di discrezionalità
tecnica nel’ambito delle funzioni espletate185.
Peraltro, anche nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni tradizionali di cui
all’art. 95 Cost. si è affermata negli ultimi anni la tendenza ad accentuare la
separazione tra politica e amministrazione, nel senso che la gestione amministrativa
viene attribuita ai dirigenti, mentre ai politici sono assegnati compiti di indirizzo e
controllo, oltre al regime delle nomine e delle revoche degli incarichi professionali,
che assicurano agli organi politici rilevanti capacità di influenza sulle strutture
burocratiche186. In quest’ottica la presunta antinomia tra art. 95 e art. 97 Cost. può
essere ricomposta alla luce della distinzione tra responsabilità politica e
responsabilità amministrativa: la prima concerne la fissazione degli obiettivi da
raggiungere e riguarda gli organi politici, la seconda ha ad oggetto l’adozione del
184
In questo senso Cass., sez. I civ., 20 maggio 2002, n. 7341, in Foro It., 2002, I, p. 2680, con nota di GRANIERI, Il
garante dei dati personali ed il baricentro (sbilanciato) della tutela forte dei diritti della personalità.
185
GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, p. 263 e ss.
186
CHIEPPA- GIOVAGNOLI, op. cit., p. 103; CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, tomo I, Milano, 2005, p.
1068.
65
singolo atto o la gestione di un singolo affare specifico e si appunta in capo agli
organi amministrativi187.
Ne consegue che il conflitto tra i due modelli di amministrazione, evincibili dalla
Carta costituzionale, deve trovare soluzione non già nell’ottica di una rigida
ripartizione di competenze, ovvero nel senso che il primo si riferisca solo alle
P.P.A.A. in senso tradizionale ed il secondo solo alle Autorità Indipendenti, ma in
una visione di sintesi tale per cui, anche nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni
in senso tradizionale, il secondo modello si combina con il primo al fine di conciliare
le opposte esigenze della legittimazione democratica dell’agire pubblico e
dell’imparzialità dell’attività amministrativa.
II.2 Il principio di separazione tra politica e amministrazione
Come si è visto nel paragrafo precedente, l’incontro tra i due modelli di
amministrazione presenti nella Carta costituzionale ha prodotto, nell’ambito delle
Pubbliche Amministrazioni in senso tradizionale, il progressivo affermarsi del
principio di separazione tra politica ed amministrazione. Più nel dettaglio, le recenti
riforme hanno accentuato la distinzione tra funzioni di indirizzo e controllo, spettanti
agli organi elettivi, e la gestione amministrativa, attribuita ai dirigenti pubblici.
Occorre però segnalare che l’introduzione in via legislativa di tale principio è solo
recente posto che, fino ad un recente passato, le Pubbliche Amministrazioni in senso
tradizionale erano organizzate in modo piramidale, con al vertice l’organo politico
che era l’unico in grado di porre in essere provvedimenti capaci di impegnare
l’amministrazione verso l’esterno. In questo contesto la responsabilità degli organi di
governo non era solo politica, ma anche amministrativa, poiché essi erano al vertice
della struttura burocratica con forti poteri di ingerenza. Infatti, la relazione tra organi
187
CARINGELLA, op. cit., p. 1068; CASSESE, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in
Il Lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2003, II, 231 ss;
66
elettivi e dirigenti era pacificamente configurata in termini di gerarchia, con la
conseguenza che il vertice politico aveva il potere di intromettersi nella gestione
amministrativa attraverso la potestà d’ordine, ossia la possibilità dell’ufficio
sovraordinato di prescrivere, con atti generali o puntuali, le modalità di
comportamento cui deve attenersi l’ufficio subordinato188. Dalla qualificazione in
chiave gerarchica della relazione de qua conseguiva l’attribuzione agli organi politici
degli ulteriori poteri che, secondo la dottrina prevalente189, caratterizzano tale
modello interorganico, ovverosia il potere di impartire direttive, quello di risoluzione
dei conflitti tra organi subordinati, di decisione dei ricorsi gerarchici, di avocazione,
di sostituzione e di delegazione. A ciò si aggiunga che pacificamente si ritiene che
presupposto della relazione gerarchica è la comunanza di competenze tra l’organo
superiore e quello inferiore, dato questo sussistente nel pregresso quadro dei rapporti
tra politica e amministrazione. E’ evidente, quindi, che in tale contesto normativo il
modello di amministrazione di cui all’art. 95 Cost. trovava integrale attuazione nelle
P.A. in senso tradizionale, senza subire alcun temperamento ad opera del secondo
modello di cui all’art. 97 Cost190, il quale era operativo solo con riferimento alle
Autorità Amministrative Indipendenti.
II.3 La riforma ad opera della legge n. 142 del 1990
Solo con la legge 8 giugno 1990 n. 142, concernente le autonomie locali, si è
affermato il passaggio da un sistema in cui valeva la concentrazione totale delle
competenze in capo agli organi politici, ad un sistema di separazione tra, da un lato, i
poteri di indirizzo programmatico e di controllo sull’attuazione delle scelte di
intervento amministrativo, propri degli organi politici, e, dall’altro lato, quelli di
attuazione gestionale, in forza degli impegni di spesa e delle priorità individuate nel
188
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. cit., p. 112; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2006, p. 127;
CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, p. 569.
189
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. loc. ult. cit..
190
Sul punto si veda retro al paragrafo precedente.
67
piano esecutivo, propri ed esclusivi della dirigenza191. In questo senso emblematico è
l’art. 51 c. 2 della legge 142 del 1990 il quale recitava: “i poteri di indirizzo e
controllo spettano agli organi elettivi, mentre la gestione amministrativa è attribuita
ai dirigenti”. Inoltre, il comma terzo del medesimo articolo chiariva che ai dirigenti
spettassero tutti i compiti, compresi quelli concernenti l’adozione di atti impegnativi
per l’amministrazione verso l’esterno, non espressamente riservati agli organi di
governo dell’ente. Logica conseguenza di tale riforma era la configurazione della
relazione tra vertice politico e dirigenza non già in termini di gerarchia, ma nella
forma più attenuata della direzione192. Più nel dettaglio la relazione di direzione è
caratterizzata dal fatto che l’ufficio sovraordinato è dotato del potere di adottare
direttive, con le quali, anziché imporre comportamenti (come nel caso d’ordine),
indica gli scopi da perseguire, stabilisce eventuali priorità, lasciando però all’ufficio
inferiore la scelta delle modalità per realizzare tali fini193. Nell’ambito di questa
relazione organizzativa, peraltro, l’organo superiore non ha il potere di avocazione o
sostituzione, se non nei casi stabiliti dalla legge194. Con riferimento, quindi, agli enti
locali il modello di amministrazione di cui all’art. 95 Cost. iniziava a subire una forte
contaminazione ad opera dell’opposto sistema ex art. 97 Cost., giusta l’affermazione
del principio di separazione tra politica e amministrazione nell’ambito di P.A. in
senso tradizionale. In questo contesto il controllo esercitato dagli organi politici non
investe il singolo atto adottato dai dirigenti, ma l’azione complessiva dell’ufficio ed il
livello di capacità mostrato nell’esercizio di determinate funzioni.
191
MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria. Il paradigma degli enti locali
territoriali, Milano, 2005, p. 2; BARUSSO, Le competenze degli organi degli enti locali, Rimini, 2001, p. 33 e ss.
192
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. cit., p. 112; CASETTA, op. cit., p. 128; CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo,
cit., p. 571.
193
La direttiva, infatti, deve limitarsi a definire le linee generali dell’azione, poiché si tratta di una atto di portata ampia,
tale da consentire una gamma abbastanza ampia di scelte gestionali attuative del disegno globale delineato dall’organo
di governo. Spetta invece al dirigente scegliere quale tra le possibili alternative gestionali sia la più indicata nel caso di
specie. In questo senso Corte dei Conti, Sez. giur. Regione Piemonte, n. 1192/EL/2000 del 13 aprile 2000, in
www.diritto.it, con nota di OLIVERI, Il potere di direttiva dell’organo politico nei confronti dei dirigenti: contenuti
dell’attività direttiva e confini con quella gestionale.
194
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. loc. ult. cit.
68
II.4 Il decreto legislativo n. 29 del 1993
In seguito, con il d.lgs. n. 29 del 1993 il legislatore consacrava il principio di
separazione tra politica e amministrazione anche a livello di amministrazione statale,
eliminando in tal modo discrasie tra assetto organizzativo centrale e locale. In
particolare, l’art. 3 del dlgs. in esame stabiliva che nelle amministrazioni pubbliche
agli organi di governo spettasse definire gli obiettivi e i programmi da attuare oltre
che verificare la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive
generali impartite. Nella stessa ottica l’art. 14 del medesimo decreto delineava le
attribuzioni proprie degli organi di governo: “Il Ministro… definisce gli obiettivi…,
indica le priorità ed emana le conseguenti direttive generali…, assegna una quota
parte del bilancio dell’amministrazione”. Come chiarito dalla dottrina195, si trattava
di una norma di principio che, ancorché dettata per le amministrazioni centrali, era
idonea ad esplicare effetti su ogni altro ente pubblico, compresi quelli locali. In
questa stessa direzione particolare rilevanza assumeva inoltre il comma 3 dell’art.
cit., che poneva il divieto per il Ministro di avocare a sé gli atti di competenza
dirigenziale, “se non per particolari motivi di necessità ed urgenza specificamente
indicati nel provvedimento di avocazione”. Ne conseguiva l’inammissibilità, di
regola, di un intervento sostitutivo degli organi elettivi nell’attività di gestione
amministrativa, salvi i casi eccezionali e debitamente giustificati di avocazione 196.
L’estensione della disciplina in oggetto anche agli enti diversi dalle amministrazioni
centrali era poi dettata dall’art. 13 del dlgs n. 29 del 1993, come modificato dal dlgs.
n. 470 del 1993, il quale affermava che le disposizioni in esame si applicassero alle
amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo e che gli enti locali
dovessero recepirne i principi. Gli effetti della riforma operata dal dlgs. n. 29 del
1993 erano quindi nel senso della accentuazione della distinzione tra politica e
amministrazione, attraverso le due direttrici della valorizzazione dell’autonomia
gestionale dei burocrati e del correlativo incremento della responsabilità dirigenziale,
195
196
MARCONI, op. cit., p. 7.
FORLENZA- TERRACCIANO-VOLPE, La Riforma del pubblico impiego, Milano, 1999, p. 19; MARCONI, op. loc. ult. cit.
69
essendo inevitabile che alle prerogative di autonomia nella gestione della struttura
facesse da contraltare l’obbligo del perseguimento degli obiettivi prefissati e la
conseguente instaurazione di meccanismi di controllo197. Peraltro giova ribadire che il
controllo esercitato dagli organi politici si poneva (e si pone tuttora) non già in
termini puntuali ed atomistici, ma in chiave globale e sintetica, ossia sotto forma di
verifica dell’azione complessiva dell’ufficio cui il dirigente è preposto. Tuttavia, il
progressivo consolidamento della autonomia tra politica e amministrazione
incontrava due limiti capaci di minarne il fondamento e di renderne ambigua la
configurazione: in particolare, da un lato, nei comuni medi e piccoli gli assessori
finivano comunque con lo svolgere di fatto funzioni proprie dell’apparato
burocratico; dall’altro lato, e forse in modo assai più rilevante, il meccanismo di
nomina e revoca degli incarichi dirigenziali, facente capo agli organi elettivi, non
poteva (e non può tuttora) non rendere i funzionari “assai più prossimi alle logiche
politiche della maggioranza e della giunta a cui sono legati da rapporti di natura
fiduciaria e da un processo decisionale non facilmente segmentabile”198. Da ciò
discendeva che la reciproca contaminazione tra i due modelli di amministrazione, il
primo facente capo all’art. 95 Cost. ed il secondo al principio di imparzialità ex art.
97 Cost., si riducesse ad un’affermazione più di facciata che di sostanza, essendo il
baricentro spostato nei fatti a favore del primo, posto il ruolo preminente ancora
ricoperto dalla politica nell’ambito della gestione amministrativa, soprattutto in forza
nel riconosciuto potere di nomina e revoca dei dirigenti. Per tali ragioni era (ed è
ancora) possibile avanzare, non senza fondamento, il sospetto che il delineato sistema
di apparente separazione tra politica e amministrazione fosse più che altro un
espediente per sottrarre alla politica la responsabilità diretta per la gestione
amministrativa, pur rimanendo ferma la capacità degli organi elettivi di ingerirsi nei
fatti nell’attività esercitata formalmente dalle strutture burocratiche. Una chiave di
lettura alternativa della riforma era (ed è ancora come si vedrà infra) quella di
197
MARCONI, op. cit., p. 8.
CAMMELLI, Privatizzazione del pubblico impiego e riforma della pubblica amministrazione, in Organizzazione
amministrativa e pubblico impiego, a cura di Vandelli-Bottari- Zanasi, Rimini, 1995, p. 263.
198
70
evidenziarne non già il passo in avanti verso una più accentuata valorizzazione del
principio di imparzialità ex art. 97 Cost., ma quella di denunciarne l’ipocrisia insita
nella solenne affermazione dell’autonomia del ceto burocratico rispetto alle logiche
della politica e nella contemporanea soggezione dei dirigenti al potere di nomina e
revoca ad opera degli organi elettivi. Non vi può essere vera autonomia, infatti, ove le
carriere dei dirigenti siano in tal modo esposte ai condizionamenti della politica. Basti
pensare che ove il legislatore ha avuto realmente a cuore la salvaguardia
dell’autonomia di una classe di soggetti dai condizionamenti politici ha nettamente
sottratto le relative vicende del rapporto di servizio alla sfera di influenza degli organi
elettivi, creando enti di autogoverno (come ad esempio il Consiglio Superiore della
Magistratura o il Consiglio Superiore della Banca d’Italia) ed escludendo la politica
dalle pertinenti scelte. In questa ottica allora si potrebbe ritenere che la riforma in
esame, lungi dal porsi come un passo in avanti verso la marginalizzazione
dell’influenza della politica nell’ambito della gestione amministrativa, si rivelasse (e
si riveli ancora) uno strumento per accrescere i privilegi degli organi elettivi ormai
privi di responsabilità dirette, ma pur sempre in grado di esercitare forti pressioni sui
burocrati, ridotti ormai a soggetti formalmente autonomi e, quindi, responsabili, ma
nella sostanza esposti alle pressioni provenienti dai partiti. Come si vedrà in seguito,
pertanto, il delineato sistema rischia di diventare terreno fertile per fatti di
concussione da parte degli organi elettivi nei riguardi dei burocrati, resi ancor più
pericolosi dalla inevitabile difficoltà di accertamento.
II.5 La legge n. 81 del 1993
Proseguendo nell’excursus storico, giova segnalare che la legge n. 81 del 1993 ha
introdotto l’elezione diretta a suffragio universale del capo degli enti locali (Sindaco
e Presidente della Provincia) e ha attribuito allo stesso la responsabilità
dell’amministrazione dell’ente di appartenenza, nonché la sua rappresentanza politica
71
e giuridico-legale. Tali innovazioni sono state poi recepite dall’art. 46 del dlgs n. 267
del 2000 (testo unico enti locali) e, di recente, sono state valorizzate da una parte
della giurisprudenza amministrativa199 per sostenere la natura di atto politico (e
quindi insindacabile in sede giurisdizionale) della revoca dell’assessore comunale ad
opera del sindaco. Si è, infatti, affermato che la citata riforma ha segnato un
rafforzamento del ruolo del capo dell’ente nella compagine comunale, con
l’attribuzione al medesimo del potere di fissare l’unità di indirizzo della giunta
secondo il programma politico sulla base del quale è stato eletto. Con la conseguenza
che il rapporto tra sindaco ed assessori dovrebbe ormai essere configurato in termini
fiduciari così come la struttura burocratica dell’ente locale dovrebbe ormai tenere
conto del peso rappresentativo in termini di legittimazione democratica acquisito dal
sindaco. Ai fini di ciò che interessa nel presente studio è quindi innegabile che la
legge n. 81 del 1993 ha segnato nel sistema degli enti locali un deciso rafforzamento
del ruolo e dei poteri del vertice politico, contribuendo a consolidare la struttura
piramidale dell’amministrazione comunale e provinciale. Nella stessa direzione l’art.
13 della stessa legge attribuiva al capo dell’ente locale il potere di nominare i
responsabili degli uffici e dei servizi, di conferire e definire gli incarichi dirigenziali e
quelli di collaborazione esterna secondo i criteri definiti dall’art. 51 legge n. 142 del
1990, dallo statuto e dai regolamenti comunali e provinciali. Per il resto, invece, la
legge n. 81 del 1993 si muoveva verso l’attuazione del riparto di competenze tra
politici e burocrati, tanto che una parte della dottrina ha correttamente evidenziato
che in questo contesto la separazione tra politica ed amministrazione potesse essere
vista come funzionale a garantire ai politici di progettare strategie e programmi anche
sgraditi ai cittadini, senza doverne sopportare il peso della responsabilità, la quale
ormai andava quantomeno condivisa con i burocrati, ossia con persone non soggette
al giudizio elettorale ed in grado di catalizzare su un’istituzione non politica le
199
Tar Liguria, 7 dicembre 2004 n. 1600, in La Rivista Nel Diritto, n. 5 del 2009 p. 744 e ss. CONTRA, però, Consiglio
di Stato, sez. V, 23 gennaio 2007 n. 209, in La Rivista Nel Diritto, n. 5 del 2009 p. 746, secondo cui il provvedimento di
revoca dell’assessore comunale avrebbe natura di atto amministrativo sindacabile in sede giurisdizionale, posto che le
deroghe all’art. 113 Cost. dovrebbero essere eccezionali ed avere un fondamento costituzionale, mentre tale ultimo dato
non sarebbe rinvenibile nella revoca del’assessore comunale, prevista solo a livello di legislazione primaria.
72
decisioni assunte200. Questo dato si espone ad una diversa lettura posto che esso, da
un lato, appare apprezzabile nella parte in cui permette di attuare scelte
amministrative non più miopi e condizionate dalla scadenza elettorale, ma, dall’altro
lato, può far sorgere il sospetto della solo apparente attuazione del principio di
separazione tra politica ed amministrazione, con il conseguente rischio che l’effetto
delle citate riforme si riduca semplicemente a creare una sacca di irresponsabilità
giuridica e politica degli organi elettivi, senza una corrispondente riduzione dei poteri
dai medesimi in fatto esercitabili sulla gestione amministrativa.
II.6 Il principio di separazione delle funzioni nell’ambito della finanza e della
contabilità locale
In seguito, il dlgs n. 77 del 1995 ha esteso il principio di separazione tra politica e
amministrazione anche all’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali,
giacché l’art. 11 stabiliva: “sulla base del bilancio di previsione annuale deliberato
dal consiglio, l’organo esecutivo definisce, prima dell’inizio dell’esercizio, il piano
esecutivo di gestione, determinando gli obiettivi di gestione ed affidando gli stessi,
unitamente alle dotazioni necessarie, ai responsabili dei servizi”. Alla luce di tale
disciplina il piano esecutivo di gestione, deliberato dalla giunta, costituiva (e
costituisce tuttora) il documento fondamentale di programmazione dell’ente locale;
esso, tuttavia, non era (e non è) concepito come un prodotto di esclusiva competenza
degli organi elettivi, posto che, ai sensi dell’art. 19 c. 1 del dlgs n. 77 del 1995: “se a
seguito di idonea valutazione, il responsabile del servizio ritiene necessaria una
modifica della dotazione assegnata, propone la modifica con modalità definite dal
regolamento di contabilità”. Il comma secondo del medesimo articolo precisava,
inoltre, che la mancata accettazione della proposta di modifica della dotazione
dovesse essere motivata dall’organo esecutivo. Come evidenziato da attenta
200
RUSSO, Il management amministrativo. Ruolo unico, controllo e responsabilità, Milano, 2000, p. 63; MARCONI,
Rappresentanza politica, cit., p. 11.
73
dottrina201, la scelta del legislatore di fare riferimento ai responsabili dei servizi
anziché ai dirigenti era funzionale a garantire il rispetto del principio di separazione
tra politica e amministrazione anche negli enti sforniti di qualifiche dirigenziali. Al
fine poi di rendere oggettivamente controllabile il grado di conseguimento dei
risultati gestionali, evitando soggettivismi e valutazioni non ispirate al rispetto
dell’interesse pubblico, l’art. 39 del d.lgs. n. 77 del 1995 introduceva il controllo di
gestione, ossia lo strumento teso a verificare, con riferimento ai singoli servizi, i
risultati dell’azione amministrativa programmata, mediante il ricorso ad indicatori di
efficacia, di efficienza, di economicità, di produttività e di qualità. Tale controllo era
demandato ad un nucleo di valutazione le cui rilevazioni sarebbero dovute servire per
misurare l’andamento della gestione dei singoli servizi. Nella misura in cui tale
sistema fosse servito realmente a rendere oggettivo il controllo esercitato dagli organi
elettivi sull’azione dei burocrati, esso sarebbe servito a realizzare nella sostanza, e
non solo nella forma, quel principio di separazione tra politica e amministrazione cui
il legislatore pare ormai tendere, non senza ambiguità, a partire dalla legge n. 142 del
1990.
II.7 La riforma Bassanini: legge n. 127 del 1997
Con la legge n. 127 del 1997, oltre ad una più puntuale definizione delle attribuzioni
degli organi amministrativi, veniva precisato che: “gli incarichi dirigenziali sono
conferiti a tempo determinato, con provvedimento motivato e con le modalità fissate
dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di
competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma
amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di
inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta
o dell’assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di
201
MARCONI, op.cit., p. 12.
74
ciascun anno finanziario degli obiettivi loro assegnati nel piano nel piano esecutivo
di gestione previsto dall’art. 11, d.lgs. 77/95 e successive modificazioni, o per
responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati
dall’art. 20 d.lgs. 29/93 e dai contratti collettivi di lavoro. L’attribuzione degli
incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a
seguito di concorsi”. Tale disciplina tentava quindi, di regolamentare l’esercizio dei
poteri di nomina e revoca dei dirigenti e responsabili degli uffici e servizi, al fine di
rendere più effettiva la separazione tra politica e amministrazione e meno arbitrario
l’esercizio dei poteri spettanti agli organi elettivi. Tuttavia, la scelta di prescindere da
meccanismi di stampo concorsuale, oltre a porsi in frizione con il generale principio
desumibile dall’art. 97 c. 3 Cost., pare essere in controtendenza con la
preoccupazione del legislatore di favorire l’autonomia degli organi burocratici
rispetto alle ingerenze della politica. Il sistema dei concorsi, infatti, (ove
correttamente gestito) non solo garantisce la scelta dei migliori, ma è anche uno
strumento essenziale per garantire l’autonomia e l’imparzialità del funzionario
pubblico, il quale può svolgere le sue funzioni senza debiti di riconoscenza verso
alcuno, posto che la sua nomina è frutto esclusivo delle sue abilità, delle sue
conoscenze tecniche e dei titoli acquisiti. Né può inficiare tale assunto la
considerazione dell’innegabile margine di discrezionalità tecnica insita nelle
valutazioni concorsuali, posto che esistono adeguati strumenti per garantire sia
l’anonimato (ove possibile) degli elaborati dei candidati, sia il controllo in sede
giurisdizionale dell’esercizio di detto potere di scelta202. A conferma della correttezza
di tale ragionamento basti pensare che ove il legislatore ha avuto realmente a cuore la
tutela dell’autonomia e della imparzialità di taluni organi, ne ha previsto l’accesso
tramite concorsi, come nel caso dell’accesso all’impiego in magistratura o presso
Autorità Amministrative Indipendenti.
Nel senso della sindacabililtà dell’esercizio della discrezionalità tecnica: Consiglio di Stato, sez. IV, n. 601 del 1999,
in Dir. proc. amm., 2000, p. 182. Conf. tra le molte: Cons. St., sez. VI, n. 515 del 2007; in dottrina: CARINGELLA,
Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 961 e ss.
202
75
La medesima legge provvedeva poi ad introdurre la figura del direttore generale o
city manager; l’art. 10 della legge in esame, infatti, recitava: “il sindaco nei comuni
con popolazione superiore ai 15000 abitanti e il presidente della provincia, previa
deliberazione della giunta comunale o provinciale, possono nominare un direttore
generale, al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, e
secondo criteri stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive
impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla
gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in
particolare al direttore generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi
previsto dalla lett. a) del comma 2 dell’art. 40 dlgs n. 77 del 1995, nonché la
proposta di piano esecutivo di gestione. A tali fini, al direttore generale rispondono,
nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell’ente, ad eccezione del
segretario del comune e della provincia. Il direttore è revocato dal sindaco o dal
presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o
provinciale…”. La durata dell’incarico del city manager, inoltre, non può eccedere
quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia: tale organo
costituisce quindi una sorta di fiduciario dell’organo elettivo di vertice, incaricato di
gestire i collegamenti tra livello politico e livello gestionale203. La possibile presenza
del direttore generale nei comuni e nelle province rendeva peraltro necessaria una
disciplina dei rapporti tra questi ed il segretario dell’ente locale. Il legislatore ha
risolto tale problema evidenziando la diversità di funzioni tra i due soggetti: al
segretario spetta garantire la legittimità, l’economicità e l’efficacia dell’azione
amministrativa; il direttore, invece, è responsabile dell’attività gestionale in ordine al
raggiungimento degli obiettivi dell’ente204. Ciò nondimeno, la nomina del city
manager comporta un certo depotenziamento della figura del segretario, posto che in
passato il segretario svolgeva anche compiti di gestione diretta, mentre a seguito della
citata riforma la nomina del direttore relega il segretario al ruolo di mero consulente
giuridico-amministrativo, di ufficiale rogante e verbalizzante.
203
204
CASETTA, Manuale di diritto
CASETTA, op. cit., p. 273.
amministrativo, cit. p. 272.
76
In questo quadro normativo autorevole dottrina205 non ha mancato di segnalare che il
meccanismo di forte condizionamento derivante dal potere di nomina e revoca degli
incarichi dirigenziali attribuito al capo dell’amministrazione locale, nonché il
possibile condizionamento esercitatile dallo stesso sulle progressioni di carriera dei
burocrati possono costituire dei mezzi per vanificare il principio della distinzione tra
politica e amministrazione e per instaurare una sorta di governo del sindaco o del
presidente della provincia per interposta persona, ossia tramite dirigenti e direttori
generali di fiducia. Con la conseguenza che nei fatti il sistema non sarebbe mutato
rispetto al regime ante legge n. 142 del 1990, salvo che per l’introduzione
dell’ulteriore privilegio dell’irresponsabilità nei riguardi di una classe politica ancora
capace nei fatti di condizionare la gestione amministrativa.
II.8 Il decreto legislativo n. 80 del 1998
In seguito è intervenuto il dlgs. n. 80 del 1998, il quale ha provveduto ad una
complessiva ed estesa riformulazione del dlgs. n. 29 del 1993. In particolare, il dlgs n.
80 del 1998 provvedeva ad una chiara definizione delle attribuzioni proprie
rispettivamente degli organi elettivi e dei dirigenti, nel quadro del principio di
separazione tra politica e amministrazione. L’art. 3 del decreto in esame disponeva
infatti: “(Indirizzo politico-amministrativo. Funzioni e responsabilita'). - 1. Gli
organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo,
definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti
nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati
dell'attivita' amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano,
in
particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo
interpretativo ed applicativo;
205
BARUSSO, Le competenze degli enti locali, Rimini, 2001, p. 70; MARCONI, op. cit., p. 20.
77
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per
l'azione amministrativa e per la
gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da
destinare alle diverse finalita' e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale
generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di
determinazione di tariffe, canoni e analoghi
oneri a
carico di
terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche
disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorita' amministrative indipendenti ed al Consiglio di
Stato;
g)
gli
altri
atti
indicati
dal
presente
decreto.
2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi
tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonche' la gestione
finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili
in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.
Lo stesso decreto chiariva poi che tali disposizioni trovavano applicazione non solo
alle amministrazioni statali, ma anche agli altri enti nazionali ad ordinamento
autonomo, alle regioni a statuto ordinario e agli enti locali.
I dati più significativi di tale disciplina erano non solo il rafforzamento delle
competenze dirigenziali con la previsione di una formula de residuo, nel senso cioè
che spettava ai burocrati tutto ciò che non era espressamente attribuito agli organi
politici, ma anche la clausola di rafforzamento del principio di separazione delle
funzioni, volta a precludere a fonti sublegislative di alterare la distinzione e
l’equilibrio tra attività di indirizzo e attività di gestione206. Il dlgs n. 80 del 1998,
peraltro, ribadiva che la definizione da parte degli organi politici degli obiettivi e dei
programmi dovesse avvenire tramite lo strumento tecnico della direttiva e non già per
206
CLARICH-IARIA, La riforma del pubblico impiego, Rimini, 2000, p. 107; MARCONI, op. cit., p. 24.
78
mezzo di ordini gerarchici, che come tali hanno il carattere della puntualità. Inoltre,
poiché l’art. 3 c. 1 lett. b) del dlgs stabiliva che la direttiva dovesse essere “generale”,
l’organo politico si doveva limitare a fissare obiettivi e programmi in un’ottica di
gestione globale dell’attività amministrativa o di erogazione di un servizio pubblico,
e non a esercitare un’attività riferita a un singolo atto207.
Il dlgs n. 80 del 1998 ha apportato, infine, una rilevante modifica al sistema delineato
dal dlgs n. 29 del 1993: quest’ultimo, infatti, aveva conservato in capo al Ministro il
potere di avocazione degli atti dirigenziali, e non si era pronunciato sulla permanenza
dei poteri ministeriali di annullamento, di revoca, di riforma e di decisione dei ricorsi
gerarchici. Il dlgs n. 80 del 1998, al contrario, ha escluso che il Ministro potesse
revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare gli atti dei dirigenti,
avendo solo la possibilità di fissare, in caso di inerzia o di ritardo, un termine
perentorio entro il quale il dirigente dovesse adottare gli atti o i provvedimenti.
Decorso tale termine, qualora l’inerzia fosse rimasta, o in caso di grave inosservanza
delle direttive generali da parte del dirigente competente, il Ministro non poteva
avocare l’atto ma solo nominare un commissario ad acta, dandone comunicazione al
Presidente del Consiglio dei Ministri208. Tale disciplina è sopravvissuta alla ulteriore
riforma operata dal dlgs n. 165 del 2001 ed è tuttora in vigore. Essa segna un deciso
passo in avanti nel quadro della separazione delle competenze tra organi politici e
burocrati, eliminando il potere di avocazione ministeriale che, ancorché ridotto ad
ipotesi eccezionali, era comunque un residuo di quella confusione di ruoli tra le due
tipologie di attori istituzionali tipica del sistema anteriore alla stagione riformista
iniziata con la promulgazione della legge n. 142 del 1990.
207
CLARICH, La nuova disciplina del lavoro nelle amministrazioni pubbliche, in Organizzazione amministrativa e
pubblico impiego, Rimini, 1995, p. 19.
208
CARINGELLA, Manuale di diritto ammnistrativo, cit., p. 571; CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, cit., p.
1085 e ss.
79
II.9 Il testo unico degli enti locali: d.lgs. n. 267 del 2000
In seguito il legislatore ha provveduto a riordinare l’intera disciplina in materia di enti
locali con il d.lgs. n. 267 del 2000 (meglio noto come testo unico enti locali 209),
emanato dopo circa un decennio dall’entrata in vigore della legge n. 142 del 1990 e
tuttora vigente. Il decreto in esame non ha apportato variazioni di grande rilievo
rispetto alla normativa anteriore, limitandosi per lo più ad un’opera di sistemazione e
di razionalizzazione.
In primo luogo, il d.lgs. n. 267 del 2000 ha chiarito che gli statuti comunali o
provinciali possono svolgere solo una funzione specificativa delle attribuzioni degli
organi dell’ente territoriale, le quali sono fissate dal legislatore attraverso due
modalità: o l’elencazione analitica delle competenze di cui è fornito un organo, come
nel caso dell’art. 42 del testo unico; o la fissazione di principi inderogabili, quale
appunto quello di separazione delle competenze tra organi di governo e organi
gestionali. In tale ultimo caso la disciplina primaria lascia allo statuto e all’interprete
il compito di specificare le funzioni in concreto conferite ai vari soggetti
istituzionali210.
Tanto premesso, giova ora analizzare le competenze assegnate dal testo unico ai vari
organi degli enti locali, posto che tale operazione costituisce la logica premessa per la
successiva analisi dei problemi prettamente penalistici. Più nel dettaglio, secondo
l’art. 42 del tuel: “1. Il consiglio è l'organo d’indirizzo e di controllo politicoamministrativo.
2. Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali:
a) statuti dell'ente e delle aziende speciali, regolamenti salva l'ipotesi di cui
all'articolo 48, comma 3, criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei
servizi;
b) programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi
Di seguito “tuel”.
OLIVIERI, Statuti e principio di distinzione tra attività di gestione e attività di indirizzo politico e di controllo, in
Giust. It., n. 7/8, 2001
209
210
80
triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative
variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e
pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per
dette
materie;
c) convenzioni tra i comuni e quelle tra i comuni e provincia, costituzione e
modificazione
di
forme
associative;
d) istituzione, compiti e norme sul funzionamento degli organismi di decentramento e
di
partecipazione;
e) assunzione diretta dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali,
concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali,
affidamento
di
attività
o
servizi
mediante
convenzione;
f) istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle
relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei
servizi;
g) indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti,
sovvenzionati
o
sottoposti
a
vigilanza;
h) contrazione dei mutui non previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio
comunale
ed
emissione
dei
prestiti
obbligazionari;
i) spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle
locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a
carattere
continuativo;
l) acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non
siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne
costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di
altri
funzionari;
m) definizione degli indirizzi per la nomina e la designazione dei rappresentanti del
comune presso enti, aziende ed istituzioni, nonché nomina dei rappresentanti del
81
consiglio presso enti, aziende ed istituzioni ad esso espressamente riservata dalla
legge.
3. Il consiglio, nei modi disciplinati dallo statuto, partecipa altresì alla definizione,
all'adeguamento e alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche
da parte del sindaco o del presidente della provincia e dei singoli assessori.
4. Le deliberazioni in ordine agli argomenti di cui al presente articolo non possono
essere adottate in via d'urgenza da altri organi del comune o della provincia, salvo
quelle attinenti alle variazioni di bilancio adottate dalla giunta da sottoporre a
ratifica del consiglio nei sessanta giorni successivi, a pena di decadenza”. Come
emerge dall’esame di tale disposizione, le competenze attribuite ai Consigli non sono
solo di indirizzo politico, ma anche gestionali: si pensi alle lettere e) (in materia di
servizi pubblici), h) (in tema di mutui e prestiti obbligazionari), l) (concernente
acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non
siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne
costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di
altri funzionari) dell’art. 42 c. 2 t.u.e.l. Con la conseguenza che in tali casi il principio
di separazione tra funzioni di indirizzo politico e competenze gestionali incontra delle
significative eccezioni. Occorre inoltre segnalare che tale confusione di ruoli tra i
principali attori istituzionali è presente solo nell’ordinamento degli enti locali, non
anche nelle amministrazioni centrali, dove il principio di distinzione tra politica e
amministrazione si presenta in modo più netto e rigido. La differenza tra i due modi
di atteggiarsi del principio in esame tra le amministrazioni centrali e quelle locali è
forse dato dalle caratteristiche dimensionali e tipologiche delle seconde, nelle quali la
vicinanza dell’ente alla popolazione e la frequente esiguità della struttura burocratica
giustificano talune contaminazioni alla rigida separazione delle competenze.
Con riferimento alla Giunta - ribadito che, a seguito della legge n. 81 del 1993, i suoi
componenti sono nominati in modo fiduciario dal sindaco o dal presidente della
provincia - l’art. 48 del testo unico chiarisce che: ”1. La giunta collabora con il
82
sindaco o con il presidente della provincia nel governo del comune o della provincia
ed opera attraverso deliberazioni collegiali.
2. La giunta compie tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2,
nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al
consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto,
del sindaco o del presidente della provincia o degli organi di decentramento;
collabora con il sindaco e con il presidente della provincia nell'attuazione degli
indirizzi generali del consiglio; riferisce annualmente al consiglio sulla propria
attività e svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso.
3. E', altresì, di competenza della giunta l'adozione dei regolamenti sull'ordinamento
degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio”.
Quanto alle competenze del sindaco e del presidente della provincia - premesso che
esse hanno subito un sostanziale incremento a seguito dell’introduzione, ad opera
della legge n. 81 del 1993, della loro elezione diretta - il relativo elenco è fornito
dall’art. 50 del testo unico: “1. Il sindaco e il presidente della provincia sono gli
organi responsabili dell'amministrazione del comune e della provincia.
2. Il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l'ente, convocano e
presiedono la giunta, nonché il consiglio quando non e' previsto il presidente del
consiglio, e sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione
degli atti.
3. Salvo quanto previsto dall'articolo 107 essi esercitano le funzioni loro attribuite
dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e sovrintendono altresì all'espletamento
delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia.
4. Il sindaco esercita altresì le altre funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle
materie previste da specifiche disposizioni di legge.
5. In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco,
quale rappresentante della comunità locale. Negli altri casi l'adozione dei
provvedimenti d'urgenza ivi compresa la costituzione di centri e organismi di
83
referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione
dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali.
6. In caso di emergenza che interessi il territorio di più comuni, ogni sindaco adotta
le misure necessarie fino a quando non intervengano i soggetti competenti ai sensi
del precedente comma.
7. Il sindaco, altresì, coordina e riorganizza, sulla base degli indirizzi espressi dal
consiglio comunale e nell'ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli
orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché,
d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni
interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel
territorio, al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze
complessive e generali degli utenti.
8. Sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio il sindaco e il presidente della
provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei
rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende ed istituzioni.
9. Tutte le nomine e le designazioni debbono essere effettuate entro quarantacinque
giorni dall'insediamento ovvero entro i termini di scadenza del precedente incarico.
In mancanza, il comitato regionale di controllo adotta i provvedimenti sostitutivi ai
sensi dell'articolo 136.
10. Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei
servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di
collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e
110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali.
11. Il sindaco e il presidente della provincia prestano davanti al consiglio, nella
seduta di insediamento, il giuramento di osservare lealmente la Costituzione italiana.
12. Distintivo del sindaco e' la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo
stemma del comune, da portarsi a tracolla. Distintivo del presidente della provincia
e' una fascia di colore azzurro con lo stemma della Repubblica e lo stemma della
propria provincia, da portare a tracolla”.
84
Tra i dati significativi che emergono da tale disposizione giova segnalare in primo
luogo l’affermazione iniziale secondo cui i vertici politici degli enti locali sono i
responsabili dell’amministrazione del comune e della provincia. Orbene, come si
chiarirà in seguito, tale disposizione va interpretata non già nel senso della generale
competenza del capo dell’ente locale in ogni ambito dell’amministrazione dello
stesso, ma nel quadro dell’ormai imperante principio di separazione delle funzioni tra
organi di indirizzo politico e burocrati, espresso chiaramente nel successivo art. 107
del medesimo decreto. Ne consegue che la responsabilità del vertice istituzionale non
riguarda
i
singoli
atti
e
provvedimenti
posti
in
essere
nell’ambito
dell’amministrazione dell’ente locale, ma il controllo sulla gestione complessiva alla
luce delle competenze attribuite all’organo di indirizzo politico, nell’ottica dei
principi di distinzione delle funzioni e di autonomia del ceto dirigenziale. Occorre
quindi privilegiare un’interpretazione non già letterale ma sistematica della citata
disposizione.
Allo stesso modo, il comma 2 dell’art. 50 del testo unico, laddove fa riferimento al
fatto che i vertici dell’ente sovrintendono al funzionamento degli uffici e dei servizi e
all’esecuzione degli atti, non intende assegnare agli stessi puntuali poteri di ingerenza
nella gestione amministrativa, ma solo ribadire i generali poteri di indirizzo e
programmazione propri dell’organo politico, nell’ambito di una relazione
interorganica con le strutture burocratiche, che si è visto essere non già di tipo
gerarchico ma sotto forma di direzione.
Degno di particolare attenzione è, inoltre, il comma 5 del medesimo articolo, il quale
fa riferimento al potere di ordinanza del sindaco come rappresentante della comunità
locale in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale. Non pare sussistano dubbi che in tal caso il principio di separazione delle
funzioni incontri una notevole
deroga, atteso il carattere evidentemente
amministrativo della competenza assegnata all’organo elettivo di vertice dell’ente
locale. Nello stesso senso si ritiene che debba essere letto il disposto del comma 7
dell’articolo in esame.
85
Al vertice politico dell’ente locale sono inoltre attribuiti i poteri di nomina e revoca
dei responsabili degli uffici e dei servizi, che la dottrina prevalente211 include
nell’ambito delle funzioni di indirizzo e programmazione. Si è già notato, tuttavia,
che l’attribuzione di siffatte prerogative introduce un elemento di significativa
ambiguità nel modello di separazione tra politica e amministrazione, posto che,
malgrado le nomine e le revoche debbano ispirarsi a criteri oggettivi ed avere come
obiettivo l’ottimizzazione dei risultati dell’agire pubblico, è innegabile che
l’autonomia dei dirigenti
rischia di essere fortemente compromessa dai
condizionamenti della politica, attesa la soggezione delle loro carriere ai poteri degli
organi elettivi. Il sistema di separazione delle funzioni creato dal legislatore rischia di
rilevarsi, quindi, una mera facciata priva di sostanza, con la conseguenza di
accrescere i privilegi della politica, non più direttamente responsabile per l’adozione
dei singoli atti, ma nei fatti ancora capace di esercitare la medesima influenza sulla
gestione amministrativa, accresciuta peraltro dall’impunità conseguente alla formale
autonomia delle competenze. Non è da escludere, quindi, che il modello vigente si
risolva alla fine in una sorta di governo per interposta persona, ossia nella possibilità
per gli organi politici di effettuare scelte puntuali anche illegittime o sgradite agli
elettori, avvalendosi di dirigenti compiacenti e direttamente responsabili.
Occorre, infine, evidenziare che, secondo l’art. 54 del testo unico, al Sindaco sono
attribuiti importanti funzioni come ufficiale di Governo. Tra di esse merita menzione
il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare
gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana212. Anche
211
CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 1080; CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto
amministrativo, cit., p. 103; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, cit. p. 34 e ss.; GAROFOLI, Manuale di diritto
amministrativo, Roma, 2010, p. 348 e ss.
212
Con sentenza n. 115 del 7 aprile 2011, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54
c. 4 del d.lgs. n. 267 del 2000, come sostituito dall’art. 6 del decreto legge 23 maggio 2008 n. 92, convertito con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprendeva la locuzione
“anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”. Secondo la Consulta, infatti, la novella del 2008 aveva attribuito ai
Sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme
legislative o regolamentari vigenti, si presentavano come esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun
limite, se non quello finalistico, genericamente identificato dal legislatore nell’esigenza di “prevenire e di eliminare
gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Tale disciplina si poneva, quindi, in
contrasto con il principio di legalità, desumibile dagli artt. 23 e 97 Cost., il quale impone che la disciplina primaria
perimetri i confini del potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, non esclusivamente sotto il profilo
finalistico, ma individuando anche le basi contenutistiche del provvedimento da adottare. Attraverso la citata pronuncia,
86
tali competenze sembrerebbero configurare una deroga al principio di separazione tra
funzioni politiche e gestionali, posto che si sostanziano in poteri di stampo
evidentemente amministrativo. Tuttavia, non si può trascurare che esse, più che una
eccezione alla regola della distinzione tra politica e amministrazione, costituiscono
una conferma della stessa, giacché sono conferite al sindaco non in relazione alla sua
qualità di organo politico, bensì nella sua diversa veste di ufficiale di Governo, ossia
come organo amministrativo dello Stato213.
Le attribuzioni proprie del segretario e del direttore generale non hanno subito, ad
opera del testo unico, modifiche sostanziali rispetto a quanto si è visto in precedenza;
è quindi sufficiente richiamare ciò che si è detto relativamente alla legge n. 127 del
1997. In questa sede, tuttavia, si può aggiungere che la previsione secondo cui al
direttore generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti
dell’ente, ad eccezione del segretario comunale, costituisce un ulteriore fattore di
ambiguità nel delineato sistema di separazione tra politica e amministrazione. Infatti,
come noto, il direttore generale costituisce un organo fiduciario del vertice politico
dell’ente locale, sicché la posizione di preminenza da questi assunta nei riguardi dei
dirigenti rischia nei fatti di rendere gli stessi soggetti alle puntuali e pregnanti
ingerenze della politica, esercitabili per mezzo di direttori generali eventualmente
compiacenti.
La norma chiave in tema di separazione delle funzioni politiche da quelle
amministrative è contenuta nell’art. 107 del testo unico enti locali: “1. Spetta ai
dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli
statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo,
mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti
pertanto, la Corte Costituzionale ha ripristinato la formulazione della disposizione anteriore al d.l. n. 92 del 2008, in tal
modo confinando i poteri del Sindaco, quale Ufficiale di Governo, alla sola adozione degli atti contingibili. Cfr. CUOCCI
MARTORANO, Poteri del Sindaco ex art. 54 c. 4 d.lgs. n. 267 del 2000, in La Rivista Neldiritto, n. 6/11 del 2011, p. 890
e ss.
213
GAROFOLI, manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2008, p. 915.
87
mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane,
strumentali e di controllo.
2. Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi
espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le
funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97
e 108.
3. Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei
programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi tra i quali in
particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente:
a)
la
presidenza
b)
la
responsabilità
c)
la
delle
commissioni
delle
di
procedure
gara
e
di
concorso;
d'appalto
e
di
concorso;
stipulazione
dei
contratti;
d) gli atti di gestione finanziaria, ivi compresa l'assunzione di impegni di spesa;
e)
gli
atti
di
amministrazione
e
gestione
del
personale;
f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto
di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi
comprese
le
autorizzazioni
e
le
concessioni
edilizie;
g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino
di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in
materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggisticoambientale;
h) le attestazioni, certificazioni comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni,
legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di
conoscenza;
88
i) gli atti ad essi attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati
dal sindaco.
4. Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1,
comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative.
5. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni
che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III l'adozione di atti di gestione e
di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa
competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'articolo 50, comma 3, e
dall'articolo 54.
6. I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli
obiettivi dell'ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati
della gestione.
7. Alla valutazione dei dirigenti degli enti locali si applicano i principi contenuti
nell'articolo 5, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, secondo le
modalità previste dall'articolo 147 del presente testo unico”.
Come emerge chiaramente dalla lettura della citata disposizione, ai dirigenti sono
attribuite in via esclusiva le funzioni di gestione amministrativa, salvo le ipotesi
eccezionali di confusione dei ruoli tra politica e amministrazione già evidenziate nel
presente studio214. Il legislatore, peraltro, si è preoccupato di tutelare il principio de
quo da possibili interventi degli statuti degli enti locali, chiarendo che le attribuzioni
dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni legislative. Si è in tal modo voluto evitare che la politica potesse
riprendersi per mezzo degli statuti gli spazi che la disciplina primaria ha ormai
stabilmente conferito in via esclusiva ai dirigenti. Giova, inoltre, segnalare che,
secondo autorevole dottrina215, anche molte delle materie rientranti nella sfera di
Si pensi ai poteri di ordinanza conferiti al sindaco ex art. 50 c. 5 o alle attribuzioni del Consiglio ai sensi dell’art. 42
c. 2 lett. e), h), l).
215
NOBILE, Le competenze dei dirigenti degli enti locali territoriali ed il sindaco ufficiale di Governo nel d.lgs.
18/8/2000 n. 267. Un tentativo di riconduzione ad unità del sistema, in Giust. It., n. 4 del 2001; MARCONI, op. cit., p.
43.
214
89
prerogative del sindaco quale ufficiale di Governo non siano sottratte alla competenza
dei dirigenti, ai quali fa capo l’adozione degli atti e dei provvedimenti necessari per
garantire il soddisfo e la gestione delle funzioni di matrice statale demandate all’ente
locale.
Il testo unico, inoltre, conferma la diretta ed esclusiva responsabilità dei dirigenti per
l’attività di gestione amministrativa, il che, come si vedrà, ha importanti riflessi nella
soluzione dei problemi penalistici, e demanda la relativa valutazione agli organismi
di controllo interno istituiti ai sensi dell’art. 147 del medesimo disposto normativo.
Per quanto concerne, invece, il conferimento degli incarichi dirigenziali, l’art. 109 del
testo unico stabilisce che si tratta di incarichi a tempo determinato e che il relativo
provvedimento deve essere motivato e conforme alle modalità fissate dal
regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi. Dalla disciplina in esame si
evince che le nomine dovrebbero fondarsi su criteri di competenza professionale e
sugli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente
della provincia. Nei comuni privi di personale con qualifica dirigenziale è possibile
l’attribuzione delle relative competenze ai responsabili degli uffici e dei servizi,
indipendentemente dalla loro qualifica funzionale.
Quanto al potere di revoca, il testo unico tenta di disciplinarne l’esercizio,
circoscrivendolo ai casi di inosservanza delle direttive degli organi politici o di
mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione
previsto dall’art. 169 o di responsabilità particolarmente grave e reiterata o, infine,
negli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro. Ciò distingue nettamente il
potere di revoca dei dirigenti e dei responsabili degli uffici e dei servizi da quello
concernente il direttore generale, per il quale l’art. 108 c. si limita a sancirne la
possibilità senza limitarne le modalità di esercizio. La differenza tra le due ipotesi è
forse dovuta al fatto che il legislatore ha inteso configurare il direttore generale come
organo fiduciario del vertice istituzionale, mentre i dirigenti e i responsabili dei
servizi come organi tecnici. Il direttore generale è, infatti, una figura a metà strada tra
la funzione di indirizzo e quella di gestione. La giurisprudenza amministrativa si è
90
interrogata sulla natura di tale organo ed è giunta ad escludere che esso sia da
annoverare tra quelli politici, in primo luogo perché non è indicato espressamente dal
testo unico come tale; in secondo luogo, poiché lo stesso tenore letterale delle
disposizioni ad esso relative si muove nel senso della configurazione come organo
burocratico, posto che sua competenza fondamentale è “attuare gli indirizzi e gli
obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal
sindaco”216. Nello stesso senso le Sezioni Unite217 hanno chiarito che “il direttore
generale, pur essendo investito di compiti e funzioni che valgano a conferirgli una
posizione differenziata rispetto a quella degli altri dirigenti, è esso stesso un
dirigente”. I tratti peculiari della figura in esame che lo rendono divergente rispetto
agli altri burocrati si sintetizzano nella relazione fiduciaria con il vertice politico
dell’ente. Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha precisato che: “cessato dal
suo ufficio il sindaco che ha attribuito l’incarico, la cessazione delle funzioni di
direttore generale opera ipso iure, secondo la testuale previsione dell’art. 108 del
d.lgs. n. 267 del 2000, che dispone che l’incarico di direttore generale non può
eccedere quello del mandato del sindaco, per cui la comunicazione della decadenza
dalla carica di direttore generale ha finalità meramente conoscitiva e
dichiarativa”218. La disciplina concernente il direttore generale diverge anche rispetto
a quella relativa al segretario che, secondo l’art. 100 del testo unico, può essere
revocato solo con provvedimento motivato e per violazione dei doveri d’ufficio: non
è quindi sufficiente la mera rottura del rapporto fiduciario.
Da quanto esposto si trae la conseguenza che, mentre nel caso del direttore generale
la rimozione dall’incarico può essere giustificata anche semplicemente dal venire
meno della fiducia da parte degli organi elettivi, nel caso dei dirigenti la revoca deve
essere motivata da inosservanze degli indirizzi politici espressi o da incapacità
gestionali gravi, ossia da ragioni tecniche e non fiduciarie.
216
Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2002, n. 5216
Ordinanza n. 13538 del 12 giugno 2006
218
Tar Puglia, Bari, sez. I, 30 aprile 2002, n. 2681.
217
91
La ratio della disciplina sembra essere, quindi, quella di trovare un difficile equilibrio
tra l’esigenza che la politica possa reagire ad eventuali ostruzionismi della classe
burocratica e la necessità di garantire l’autonomia degli organi di gestione, la quale
risulta strumentale ad assicurare il rispetto del principio di imparzialità della Pubblica
Amministrazione. La soluzione offerta dal legislatore, tuttavia, si espone a rilievi
critici nella parte in cui pare aver spostato il baricentro del problema eccessivamente
in favore della classe politica, con il rischio di minare seriamente l’imparzialità e
l’indipendenza dei dirigenti. Per quanto, infatti, la revoca dei dirigenti sia soggetta a
vincoli maggiori rispetto a quella del direttore generale, i margini di discrezionalità in
essa insiti appaiono comunque estremamente ampi e tali da porre di fatto i burocrati
in una posizione di soggezione rispetto agli organi rappresentativi, con la
conseguenza di minare in radice l’effettività del principio di separazione tra politica e
amministrazione.
In relazione alla programmazione, il dlgs. n. 267 del 2000 ribadisce che, sulla base
del bilancio di previsione annuale deliberato dal Consiglio, la Giunta definisce il
piano esecutivo di gestione, attraverso la determinazione degli obiettivi di gestione e
l’affidamento degli stessi, insieme alle dotazioni necessarie, ai responsabili dei
servizi (art. 169 tuel); a questi sono quindi affidati dei mezzi finanziari dei quali
assumono la responsabilità gestionale, secondo il disposto dell’art. 165 del testo
unico. E’ inoltre previsto un fondo di riserva che gli enti locali iscrivono nel proprio
bilancio di previsione in misura non inferiore allo 0,3% e non superiore al 2% del
totale delle spese correnti inizialmente previste in bilancio, che può essere utilizzato,
nei casi in cui si verifichino esigenze straordinarie di bilancio, o qualora le dotazioni
finanziarie si rivelino insufficienti, sulla base della deliberazione della Giunta, da
comunicare al Consiglio nei tempi fissati dal regolamento di contabilità (art. 166
tuel)219. Il bilancio annuale di previsione viene predisposto dalla Giunta e deliberato
dal Consiglio; esso può subire variazioni nel corso dell’esercizio solo a seguito di
apposita approvazione, oppure di ratifica ad opera del consiglio, ove le modifiche
219
MARCONI, op. cit., p. 46.
92
siano state adottate in via d’urgenza dalla Giunta nell’esplicazione del potere previsto
dall’art. 42 c. 4 del testo unico. Al riguardo il principio di distinzione delle
competenze subisce una significativa deroga di tipo opposto rispetto a quelle finora
esaminate, caratterizzate da attribuzioni gestionali ad organi politici, giacché i
responsabili dei servizi hanno un potere di incidenza correttiva sulle voci di bilancio
riguardanti lo specifico settore loro assegnato. Infatti, ai sensi dell’art. 177 del tuel,
laddove ritengano necessaria una modifica della dotazione assegnata per esigenze
sopravvenute rispetto all’adozione degli atti di programmazione, possono effettuare
una proposta di modifica della stessa da sottoporre alla Giunta. Ne consegue che il
ceto burocratico non è totalmente estraneo ai processi di programmazione, ma ha un
duplice potere di incidenza, da un lato, mediante l’indicazione, in sede di
predisposizione del bilancio, dei fabbisogni di spesa dell’ente, dall’altro lato,
attraverso la proposta di modifica della dotazione già assegnata.
Occorre, infine, evidenziare che il testo unico ribadisce la necessità del controllo di
gestione, ossia la procedura diretta a verificare lo stato di attuazione dei programmi
fissati dagli organi politici oltre alla efficacia ed efficienza dall’azione
amministrativa. Tale procedimento è finalizzato a permettere ai responsabili dei
servizi gli opportuni interventi correttivi sulla gestione in corso, o utilizzando le
risorse disponibili o effettuando una proposta di modifica ex art. 177 tuel. Come
evidenziato dalla dottrina prevalente220, quindi, tale tipologia di controllo è di
supporto alla funzione dirigenziale, nel senso che è mirato a consentire ai dirigenti di
ottimizzare i rapporti costi/risultati. Diversamente, il controllo strategico supporta
l’attività degli organi di indirizzo politico, verificando il raggiungimento degli
obiettivi programmati. Al vertice istituzionale, pertanto, compete una sorta di verifica
a consuntivo dell’operato degli amministratori, senza possibilità di esercitare poteri di
ingerenza sulla gestione in corso.
220
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, cit., p. 547; CARINGELLA, Manuale di diritto
amministrativo, cit. p. 1239; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 143; GAROFOLI, Manuale di diritto
amministrativo, cit., p. 1079.
93
II.10 La disciplina derogatoria per i comuni minori
Dopo le molte riforme tese ad introdurre e consolidare il principio di separazione tra
politica e amministrazione, il legislatore, con l’art. 53 c. 23 della legge n. 388 del
2000, ha introdotto una disciplina speciale per i comuni con popolazione inferiore ai
tremila abitanti. Più nel dettaglio, nell’ambito di siffatti enti locali, qualora non sia
possibile affidare al segretario le funzioni dirigenziali e sia dimostrata la mancanza
non emendabile di figure professionali idonee a svolgere il predetto incarico tra i
dipendenti, possono essere adottate, anche al fine di operare un contenimento della
spesa pubblica, disposizioni regolamentari organizzative attribuendo ai componenti
della Giunta la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti
anche di natura tecnica gestionale.
In seguito, l’art. 29 c. 4 della legge n. 448 del 2001 (legge finanziaria per l’anno
2002) ha esteso la portata della deroga compiuta con la legge n. 388 del 2000, da un
lato estendendo ai comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti la possibilità di
confusione delle competenze tra i due attori istituzionali, dall’altro lato svincolando
la scelta organizzativa in esame sia dalla previa verifica di insussistenza tra i
dipendenti di figure professionali idonee ad assumere la responsabilità degli uffici e
dei servizi, sia dalla dimostrazione dell’irrimediabilità di tale carenza soggettiva
nell’ambito dell’ente locale. Ne consegue che la sola motivazione sufficiente a
giustificare la deroga al principio di distinzione delle competenze tra organi elettivi e
burocrati è quella di assicurare il contenimento della spesa pubblica221. Come ha
notato una parte della dottrina222, la legge finanziaria per il 2002 ha trasformato la
deroga al principio di separazione dei poteri da istituto eccezionale, applicabile solo
in caso di carenze nell’organico, in un sistema regolare di organizzazione degli enti di
piccole dimensioni. Da quanto esposto si evince che nei comuni con popolazione fino
221
MARCONI, op. cit., p. 49.
OLIVIERI, Si approfondiscono le differenze del regime delle competenze tra enti locali di grandi e piccole
dimensioni, in Giust. It., n. 12 del 2001.
222
94
a 5000 abitanti sono configurabili due modelli alternativi, la cui scelta dipende
sostanzialmente da ragioni finanziarie: o il sistema generale di separazione tra
politica e amministrazione disciplinato dal teso unico degli enti locali, o il modello
derogatorio di commistione delle competenze di cui all’art. 29 c. 4 della legge n. 448
del 2001. Come si vedrà in seguito, tale disciplina derogatoria ha importanti riflessi
sul versante penalistico, in specie con riferimento all’individuazione delle posizioni
di garanzia, mentre sul crinale più propriamente amministrativistico è una ulteriore
conferma che il principio di separazione tra politica ed amministrazione, che si
configura in modo assai netto nelle amministrazioni centrali, tende a sfumare negli
enti locali, in specie in quelli di minori dimensioni, quasi che il legislatore avesse
avvertito che quanto più il soggetto pubblico è vicino alla popolazione e quanto più
presenta strutture burocratiche semplici, tanto meno è realizzabile la distinzione delle
funzioni tra i due principali attori istituzionali.
II.11 Il d.lgs. n. 165 del 2001 e le modifiche ad opera della legge n. 145 del 2002
Il d.lgs. 165 del 2001 ha provveduto a riordinare la disciplina sul pubblico impiego
contenuta nei d.lgs n. 29 del 1993, 470 del 1993, 80 del 1998 e 387 del 1998,
realizzando una sorta di statuto generale sul rapporto di lavoro alle dipendenze della
Pubblica Amministrazione, applicabile sia allo Stato, sia alle Regioni, sia agli Enti
Locali. Il citato decreto conferma e consolida il principio di separazione tra politica e
gestione, ribadendo che agli organi di governo compete la definizione dell’indirizzo
politico-amministrativo e la determinazione dei programmi da attuare, mentre ai
dirigenti spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi
quindi quelli capaci di impegnare l’amministrazione verso l’esterno, oltre che la
gestione amministrativa, di cui assumono in via esclusiva la responsabilità, con le
95
evidenti ricadute, delle quali si darà conto nel prosieguo, in tema di individuazione
delle posizioni di garanzia223. Ai fini della definizione delle funzioni dei dirigenti
occorre in via preliminare dare atto che il legislatore, a livello di amministrazioni
centrali, ha distinto tra dirigenti di uffici dirigenziali generali e altri dirigenti. Al
riguardo, e per mere esigenze di completezza, giova segnalare che il d.lgs. n. 29 del
1993 aveva escluso la prima categoria dalla privatizzazione del rapporto di impiego;
solo con il d.lgs. n. 80 del 1998, confermato sul punto dal d.lgs. n. 165 del 2001, è
stata estesa la disciplina privatistica anche ai rapporti di lavoro concernenti i dirigenti
degli uffici dirigenziali generali, in tal modo realizzandosi al riguardo una
parificazione tra le due figure224. Quanto alle loro attribuzioni, l’art. 16 del d.lgs. n.
165 del 2001 afferma: “1. I dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque
denominati, nell'ambito di quanto stabilito dall'articolo 4 esercitano, fra gli altri, i
seguenti
compiti
e
poteri:
a) formulano proposte ed esprimono pareri al Ministro, nelle materie di sua
competenza;
b) curano l'attuazione dei piani, programmi e direttive generali definite dal Ministro
e attribuiscono ai dirigenti gli incarichi e la responsabilità di specifici progetti e
gestioni; definiscono gli obiettivi che i dirigenti devono perseguire e attribuiscono le
conseguenti
risorse
umane,
finanziarie
e
materiali;
c) adottano gli atti relativi all'organizzazione degli uffici di livello dirigenziale non
generale;
d) adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri di spesa e
quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei propri uffici, salvo
quelli
delegati
ai
dirigenti;
e) dirigono, coordinano e controllano l'attività dei dirigenti e dei responsabili dei
procedimenti amministrativi, anche con potere sostitutivo in caso di inerzia, e
propongono l'adozione, nei confronti dei dirigenti, delle misure previste dall'articolo
21;
223
224
MARCONI, op. cit., p. 51.
CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 607.
96
f) promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare e di transigere,
fermo restando quanto disposto dall'articolo 12, comma 1, della legge 3 aprile 1979,
n.103;
g) richiedono direttamente pareri agli organi consultivi dell'amministrazione e
rispondono ai rilievi degli organi di controllo sugli atti di competenza;
h) svolgono le attività di organizzazione e gestione del personale e di gestione dei
rapporti sindacali e
di
lavoro;
i) decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti amministrativi non
definitivi
dei
dirigenti;
l) curano i rapporti con gli uffici dell'Unione europea e degli organismi
internazionali nelle materie di competenza secondo le specifiche direttive dell'organo
di direzione politica, sempreché tali rapporti non siano espressamente affidati ad
apposito ufficio o organo.
2. I dirigenti di uffici dirigenziali generali riferiscono al Ministro sull'attività da
essi svolta correntemente e in tutti i casi in cui il Ministro lo richieda o lo ritenga
opportuno.
3. L'esercizio dei compiti e dei poteri di cui al comma 1 può essere conferito anche
a dirigenti preposti a strutture organizzative comuni a più amministrazioni
pubbliche, ovvero alla attuazione di particolari programmi, progetti e gestioni.
4. Gli atti e i provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al vertice
dell'amministrazione e dai dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui al presente
articolo non sono suscettibili di ricorso gerarchico.
5. Gli ordinamenti delle amministrazioni pubbliche al cui vertice e' preposto un
segretario generale, capo dipartimento o altro dirigente comunque denominato, con
funzione di coordinamento di uffici dirigenziali di livello generale, ne definiscono i
compiti ed i poteri”.
Al contrario, le funzioni proprie degli altri dirigenti sono indicate dall’art. 17 del
medesimo decreto: “1. I dirigenti, nell'ambito di quanto stabilito dall'articolo 4,
esercitano,
fra
gli
altri,
i
seguenti
compiti
e
poteri:
97
a) formulano proposte ed esprimono pareri ai dirigenti degli uffici dirigenziali
generali;
b) curano l'attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti
degli uffici dirigenziali generali, adottando i relativi atti e provvedimenti
amministrativi ed esercitando i poteri di spesa e di acquisizione delle entrate;
c) svolgono tutti gli altri compiti ad essi delegati dai dirigenti degli uffici dirigenziali
generali;
d) dirigono, coordinano e controllano l'attività degli uffici che da essi dipendono e
dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostitutivi in caso
di
inerzia;
e) provvedono alla gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali
assegnate ai propri uffici”.
Come emerge chiaramente dalla lettura dei citati disposti normativi, le due
categorie di dirigenti, pur nella diversità delle loro competenze, si inquadrano
entrambe nell’ambito delle funzioni di tipo gestionale, distinte da quelle di indirizzo
politico-amministrativo di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Malgrado le attribuzioni della dirigenza siano fissate ex lege, il relativo rapporto di
impiego è regolato dal diritto privato; ne consegue che l’oggetto, gli obiettivi, la
durata ed il trattamento economico relativo all’incarico dirigenziale sono disciplinati
dal contratto individuale che viene concluso con la P.A., il quale soggiace, a sua
volta, alle pattuizioni del pertinente accordo collettivo225.
In materia è poi intervenuta la legge n. 145 del 2002, che ha abolito il principio di
rotazione degli incarichi dirigenziali226 ed ha attribuito maggiore libertà agli organi di
governo nelle nomine dei dirigenti, attraverso una formulazione più sintetica e
generica dell’art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001227. La stessa legge n. 145 del 2002 ha poi
qualificato come “provvedimenti” gli atti di conferimento dell’incarico dirigenziale.
Essi sono emanati non a seguito di una valutazione comparativa degli aspiranti, ma
225
MARCONI, op.cit., p. 52.
Fino alla legge in esame, infatti, era obbligatorio seguire il criterio di rotazione degli incarichi dirigenziali, tenendo
anche conto dei risultati ottenuti in precedenza.
227
MARCONI, op.cit., p. 53.
226
98
all’esito di una valutazione globale della preparazione professionale e delle capacità
gestionali del nominato. La stessa legge, inoltre, ha specificato che a tali atti, cui
accede un contratto individuale al quale spetta la definizione del solo trattamento
economico (e non anche, a differenza di quanto statuito in passato, dell’oggetto, degli
obiettivi da conseguire e della durata dell’incarico), è affidata la funzione di delineare
il contenuto dei compiti attribuiti ai dirigenti, nonché la durata dell’incarico. La
riforma, infine, ha confermato che le controversie concernenti i provvedimenti di
conferimento degli incarichi dirigenziali restano devolute al giudice ordinario. La
citata disciplina ha quindi sollevato un importante dibattito dottrinale e
giurisprudenziale concernente la natura dei provvedimenti di conferimento degli
incarichi dirigenziali e la conseguente qualificazione della giurisdizione del giudice
ordinario come esclusiva o meno. Secondo una tesi minoritaria 228, si tratterebbe di
veri e propri provvedimenti amministrativi, con la conseguenza che la giurisdizione
del giudice ordinario per essi prevista dovrebbe reputarsi come esclusiva. Tuttavia,
l’orientamento prevalente229 opta per la natura privatistica degli atti in esame giacché
la lettera del nuovo art. 19 li qualifica come “provvedimenti” e non come
“provvedimenti amministrativi”, espressione che costantemente caratterizza gli atti di
esercizio del potere pubblico; in secondo luogo, si è evidenziato che gli atti de
quibus, attenendo a profili organizzativi e gestionali di rapporti di lavoro già
costituiti, non possono essere inclusi tra i provvedimenti amministrativi di cui all’art.
2 c. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, per i quali solo residua il regime pubblicistico 230.
Con la conseguenza che, trattandosi di atti privatistici assunti con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro, la giurisdizione del giudice ordinario è non già
esclusiva, ma una generale giurisdizione individuata in base al criterio della causa
petendi. Aderendo a tale interpretazione, si deve pertanto convenire che la
specificazione del contenuto dei compiti attribuiti ai dirigenti avviene ad opera di atti
228
Cons. Stato, sez. V, n. 1519 del 2001 e Cass., sez. unite, n. 10419 del 2006, citate in CARINGELLA, Manuale di diritto
amministrativo, cit., p. 633.
229
Tra le molte si segnalano: Cass., sez. unite, n. 13583 del 2006 e Cass., sez. unite, 25521 del 2006, citate in
CARINGELLA, Lezioni di diritto amministrativo, Roma, 2008, p. 243
230
CARINGELLA, Manuale, cit., p. 634.
99
di diritto privato, sulla base delle indicazioni astratte fornite dal legislatore negli artt.
16 e 17 del d.lgs. 165 del 2001.
Con riguardo al potere di revoca degli incarichi dirigenziali, che, come si vedrà,
assume un ruolo centrale nel presente studio, la legge n. 145 del 2002 ha chiarito che
il mancato raggiungimento degli obiettivi o l’inosservanza delle direttive imputabili
al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 286 del
1999, comportano, ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la
disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dell’incarico.
Nei casi più gravi, inoltre, l’amministrazione può revocare l’incarico collocando il
dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001, ovvero
recedere dal rapporto di lavoro (art. 21 d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato
dall’art. 3 c. 2 della legge n. 145 del 2002). Ne consegue che il controllo esercitato
dagli organi politici si manifesta sotto forma di verifica a consuntivo e non è in grado
di incidere in fieri sullo svolgimento della gestione amministrativa, con gli inevitabili
precipitati in punto di individuazione delle posizioni di garanzia, di cui si darà conto
nel prosieguo.
La riforma in esame, pur riguardando direttamente le amministrazioni dello Stato, si
applica in realtà anche agli enti locali giacché, ex artt. 88 e 111 del d.lgs. 267 del
2000, i principi dettati dal d.lgs. n. 165 del 2001 si estendono, in quanto compatibili,
agli ordinamenti di comuni e province.
II.12 L’illegittimità costituzionale dello spoil system una tantum
In relazione ai rapporti tra politica e amministrazione nel vigente ordinamento, degna
di attenzione, anche ai fini della presente ricerca, è la recente declaratoria di
incostituzionalità del c.d. spoil system una tantum.
100
Come noto, l’art. 3 c. 1 lett. b) e c. 7 della legge n. 145 del 2002 aveva introdotto una
particolare ipotesi di cessazione automatica degli incarichi dirigenziali di livello
generale al sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della stessa disciplina. Con
sentenza n. 103 del 23 marzo 2007, la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità della norma per violazione degli artt. 97 e 98 Cost. - ossia delle basi
positive del secondo modello di amministrazione emergente dalla Carta
Costituzionale231 - sull’assunto che lo spoil system una tantum, determinando
un’interruzione automatica del rapporto di ufficio prima dello spirare del termine
stabilito, violasse, in carenza di garanzie procedimentali, il principio di continuità e di
buon andamento dell’azione amministrativa232. La Consulta, infatti, ha evidenziato
che le recenti riforme dell’apparato pubblico hanno instaurato un sistema in cui il
dirigente è tenuto a perseguire dei risultati, stabiliti sulla base degli indirizzi espressi
dal vertice politico, in un congruo periodo di tempo a disposizione. Ne consegue che
la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impediva che
l’attività del dirigente potesse svolgersi in conformità al modello di azione
amministrativa dinanzi indicato. E’ quindi necessario - a parere della Consulta - che
l’ordinamento garantisca un confronto dialettico tra dirigente e organo politico, nel
caso in cui il secondo manifesti la volontà di non consentire la prosecuzione del
rapporto sino alla scadenza contrattualmente prevista e che vengano esternate le
ragioni in base alle quali i soggetti elettivi ritengano, alla luce degli obiettivi da
realizzare, di revocare l’incarico dirigenziale in precedenza affidato. Con la
conseguenza che l’art. 3 della legge n. 145 del 2002, nel prevedere lo spoil system
una tantum, ledeva il diritto di difesa dell’interessato e contraddiceva il modello di
distinzione tra politica e amministrazione, che tende comunque a salvaguardare, nella
figura dei dirigenti, la continuità dell’azione amministrativa alla quale è anche
231
Retro pr. II.1.
GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, p. 367; MASSERA, Il difficile rapporto tra politica e
amministrazione: la Corte Costituzionale alla ricerca di un punto di equilibrio, in giornale di diritto amministrativo,
2007, p. 1307 e ss. ; ROSANO, La Consulta delimita il confine di costituzionalità dello spoil system, in Giur. Cost., 2007,
p. 2302 e ss.; RUSCIANO, Dirigenze pubbliche e spoil system, in astridonline.it; SCOCA, Politica e amministrazione nelle
sentenze sullo spoil system, in Giur. Cost., 2007, p. 1015 e ss.
232
101
correlato il principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione 233. Solo
per i dirigenti apicali (segretario generale, capo di dipartimento) - prosegue la Corte il rapporto fiduciario stretto che li lega agli organi politici potrebbe giustificare un
sistema di spoil system una tantum, giacché in tal caso le esigenze della politica
potrebbero prevalere sul principio di continuità dell’azione amministrativa. La
dirigenza generale, invece, deve essere sottratta a forme di spoil system non collegate
a un qualche meccanismo di accertamento in concreto e in contraddittorio della
responsabilità dirigenziale. Da sottolineare, inoltre, è la necessità che, all’esito di una
siffatta valutazione, la P.A. adotti un atto motivato e ciò a prescindere dalla natura di
diritto pubblico o di diritto privato del provvedimento che fa valere la responsabilità
dirigenziale. La Corte, infatti, in un’ottica sostanzialistica, sorvola su tutte le
discussioni, cui in precedenza si è fatto cenno, circa la natura pubblica o privata del
rapporto giuridico tra dirigenti e amministrazioni di appartenenza, per sottolineare
l’importanza della motivazione dell’atto di revoca ai fini della trasparenza e della
verificabilità della decisione del vertice politico234.
In definitiva, la Corte costituzionale riscatta la dirigenza pubblica da un ruolo troppo
subalterno rispetto alla politica, senza per questo ripristinare il vecchio modello dei
direttori generali inamovibili, in grado di ostacolare l’attività dei ministri di turno (in
passato soggetti a un rapido ricambio dovuto alle crisi politiche frequenti). Anche a
seguito della pronuncia della Consulta, pertanto, la primazia della politica non è
messa in discussione; Ciò che si vuole evitare è soltanto che all’interno di una
Costituzione democratica, in base alla quale al potere si alternano i partiti politici,
l’amministrazione si trasformi in “un’amministrazione di partiti”235.
La stessa Corte Costituzionale, inoltre, con sentenza n. 161 del 2008, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 c. 161 del d.l. n. 262 del 2006, in base al quale
gli incarichi di funzioni dirigenziali, conferiti a personale non appartenente ai ruoli di
cui all’art. 23, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata
233
GAROFOLI, op. cit., p. 367.
CLARICH, Una rivincita della dirigenza pubblica nei confronti dello strapotere della politica a garanzia
dell’imparzialità della pubblica amministrazione, in www.neldiritto.it.
235
CLARICH, op. loc. ult. cit.
234
102
in vigore dello stesso decreto, contemplando in tal modo un meccanismo di spoil
system automatico e una tantum. Anche tale disposizione, infatti, in assenza di idonee
garanzie procedimentali, violava i principi costituzionali di buon andamento e
imparzialità e, in particolare, il principio di continuità dell’azione amministrativa, che
è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’agire pubblico. Anche per i
dirigenti esterni, infatti, il rapporto di servizio instaurato con l’Amministrazione deve
essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che lo stesso sia
regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione
amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico e
quelli di gestione amministrativa236. La natura esterna dell’incarico, infatti, non
costituisce un elemento in grado di trasformare in senso fiduciario il rapporto di
lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una
netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico e funzioni propriamente
gestorie. L’orientamento del Giudice delle leggi è stato poi recepito in occasione
della riforma della dirigenza operata dal d.lgs. n. 150 del 2009 (cosiddetta riforma
Brunetta), che ha circoscritto ai soli incarichi dirigenziali apicali l’ipotesi della
cessazione conseguente al decorso di novanta giorni dal voto di fiducia al Governo237.
Ciò che emerge dall’analisi delle citate pronunce della Consulta e dalla recente
riforma Brunetta non è solo la risoluzione dello specifico tema in oggetto, ossia
l’inammissibilità dello spoil system una tantum, ma anche un quadro più chiaro dei
rapporti tra politica e amministrazione, capace di condizionare le soluzioni
interpretative più disparate e connesse all’argomento. Le indicazioni che provengono
dalla Corte Costituzionale e dal Legislatore, infatti, sembrano essere di respiro più
ampio, teso a rafforzare l’autonomia dei dirigenti e l’imparzialità dell’azione
amministrativa. Il messaggio evincibile, in particolare dalle motivazioni del Giudice
delle leggi, è quello di procedimentalizzare e rendere verificabile l’esercizio del
potere di revoca degli incarichi dirigenziali, onde evitare che si instauri nei fatti una
relazione fiduciaria tra burocrati e politici, salvo quanto si è detto con riferimento ai
236
237
GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 368.
GAROFOLI, op. cit., p. 369.
103
dirigenti apicali. Del resto, ciò costituisce un passaggio imprescindibile per assicurare
che la gestione amministrativa non venga condizionata dalle pressioni di parte
provenienti dalla politica e per garantire che la stessa assicuri in modo imparziale il
soddisfacimento dei fini individuati dagli organi di governo, cui di regola dovrebbe
essere inibito ingerirsi nell’attività di concreta attuazione dei medesimi.
II.13 La riforma Brunetta: d.lgs. n. 150 del 2009
Il d.lgs. n. 150 del 2009 (meglio noto come riforma Brunetta, dal nome del Ministro
proponente) ha apportato importanti modifiche alla disciplina sul rapporto di lavoro
privatizzato238 alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. Tale intervento
normativo si prefigge una serie di obiettivi ambiziosi e interessanti ai fini del presente
studio, quali il miglioramento dell’organizzazione del lavoro, la realizzazione di
elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, l’incentivazione
della qualità della prestazione lavorativa, la selettività e la concorsualità nelle
progressioni di carriera, il riconoscimento di meriti e demeriti, la selettività e la
valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali, il
rafforzamento dell’autonomia dei poteri e della responsabilità della dirigenza,
l’incremento dell’efficienza del lavoro pubblico ed il contrasto alla scarsa produttività
e all’assenteismo, nonché la trasparenza dell’operato delle amministrazioni
pubbliche, anche a garanzia della legalità239 (art. 1 d.gls. n. 150 del 2009).
E’ noto, infatti, che, a partire dal d.lgs. n. 29 del 1993, i rapporti di lavoro alle dipendenze della Pubblica
Amministrazione si distinguono in due grandi categorie: in primo luogo, quelli (e sono la regola) per i quali è avvenuta
la contrattualizzazione, i quali, salvo che per la fase anteriore di svolgimento del concorso pubblico, sono regolati dalla
disciplina privatistica; in secondo luogo, i rapporti di lavoro che eccezionalmente sono rimasti soggetti al vecchio
regime pubblicistico, come nel caso dei Magistrati ordinari e amministrativi, degli Avvocati e Procuratori dello Stato,
dei funzionari della carriere prefettizia e della Polizia dello Stato etc…
239
DEODATO- FRETTONI, La riforma Brunetta. Le nuove regole del lavoro pubblico, Roma, 2009; GAROFOLI, Manuale
di diritto amministrativo, cit., p. 325.
238
104
Tra gli aspetti principali della riforma si segnala, in primo luogo, il mutamento del
rapporto tra legge e contrattazione collettiva. Più nel dettaglio, l’art. 33 c. 1 lett. a) del
d.lgs. n. 150 del 2009 ha chiarito la natura imperativa delle norme contenute nel d.lgs.
n. 165 del 2001, con la conseguenza che la contrattazione collettiva non può derogare
alle disposizioni di legge, a meno che non sia lo stesso legislatore a permetterlo 240, al
fine di evitare che le scelte effettuate dal legislatore possano essere vanificate da
interventi contrattuali successivi. In questo senso, e per quello che più interessa ai fini
del presente studio, l’innovazione in esame contribuisce a rafforzare la portata del
principio normativo di separazione delle competenze di indirizzo politico da quelle di
gestione amministrativa, ponendolo al riparo dalle possibili deroghe ad opera della
contrattazione collettiva o individuale. Tra gli obiettivi della riforma, peraltro,
occorre segnalare che l’art. 37 del medesimo decreto si sofferma sull’esigenza di
rafforzare il principio di distinzione tra i compiti di indirizzo e controllo (spettanti
agli organi di governo) e le funzioni di gestione amministrativa (attribuite alla
dirigenza), nel rispetto della giurisprudenza costituzionale in materia, regolando il
rapporto tra organi di vertice e dirigenti titolari di incarichi apicali in modo da
garantire la piena e coerente attuazione dell’indirizzo politico in ambito
amministrativo. E’ evidente pertanto il chiaro adeguamento del legislatore alle recenti
pronunce della Consulta n.103 del 2007 e 161 del 2008, di cui in precedenza si è dato
atto.
Altro aspetto assai rilevante del d.lgs. n. 150 del 2009 è l’introduzione di un nuovo
sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti, così da assicurare elevati
standard qualitativi ed economici del servizio, tramite la valorizzazione dei risultati e
della performance organizzativa ed individuale. In particolare, è prevista
l’attribuzione selettiva degli incentivi economici e di carriera, in modo da premiare i
capaci e i meritevoli e da affermare la cultura della valutazione, che può definirsi,
secondo le indicazioni delle scienze aziendali ed amministrative, come l’attitudine a
predisporre in modo organico e sistematico procedure idonee ad individuare
240
AA. VV., Elementi di diritto del lavoro, Napoli, 2011, p. 168.
105
periodicamente, secondo criteri omogenei, il rendimento e le caratteristiche
professionali dei dipendenti241. Come evidenziato da attenta dottrina242, “meritocrazia
e premialità presuppongono, dunque, un giudizio e questo, a sua volta, la
giudicabilità del lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni”. Ne consegue il tentativo di
rendere misurabili, valutabili e trasparenti le attività delle amministrazioni pubbliche
e dei loro dipendenti e di “passare dalla logica dei mezzi a quella dei risultati” 243. In
questa prospettiva il decreto Brunetta definisce una serie di strumenti premiali, quali
il bonus annuale delle eccellenze, il premio annuale per l’innovazione, le progressioni
economiche e di carriera, l’attribuzione di incarichi e di responsabilità ed infine
l’accesso a percorsi di alta formazione e di crescita professionale, in ambito nazionale
ed internazionale. Inoltre, non va trascurato che lo sforzo del legislatore di rendere
oggettivo il giudizio sul rendimento dei dipendenti pubblici appare utile anche
nell’ottica della valorizzazione del principio di separazione tra politica e
amministrazione, posto che rende più vincolato e meno esposto a soggettivismi il
sistema delle nomine e delle revoche concernenti gli incarichi dirigenziali. In tal
senso la riforma Brunetta contribuisce, quindi, ad attenuare quello che si è visto
essere uno dei punti di maggiore ambiguità dell’attuale assetto dei rapporti tra organi
di governo e dirigenza pubblica, ossia la spettanza alla classe politica del potere di
nomina e di revoca dei dirigenti.
II.14 Le deroghe al principio di separazione tra politica e amministrazione
nell’ambito delle leggi regionali in materia di banche di credito cooperativo.
In materia di Banche di credito cooperativo, la legislazione regionale prevede spesso
delle deroghe al principio di separazione delle competenze tra organi d’indirizzo
241
GAROFOLI, op. cit., p. 326.
GAROFOLI, op. loc. ult. cit.
243
DEODATO-FRETTONI, op. cit., cap. II.
242
106
politico e organi di gestione amministrativa. Tale disciplina pone, inoltre, notevoli
problemi di coordinamento con le funzioni attribuite alla Banca d’Italia, Autorità
Indipendente dal Governo e preposta alla vigilanza nel settore creditizio. E’ quindi
opportuno chiarire sinteticamente gli aspetti principali della questione.
Al riguardo giova richiamare, come esempio, l’art. 13 della legge regionale Valle
d’Aosta n. 21 del 13 maggio 1980, istitutiva della ex Cassa rurale e artigiana di
Gressan (ora B.C.C. Valdostana). La disposizione prevede un procedimento di
competenza della Regione in tema di autorizzazione alle modifiche statutarie da parte
della banca di credito cooperativo, che si configura come del tutto separato rispetto a
quello di competenza della Banca centrale nazionale; peraltro, non specificando la
medesima legge i criteri in base ai quali l’autorizzazione di competenza regionale
viene concessa, l’esame dello statuto da parte della Regione potrebbe condurre a esiti
non coincidenti con quelli assunti dall’Autorità di vigilanza.
Orbene, l’analisi dei segnalati profili impone di prendere le mosse dal principio
dell’unicità del potere di direzione e di controllo del credito, cui si ispira il vigente
ordinamento e al quale, in varie occasioni, ha fatto riferimento la Corte
Costituzionale244. Come noto, tale principio impone che la vigilanza sull’attività
bancaria e creditizia debba ritenersi di esclusiva competenza dello Stato e,
segnatamente, della Banca d’Italia, in attuazione del disposto dell’art. 47 Cost.245 Ciò,
nell’attuale assetto normativo e creditizio, ridimensiona nettamente i poteri delle
Regioni e delle Province autonome, ancorché esse dispongano nella specifica
materia, per espressa previsione statutaria, di particolari competenze. Va ricordato,
infatti, che alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome spettano, in
materia di credito, poteri legislativi e amministrativi di varia ampiezza, con
esclusione, peraltro, di potestà normative di tipo esclusivo. In particolare, lo Statuto
speciale della Regione Valle d’Aosta246 prevede, all’art. 3, il potere della Regione di
244
Corte Cost., 24 novembre 1958, n. 58, in Giur. Cost., 1958, I, p. 875; 22 ottobre 1982, n. 162, in Foro It., 1983, I, p.
595; 29 aprile 1983, n. 118, in Giur. Cost., 1983, I, p. 525.
245
Nel senso che le funzioni della Banca d’Italia, pur nelle garanzie d’indipendenza dal Governo che la caratterizzano,
siano coessenziali a quelle dello Stato-amministrazione, di talché si verifica più l’apparenza che la sostanza di una
separazione tra la prima ed il secondo: Tar Piemonte, Torino, sez. I, sent. 23 gennaio 2007, n. 93.
246
Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4.
107
“emanare norme legislative di integrazione e di attuazione delle leggi della
Repubblica” in materia, tra l’altro, di “istituzione di enti di credito a carattere locale”;
questo potere è conferito alla Regione per adattare le leggi statali alle condizioni
regionali e deve essere esercitato “entro i limiti indicati dall’art. 2” dello Statuto
speciale. Più nel dettaglio, questi consistono nell’”armonia con la Costituzione e i
principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica” e nel “rispetto degli obblighi
internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle
riforme economico sociali della Repubblica”. La disposizione statutaria ha trovato
riscontro nell’art. 13 della legge regionale della Valle d’Aosta n. 21 del 1980, che
prevede il potere della Giunta regionale di autorizzazione delle modifiche dell’atto
costitutivo e dello statuto della attuale B.C.C. Valdostana.
Peraltro, il quadro descritto è cambiato con la riforma costituzionale del 2001: essa,
infatti, ha assegnato a tutte le Regioni una potestà legislativa concorrente con quella
dello Stato - dunque più ampia di quella integrativo-attuativa già spettante alla Valle
d’Aosta in forza del suo Statuto speciale - in materia di banche regionali247 (art. 117,
c. 3 Cost.), con la conseguenza che, in forza dell’art. 10 legge cost. n. 3 del 2001,
anche la Valle d’Aosta beneficia di tale potestà. Infatti, la citata norma dispone che
“sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge
costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province
autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più
ampie rispetto a quelle già attribuite” (c.d. clausola di maggior favore). A ciò si
aggiunga che, quanto al riparto delle competenze amministrative, la nuova
formulazione dell’art. 118 Cost., a seguito della riforma del 2001, attribuisce le
relative funzioni ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano
conferite a Province, città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Ne consegue, quindi, che la menzionata
clausola dell’art. 10 legge cost. n. 3 del 2001 dovrebbe esercitare forza attrattiva delle
247
La disposizione costituzionale, essendo mutuata dagli statuti speciali delle Regioni autonome, utilizza una
terminologia ormai obsoleta (cfr. la “Testimonianza” del Governatore della Banca d’Italia innanzi alla 1 Commissione
permanente del Senato, 12 dicembre 2001, nel Bollettino economico della Banca, n. 38 del marzo 2002, 8-9), cui va
comunque, per quanto possibile, dato un contenuto.
108
Regioni speciali nel regime ordinario di tutte le altre Regioni, anche con riguardo al
riparto di competenze amministrative.
Tanto premesso, tuttavia, occorre dare atto che l’attuale ordinamento bancario,
soprattutto in conseguenza dell’adeguamento della disciplina di settore ai principi
comunitari espressi nelle direttive CE/77/780 (c.d. prima direttiva bancaria) e
CE/89/646 (c.d. seconda direttiva bancaria), risulta profondamente diverso da quello
esistente sotto il vigore della c.d. legge bancaria (r.d.l. n. 375/1936), sulla cui base
sono state promulgati lo Statuto speciale della Valle d’Aosta e la legge regionale n.
21 del 1980. Pertanto, attualmente è dato riscontrare un assetto normativo regionale
in gran parte obsoleto in quanto perlopiù inattuabile e parzialmente inapplicabile,
ancorché formalmente vigente, attesa l’intangibilità delle norme statutarie delle
Regioni autonome (e delle norme ad esse di attuazione) da parte della legislazione
statale248. Con ciò non si vuol dire che alle Regioni non possa essere riconosciuto
alcun potere nella speciale materia del credito e del risparmio, ma, più
semplicemente, che gli interventi ad esse consentiti dalla normativa regionale, ferma
restando l’esigenza di uniformità a livello nazionale del potere di indirizzo, in tanto
sono ammissibili in quanto siano conformi al nuovo assetto ordinamentale venutosi a
creare in ragione dell’adeguamento della legislazione nazionale ai principi comunitari
e ai presidi di ordine costituzionale vigenti249. E’ noto, infatti, che le norme e i
principi comunitari (analogamente alle norme attuative di essi) prevalgono sulle
contrarie disposizioni nazionali, ancorché di rango costituzionale, salvi i limiti
derivanti dal rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dai principi supremi
dell’ordinamento250.
Ciò posto, occorre stabilire l’esatta portata dei poteri regionali in materia di credito e
risparmio. Al riguardo giova segnalare che le principali e più importanti attribuzioni
delle Regioni si concretano nella potestà di autorizzare l’esercizio del credito e di
248
GESMUNDO, Regioni a statuto speciale, in La nuova legge bancaria, a cura di Ferro Luzzi- Castaldi, Milano, III, p.
2268 e ss.; CONDEMI, art. 159 T.U.B., in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a
cura di CAPRIGLIONE, Tomo II, Padova, 2001, p. 1232.
249
CONDEMI, op. loc. ult. cit.
250
Corte Cost., 8 giugno 1984, n. 170, in Foro it., 1974, I, p. 2062.
109
provvedere circa l’ordinamento delle banche operanti nel territorio regionale. Il
termine “ordinamento” è stato interpretato dalla Corte Costituzionale in modo assai
restrittivo, limitato cioè al solo momento organizzativo delle banche e non alla
disciplina della loro attività251. Pertanto, le valutazioni degli organi regionali in
materia, tese alla cura di profili di particolare interesse regionale, non possono
interferire con lo svolgimento dell’attività degli organismi interessati252. Da qui la
sottrazione agli organi regionali della competenza ad adottare i provvedimenti
concernenti l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa
degli enti di credito, i quali vengono emanati dai competenti organi dello Stato253.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si comprende che il primo comma
dell’art. 159 T.u.b., in base al quale le valutazioni di vigilanza sono riservate alla
Banca d’Italia, ha semplicemente recepito il principio, già elaborato dalla
giurisprudenza costituzionale, secondo cui in materia creditizia la vigilanza è
riservata agli organi centrali e, segnatamente, alla Banca d’Italia, in modo da
assicurare la necessaria uniformità dell’azione di controllo e di vigilanza sull’intero
territorio nazionale. Tale conclusione è confermata dai successivi commi 2 e 3 del
medesimo art. 159, i quali, tenendo conto del mutato quadro ordinamentale imposto
dalle direttive comunitarie, mirano a rendere effettivo il principio, sopra richiamato,
dell’uniformità del’azione di controllo e di vigilanza sul piano nazionale 254. D’altra
parte, in un’ottica più propriamente europeista, è importante che le valutazioni di
vigilanza competano alla Banca d’Italia, la quale è il soggetto che pare possa meglio
realizzare un’uniforme e adeguata attuazione delle indicazioni provenienti dall’Eba
(European Banking Authority)255 circa la vigilanza sul sistema bancario.
251
Corte Cost., 24 novembre 1958, n. 58, cit.
CONDEMI, op. cit., p. 1237; COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, p. 176.
253
Corte Cost., 9 luglio 1956, n. 16.
254
CONDEMI, op. cit., p. 1238.
255
L’Eba (European Banking Authority) è un organismo dell'Unione europea, istituito con Regolamento UE n.
1093/2010, che dal 1 gennaio 2011 ha il compito di sorvegliare il mercato bancario europeo. Ad essa partecipano tutte
le autorità di vigilanza bancaria dell'Unione europea. L'Autorità sostituisce il Committee of European Banking
Supervisors (CEBS) e ha sede a Londra. L'obiettivo dell'Autorità è proteggere l'interesse pubblico contribuendo alla
stabilità e all'efficacia a breve, medio e lungo termine del sistema finanziario, a beneficio dell'economia dell'Unione, dei
suoi cittadini e delle sue imprese. L'Autorità opera nel settore di attività delle banche, dei conglomerati finanziari, delle
imprese di investimento, degli istituti di pagamento e degli istituti di moneta elettronica. L'Autorità contribuisce a: 1)
migliorare il funzionamento del mercato interno in particolare attraverso una regolamentazione efficace e uniforme; 2)
252
110
In questa prospettiva, l’art. 159 del T.u.b., nella consapevolezza che i provvedimenti
in tema di ordinamento delle banche regionali possano avere forti ripercussioni sulla
gestione dell’impresa, impone il parere vincolante della Banca d’Italia come
condizione per le eventuali decisioni che in proposito fossero affidate al potere
regionale256. Per questi motivi si è notato in dottrina che la necessità di un parere
vincolante per il provvedimento di cui all’art. 56 T.u.b., relativo alla materia delle
modifiche statutarie, dal momento che tale intervento attiene alla struttura degli
organismi piuttosto che alle peculiari attività di essi, unitamente alla generale riserva
delle valutazioni di vigilanza affidate alla Banca d’Italia, equivale, in concreto, a
sottrarre le indicate competenze alla sfera dei poteri regionali257.
Inoltre, occorre dare atto che, contro l’art. 159 del d.lgs. n. 385 del 1993, le Regioni
ad autonomia speciale hanno proposto diversi ricorsi alla Corte Costituzionale, la
quale, tuttavia, con sentenza n. 224 del 9 giugno 1994,258 li ha rigettati tutti, sulla base
della considerazione che le competenze attribuite alle Regioni dagli Statuti speciali
assumevano a presupposto un quadro normativo di riferimento che, trovando la sua
base nella legge bancaria del 1936, risultava ispirato a principi del tutto diversi da
quelli che caratterizzano il nuovo assetto normativo di derivazione comunitaria
delineato dal T.u.b. Né pare che tale conclusione possa essere modificata alla luce
della sopravvenienza normativa dovuta alla riforma costituzionale del 2001, giacché,
anche in tale nuovo assetto del titolo V della Costituzione, sembra si possa ritenere
che le competenze in materia di vigilanza bancaria debbano essere affidate allo Stato
e, più in particolare, alla Banca d’Italia. Infatti, alla luce dei principi di sussidiarietà
verticale, differenziazione e adeguatezza, di cui al nuovo art. 118 Cost., le funzioni
garantire l'integrità, la trasparenza, l'efficienza e il regolare funzionamento dei mercati finanziari; 3) rafforzare il
coordinamento internazionale in materia di vigilanza bancaria; 4) impedire l'arbitraggio regolamentare e promuovere
pari condizioni di concorrenza; 5) assicurare che i rischi siano adeguatamente regolamentati e monitorati; 6) aumentare
la protezione dei consumatori.
256
COSTI, op. cit., p. 179.
257
CONDEMI, op. cit., p. 1238.
258
Corte Cost., 9 giugno 1994, n. 224, in Banca, borsa e titoli di credito, 1994, II, p. 597 e ss., con nota di MARZONA, Il
riordino del sistema bancario: le regioni a confronto con una nuova statualità; in Diritto della banca e del mercato
finanziario, 1995, p. 395 e ss., con nota di MAZZINI, Le norme del T.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia sui
poteri delle Regioni a statuto speciale al vaglio della Corte costituzionale.
111
amministrative sono conferite allo Stato qualora sia opportuno, come nella specie,
assicurarne l’esercizio unitario a livello nazionale.
Si è visto, quindi, che il complessivo impianto del T.u.b., conforme ai principi
costituzionali e comunitari, riconduce le valutazioni di vigilanza alla Banca d’Italia,
quale supremo organo tecnico nella specifica materia bancaria. I compiti alla stessa
attribuiti sono esplicitamente indicati nell’art. 4 del d.lgs. n. 385 del 1993, il cui
comma secondo fa obbligo all’Istituto, per evidenti ragioni di trasparenza, di
“determinare e rendere pubblici previamente i principi e i criteri dell’attività di
vigilanza”. Quest’ultima, come noto, è attività complessa, che si esplica secondo
regole di carattere oggettivo, a valenza generale, facenti perno sulla situazione tecnica
delle istituzioni bancarie259. La vigilanza in materia bancaria, quindi, è attività
amministrativa ad elevato contenuto tecnico, sicché appare logico che la stessa venga
attribuita ad un’Autorità Indipendente, fornita del necessario bagaglio specialistico
per poterla esercitare in modo adeguato260.
L’at. 159 T.u.b., peraltro, chiarisce che il parere deve essere espresso, a fini di
vigilanza, e quindi esclusivamente mirato a verificare se il provvedimento regionale
sia compatibile con la sana e prudente gestione dell’impresa bancaria. Orbene, come
evidenziato da autorevole dottrina, è vero che la norma limita l’intervento della
Banca d’Italia alle sole valutazioni tecniche, ma è anche vero che esse, nelle materie
in cui vengono richieste, esauriscono di per sé la funzione amministrativa261.
Pertanto, ulteriori valutazioni, previste di volta in volta nelle varie leggi regionali, pur
non contrastando con l’esercizio della funzione di vigilanza, “appaiono tuttavia
sovrabbondanti e, comunque, inidonee a soddisfare alcun’altra forma di controllo”262.
Anzi, si è perfino ipotizzato che, tenendo a mente i principi di efficienza e di
economicità, riconducibili all’art. 97 Cost., l’intera impalcatura dei controlli regionali
in materia bancaria e creditizia violi il più volte affermato, da parte della Corte
259
LAMANDA, Note sui controlli di vigilanza bancaria, in Le attività finanziarie. I controlli, a cura di MINERVINI,
Bologna, 1990, p. 87 e ss.
260
SCHINAIA, Il controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità della pubblica
amministrazione, in Dir. proc. amm., 1999, p. 1101 e ss.
261
CONDEMI, op. cit., p. 1239.
262
CONDEMI, op. loc. ult. cit.
112
Costituzionale, principio di proporzionalità. Infatti, alla luce della liberalizzazione
ormai intervenuta nel settore creditizio, appare difficile immaginare quali siano gli
spazi di valutazione, concernenti la materia delle modifiche statutarie, riservati alle
Regioni e diversi da quelli afferenti alla sana e prudente gestione dell’impresa
bancaria, che, come visto, sono di esclusiva competenza della Banca d’Italia.
Del resto, la stessa previsione di un parere vincolante in capo alla Banca d’Italia
sembra un’evidente conferma della chiara scelta del legislatore di assegnare un potere
sostanzialmente decisorio all’Istituto di vigilanza. Al riguardo, è noto che tale
categoria di pareri racchiude quelli obbligatori che non possono essere disattesi
dall’amministrazione interessata. Essi hanno dato luogo a numerose dispute in
dottrina. Se, infatti, il parere deve essere espressione di un’attività di consulenza, il
parere vincolante non dovrebbe essere qualificato come tale, avendo una natura
decisoria, atteso che l’amministrazione attiva non può discostarsi da esso. In questa
logica, ad esempio, si è sostenuto in dottrina che il ricorso straordinario al Capo dello
Stato, la cui disciplina, dopo la riforma operata dalla legge n. 69 del 2009, prevede un
parere ormai vincolante del Consiglio di Stato, abbia assunto la sostanza di un vero e
proprio processo amministrativo in unico grado, considerato che la previsione di un
parere vincolante in capo al Supremo organo di giustizia amministrativa equivale ad
assegnare al medesimo il potere decisorio. Viceversa, laddove si ritenga che tale tipo
di parere riguardi comunque una fase preparatoria rispetto a quella (costitutiva) alla
quale si collegano gli effetti esterni, si potrebbe affermare la sua appartenenza ai
pareri, in quanto atto insuscettibile di produrre direttamente effetti. In una prospettiva
sostanziale non sembra, però, che possa essere negato che un parere che non lasci
nessuno spazio di scelta all’organo di amministrazione attiva non esprime nessuna
consulenza, ma pone in essere una decisione preliminare, sicché solo impropriamente
può essere definito alla stregua di un parere. A ciò si aggiunga che l’attività di
consulenza ha il fine di fornire un mero sussidio alla decisione finale, consentendo di
norma a chi deve agire di sostituire la propria valutazione a quella espressa dal
consulente. Nei casi in cui ciò non accada, dunque, non si hanno pareri in senso
113
proprio, ma atti di natura diversa263. Sul punto autorevole dottrina264 ha sostenuto che,
anche dal punto di vista della collocazione in seno alla fattispecie procedimentale,
dovrebbe concludersi che i pareri vincolanti determinino il contenuto della decisione
finale, per cui bisognerebbe espungerli dal novero degli atti preparatori e ricondurli
nell’ambito di quelli decisori. Con tutte le conseguenze del caso: in primo luogo,
quella dell’imputazione degli effetti non solo all’organo che ha emanato l’atto finale,
ma anche a quello che ha espresso il parere265.
Alla luce di quanto esposto, si può, quindi, ritenere che, ai sensi dell’art. 159 T.u.b.,
la sostanza decisoria in materia di modifiche statutarie competa alla Banca d’Italia e
che non dovrebbero residuare margini di valutazione in capo alle Regioni, giacché si
è visto che l’unico controllo esercitabile al riguardo dovrebbe essere quello
concernente la sana e prudente gestione dell’impresa bancaria, che, come noto, è
riservato alla Banca centrale nazionale266. Ne consegue che il potere di autorizzazione
previsto dall’art. 13 della legge regionale della Valle d’Aosta n. 21 del 1980 dovrebbe
essere configurato come meramente formale e comunque andrebbe interpretato in
senso restrittivo alla luce dell’attuale assetto dell’ordinamento bancario suesposto,
della segnalata necessità (nazionale e comunitaria) che le valutazioni di vigilanza sia
affidate esclusivamente alla Banca d’Italia e del chiaro disposto dell’art. 159 T.u.b.
A ciò si aggiunga che l’attribuzione di un potere di autorizzazione alla Giunta
Regionale della Valle d’Aosta, secondo il citato art. 13 della legge regionale n. 21 del
1980, risulta eccentrico anche rispetto ad un altro profilo di rilievo, onde ne risulta
rafforzata la convinzione che vada letto in chiave restrittiva. Infatti, come si è visto
nei paragrafi precedenti, a partire dalla legge n. 142 del 1990 e con le successive
riforme effettuate dai d.lgs. n. 29 del 1993, n. 80 del 1998 e n. 165 del 2001, la
tendenza dell’ordinamento nazionale è nel senso di sancire il principio di separazione
tra politica e amministrazione, ossia di riservare agli organi politici l’indirizzo e la
programmazione e di attribuire le competenze tecniche e gestorie agli organi
263
Consiglio di Stato, sez. I, parere n. 530 del 1999.
CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2010, p. 485.
265
CASETTA, op. loc. ult. cit.
266
CONDEMI, op. cit., p. 1239.
264
114
amministrativi267. Orbene, in questo quadro la norma di cui all’art. 13 della citata
legge regionale, nell’assegnare un potere di autorizzazione ad un organo politico,
quale la Giunta regionale, sembrerebbe costituire un’eccezione al principio di
separazione tra politica e amministrazione, onde se ne dovrebbe operare una
interpretazione restrittiva. Del resto, l’attribuzione di un potere di autorizzazione ad
un organo politico in materia di modifiche dello statuto di una banca, privo peraltro
della predeterminazione dei criteri in base ai quali vada esercitato, rischia di
reintrodurre surrettiziamente un controllo pubblicistico ampiamente discrezionale
sull’esercizio dell’attività bancaria, in violazione dei principi di liberalizzazione e di
imprenditorialità, introdotti dal Testo unico del 1993 in attuazione della normativa
comunitaria.
II.15 Considerazioni finali sul principio di separazione tra politica e
amministrazione. Prospettive de iure condendo
L’excursus storico compiuto in merito ai rapporti tra politica e amministrazione
nell’ordinamento nazionale, unitamente alla descrizione dell’attuale disciplina
normativa al riguardo, permettono di trarre le conclusioni sul tema e di sollevare
alcune considerazioni critiche.
Come si è visto, il legislatore, a partire dalla legge n. 142 del 1990, si è mosso
progressivamente nella direzione di assicurare il principio della separazione tra poteri
di indirizzo programmatico e di controllo, attribuiti agli organi politici, e le funzioni
di attuazione gestionale, sulla base delle risorse finanziarie conferite e delle priorità
individuate dal ceto elettivo, spettanti invece alla classe dei burocrati. L’aspirazione
alla distinzione delle competenze tra i due principali attori istituzionali appare in linea
con le indicazioni provenienti dalla stessa Carta Costituzionale, la quale, come già
267
MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, Milano, 2005, p. 1 e ss.
115
esposto,
attribuisce
notevole
risalto
all’imparzialità
dell’agire
pubblico
e
all’indipendenza dei funzionari dai condizionamenti della politica (artt. 97, 98 e 51
Cost.), non solo nell’ambito delle Autorità Amministrative indipendenti, ma anche
all’interno delle Pubbliche Amministrazioni in senso tradizionale. Se, dunque, si può
considerare favorevolmente la tendenza normativa degli ultimi anni, ciononostante si
deve notare che il sistema fin qui concretamente realizzato presenta non pochi aspetti
di ambiguità. Con ciò si fa riferimento non solo alle non trascurabili deroghe che il
principio di separazione incontra nella disciplina positiva (si pensi ad esempio alle
norme relative ai Comuni di minori dimensioni o alle attribuzioni del Consiglio ex
art. 42 d.lgs. n. 267 del 2000), ma anche al sistema ordinario dei rapporti tra vertice
politico e burocrati. Infatti, il legislatore, nello stesso momento in cui proclama
solennemente la distinzione delle funzioni e l’autonomia della dirigenza dalla
politica, sottopone, in modo forse poco coerente, la classe dei burocrati al controllo
degli organi politici, titolari in particolare del potere di nomina e revoca relativo agli
incarichi dirigenziali. Con ciò creando inevitabilmente una situazione di soggezione
della dirigenza verso la politica, se è vero che non vi può essere vera autonomia tra
due attori istituzionali se l’uno è sottoposto al controllo dell’altro e le relative
progressioni di carriera sono nelle mani dell’organo verso cui si assume di voler
garantire l’indipendenza268. Del resto, quando il legislatore ha realmente perseguito
l’obiettivo di assicurare l’autonomia di un ceto dalla classe politica, lo ha fatto prima
di tutto sottraendo alla stessa poteri di nomina, di revoca e di incidenza sulle
progressioni di carriera dei funzionari pubblici, creando a tal fine specifici organismi
di autogoverno, come nel caso del Consiglio Superiore della Magistratura per i
Magistrati ordinari o del Consiglio Superiore della Banca d’Italia per i dipendenti di
tale Autorità di Vigilanza.
Occorre poi rilevare che il divieto d’intromissione degli organi politici nella gestione
amministrativa (art. 14 d.lgs. n. 165 del 2001) è in parte minato da taluni strumenti
giuridici di condizionamento dell’operato dei dirigenti. In particolare, la diretta
268
PONTI, La nozione di indipendenza nel diritto pubblico come condizione del funzionario, in Dir. Pubbl., 2006, I, p.
185 e ss.
116
intromissione,
esclusa
per
gli
organi
politici, potrebbe essere
realizzata
indirettamente, attraverso gli uffici di diretta collaborazione (o uffici di Gabinetto)269.
Essi sono previsti dall’art. 14 d.lgs. n. 165 del 2001 come strumento di necessario
supporto per gli organi politici nell’esercizio della funzione d’indirizzo loro riservata.
La stessa normativa cerca di evitare che gli uffici di diretta collaborazione,
evidentemente legati agli organi politici da un rapporto di fiducia, possano essere
usati come strumenti di condizionamento del comportamento dei dirigenti. L’art. 14
del d.lgs. n. 165 del 2001, infatti, precisa che tali uffici hanno solo compiti di
supporto e di raccordo con l’amministrazione. Analogamente, l’art. 90 del testo unico
sugli enti locali ha previsto la possibilità di costituire, in sede di regolamento locale,
uffici di supporto agli organi di direzione politica, posti alle dirette dipendenze di
questi ultimi. In linea teorica appare dunque evidente che agli uffici legati agli organi
politici da rapporti di fiducia si estendano gli stessi divieti d’intromissione fissati per
questi ultimi270. Nell’attuazione pratica del modello, però, una recente ricerca271 ha
evidenziato che, mentre la collocazione organizzativa degli uffici di staff rispetta la
disciplina normativa (nel senso che non sono posti formalmente in posizione
sovraordinata rispetto agli uffici amministrativi), più problematica è apparsa la
definizione dei compiti agli stessi attribuiti. Invero, in numerosi casi si sono
riscontrati poteri di rapporto diretto con gli uffici e con i loro dirigenti, poteri di
coordinamento intersettoriale e, perfino, poteri di avocazione degli atti riservati ai
dirigenti. Ne consegue, quindi, il rischio che il divieto d’intromissione degli organi
politici nella gestione amministrativa venga di fatto aggirato attraverso l’utilizzo
distorto degli uffici di diretta collaborazione.
Altro strumento giuridico di condizionamento dell’operato dei dirigenti è
l’intromissione attraverso le figure amministrative di vertice272. Con tale locuzione si
fa riferimento agli alti dirigenti, spesso coadiuvati da specifiche strutture
MERLONI, Distinzione tra politica e amministrazione e spoil system, in L’Amministrazione sta cambiando? Una
verifica dell’effettività dell’innovazione nella pubblica amministrazione, AA. VV., Milano, 2007, p. 47 e ss.
270
MERLONI, op. cit., p. 50.
271
MERLONI, op. loc. ult. cit.
272
MERLONI, op. loc. ult. cit.
269
117
burocratiche,
che
sono
posti
al
vertice
dell’organizzazione
degli
uffici
dell’Amministrazione. Ad essi sono attribuite differenti funzioni: dal supporto
all’organo politico nello svolgimento del suo mandato, alla garanzia della continuità
dell’amministrazione nel fisiologico succedersi dei titolari degli organi d’indirizzo273.
Tali figure si distinguono nettamente dagli uffici di diretta collaborazione. Questi
ultimi, infatti, svolgono funzioni di supporto agli organi politici e sono legati agli
stessi da un intenso rapporto fiduciario. La figura amministrativa di vertice, invece, è
dotata di poteri di coordinamento e, in alcuni casi, di poteri gerarchici sui dirigenti
preposti agli uffici amministrativi. Tale figura si pone dunque sulla linea di confine
tra la sfera di competenza degli organi d’indirizzo e quella riservata alla gestione
amministrativa; sul piano teorico la stessa ha dunque posto il problema se debba
essere ricompresa nell’ambito della competenza politica o nell’area amministrativa.
Malgrado la difficoltà teorica d’inquadramento, il ricorso alle figure amministrative
di vertice si è fatto più intenso proprio a seguito dell’introduzione del principio di
separazione tra politica e amministrazione274. La prassi ha dimostrato, inoltre, una
progressiva accentuazione del carattere fiduciario del relativo incarico. Più nel
dettaglio, nei Ministeri che seguono il modello a direzione generale275, è frequente la
nomina di Segretari Generali, posti al vertice della struttura amministrativa, con
funzioni di coordinamento degli uffici dirigenziali generali, nei quali si articola il
Ministero. Nei Ministeri che adottano il modello dipartimentale276, invece, i Capi dei
Dipartimenti svolgono le funzioni proprie delle figure amministrative di vertice. Sia i
Segretari Generali, sia i Capi dei Dipartimenti sono sottoposti ad un regime unitario:
nomina politica con D.P.R. e decadenza automatica decorsi novanta giorni dal voto di
fiducia al Governo (art. 19 c. 3 e 8 del d.lgs. n. 165 del 2001). Negli enti locali
(Comuni sopra i 15.000 abitanti e province) gli organi politici di vertice (Sindaco e
273
MERLONI, op. cit. p. 51.
MERLONI, op. cit., p. 52.
275
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, cit., p. 122; si tratta dei Ministeri la cui azione
investe un solo settore, pur articolato in una pluralità di specializzazioni, come ad esempio il Ministero dell’Ambiente.
276
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. loc. ult. cit. Il modello dipartimentale è tipico dei Ministeri la cui azione investe settori di
amministrazione tra loro fortemente differenziati ed omogenei al loro interno, come ad esempio il Ministero
dell’Economia e delle Finanze. In questi casi il Ministero si articola in dipartimenti (a loro volta suddivisi in direzioni
generali), costituiti per assicurare l’esercizio organico ed integrato delle funzioni del Ministero in relazione a grandi
aree di materie omogenee.
274
118
Presidente della Provincia) possono nominare un Direttore Generale, che, come si è
visto, provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo
dell’ente, secondo le direttive impartite dagli organi politici e che sovraintende alla
gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia e di efficienza (art. 108 c.
1 del Tuel). Analogamente, le Regioni hanno provveduto all’introduzione di figure
amministrative di vertice, con soluzioni differenti: dall’unica figura, sul modello del
Segretario Generale, alla pluralità di soggetti, similmente ai Ministeri a struttura
dipartimentale.
Orbene, secondo una parte della dottrina277 il frequente ricorso nella prassi alle figure
amministrative di vertice è dovuto, più che alla loro utilità in vista del buon
andamento dell’azione amministrativa, alla possibilità che esse finiscano per inserirsi
nel rapporto tra politica e amministrazione per assicurare all’organo politico di
recuperare, nei fatti, quei poteri d’ingerenza nella gestione che la legge gli preclude.
Ciò può avvenire in vari modi: in primo luogo, attribuendo alle figure amministrative
di vertice un forte potere sui dirigenti, sia nella fase della nomina, sia in sede di
valutazione; in secondo luogo, assegnando a tali soggetti poteri non di mero
coordinamento, ma anche di direttiva puntale e di ordine, secondo gli schemi tipici
del rapporto gerarchico.
Inoltre, recenti indagini empiriche278 hanno rivelato che il rapporto tra organi politici
e figure amministrative di vertice è spesso caratterizzato dai tratti tipici di una
relazione fiduciaria, con conseguente contaminazione del modello di separazione tra
politica e amministrazione. Quanto ai poteri attribuiti a tali figure, le ricerche
effettuate hanno dimostrato che nella prassi è frequente l’utilizzo di poteri di
condizionamento delle scelte dei dirigenti, mentre in alcuni casi è perfino esplicita
l’assegnazione di poteri di avocazione degli atti dei dirigenti e di comando sugli
stessi, secondo i crismi di un rapporto gerarchico classico. Da quanto esposto
consegue quindi il rischio che le figure amministrative di vertice costituiscano uno
277
278
MERLONI, op. cit., p. 52.
MERLONI, op. cit. p. 53.
119
strumento per l’aggiramento del principio della separazione tra politica e
amministrazione.
Tra i mezzi giuridici di condizionamento dell’operato dei dirigenti devono essere
altresì segnalate le modifiche organizzative279. Infatti, l’adozione di una diversa
organizzazione degli uffici e l’introduzione di modificazioni della natura giuridica di
strutture amministrative - rimesse a fonti normative pubblicistiche (per lo più
regolamenti) nella disponibilità degli organi politici - possono essere utilizzate per
operare rimozioni dagli incarichi dirigenziali, realizzando in tal modo forme di spoils
system mascherate. Tali strumenti si rivelano quindi idonei a sancire la supremazia
degli organi politici su quelli amministrativi, inducendo questi ultimi ad una
maggiore disponibilità verso indebite intromissioni degli organi d’indirizzo nella
gestione amministrativa. Nello stesso tempo, tali situazioni patologiche mostrano una
difficile accertabilità, attesa l’evidente difficoltà di dimostrare che la riorganizzazione
sia motivata solo o prevalentemente dall’esigenza di rimuovere dirigenti non graditi.
Nello stesso senso, non va trascurata la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale
anche a soggetti non appartenenti ai ruoli della dirigenza e all’amministrazione
interessata. Infatti, la non chiara formulazione dell’art. 19 c. 6 del d.lgs n. 165 del
2001 ha consentito di frequente alle Amministrazioni statali di utilizzare la c.d.
dirigenza esterna come un modo per ampliare l’area degli incarichi di tipo fiduciario.
Invero, spesso è accaduto che tali nomine siano state effettuate non tanto sulla base
dei meriti professionali, ma per la fedeltà del dirigente esterno alla persona
dell’organo politico o al pertinente partito280, con conseguente inquinamento della
distinzione tra politica e amministrazione.
Infine, si è notato che la non precisa formulazione a livello normativo dei doveri di
comportamento e delle incompatibilità dei dirigenti abbia in concreto interferito con
l’attuazione del principio di separazione tra funzioni d’indirizzo e compiti di
gestione. Infatti, il dirigente pubblico, proprio perché titolare in via esclusiva dei
compiti di amministrazione e gestione, deve non solo essere sottratto ai poteri di
279
280
MERLONI, op. loc. ult. cit.
MERLONI, op. cit., p. 56.
120
condizionamento degli organi politici, ma deve anche mantenere una posizione
imparziale rispetto agli interessi privati che possono interferire nell’attività
amministrativa. In questo senso, la mancata esatta definizione nel vigente
ordinamento dei doveri di comportamento e delle incompatibilità dei dirigenti
pubblici rischia di tradursi, unitamente alle altre criticità evidenziate, in
un’incompleta
realizzazione
del
principio
di
separazione
tra
politica
e
amministrazione.
Certamente, tuttavia, bisogna anche evitare di cadere nella situazione opposta rispetto
a quella attuale, in cui si corre cioè il pericolo che gli indirizzi espressi dalla politica
non ricevano attuazione a causa degli ostruzionismi di intoccabili e potenti dirigenti.
Tale affascinante tematica, quindi, impone la ricerca di un difficile punto di equilibrio
che, per vero, non pare però essere stato raggiunto dall’odierno assetto normativo. La
soluzione seguita, infatti, sembra troppo sbilanciata nei fatti a favore degli organi
politici, al di là delle solenni enunciazioni di principio spesso effettuate dal
legislatore. In questo angolo visuale devono essere letti con favore tutti gli interventi
di riforma, tra cui in particolare il decreto Brunetta (d.lgs. n. 150 del 2009), i quali
tendono concretamente a rendere misurabile ed oggettivo il giudizio sull’operato dei
funzionari pubblici, magari avvalendosi delle più moderne tecniche di analisi dei dati,
in modo da ridurre gli spazi di discrezionalità e di soggettivismo in capo agli organi
politici, pericolosi strumenti per la contaminazione dell’imparzialità dell’agire
pubblico e per la penetrazione di pressioni faziose nell’azione amministrativa.
L’ambiguità del vigente sistema si coglie, inoltre, anche sotto un altro profilo:
l’attuale disciplina, infatti, fa sì che gli organi elettivi fissino solo gli indirizzi, senza
essere più responsabili dei provvedimenti, posto che essi sono ormai di esclusiva
competenza dei dirigenti, i quali, a loro volta, sono sottoposti ai controlli dei vertici
politici. Si potrebbe pertanto sostenere che tale assetto determini un deficit di
legittimazione democratica nell’azione amministrativa, posto che essa si realizza
principalmente per mezzo di provvedimenti la cui competenza e la cui responsabilità
ricadono su soggetti (i dirigenti) non eletti dal popolo, ma ciononostante sottoposti ai
121
controlli della politica. Il modello di Pubblica Amministrazione sancito dall’art. 95
Cost., per il quale i vertici politici sono responsabili degli atti posti in essere
nell’ambito delle pertinenti strutture burocratiche, rischia quindi di essere messo
seriamente a repentaglio dalle scelte di compromesso operate dal legislatore, senza
nemmeno che a ciò faccia da contrappeso un’adeguata garanzia dell’imparzialità
dell’agire pubblico; con la conseguenza che sembra rimanere del pari inattuato anche
il disposto degli artt. 97, 98 e 51 Cost.
Alla luce di quanto emerso si può quindi sostenere che le vie per eliminare le attuali
ambiguità normative potrebbero essere due ed alternative tra loro.
In primo luogo, si potrebbe optare per un sistema in cui i provvedimenti e le
responsabilità (anche gestionali) siano assunte direttamente dalla politica, mentre la
dirigenza fungerebbe solamente da organismo di supporto tecnico e non più da
soggetto responsabile all’esterno, ma privo della necessaria investitura democratica.
Tale scelta finirebbe quindi per spostare indietro le lancette dell’orologio istituzionale
a data anteriore alla legge n. 142 del 1990, superando quindi il principio di
separazione tra funzioni d’indirizzo politico e competenze gestorie. In questo
contesto
le
assegnazioni
degli
incarichi
dirigenziali
potrebbero
avvenire
esclusivamente con sistemi di tipo concorsuale, poiché gli unici aspetti da vagliare
dovrebbero essere le loro conoscenze tecnico-specialistiche, con la conseguenza che
il relativo potere dovrebbe essere concretamente affidato a commissioni composte da
esperti del settore e professori universitari. Aderendo a questa impostazione, pertanto,
non avrebbe più senso l’attuale meccanismo delle nomine e delle revoche degli
incarichi affidato agli organi politici, che nella vigente disciplina, in linea teorica,
serve a recuperare un minimo di legittimazione democratica dell’azione
amministrativa, mentre, nei fatti, mina in radice l’autonomia dei dirigenti dal ceto
elettivo, consentendo alla politica di governare per interposta persona - ossia
avvalendosi di funzionari eventualmente compiacenti - senza assumere le relative
responsabilità.
122
Questa soluzione, tuttavia, si espone al rilievo che rischia di compromettere
eccessivamente l’imparzialità dell’agire pubblico ed il modello di Pubblica
Amministrazione evincibile dagli artt. 97, 98 e 51 Cost., giacché protagonisti assoluti
non solo dell’attività di indirizzo, ma anche delle concrete scelte gestorie
diverrebbero gli organi politici, per loro natura espressione di una parte, ancorché
maggioritaria, della comunità. Pertanto, ciò che si recupera sul terreno della
legittimazione democratica si perde su quello dell’imparzialità, con la conseguenza
che il vero problema diventerebbe solo capire in quale misura tale sacrificio sia
giustificato dalla gratificazione della prima esigenza.
In secondo luogo, si potrebbe ipotizzare una diversa scelta che lasci fermo il principio
di separazione tra politica ed amministrazione, ma che si sforzi di perfezionarne la
concreta realizzazione. Secondo tale angolo visuale, andrebbero corrette le ambiguità
tuttora esistenti, in particolare sottraendo alla politica i poteri di nomina e revoca
relativi agli incarichi dirigenziali e quello di controllo sull’attività di gestione, al fine
di realizzare una reale autonomia della struttura burocratica dalle possibili ingerenze
degli organi elettivi. Pertanto, siffatti poteri andrebbero affidati ad organismi di
autogoverno della dirigenza, composti da rappresentanti della medesima classe (o
interni al singolo ente o costituiti su base nazionale), analogamente a quanto accade
nell’ambito della Magistratura o delle Autorità Amministrative Indipendenti. Del
resto, le ultime riforme, in particolare il decreto Brunetta, hanno cercato di rendere
oggettivo e misurabile il rendimento dei funzionari pubblici, onde il giudizio
concernente le nomine e le revoche dei dirigenti dovrebbe divenire ormai
essenzialmente tecnico e perciò affidato ad organismi competenti. Non avrebbe più
molto senso, quindi, riservare detti poteri agli organi politici, posto che non è affatto
detto che essi siano forniti delle necessarie conoscenze specialistiche occorrenti a tal
fine281. Né pare si possa sostenere che l’attribuzione agli organi politici dei poteri di
281
I politici, infatti, vengono eletti e non selezionati in base alle loro competenze tecniche. Il giudizio elettorale, invero,
prescinde dalle conoscenze specialistiche del soggetto e si basa su altri elementi, quali l’affidabilità e la caratura del
personaggio, la sua capacità di riscuotere consensi e di fare le scelte più opportune sul piano mediatico, la sua abilità nel
gestire al meglio i rapporti all’interno del partito. Non è infrequente, infatti, che siano nominati per esempio Sindaci o
Ministri persone non dotate delle competenze tecniche tipiche della struttura burocratica cui sono preposti (ad esempio,
un medico Sindaco di una grande città o un Ministro della giustizia ingegnere). Né ciò deve sorprendere perché agli
123
nomina e revoca dei dirigenti sia funzionale a garantire una legittimazione
democratica all’attività di gestione amministrativa, giacché, se è vero che ormai la
valutazione del rendimento dei funzionari pubblici si fonda su un giudizio tecnico ed
oggettivo, non si capisce quale investitura democratica del dirigente possa celarsi
dietro di esso. Gli spazi di discrezionalità tecnica comunque sussistenti (e forse
ineliminabili), rischiano, ove il relativo potere continui ad essere affidato agli organi
politici, di compromettere l’indipendenza della classe dei burocrati e di divenire il
terreno per l’esercizio di indebite ingerenze della politica nei settori ad essa sottratti
dall’ordinamento. Ne consegue che i poteri di nomina e revoca dei dirigenti
dovrebbero fondarsi esclusivamente su meccanismi di tipo concorsuale (per esami e/o
per titoli) ed essere affidati ad organismi di autogoverno della categoria. Agli organi
politici residuerebbero, pertanto, i poteri d’indirizzo e programmazione, ossia quelli
sulla base dei quali dovrebbe realmente fondarsi il giudizio elettorale e per i quali tali
soggetti dovrebbero assumere la responsabilità sul piano esterno.
D’altro canto, il rischio che le strutture burocratiche possano porre in essere condotte
ostruzionistiche verso gli indirizzi ed i programmi espressi dalla politica pare essere
adeguatamente contenuto dal meccanismo di valutazione tecnica cui sono soggetti i
dirigenti, poiché esso dovrebbe fondarsi principalmente sulla capacità di
conseguimento degli obiettivi prefissati in via generale.
In conclusione, non va in ogni caso trascurato che il tema dei rapporti tra politica ed
amministrazione è un problema non solo di regole, ma anche di uomini, nel senso che
il concreto successo del modello teorico prescelto dipende comunque dalla capacità e
dalla correttezza delle persone che vi danno attuazione. Come sempre accade, quindi,
nello studio delle soluzioni normative più appropriate, non si può mai dimenticare
che le idee, anche le migliori, camminano inevitabilmente sulle gambe degli
individui.
organi rappresentativi non dovrebbero essere assegnate funzioni tecniche, ma solo d’indirizzo politico e di
rappresentanza dell’ente.
124
II.16 La relazione tra politica e amministrazione nei principali Paesi europei.
Il problema dei rapporti tra politica e amministrazione si pone non solo
nell’ordinamento italiano, ma in ogni Paese democratico e ispirato ai principi dello
Stato di diritto. Anche sul piano comparatistico, dunque, la questione principale è
rappresentata dalla necessità di tradurre l’indirizzo politico in atti di gestione
coerenti, senza però privare la dirigenza pubblica dell’autonomia funzionale a
garantirne l’imparzialità. Le soluzioni adottate al medesimo problema dai vari Stati
europei divergono tra loro anche notevolmente, ma tutte mostrano, in misura più o
meno maggiore, taluni profili di ambiguità e di criticità. In questa sede si procederà,
quindi, ad una sintetica panoramica delle scelte di fondo seguite nei principali Paesi
del Vecchio Continente, che mostreranno problemi analoghi a quelli fin qui
riscontrati nell’ordinamento nazionale.
Nel Regno Unito, ad esempio, si segue un modello c.d. unitario, nell’ambito del
quale la sfera politica e quella amministrativa si rivelano sostanzialmente coincidenti
e la seconda rappresenta una mera esecutrice materiale della prima 282. Tale sistema si
fonda sui principi di democrazia rappresentativa e di sovranità popolare, i quali
prevedono che l’esercizio della funzione pubblica riceva una chiara ed evidente
legittimazione democratica283. A tal fine è stato creato un circuito di responsabilità
(chain of accountability), in base al quale i funzionari pubblici rispondono del loro
agire davanti ai Ministri, che sono responsabili di fronte al Parlamento, che, a sua
volta, risponde direttamente all’elettorato, di cui, peraltro, è espressione. In tal modo
emerge un rapporto di dipendenza delle strutture burocratiche dalla volontà dei
cittadini; infatti, questi ultimi scelgono i membri del Parlamento, i quali, attraverso la
responsabilità politica del Governo, danno legittimazione democratica all’operato
282
VALENSISE, Le relazioni tra politica e amministrazione: la dirigenza pubblica, in Istituzioni, politica e
amministrazione. Otto Paesei europei a confronto, Torino, 2005, p. 234.
283
Storicamente, infatti, la monarchia inglese, a differenza di quella in passato esistente in altri Stati come la Francia, si
basava (e tuttora si basa) sulla volontà della Nazione e non tanto sulla Grazia di Dio, evidenziando così plasticamente la
tradizionale attenzione culturale della Gran Bretagna per l’investitura democratica delle Istituzioni.
125
della Pubblica Amministrazione. Pertanto, il Regno Unito rifiuta la natura
tecnocratica delle scelte compiute per la tutela dell’interesse pubblico, dando
prevalenza
al
principio
di
sovranità
popolare
e
configurando,
perciò,
l’Amministrazione come uno strumento nelle mani della politica284. Per questi motivi,
i politici dispongono di un potere di scelta fiduciaria dei funzionari pubblici, i quali
restano anonimi in quanto gli atti amministrativi sono adottati direttamente dai primi.
Tale sistema sembrerebbe pregiudicare l’esigenza che la Pubblica Amministrazione
agisca in modo imparziale. Tuttavia, occorre notare che i burocrati di carriera inglesi
hanno sviluppato una spiccata cultura della neutralità, secondo la quale il funzionario
pubblico deve essere in grado di servire fedelmente qualsiasi maggioranza politica, a
prescindere dalle convinzioni personali. Alcune riforme intervenute nel corso degli
ultimi anni, però, hanno alterato la purezza del modello inglese, contaminandolo con
elementi spuri. In particolare, nel 1988 sono state istituite le next steps agencies, ossia
entità organizzative dotate di autonomia rilevante al loro vertice, dove sono stati posti
dirigenti di nomina politica con contratti a termine. In tal modo si è verificata una
scissione tra politica e amministrazione che non consente di ravvisare una
responsabilità esclusiva del Ministro per tutti gli atti amministrativi. Nello stesso
tempo sono aumentate le nomine dei c.d. policy advisers, ossia consiglieri del
Ministro di nomina fiduciaria, spesso scelti tra soggetti esterni all’Amministrazione.
Essi esercitano un notevole potere direttivo nei confronti dei funzionari di carriera,
erodendo progressivamente gli spazi decisionali loro riservati, e non manifestano
quella spiccata imparzialità propria invece dei vecchi dirigenti vincitori di concorso
pubblico. La burocrazia inglese sta dunque mutando sì da apparire composta sempre
più da uomini di fiducia dei politici e non da tecnocrati imparziali e anonimi.
In Francia, invece, si tende a seguire un modello di separazione tra politica e
amministrazione esattamente opposto rispetto a quello del Regno Unito. Ciò non
significa, però, che non sia adeguatamente soddisfatta la necessità che l’indirizzo
284
VALENSISE, op. cit., p. 235.
126
politico riceva piena attuazione da parte dei dirigenti pubblici, attesa la presenza di
formule di raccordo tra le due sfere285.
In questo sistema la burocrazia ha acquisito forza e prestigio grazie all’elevata
preparazione tecnica e culturale dei funzionari, i quali accedono agli impieghi di
livello
più
alto
attraverso
l’Ecole
Nationale
d’Administration
e
l’Ecole
Polytechnique. Concluso il periodo di formazione, gli allievi di queste scuole
vengono immessi direttamente all’interno dei grand corps, ossia organizzazioni
interne al pubblico impiego, nei quali sono inquadrati tutti i funzionari sottoposti allo
stesso statuto (ad esempio coloro che prestano servizio per lo Stato) e nel cui ambito
si sviluppa la carriera di ciascuno di essi. Ciò ha favorito la nascita di uno spirito
corporativistico e di severe regole deontologiche di categoria, i quali hanno
contribuito alla difesa dei funzionari da condizionamenti esterni e all’esercizio
imparziale della funzione pubblica. Si aggiunga, poi, che l’art. 6 della Dichiarazione
dei diritti dell’uomo, richiamata nel preambolo della Costituzione del 1958, sancisce
la parità di accesso di tutti i cittadini alle cariche pubbliche, senza altre distinzioni che
quelle fondate sulle loro capacità professionali.
Anche il sistema francese, però, è entrato progressivamente in crisi. Le nomine dei
funzionari pubblici, infatti, non avvengono solo attraverso le grandi istituzioni
formative, ma anche tramite meccanismi di designazione fiduciaria. Invero, il
Governo può assegnare discrezionalmente circa 700 incarichi di livello apicale, ossia
gli emplois à la discretion. In questi casi la procedura non prevede alcun concorso ed
è riconosciuto un potere di revoca alla stessa autorità che ha effettuato la nomina.
Inoltre, il Governo può avvalersi del c.d. tour extérieur che consente l’immissione in
via permanente di soggetti nell’alta burocrazia senza alcuna procedura concorsuale.
Ne consegue, quindi, il rischio di una forte politicizzazione di tali funzionari e
d’inquinamento del modello dualistico francese.
285
VALENSISE, op. cit., p. 230.
127
Infine, il Governo può assegnare a soggetti esterni e in modo fiduciario gli incarichi
presso gli uffici di diretta collaborazione dei Ministri, analogamente a quanto accade
nell’ordinamento italiano.
Come
evidenziato
dalla
dottrina286,
il
problema
della
politicizzazione
dell’Amministrazione francese è aumentato con l’affermarsi di maggioranze stabili di
Governo che vedevano come un ostacolo al conseguimento degli obiettivi
programmati la presenza di una burocrazia forte e indipendente. In tal modo, però, si
è sacrificata in modo forse eccessivo l’esigenza d’imparzialità della funzione
amministrativa.
Per quanto riguarda la Germania, occorre segnalare che, considerata la struttura
federale del Paese, la funzione esecutiva compete ai vari Lander, ciascuno
organizzato in modo diverso, con la conseguenza che in tale ordinamento risulta
difficile ricostruire in modo unitario i rapporti tra politica e amministrazione. In ogni
caso, la Carta costituzionale (Grundgesetz) riserva l’esercizio del potere pubblico ai
funzionari della carriera più elevata (Beamten), in tal modo evidenziando una
propensione alla tutela dell’imparzialità dell’azione amministrativa287. Inoltre, in base
ad alcune pronunce della Corte costituzionale tedesca, per i livelli più alti della
burocrazia sarebbe preclusa una disciplina del rapporto di lavoro in termini
privatistici. Per le altre categorie di lavori pubblici, invece, non esiste alcun ostacolo
alla privatizzazione del rapporto d’impiego, cosicché il legislatore ha introdotto per
esse regole privatistiche, salvo il rinvio ad alcune norme di diritto pubblico.
Alcune recenti riforme, poi, hanno permesso di porre al vertice dell’Amministrazione
non solo funzionari nominati previo concorso pubblico, ma anche soggetti esterni,
selezionati in modo fiduciario, pur sempre assoggettati, però, ad un regime
pubblicistico. Nello stesso tempo, è stato previsto un potere politico di rimozione dei
dirigenti sgraditi. In tal modo, dunque, sono stati introdotti elementi di
politicizzazione in una struttura organizzativa tendenzialmente meritocratica, sì da
286
287
VALENSISE, op. cit., p. 231.
VALENSISE, op. cit., p. 233.
128
rendere il modello tedesco per molti aspetti contraddittorio288. In ogni caso, la
soluzione adottata in Germania, pur con i suoi difetti, è apparsa a molti studiosi tra le
più equilibrate nell’ambito del ricco scenario europeo, in quanto riesce a coniugare in
modo apprezzabile l’esigenza di attuazione del programma politico con la garanzia
dell’imparzialità dell’azione amministrativa289.
In Spagna è sempre stata considerata prevalente l’esigenza da parte della politica di
assicurarsi un legame fiduciario con la dirigenza pubblica. Ciononostante, la Carta
costituzionale stabilisce che l’accesso al pubblico impiego debba avvenire in base a
criteri paritari e meritocratici. Pertanto, l’ordinamento spagnolo vive questa profonda
contraddizione di fondo tra la valorizzazione del carattere professionale della
burocrazia e l’intento di consentire alla politica la realizzazione degli obiettivi
programmati. Questa duplicità di fini emerge plasticamente nella Ley de Medidas
para la Reforma de la Funciòn pùblica del 1984, nell’ambito della quale convivono
sia l’accesso alla funzione pubblica per il tramite di concorso pubblico sia gli
incarichi affidati fiduciariamente a soggetti esterni290. Questi ultimi in particolare
possono avvenire attraverso due differenti sistemi di designazione. In primo luogo, vi
è il c.d. personal eventual, ossia la possibilità di effettuare nomine fiduciarie che non
soggiacciono ad alcun tipo di onere procedurale e formale. Tale metodo si applica ai
componenti dei Gabinetti ministeriali, ai Segretari generali, agli Ambasciatori e ai
presidenti di enti pubblici economici, i quali, peraltro, possono essere revocati in
modo ampiamente discrezionale.
Il secondo sistema di designazione fiduciaria è la c.d. libre designaciòn politica, con
la quale alcuni incarichi vengono attribuiti a funzionari di carriera scelti dagli organi
politici secondo valutazioni discrezionali fondate sulle capacità professionali
dimostrate dal soggetto nel corso della vita lavorativa. Questo metodo si applica alle
figure direttive e, solo di recente, è stato esteso ai subsecretarios291.
288
VALENSISE, op. cit., p. 234.
VALENSISE, op. cit., p. 234.
290
VALENSISE, op. cit., p. 241.
291
VALENSISE, op. loc. ult. cit.
289
129
Una recente ricerca ha dimostrato che nel 1996 oltre 400 dirigenti apicali sono stati
designati secondo il sistema del c.d. personal eventual, mentre 6.000 posizioni
direttive sono state attribuite in base alla c.d. libre designaciòn politica292.
Da quanto esposto consegue che in Spagna il modello della separazione tra politica e
amministrazione sia rimasto sostanzialmente inattuato, nonostante il principio di
selezione meritocratica dei dipendenti pubblici presente nella Carta costituzionale.
Infatti, il sistema concorsuale si applica solo con riferimento alle cariche di livello più
basso della burocrazia, mentre gli incarichi di vertice sono assegnati in modo
fiduciario dagli organi politici. Ne discende, perciò, una scelta dell’ordinamento
fortemente sbilanciata a favore delle esigenze della politica, analogamente a quanto si
è visto accadere nel sistema italiano.
La Polonia, infine, si trova ancora in una fase di transizione dovuta al passaggio dal
regime autoritario alla democrazia parlamentare293.
Fino al 1989 i dirigenti pubblici erano legati fiduciariamente al regime politico ed
erano tenuti a dare piena e fedele esecuzione al programma del Partito comunista. La
burocrazia appariva, quindi, priva di una propria autonomia decisionale e spesso
accadeva che talune decisioni fossero assunte ed eseguite direttamente da organi
politici.
Dopo la caduta del muro di Berlino, invece, è stata istituita la Scuola Nazionale di
Amministrazione Pubblica, la quale ha consentito l’ingresso nel pubblico impiego di
giovani selezionati con logiche meritocratiche. Ciò ha permesso di offrire l’immagine
di un’amministrazione politicamente più neutrale e più indipendente dalle
maggioranze politiche. Pertanto, la Polonia ha iniziato un lento cammino verso un
modello di separazione tra politica e amministrazione in cui agli organi politici
compete l’attività d’indirizzo e programmazione, mentre alla burocrazia spetta
l’esercizio delle funzioni di gestione. A tal fine sono stati garantiti sia la stabilità del
posto di lavoro per i funzionari pubblici sia il potere di rifiuto, da parte di questi
292
293
VALENSISE, op. cit., p. 242.
VALENSISE, op. cit., p. 238.
130
ultimi, degli ordini erronei o illegali. Lo disciplina sul pubblico impiego prevede
altresì che il funzionario non debba essere influenzato nell’esercizio delle sue
mansioni dalle proprie convinzioni politiche o religiose e che non possa manifestarle
pubblicamente. Inoltre, per i livelli più alti della dirigenza è preclusa ex lege la
partecipazione attiva in partiti politici294. Malgrado gli sforzi compiuti nella direzione
della separazione tra politica e amministrazione, il sistema polacco resta ancora
caratterizzato da una forte ingerenza della politica nella gestione amministrativa, con
la conseguenza che è necessario che prosegua ancora molto nel percorso apprezzabile
intrapreso.
294
VALENSISE, op. cit., p. 240.
131
PARTE TERZA:
ANALISI SPECIFICA DEL TEMA
Le soluzioni emerse nelle esposte premesse consentono di analizzare con maggiore
consapevolezza il tema specifico dei riflessi penalistici del principio di separazione
tra politica e amministrazione. E’ evidente, infatti, che le riforme succedutesi negli
ultimi anni, che hanno contribuito a delineare l’attuale assetto di competenze tra
organi di indirizzo politico e organi burocratici, hanno avuto, nel contempo, forti
impatti sul sottosistema penale dei reati realizzabili nel corso dell’attività
amministrativa.
Nell’ultima parte di questo lavoro, quindi, non si farà altro che applicare le coordinate
generali, fin qui esposte, all’oggetto immediato del presente studio, dando atto delle
possibili tesi ipotizzabili e dei contributi dottrinali e giurisprudenziali al momento
esistenti. In particolare, ci si soffermerà sui reati omissivi impropri realizzabili dagli
organi politici, alla luce dell’attuale riparto di competenze esistente in materia. Più
nel dettaglio, ci si occuperà, in primo luogo, dei reati omissivi impropri
monosoggettivi, distinguendo tra ipotesi dolose e colpose; in secondo luogo, l’analisi
si sposterà sulla verifica circa la sussistenza di una responsabilità plurisoggettiva per
omesso impedimento del reato doloso dell’organo di gestione amministrativa da parte
dell’organo di indirizzo politico. Ci si domanderà, cioè, se l’organo di rappresentanza
democratica assuma una posizione di garanzia (di controllo) sull’operato altrui
nell’ambito della propria attività istituzionale.
132
III.1 Responsabilità omissiva impropria monosoggettiva: insussistenza di una
posizione di garanzia a carico degli amministratori pubblici per la protezione di
tutti i cittadini da qualsiasi pericolo.
Alla luce di quanto emerso nella prima parte del presente studio, secondo la tesi
prevalente e preferibile non dovrebbe essere rinvenibile, a carico degli amministratori
degli enti pubblici territoriali, un obbligo di garanzia-protezione che imponga
l’esercizio di poteri-doveri di vigilanza e impeditivi allo scopo di preservare tutti i
cittadini, che vivono nella zona, da qualsiasi rischio per i beni o interessi di loro
spettanza. Infatti, nell’attuale assetto normativo manca una norma giuridica che
imponga un obbligo di questo genere, sicché difetta il primo dei requisiti della
posizione di garanzia, in precedenza analizzati, ossia la giuridicità dell’obbligo.
Peraltro, ove anche esistesse una fonte giuridica dello stesso, in ogni caso un simile
obbligo sarebbe inesigibile, attesa l’enorme varietà dei casi e dei pericoli cui ciascun
soggetto è esposto nel corso della vita sociale295. A ciò si aggiunga che l’obbligo di
garanzia deve corrispondere a specifiche istanze di protezione, che si traducono in
relazioni bilaterali tra garante e bene, onde non è immaginabile una posizione di
garanzia diretta alla salvaguardia di tutti i beni di tutti i consociati296. La ratio delle
posizioni di garanzia è, infatti, la tutela di beni giuridici scelti in base alla loro
vulnerabilità e in ragione degli eventi lesivi prevedibili, con la conseguenza che non è
condivisibile una dilatazione del reato omissivo improprio che ne alteri natura e
funzione. Del resto, non è accettabile l’idea che la comunità dei cittadini sia composta
per definizione da persone incapaci di autoprotezione. Non si può, infatti, seguire la
tesi paternalistica, che si fonda sull’idea che il consociato sia parzialmente incapace
di difendere i suoi beni, poiché essa contrasta con i principi di libertà e dignità
295
MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 91; Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 1998, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998,
p. 1407.
296
FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 197; BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui, cit., p. 1373; RUDOLPHI,
in SK, Stgb,17, Lfg, 6, Berlin, 1992, 44/14 ss., il quale si pone in chiave critica rispetto alle dilatazioni delle posizioni di
garanzia dei pubblici amministratori e, conseguentemente, esclude che l’obbligo di cura dello Stato possa riguardare un
cittadino minacciato nei suoi beni, che non si trovi in uno stretto rapporto con l’organo pubblico, ma si relazioni con
l’ente nell’ambito di normali rapporti intersoggettivi. In tal caso, infatti, il cittadino non si trova in una condizione di
minorazione tale per cui non possa tutelare i beni giuridici di sua spettanza. In queste ipotesi, quindi, l’ordinamento
deve solo garantirgli le facoltà di autodifesa e le reazioni di necessità. MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 91.
133
dell’individuo, che ispirano la Costituzione repubblicana, e con l’art. 2 Cost., il quale,
tra i diritti inviolabili dell’uomo, include anche quello di autodifesa ex art. 52 c.p.297
Si è già visto, inoltre, che le posizioni di garanzia sono volte a sopperire alla totale o
parziale incapacità del titolare dei beni da tutelare, mentre la piena capacità dei
soggetti da proteggere rappresenta un serio ostacolo alla configurazione di un obbligo
d’impedimento dell’evento. Infine, non va trascurato che nel caso di specie manca un
atto di disposizione da parte dei soggetti capaci, titolari dei beni da proteggere,
tramite il quale sarebbe possibile l’affidamento del bene al garante: è noto, infatti,
che, ai fini dell’insorgenza di una posizione di garanzia derivata, non può ritenersi
sufficiente il generico e astratto affidamento ai pubblici amministratori della funzione
istituzionale298, ma occorre una delega precisa e circoscritta.
III. 2 Responsabilità per danni da uso delle strade
Escluso, pertanto, che sugli amministratori degli enti pubblici territoriali sussista una
posizione di garanzia di tale ampiezza da comportare l’obbligo d’impedimento di
qualsiasi evento lesivo nei confronti di qualunque consociato che si muova all’interno
della zona di competenza, occorre ora soffermarsi sul tema della responsabilità per
danni da uso delle strade.
Partendo dall’analisi dei profili civilistici, per giungere solo in seguito a quelli più
prettamente penalistici, occorre dare atto innanzitutto del quadro normativo di
riferimento. Al riguardo, viene in rilievo, in primo luogo, l’art. 2051 c.c., ossia la
disposizione concernente la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia,
sulla cui applicabilità alla Pubblica Amministrazione si è registrato in passato un
contrasto giurisprudenziale. Infatti, inizialmente la Corte di Cassazione civile299 ha
escluso che la P.A. soggiacesse alla disposizione de qua, sulla base di due argomenti
297
PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 74.
MARCONI, op. cit., p. 93.
299
Cass., 29 novembre 1966, n. 2806; Cass., 5 febbraio 1969, n. 385; Cass., 23 gennaio 1975, n. 260; Cass., 13 febbraio
1978, n. 671; Cass., 23 luglio 1991, n. 8244.
298
134
principali: in primo luogo, si è ritenuto che la stessa si ponesse in frizione con il
principio della presunzione di legittimità, caratterizzante l’attività della P.A.; in
secondo luogo, si è sostenuta l’incompatibilità tra l’art. 2051 c.c. e la notevole
estensione dei beni di proprietà dell’Amministrazione. In senso critico si è, però,
obiettato che la presunzione di legittimità riguarda l’agire pubblicistico
dell’Amministrazione e non già i comportamenti materiali della stessa assunti iure
privatorum. Inoltre, in chiave empirica, si è giustamente evidenziato che non tutti i
beni nella disponibilità della P.A. sono caratterizzati dal requisito della notevole
estensione.
Per tali ragioni, in seguito la Suprema Corte ha mutato orientamento, ritenendo
applicabile anche alla Pubblica Amministrazione l’art. 2051 c.c., giacché
quest’ultima, quando agisce iure privatorum, soggiace alle norme di diritto civile
come qualunque altro soggetto privato300. Presupposti di operatività dell’art. 2051 c.c.
sono, come noto, la custodia e la derivazione del danno dalla cosa. Quanto al concetto
privatistico di custodia, esso consiste nel potere di concreta disponibilità e controllo
della res. Tale potere deve essere effettivo301 e può corrispondere ad una situazione
anche di mero fatto, ossia priva di un supporto giuridico. Infatti, sono qualificabili
come custodi tutti i soggetti pubblici o privati che hanno il possesso o la detenzione
(legittima o anche abusiva302) della cosa. Inoltre, il dovere di custodia e la correlata
responsabilità ex art. 2051 c.c. non vengono meno (anche per la P.A.) nemmeno
laddove il potere di fatto sulla cosa risulti solo in parte trasferito a terzi, poiché
perdura in tal caso l’obbligo di vigilanza e controllo303. Ne consegue, quindi, che la
situazione giuridica qualificante è da ravvisarsi nella particolare relazione del
soggetto con la cosa, sia essa di fonte legale o negoziale.
Orbene, con particolare riguardo all’applicabilità dell’art. 2051 c.c. alla P.A., si è già
visto che la giurisprudenza ormai prevalente l’ha affermata in termini generali, ma
300
Cass., 21 maggio 1996, n. 4673; Cass., 1998, n. 11749; Cass., 22 aprile 1998, n. 4070. Tra le molte si richiamano,
per l’approfondito excursus giurisprudenziale, Cass. Civile, sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, in Corriere giuridico, n.
12 del 2006, p. 1727 e ss. e Cass., 11 novembre 2011, n. 23562, in La Rivista Neldiritto, 2, 2012, p. 212 e ss., con nota
di ROSSETTI, Insidia stradale e colpa della P.A.
301
Cass., 23 ottobre 1990, n. 10277; Cass., 25 novembre 1988, n. 6340.
302
Cass., 3 giugno 1976, n. 1992; Cass., 20 ottobre 2005, n. 20317.
303
Cass., 2 aprile 2004, n. 6515.
135
occorre ora segnalare che, all’interno di tale filone, l’orientamento meno recente della
Suprema Corte l’ha negata in relazione ai beni demaniali sui quali si esercita un uso
generale e diretto da parte dei cittadini, come nel caso delle strade e delle autostrade.
In tali casi, infatti, la giurisprudenza in passato dominante ha sostenuto che l’uso
indifferenziato attribuito al quisque de populo renda impossibile l’esercizio concreto
di un’idonea custodia da parte dell’Amministrazione pubblica, tale da poter essere
fonte della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c.304. Pertanto, in questi casi si
reputava al più applicabile il generale principio del neminem laedere di cui all’art.
2043 c.c. In questo contesto i giudici di legittimità hanno elaborato il concetto di
insidia o trabocchetto determinante un pericolo occulto, per il carattere oggettivo
della non visibilità e soggettivo della non prevenibilità305. Lo stesso è stato
considerato “un indice tassativo ed ineludibile della responsabilità della P.A.” 306, il
cui onere della prova incombeva sul danneggiato307, in ossequio alla regola generale
in tema di responsabilità aquiliana, secondo cui la prova degli elementi costitutivi
dell’illecito è a carico del creditore. Più di recente, invece, una parte della
giurisprudenza di legittimità308 ha sostenuto che gli unici presupposti applicativi
dell’art. 2051 c.c. siano la custodia e la derivazione del danno dalla res, mentre
difetterebbero di un fondamento normativo gli ulteriori requisiti, individuati
dall’orientamento tradizionale, della estensione ridotta del bene e della mancanza di
un uso generale e diretto da parte dei consociati. Infatti, secondo il nuovo indirizzo,
l’art. 2051 c.c. pone una presunzione di colpa in capo al soggetto che esercita la
custodia sul bene, con la conseguenza che incombe sul danneggiante l’onere di
provare l’insussistenza dell’elemento soggettivo. Al riguardo, la prova liberatoria da
fornire concerne il c.d. caso fortuito, nell’ambito del quale possono assumere un
significato l’estensione del bene e l’uso diretto e generalizzato da parte dei consociati,
che in passato erano considerati, nei casi in esame, alla stregua di presupposti
304
Cass. Civ., sez. III, 15 gennaio 1996, n. 265, in Giust. Civ. Mass., 1996, p. 46; Cass. Civ., sez. I, 26 gennaio 1999, n.
674, in Riv. Giur. Polizia, 1999, p. 610; Corte Cost., 10 maggio 1999, n. 156, in Cons. Stato, 1999, II, p. 693.
305
Cass., 28 gennaio 2004, n. 1571; Cass., 8 novembre 2002, n. 15710; Cass., 21 dicembre 2001, n. 16179 etc..
306
Cass., 1 dicembre 2004, n. 22592.
307
Cass., 4 giugno 2004, n. 10654; Cass., 30 luglio 2002, n. 11250; Cass., 12 giugno 2001, n. 7938.
308
Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, cit.; Cass., 6 giugno 2008, n. 15042.
136
applicativi dell’art. 2051 c.c. In altri termini, la P.A. può escludere la colpa, e quindi
la responsabilità civile, provando che l’impedimento dell’evento avrebbe comportato
l’impiego di mezzi straordinari inesigibili. In questa prospettiva, pertanto, l’art. 2051
c.c. rappresenta semplicemente un’eccezione al riparto dell’onus probandi di cui
all’art. 2697 c.c., la cui ratio pare debba essere rinvenuta nel principio di vicinanza
della prova309.
Per altro verso, l’indirizzo più recente della Suprema Corte310 reputa che al
danneggiato non possa farsi carico della prova anche dell’insidia o del trabocchetto,
che sono estranei alla responsabilità ex art. 2051 c.c., così come alla generale figura
di cui all’art. 2043 c.c. In altre parole, diversamente da quanto sostenuto
costantemente in passato dalla Suprema Corte311 e dalla Consulta312, la tesi seguita
negli ultimi anni dai giudici di legittimità esclude che si possa assegnare rilievo a
figure come l’insidia o il trabocchetto determinanti pericolo occulto, in quanto prive
di un fondamento normativo e frutto solamente dell’elaborazione giurisprudenziale
che, muovendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabilità, ha finito
tuttavia per risolversi, laddove veniva a porre la relativa prova a carico del
danneggiato, in termini di ingiustificato privilegio per la P.A. La posizione probatoria
del danneggiato risultava, infatti, in tal modo aggravata, in contrasto non solo con il
tenore letterale ed il portato sostanziale delle norme, ma, in termini generali, anche
con le stesse scelte di fondo dell’ordinamento in materia di responsabilità civile,
rispondenti al riconosciuto favor per il soggetto che ha subito un danno.
Tanto premesso sul crinale del diritto civile, occorre ora soffermarsi sugli aspetti
penalistici della questione, con particolare riguardo alla responsabilità per omissione
impropria colposa degli organi dell’Amministrazione competenti in materia di
gestione dei beni in custodia della P.A. Orbene, si è già visto che il primo dei requisiti
della posizione di garanzia è la giuridicità dell’obbligo di impedimento dell’evento,
onde la necessità di rinvenire una norma che istituisca un soggetto come garante. Nel
309
Cass., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, cit.
Cass., 17 maggio 2001, n. 6767; Cass., 20 febbraio 2006, n. 3651; Cass., 6 giugno 2008, n. 15042.
311
Sez. Unite, 7 agosto 2001, n. 10893.
312
Corte Cost., 10 maggio 1999, n. 156.
310
137
caso in esame, ossia in tema di responsabilità per eventi lesivi derivanti da beni nella
disponibilità della P.A., il fondamento giuridico della posizione di garanzia è stato
rinvenuto nell’art. 2051 c.c., con la conseguenza che la giurisprudenza penale sul
punto ha inevitabilmente risentito delle opzioni ermeneutiche seguite dalla Suprema
Corte in ambito civilistico. Infatti, una pronuncia della sezione IV del 1998313,
facendo
pedissequa applicazione in un processo penale della tesi all’epoca
dominante nella Cassazione Civile, ha escluso che il Sindaco di un Comune fosse
responsabile degli eventi lesivi derivanti da uso delle strade, sull’assunto che l’art.
2051 c.c. non fosse applicabile in presenza di beni pubblici di notevole estensione e
soggetti all’uso indifferenziato da parte dei consociati. I giudici di legittimità, invero,
hanno ritenuto che sarebbe stato assurdo ravvisare una responsabilità penale
dell’organo esponenziale del Comune in un caso di irresponsabilità civile della stessa
Amministrazione, alla luce dell’esegesi dell’art. 2051 c.c. all’epoca fornita dalle
Sezioni Civili. Si è già visto, però, che negli anni successivi la Corte di Cassazione
Civile ha mutato orientamento in merito alla responsabilità per danni da cose in
custodia, escludendo che presupposti di non operatività dell’art. 2051 c.c. siano la
notevole estensione del bene e l’uso indifferenziato dello stesso da parte dei
consociati. L’eliminazione di siffatto privilegio della P.A. in ambito civilistico
dovrebbe quindi spiegare effetti sul versante penalistico, con la conseguenza che l’art.
2051 c.c. dovrebbe ora fungere da fondamento normativo per la sussistenza di una
posizione di garanzia in capo all’organo dell’Amministrazione competente alla
gestione e manutenzione delle strade. In questo senso, del resto, si era espressa parte
della dottrina nel commentare in senso critico la citata pronuncia della IV sezione del
1998314. Si può quindi ritenere che dalla relazione di custodia tra Amministrazione e
bene (anche di notevole estensione e soggetto ad uso generalizzato) nasca una
posizione di garanzia, sub specie di controllo su situazioni di pericolo, in capo alla
persona fisica preposta all’organo della P.A, competente in materia di gestione di tale
313
Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 1998 (ud. 18 novembre 1997), in Dir. pen. e proc., 1998, 11, p. 1408, con nota di
LEONCINI, Le perduranti incertezze sul fondamento della responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento.
314
LEONCINI, Le perduranti incertezze sul fondamento della responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento,
cit., p. 1415.
138
res, la cui giuridicità trova base nel citato art. 2051 c.c. Con ciò, tuttavia, non si vuol
negare che la notevole estensione del bene e l’uso generalizzato assumano un
qualsiasi significato ai fini della responsabilità penale, ma si vuol semplicemente
evidenziare che essi possono acquisire rilievo - come del resto ritiene oggi la
Cassazione Civile ai fini della responsabilità aquiliana - solo sul piano dell’elemento
soggettivo e non già per escludere in radice la sussistenza di una posizione di
garanzia. Ciò posto, il problema penalistico diviene allora quello di individuare in
concreto il soggetto sul quale si appunti un simile obbligo d’impedimento dell’evento
lesivo derivante da cose in custodia dell’Amministrazione. Al riguardo, e con
particolare riferimento ai reati omissivi impropri colposi per lesioni o omicidi
derivanti dall’uso delle strade, ipotesi purtroppo di frequente applicazione giudiziaria,
si registra in giurisprudenza una notevole incertezza in merito all’individuazione del
soggetto garante. Infatti, la citata pronuncia della IV sezione del 1998 ha individuato,
come possibile destinatario dell’obbligo di impedimento dell’evento, il Sindaco, in
quanto organo di vertice del Comune che, ai sensi dell’art. 28 della legge 20 marzo
1865 n. 2248, è l’ente proprietario delle strade locali e, perciò, è tenuto alla relativa
manutenzione. La stessa pronuncia, inoltre, in un obiter dictum, prospetta in via
ipotetica,
laddove
sia
individuabile
una
responsabilità
del
Capo
dell’Amministrazione, l’attrazione nell’imputazione dei responsabili di altri uffici
comunali (come ad. es. l’ufficio tecnico e la polizia municipale). Altra sentenza del
febbraio 2011,315 invece, ha ritenuto responsabile di lesioni colpose il dirigente
dell’ufficio tecnico comunale che, in qualità di addetto alla manutenzione della rete
stradale del Comune stesso, abbia omesso la necessaria manutenzione ordinaria del
piano di calpestio del passaggio comunale tra il marciapiede e l’attraversamento della
carreggiata, così permettendo il permanere di una “bolla” di materiale bituminoso
rialzata rispetto al piano di camminamento e pericolosa in quanto difficilmente
visibile e non segnalata in alcun modo, tale da provocare la caduta della persona
Cass. pen, sez. IV, 16 febbraio 2011, in Diritto penale contemporaneo, con nota di DI LANDRO, Le” insidie stradali”
e la responsabilità colposa dei dirigenti e degli amministratori pubblici locali: punti fermi e questioni ancora aperte
nella giurisprudenza di legittimità, www.penalecontemporaneo.it
315
139
offesa. La sentenza in esame, dunque, si inserisce nel diverso filone giurisprudenziale
secondo cui le omissioni nell’attività di manutenzione di una strada possono
determinare una responsabilità colposa in capo al responsabile dell’ufficio tecnico
comunale, considerati i compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica,
attribuiti ai dirigenti degli enti locali, ed i corrispondenti autonomi poteri di
organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo in merito alle fonti di pericolo.
Tale orientamento prende, dunque, atto dell’intervenuta separazione a livello
normativo delle funzioni di indirizzo e programmazione, assegnate agli organi politici
da quelle gestionali di competenza dei burocrati degli enti pubblici. Al riguardo giova
segnalare che un importante arresto della Suprema Corte316 ha espressamente escluso
che sussistesse una responsabilità colposa, per danni da c.d. insidia stradale, in capo
ai membri del Consiglio Comunale, attesa la distinzione di competenze emergente
dall’art. 107 d.lgs. n. 267 del 2000, già analizzata nella parte seconda di questo
studio. Nello stesso senso, una più risalente sentenza della Suprema Corte317, in
un’ipotesi di mancato ripristino di un segnale stradale, ha escluso che il Sindaco e
l’Assessore ai lavori pubblici siano tenuti a verificare personalmente la presenza dei
prescritti cartelli stradali, in quanto, in via di principio, all’amministrazione comunale
spettano compiti di vigilanza in ordine al regolare funzionamento di servizi e uffici,
ma non anche il dovere di acquisire direttamente, fatta eccezione per i Comuni di
piccole dimensioni, conoscenza delle eventuali carenze esistenti. Al contrario, la
citata pronuncia ha ritenuto corretta l’affermazione di responsabilità - per il mancato
ripristino del segnale di pericolo e per le conseguenti lesioni colpose - a carico del
dirigente dell’ufficio tecnico comunale, il quale, nella sua qualità, ha l’obbligo di
controllare la presenza e l’efficienza dei cartelli stradali e il ripristino di quelli
rimossi.
316
Cass., sez. IV, 4 giugno 2004, Cattaneo, in Foro it., Rep. 2005, voce Omicidio e lesioni personali colposi, n. 29.
Cass., 22 aprile 1982, Tecchio, in Arch. Circ., 1983, p. 216 e in Foro it., Rep. 1983, voce Omicidio e lesioni
personali colposi.
317
140
Altro orientamento della Suprema Corte, invece, opina nel senso della responsabilità
concorsuale degli organi politici e burocratici del Comune318. Infatti, in un caso di
danno da insidia stradale (nella specie un dislivello privo di segnalazione), i giudici di
legittimità hanno reputato che il Sindaco, con delega assessoriale ai lavori pubblici,
rispondesse, in concorso con il responsabile dell’ufficio tecnico comunale, del reato
di cui all’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose) per non aver attivato i necessari
controlli sulla manutenzione delle strade. La Corte, invero, ha sostenuto che la
posizione di garanzia del Sindaco e del responsabile dell’ufficio tecnico comunale
imponesse loro di vigilare nell’ambito delle rispettive competenze al fine di evitare ai
cittadini situazioni di pericolo quali quelle derivanti da una non adeguata
manutenzione delle strade e dalla inerzia dei controlli. Nello stesso senso si è
espressa altra pronuncia della Corte di Cassazione319, la quale ha affermato che, in
tema di omicidio colposo mediante omissione, il Sindaco e l’Assessore comunale
sono responsabili nel caso che non adottino alcun provvedimento urgente atto ad
eliminare una situazione di pericolo di cui sono consapevoli. Secondo tale sentenza,
la colpa omissiva di tali organi è esclusa solo nel caso in cui gli stessi non abbiano
avuto conoscenza del pericolo, ovvero non abbiano avuto la possibilità concreta,
anche con la normale diligenza, di porre in essere i rimedi utili per eliminare la fonte
di pericolo. Nel caso concreto - morte di un soggetto precipitato nel vuoto perché
appoggiatosi ad una ringhiera instabile nel corso dell’esecuzione di alcuni lavori
pubblici - i giudici di legittimità hanno ritenuto che le autorità comunali avrebbero
potuto adottare una serie di provvedimenti, come l’immediata chiusura della piazza, il
transennamento della zona pericolosa, il piantonamento della stessa, o, quantomeno,
avrebbero potuto assicurarsi che l’impresa e il direttore dei lavori avessero adempiuto
l’incarico affidato. Ad avviso della Corte, quindi, il completo disinteresse manifestato
dal Sindaco e dall’Assessore comunale per la situazione de qua configura evidente
Cass., sez. IV, 15 gennaio 2008, n. 36475, Picone, in Riv. giur. circolaz. e trasp. – Antologia, 2008, p. 448 e in Foro
it., Rep. 2008, voce Omicidio e lesioni personali colposi, n. 46.
319
Cass., sez. IV, 29 novembre 2005, Pelle, in Giur. it., 2007, p. 449.
318
141
manifestazione di negligenza e imprudenza, ed una chiara violazione degli obblighi
inerenti alle cariche ricoperte.
Sempre in materia di negligente manutenzione di opere comunali, quanto al tema
della delega di funzioni da parte del Sindaco sono emersi indirizzi contrastanti nella
giurisprudenza di legittimità320. Infatti, secondo una tesi seguita dalla Suprema Corte,
qualora il legale rappresentante del Comune abbia realizzato una valida delega dì
funzioni, dovrebbe essere esclusa una responsabilità colposa in capo allo stesso,
poiché la delega di poteri pubblici trasferisce al delegatario tutti i poteri con i
connessi obblighi riguardanti il ramo dell’amministrazione che viene delegato 321.
In senso contrario, invece, altra corrente interna alla Suprema Corte afferma il
permanere in capo al Sindaco di una responsabilità per culpa in eligendo o in
vigilando (c.d. residuo non delegabile). Al riguardo, ad esempio, è stata ritenuta
sussistente la responsabilità di un Sindaco che - tempestivamente informato sulla
situazione di pericolo esistente in una piscina comunale, in conseguenza
dell’accertato danneggiamento della recinzione, con la possibilità che estranei e
specialmente bambini vi entrino facilmente - si sia limito a dare al tecnico comunale
un impersonale e indiretto incarico a provvedere alle opere necessarie per eliminarla,
omettendo di vigilare in prima persona perché le opere delegate fossero
effettivamente eseguite322.
Tanto premesso sulle tesi emerse in giurisprudenza, pare di dover ritenere che
l’individuazione del garante, nell’ambito dell’organizzazione complessa costituita
dall’ente territoriale, risenta delle riforme intervenute nell’assetto organizzativo della
stessa a decorrere dalla legge n. 142 del 1990 e, in particolare, del progressivo
affermarsi del principio di separazione tra politica e amministrazione. Ne consegue
che il problema penalistico, consistente nella ricerca del soggetto effettivamente
munito di un potere impeditivo rispetto al verificarsi di eventi pregiudizievoli per i
beni esposti a fonti di pericolo, non è suscettibile di essere risolto in termini generali,
320
DI LANDRO, op. cit., p. 2.
Cass., 29 settembre 1989, Auricchio, in Riv. pen., 1990, p. 777.
322
Cass., 5 novembre 1985, Strizzi, in Riv. pen. 1987, p. 182.
321
142
ma dovrà tener conto dei vari distinguo già analizzati nella parte seconda di questo
studio. Più nel dettaglio, in primo luogo occorre chiedersi se l’impedimento
dell’evento imponga l’esercizio di poteri rientranti nell’attività di gestione
amministrativa o se invece sia necessario l’intervento dell’organo d’indirizzo
politico, ad esempio al fine di dotare le strutture burocratiche delle risorse finanziarie
necessarie a fronteggiare la situazione di pericolo. In secondo luogo, qualora si
ritenga che l’impedimento dell’evento richieda la spendita di poteri gestionali,
bisognerà comunque domandarsi, in base alla disciplina amministrativa, se la
situazione concreta rientri nella regola della separazione tra indirizzo politico e
gestione burocratica, con la conseguenza che il garante dovrebbe essere individuato
nel dirigente competente, o se invece si ricada in una delle eccezioni al principio della
distinzione delle funzioni323, onde il soggetto gravato dall’obbligo di impedire
l’evento dovrebbe essere un esponente politico. Ad esempio, nel cui in cui si sia
verificato un evento lesivo dovuto a disfunzioni gestionali, di regola, la responsabilità
omissiva impropria dovrebbe ricadere sul funzionario preposto all’ufficio
competente, ma, qualora si tratti di un Comune di piccole dimensioni, è ben possibile
che il Regolamento locale, ai sensi dell’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n.
448 (legge finanziaria 2002), abbia attribuito ai componenti degli organi politici
poteri di natura amministrativa, sicché il garante dovrebbe essere individuato non già
in un burocrate, ma in un esponente del ceto elettivo. In terzo luogo, infine, occorre
verificare, come del resto accade in tutte le organizzazioni complesse, se vi siano
323
Ad esempio: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4 d.lgs. 267/2000). Forse, più che una eccezione alla
regola è una conferma della regola generale, posto che in tal caso il Sindaco non viene in rilievo quale organo politico
che “eccezionalmente” esercita poteri gestori, ma come organo gestionale dello Stato, che “normalmente” esercita
poteri amministrativi; b) enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L’art. 53, c. 23 della legge 23 dicembre
2000 n. 388 (legge finanziaria 2001), così come modificata dall’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 (legge
finanziaria 2002), prevede la possibilità per gli enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti di adottare
disposizioni regolamentari con le quali si attribuiscano ai componenti degli organi di indirizzo politico poteri di natura
gestionale; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000. Il t.u. sugli enti locali, infatti, attribuisce al Consiglio Comunale
poteri gestionali in materia di: organizzazione dei servizi pubblici locali e relative concessioni; contrazioni di mutui e
aperture di credito ed emissione di prestiti obbligazionari; acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
Giunta, del Segretario o di altri funzionari.
143
state deleghe di funzioni e, in caso positivo, se sussista comunque una responsabilità
per culpa in eligendo o in vigilando da parte del delegante324.
Ciò posto, la dottrina325 ha individuato tre possibili ipotesi.
In primo luogo, può verificarsi il caso che l’evento lesivo derivi dalla mancata
assegnazione di risorse, ovvero degli strumenti necessari alla struttura amministrativa
competente. In questi casi, sembra che il garante vada rinvenuto nel pertinente organo
politico, posto che la normativa di riferimento attribuisce allo stesso i compiti di
organizzazione e predisposizione dei mezzi necessari per il corretto funzionamento
dei singoli settori di attività dell’ente pubblico.
In secondo luogo, l’evento lesivo può derivare dal mancato utilizzo, da parte
dell’organo di gestione, delle risorse messe a disposizione dai rappresentanti politici
nel corso dell’attività di indirizzo e programmazione. In queste situazioni l’eventuale
responsabile del reato omissivo improprio, sempre che sussista anche l’elemento
soggettivo, dovrebbe essere il dirigente competente, atteso che l’obbligo
d’impedimento dell’evento grava esclusivamente sullo stesso e considerato che
l’organo politico ha correttamente esercitato i poteri di propria spettanza.
Infine, può ipotizzarsi che l’evento lesivo derivi da una situazione di emergenza non
imputabile ad una deficienza programmatoria, da fronteggiare mediante il ricorso a
risorse aggiuntive. In tali casi può accadere che l’organo politico, debitamente
informato dalla dirigenza circa l’esigenza di fondi straordinari, ometta di provvedere.
Al riguardo, la dottrina326 ritiene che la responsabilità dell’organo politico possa
derivare solo dall’espressa incriminazione della violazione di un obbligo di attivarsi,
secondo lo schema del reato omissivo proprio (ad es. omissione di atti d’ufficio), non
essendo ravvisabile nella specie una posizione di garanzia, a causa della mancanza, in
capo all’organo politico, di preesistenti poteri impeditivi dell’evento. Infatti, come si
è già visto nella prima parte di questo studio, nell’ambito della posizione di garanzia
il potere impeditivo deve preesistere al presupposto di fatto (la situazione di pericolo)
324
GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 911.
MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 271 e ss.; GAROFOLI, Manuale
di diritto penale. Parte generale, cit., p. 911.
326
MARCONI, op. cit., p. 273; GAROFOLI, op. cit., p. 912.
325
144
che lo attualizza. Poiché nel caso in esame non sussiste un potere impeditivo
preesistente alla situazione di emergenza - atteso che la stessa in ipotesi non è dovuta
a carenze programmatorie - si dovrebbe concludere che non sia ravvisabile una
posizione di garanzia, ma, al più, un mero obbligo di attivarsi che, appunto, sorge
solo al verificarsi del presupposto di fatto (ad. es. omissione di atti d’ufficio). In
senso contrario si potrebbe ritenere che l’organo politico, una volta informato della
situazione di emergenza, abbia l’obbligo giuridico di impedire che l’evento prodottosi
si aggravi, onde potrebbe rispondere di omissione impropria per non aver impedito
l’aggravamento della situazione di pericolo. Tale soluzione, tuttavia, finirebbe per
disattendere la ricostruzione della posizione di garanzia che si è visto essere
preferibile e che si fonda appunto sulla preesistenza di poteri impeditivi della
insorgenza della situazione di pericolo. Pare dunque opportuno aderire alla tesi
prevalente ed escludere che nella specie sia ravvisabile un obbligo d’impedimento
dell’evento, con la conseguenza che potrebbe ipotizzarsi solo una responsabilità
dell’organo elettivo per reato omissivo proprio (ove sia previsto e ne siano integrati
gli elementi costitutivi).
Con particolare riferimento al tema degli eventi lesivi derivanti da uso delle strade,
occorre evidenziare che, di regola e salvo l’eccezione dei Comuni di minori
dimensioni, la competenza in materia e la relativa posizione di garanzia dovrebbero
essere attribuite ai soggetti preposti all’ufficio tecnico comunale, a meno che non si
ritenga che l’evento lesivo sia dovuto a carenze programmatorie imputabili all’organo
di indirizzo politico, come ad esempio il caso della mancata assegnazione di adeguate
risorse all’ufficio competente. Nondimeno, bisogna segnalare che in materia può
comunque residuare una competenza del Sindaco quale Ufficiale di Governo, il
quale, ai sensi dell’art. 54 c. 4 del d.lgs. n. 267 del 2000, deve adottare con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Pertanto, non sembrano condivisibili
quelle pronunce che, in tema di eventi lesivi da uso delle strade, ravvisano una
145
responsabilità omissiva impropria del Sindaco in quanto organo di vertice del
Comune che, ai sensi dell’art. 28 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, è l’ente tenuto
alla manutenzione delle stesse. Infatti, alla luce del principio di separazione delle
funzioni tra organi burocratici e organi politici, la competenza in materia di gestione
delle strade dovrebbe, di regola, essere assegnata agli uffici tecnici, mentre nessun
rilievo potrebbe assumere il fatto che il Sindaco sia il legale rappresentante del
Comune-proprietario. Semmai, una responsabilità del Sindaco per omissione
impropria potrebbe essere ravvisata nei casi di mancata emanazione delle ordinanze
contingibili ed urgenti di cui al citato art. 54 c. 4 del tuel, che, come si è visto,
prevede una eccezionale competenza gestoria in capo ad un organo elettivo.
Quanto al tema delle deleghe di funzioni, sembra preferibile l’orientamento che
riconosce in capo al delegante una residua responsabilità per culpa in eligendo e in
vigilando, atteso che lo stesso risulta maggiormente in linea con il principio di non
derogabilità delle posizioni di garanzia, che invece verrebbe seriamente
compromesso dalla tesi che vede il delegato quale nuovo ed esclusivo titolare
dell’obbligo di impedimento dell’evento. Al contrario, l’impostazione più
condivisibile ritiene che la delega di funzioni comporti solo il sorgere di una
posizione di garanzia derivata in capo al delegato, senza peraltro che vengano meno
gli obblighi originariamente incombenti sul delegante, i quali, al più, possono mutare
natura, trasformandosi in obblighi di controllo, ma mai estinguersi del tutto.
La tesi tradizionale, muovendo dalle teorie emerse in passato nella giurisprudenza
civile, ritiene decisiva, ai fini della responsabilità penale per eventi lesivi derivanti da
difettosa manutenzione delle strade, l’oggettiva sussistenza di un’insidia. In
particolare, la citata sentenza del 16 febbraio 2011 ha ritenuto che costituisse
un’insidia il rigonfiamento dell’asfalto non percepibile se non ad un occhio
particolarmente attento, poiché esso rappresentava un pericolo non riconoscibile ed
eliminabile solo attraverso un adeguato controllo da parte degli addetti al sistema di
manutenzione. Secondo la giurisprudenza prevalente, infatti, è insidia una fonte di
pericolo inevitabile con l’uso della normale diligenza, sicché, ad esempio, sorge
146
l’obbligo di eliminare la fonte di pericolo su una pubblica via o di apprestare
adeguate protezioni, ripari, cautele od opportune segnalazioni327. Diversamente,
qualora adottando la normale diligenza che si richiede a chi usi una strada pubblica,
la situazione di pericolo sia conoscibile e superabile, la causazione di un eventuale
infortunio non può che far capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia
adottato la diligenza dovuta328. Quanto agli esempi di insidia ravvisati dalla Corte di
Cassazione, si segnala che la stessa è stata riconosciuta nella presenza di uno scavo
non protetto da barriere all’interno di un anello rotatorio aperto al traffico nonostante
il mancato completamento dei lavori di realizzazione, in assenza di adeguata
segnalazione ed illuminazione329; oppure, in una interruzione o una soluzione di
continuità del piano stradale caratterizzata dall’elemento obiettivo della non visibilità
del
pericolo
e
dall’elemento
soggettivo
dell’imprevedibilità,
costituita
dall’impossibilità di avvistare in tempo utile il medesimo pericolo 330. L’insidia è
stata, invece, esclusa in un caso di un bambino di sette anni che, circolando a bordo di
una bicicletta su di una via pubblica, era uscito, per cause sconosciute, di strada ed
era precipitato nell’adiacente ripida scarpata, priva di segnalazione e separata dalla
sede stradale solo da uno stretto ciglio erboso, riportando, per l’urto contro una
sottostante recinzione metallica di aree lottizzate, lesioni mortali331; oppure nel caso
in cui lo stato di dissesto della strada, oltre a costituire una condizione dell’incidente,
fosse percepibile con sufficiente anticipo, con conseguente responsabilità colposa in
capo soltanto al conducente del veicolo332.
In senso diametralmente opposto va segnalata una recente pronuncia della Suprema
Corte333, secondo la quale l’accertamento della colpa dei dirigenti comunali per
difettosa manutenzione delle strade pubbliche dovrebbe prescindere dall’oggettiva
sussistenza di un’insidia odi un trabocchetto, poiché trova il suo limite solo nella
327
Cass., sez. IV, 18 maggio 2005, Ducci, in Arch. Nuova proc. pen., 2006, p. 76; Trib. Pescara, 9 marzo 2008, in
P.Q.M., 2008, fasc. 1, p. 94.
328
Cass., sez. IV, 18 maggio 2005, cit.
329
Cass., sez. IV, 27 aprile 2006, Frappi, in Arch. Circolaz., 2007, p. 119: nella specie l’automobilista, immessosi nella
rotatoria e perduto il controllo del veicolo, era finito nello scavo, così riportando lesioni di esito mortale.
330
DI LANDRO, op. cit., p. 3.
331
Cass., sez. IV; 23 giugno 2004, Santilli, in Arch. circolaz., 2005, p. 23 e 504.
332
Cass., 22 dicembre 1987, Caloni, in Arch. circolaz., 1988, p. 833.
333
Cass., sez. IV, 1 aprile 2008, Cerri, in Arch. circolaz., 2008, p. 942.
147
condotta abnorme della persona offesa, rilevante al fine della interruzione del nesso
di causalità334. In tale occasione, infatti, la Suprema Corte ha sostenuto che la
responsabilità penale del soggetto preposto alla manutenzione di una via pubblica per
eventi lesivi dei quali taluno sia rimasto vittima a causa di irregolarità riconducibili a
difetto manutenzione, non può essere esclusa – ferma restando la possibilità del
concorso di colpa da parte della persona offesa – per il solo fatto che si tratti di
irregolarità non aventi il carattere dell’insidia o del trabocchetto, ma solo quando
l’evento, per le sue connotazioni di abnormità ed eccezionalità, sia riconducibile a
caso fortuito, con esclusione, quindi, del nesso di causalità tra esso e la condotta
omissiva posta in essere dall’imputato. Nella specie, in applicazione di tale principio,
la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale il giudice di merito
aveva assolto dal reato di lesioni colpose il responsabile del servizio di manutenzioni
esterne e di polizia municipale di un Comune, cui detto reato era stato addebitato in
relazione alle lesioni che un ciclista aveva riportato a seguito di una caduta a terra
dovuta alla presenza di una buca al centro della carreggiata da lui percorsa.
L’orientamento seguito dalla citata pronuncia del 2008, pur essendo suscettibile di
estendere l’area di responsabilità, appare maggiormente in linea con i recenti approdi
delle sezioni civili della Suprema Corte, i quali, infatti, escludono che l’insidia sia
presupposto di applicazione dell’art. 2051 c.c.335, considerata l’insussistenza di un
fondamento normativo di siffatto requisito, argomento questo spendibile, mutatis
mutandis, anche sul crinale penalistico.
Secondo tale sentenza, quindi, può ben accadere che una situazione non abbia i
caratteri oggettivi dell’insidia (ad es. una buca visibile), e tuttavia il soggetto passivo
incorra in incidente, ponendo in essere una condotta con ogni probabilità disattenta,
ma non qualificabile perciò stesso come abnorme o eccezionale, onde la colpa dei
dirigenti degli enti pubblici territoriali non sarebbe in radice esclusa336. Ne consegue
Sulla rilevanza del comportamento della persona offesa ai fini dell’interruzione del nesso di causalità: Cass., 4
maggio 1990, in Riv. pen., 1991, p. 325; Cass., 30 maggio 1991, n. 5835, in Riv. pen., 1991, p. 910; Cass., 13 febbraio
1991, in Mass. Cass. pen., 1991, fasc. 7, 10; Cass., sez. IV, 29 novembre 2005, n. 14180, in C.E.D. Cass. n. 233953;
Cass., sez. IV, 5 giugno 2007, n. 37589 in C.E.D. Cass. n. 237772.
335
Cass., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, cit.
336
DI LANDRO, op. cit., p. 4.
334
148
che siffatta tesi, nell’ampliare i confini dell’illecito colposo includendo nella
responsabilità anche situazioni non aventi il carattere dell’insidia o del trabocchetto,
si risolve in una maggiore difesa degli interessi degli utenti della strada e in una
minore valorizzazione del principio di auto-responsabilità della vittima.
III.3 La responsabilità del Sindaco quale autorità locale di protezione civile.
Con la sentenza n. 16761 dell’11 marzo 2010, la quarta sezione della Corte di
Cassazione si è occupata della nota alluvione di Sarno del 5 maggio 1998, annullando
con rinvio la pronuncia della Corte d’Appello di Salerno che aveva assolto l’ex
Sindaco del paese, accusato di omicidio colposo plurimo per la morte di 137 persone,
per non aver allertato la popolazione e non aver disposto l’evacuazione delle zone a
rischio337.
Al riguardo la sentenza d’appello aveva ritenuto che, nel caso di calamità naturali e
catastrofi interessanti aree più vaste di quelle comunali, il Prefetto fosse titolare di
una posizione di garanzia, mentre ai Sindaci fosse riservato il compito di assistenza e
soccorso delle popolazioni. La Corte d’Appello di Salerno aveva, quindi, assolto l’ex
Sindaco di Sarno per difetto nella specie di una posizione di garanzia in capo allo
stesso, attesa la mancanza di competenza dell’autorità comunale in situazioni di tale
gravità e ampiezza.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione se il Sindaco fosse
titolare di una posizione di garanzia che lo obbligava ad attivarsi per impedire
l’evento dannoso, ha ripercorso le teorie formali e sostanziali sulla garantestellung,
soffermandosi in seguito sulla normativa di riferimento nel caso in esame,
rappresentata dalla legge 24 febbraio 1992 n. 225338. Tale disciplina individua i
soggetti ai quali sono attribuite competenze in tema di protezione civile. Più nel
337
TORDELLI, Giurisprudenza penale 2010, Milano, 2010, p. 79 e ss.
In tema di ordinanze extra ordinem ai sensi della legge 24 febbraio 1992 n. 225 si veda BONCOMPAGNI, Ordinanze
extra ordinem e regime della nullità provvedimentale, in La Rivista Neldiritto, 11/11, p. 1680 e ss.
338
149
dettaglio, la citata legge, introducendo un’ulteriore deroga al principio di separazione
tra politica e amministrazione, prevede che il Sindaco, qualora ricorrano eventi
calamitosi, assume, in qualità di “autorità comunale per la protezione civile”, la
direzione ed il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza, provvedendo
agli interventi necessari e dandone immediata comunicazione al Prefetto e al
Presidente della Giunta Regionale (art. 15 c. 3 della legge n. 225 del 1992)339. Inoltre,
la legge n. 225 del 1992 stabilisce che “quando la calamità naturale o l’evento non
possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del Comune, il Sindaco chiede
l’intervento di altre forze e strutture al Prefetto, che adotta i provvedimenti di
competenza, coordinando i propri interventi con quelli dell’autorità comunale di
protezione civile” (art. 15 c. 4). Tali disposizioni hanno poi trovato conferma nel
d.lgs. n. 112 del 1998, il cui art. 108 c. 1 lett. c) ha attribuito ai Comuni le funzioni
riguardanti “l’adozione di tutti i provvedimenti, compresi quelli relativi alla
preparazione dell’emergenza, necessari ad assicurare i primi soccorsi in caso di
eventi calamitosi in ambito comunale”. A ciò si aggiunga che la c.d. Direttiva
Barberi, emanata nel 1996 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento
della protezione civile, qualifica il Sindaco come l’autorità responsabile, in caso di
emergenza, della gestione dei soccorsi sul territorio di propria competenza, in
raccordo con il Prefetto340.
Dal complesso di tali disposizioni si evince, secondo la Suprema Corte341, che il
Sindaco sia titolare di una posizione di garanzia, avendo competenza nella gestione
dell’emergenza provocata da eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo, di
calamità o catastrofi. Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la
sentenza della Corte d’Appello di Salerno, con la quale era stata esclusa una
responsabilità del Sindaco di Sarno per difetto di competenza dello stesso nella
gestione dell’alluvione del 5 maggio 1998. In particolare, i Giudici di legittimità
hanno evidenziato che, benché la normativa preveda che, se gli eventi non possono
339
TORDELLI, op. cit., p. 80.
TORDELLI, op. loc. ult. cit.
341
Cass., sez. IV, 11 marzo 2010, n. 16761 in Giurisprudenza penale 2010, Milano, 2010, p. 82 e ss.
340
150
essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del Comune, il Sindaco debba chiedere
l’intervento del Prefetto, ciò non significa che vengano meno i poteri del Sindaco né i
suoi obblighi di gestione dell’emergenza. Pertanto, finché il Prefetto non abbia
assunto, anche di fatto, la direzione delle operazioni, il Sindaco, nell’ambito del
pertinente territorio comunale, conserva tutti i poteri e gli obblighi derivanti dalla
qualità di autorità locale di protezione civile. Peraltro, se il Prefetto adotta i
provvedimenti di sua competenza deve coordinarsi con l’autorità comunale di
protezione civile, il che conferma che il Sindaco non fosse privo nella caso di specie
di una posizione di garanzia. Il principio espresso dalla Suprema Corte appare,
quindi, condivisibile e destinato a trovare conferma nella successiva giurisprudenza
di merito e di legittimità.
III.4 Responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da
parte dell’organo di indirizzo politico: a) nei casi eccezionali in cui l’organo
politico abbia poteri gestori
Come si è già visto nella prima parte del presente studio342, all’interno della nozione
di posizione di garanzia, secondo una tesi autorevole343, è possibile assegnare un
ruolo autonomo agli obblighi d’impedimento di reati commessi da soggetti sottoposti
ai poteri giuridici impeditivi del garante, che, ove ne sussistano i requisiti, risponde di
concorso omissivo nel reato non impedito.
Ciò posto, occorre ora domandarsi se l’organo d’indirizzo politico assuma una
posizione di garanzia di tale natura nell’ambito della propria attività istituzionale.
Al riguardo occorre precisare che il problema si potrebbe porre non solo per i reati
commessi da parte dei comuni cittadini, ma anche per quelli realizzati dai funzionari
pubblici nel dispiegamento delle loro mansioni.
342
343
Retro pr. I.5.
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 519; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 292 e ss.
151
Nel primo caso (reati comuni posti in essere da soggetti esterni all’apparato
amministrativo) bisogna verificare se sussista in capo agli organi politici un obbligo
giuridico d’impedimento degli illeciti penali consumabili in taluni ambiti di
pertinenza dell’ente cui sono preposti. In base a quanto si è visto nella premessa di
diritto amministrativo, a seguito delle riforme intervenute negli ultimi anni si è
affermato il principio di separazione tra funzioni amministrative, riservate alle
strutture burocratiche, e compiti d’indirizzo e programmazione, attribuiti agli organi
politici. Ne consegue che, salvo eccezioni344, questi ultimi non sono forniti di
competenze gestionali, con la conseguenza che non hanno né l’obbligo giuridico
d’impedimento né i poteri impeditivi dei reati altrui realizzabili, ad esempio, in
materia urbanistica e paesaggistica. Al riguardo, una recente pronuncia della Suprema
Corte345 ha affermato che: “Non è configurabile a carico del Sindaco alcuna
responsabilità penale per non aver impedito lo svolgimento di attività abusive
incidenti sull’assetto urbanistico e paesaggistico del territorio comunale, non
sussistendo in capo al medesimo un generale dovere di vigilanza sulle attività in
questione”. In motivazione la Corte ha precisato che l’esclusione della “culpa in
vigilando” del Sindaco discende dall’art. 107, comma terzo, lett. g) del D. Lgs. 18
agosto 2000, n. 267, che attribuisce tale vigilanza al dirigente di settore.
Più complesso, invece, è il problema della sussistenza in capo agli organi politici di
un obbligo di impedire i reati commessi dai burocrati.
A tal fine pare opportuno distinguere tra: a) casi in cui l’organo di indirizzo politico
abbia eccezionalmente poteri di gestione amministrativa; b) casi in cui si versi nella
regola della separazione tra politica e amministrazione.
344
Si è già visto nella premessa di diritto amministrativo, che permangono tuttora delle deroghe al principio di
separazione tra politica e amministrazione. Tra di esse si segnalano: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4
d.lgs. 267/2000); b) Enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti (art. 53, c. 23, della legge 23 dicembre 2000
n. 388 [legge finanziaria 2001], così come modificata dall’art. 29, c. 4, della legge 28 dicembre 2001 n. 448 [legge
finanziaria 2002]; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000.
345
Cass., sez. III, 21 giugno 2011, n. 36446, in C.E.D. Cass., n. 251242.
152
Quanto alla prima ipotesi, giova segnalare che essa si verifica allorché ricorra una
delle eccezioni al principio di separazione tra politica e amministrazione, analizzate
nella parte secondo di questo lavoro346.
Al riguardo si potrebbe sostenere che sussista una posizione di garanzia dell’organo
politico per i reati commessi nella gestione amministrativa da altri politici o da
dirigenti. In tal caso, infatti, le competenze gestionali dell’organo politico potrebbero
lasciare intravedere dei poteri impeditivi per i reati commessi da altri, onde una
possibile responsabilità per concorso omissivo nell’altrui reato commissivo. Bisogna
però precisare che tale posizione di garanzia, ove esistente, riguarderebbe comunque
solo i reati commessi nell’ambito delle competenze di cui l’organo politico sia
eccezionalmente munito e non anche quelli realizzati in altri contesti. Così, ad
esempio, l’assessore di un Comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, al
quale siano assegnati, dal regolamento dell’ente locale, poteri gestionali in materia di
lavori pubblici, non potrebbe certo rispondere per l’omesso impedimento di reati
commessi nel diverso settore dell’urbanistica, considerato che lo stesso non possiede
competenze in tale sfera amministrativa.
Il fondamento giuridico di tale posizione di garanzia potrebbe essere rinvenuto
nell’art. 13 del D.P.R. n. 3 del 1957, il quale fa obbligo agli impiegati civili dello
Stato di prestare tutta la loro opera nel disimpegno delle mansioni che sono loro
affidate, curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo,
l’interesse dell’amministrazione per il pubblico bene. Tale norma è applicabile, in
346
Ad esempio: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4 d.lgs. 267/2000). Forse, più che una eccezione alla
regola è una conferma della regola generale, posto che in tal caso il Sindaco non viene in rilievo quale organo politico
che “eccezionalmente” esercita poteri gestori, ma come organo gestionale dello Stato, che “normalmente” esercita
poteri amministrativi; b) enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L’art. 53, c. 23 della legge 23 dicembre
2000 n. 388 (legge finanziaria 2001), così come modificata dall’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 (legge
finanziaria 2002), prevede la possibilità per gli enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti di adottare
disposizioni regolamentari con le quali si attribuiscano ai componenti degli organi di indirizzo politico poteri di natura
gestionale; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000. Il t.u. sugli enti locali, infatti, attribuisce al Consiglio Comunale
poteri gestionali in materia di: organizzazione dei servizi pubblici locali e relative concessioni; contrazioni di mutui e
aperture di credito ed emissione di prestiti obbligazionari; acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e
concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera
esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della
Giunta, del Segretario o di altri funzionari.
153
forza del rinvio ex art. 88 del d.lgs. n. 267 del 2000, anche ai dipendenti degli enti
locali ed assurge, quindi, a principio generale in materia di impiego pubblico.
Inoltre, in ambito societario la giurisprudenza e la dottrina dominanti hanno
riconosciuto che l’impedimento dei reati rientri nel contenuto dei doveri degli
amministratori, i quali, in virtù del disposto degli artt. 2392 e 2394 c.c., hanno
l’obbligo giuridico di impedire atti pregiudizievoli in danno della società o di
attenuarne le conseguenze, nonché l’obbligo di provvedere alla conservazione
dell’integrità del capitale sociale347. Resta aperto, invece, il problema inteso ad
appurare quali attività siano richieste all’amministratore ai fini specifici dell’esonero
da responsabilità penali. Al riguardo, una pronuncia di merito348 ha indicato a tal fine
la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione; in dottrina, invece, è
stata prospettata l’impugnazione della delibera, il che però potrebbe avere rilievo solo
quando l’iter criminis sia destinato a perfezionarsi in un momento successivo alla
delibera349, non anche qualora il reato si consumi con l’approvazione della stessa,
posto che, in tal caso, la proposizione dell’impugnazione non sarebbe idonea ad
impedire un evento già realizzatosi.
In ogni caso, lo stesso ragionamento seguito in materia societaria si potrebbe
applicare agli organi politici muniti di competenze gestionali ed ipotizzare così in
capo agli stessi una posizione di garanzia sub specie di obbligo di impedimento dei
reati altrui.
Quanto all’elemento soggettivo, tale responsabilità dell’organo politico per i reati
altrui potrebbe astrattamente configurarsi o come concorso doloso o come concorso
colposo. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, non è ritenuta ammissibile, con riguardo ai
347
Cass., sez. V, 7 luglio 1992, n.9536, in Giust. pen., 1993, II, p. 404; Cass., sez. V, 28 giugno 1993, n. 8419, in Cass.
pen., 1995, p. 1630; Cass., sez. V, 20 ottobre 1994, n. 11654, in Cass. pen., 1996, p. 1976; Cass., sez. V, 27 maggio
1996, n. 580, in Cass. pen., 1997, p. 2232; Cass., sez. V, 25 marzo 1997, n. 4892, in C.E.D. Cass., n. 207895; Cass.,
sez. V, 26 novembre 1999, n. 14745, in C.E.D. Cass., n. 215199; Cass., sez. V, 4 maggio 2007, n. 23838, in C.E.D.
Cass., n. 237251; Cass., sez. V, 28 aprile 2009, n. 21581, in C.E.D. Cass., n. 243889. Nello stesso senso anche la
dottrina prevalente: PEDRAZZI, Riv. soc. 1962, p. 284 e ss.; CRESPI, Riv. it. d. proc. pen., 1957, p. 542; GRASSO, Il reato
omissivo improprio, cit., p. 338 e ss. Sulla responsabilità degli amministratori non delegati: Cass., sez. V, 9 dicembre
2008, n. 45513, in La Rivista Nel diritto, n. 1 del 2009, con nota di CANTAGALLI, La responsabilità dell’amministratore
di società per omesso impedimento del reato commesso da altro amministratore, p. 80 e ss.
348
Trib. Milano, 21 settembre 1981, in Giur. mer., 1982, p. 330.
349
GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 351; CRESPI- FORTI- ZUCCALA’, Commentario breve al codice penale,
Padova, 2008, p. 143.
154
delitti dolosi, dalla dottrina prevalente e perfino da quegli Autori350 che si schierano a
favore del superamento del principio dell’unicità del titolo di responsabilità dei
concorrenti. Infatti, si è notato in primo luogo che l’art. 113 c.p., facendo riferimento
solo alla “cooperazione nel delitto colposo” e non alla “cooperazione colposa nel
delitto”, costituisce una vera e propria “norma di sbarramento” alla configurabilità di
un “concorso colposo in delitto doloso”351. In secondo luogo, si è sottolineato che,
secondo l’art. 42 c. 2 c.p., i casi di delitto colposo debbano essere espressamente
previsti dalla legge, con la conseguenza che, anche nell’ambito di una fattispecie
concorsuale, è necessaria un’apposita disposizione per punire condotte di concorso
colposo a delitto doloso. Infine, si è rilevato che il legislatore ha espressamente
previsto ipotesi nominate di agevolazione colposa di un altrui fatto doloso (art. 254,
259, 350 c.p.), onde negli altri casi tali fattispecie non dovrebbero essere
configurabili, pena, altrimenti, l’inutilità di tali previsioni.
Al riguardo, comunque, giova segnalare che parte della dottrina reputa ammissibile il
concorso colposo nelle contravvenzioni, poiché sostiene che l’art. 113 c.p. non sia
norma di sbarramento, ma disposizione che soddisfa l’esigenza ex art. 42 c. 2 c.p.
della espressa previsione della punibilità colposa nei delitti, sicché, per le
contravvenzioni, dovrebbe essere sufficiente l’art. 110 c.p., che, facendo riferimento
al “reato”, riguarda anche le contravvenzioni, le quali, ex art. 42 c. 4 c.p., sono
punibili di regola352 anche a titolo di colpa353. Ne consegue che, aderendo alla tesi che
considera superato il dogma della necessaria unicità del titolo di responsabilità dei
concorrenti, nell’ambito delle fattispecie contravvenzionali devono di regola ritenersi
configurabili, ai sensi dell’art. 110 c.p., sia il concorso doloso in reato doloso, sia il
350
PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, p. 82; GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di
persone nel reato, Milano, 1957, p. 95; SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988, p.
229 e ss.; ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, p. 200; BERSANI, Riv. pen., 1995, p. 999.
351
Cass., sez. IV, 11 ottobre 1996, n. 9542, in Cass. pen., 1997, p. 3401; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale,
cit., p. 531; GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 924.
352
E’ noto che le contravvenzioni sono, di regola, punite indifferentemente a titolo di dolo o di colpa. Occorre però
segnalare che esistono fattispecie contravvenzionali che, per la loro intrinseca natura o per la tecnica di formulazione
legislativa, possono essere soltanto dolose (es. abuso della credulità popolare: art. 661 c.p.; molestia o disturbo alle
persone: art. 660 c.p.) oppure soltanto colpose (es. rovine di edificio: art. 676 c.p., perché, se ricorresse il dolo, si
avrebbe un delitto; incauto acquisto in caso di provenienza delittuosa della cosa: art. 712 c.p., perché, in caso di dolo, si
avrebbe il delitto di cui all’art. 648 c.p.). MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 357.
353
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 531.
155
concorso colposo in reato doloso, sia il concorso colposo in reato colposo, sia, infine,
il concorso doloso in reato colposo.
Per quanto concerne il concorso omissivo doloso nel reato doloso, occorre precisare
la necessità della prova della conoscenza del reato in itinere da parte del garante;
inoltre, bisogna considerare che il dolo del soggetto rimasto inerte può assumere
anche la forma del dolo eventuale. Infine, la Corte di Cassazione ha notato – in
materia di concorso omissivo degli amministrazioni di s.p.a, ma con considerazioni
estensibili anche al caso qui in esame - che possono essere considerati elementi
significativi, ai fini della prova della sussistenza del dolo eventuale, i cosiddetti
“indici d’allarme”, dei quali deve essere dimostrata l’avvenuta percezione da parte
del soggetto rimasto inerte354.
In senso radicalmente opposto, invece, si potrebbe escludere che sussista una
posizione di garanzia, sub specie di obbligo d’impedimento di reati altrui, in capo agli
organi politici che eccezionalmente siano investiti di funzioni gestorie. Al riguardo, si
potrebbe sostenere che siffatto obbligo impeditivo difetterebbe di un fondamento
normativo, mancando una norma giuridica, analoga agli artt. 2392 e 2394 c.c., che
imponga a tali organi l’impedimento di eventi pregiudizievoli per l’ente pubblico. Si
potrebbe poi aggiungere che non assuma rilievo a questo scopo la generica previsione
di cui all’art. 13 del D.P.R. n. 3 del 1957, attesa la necessità che l’obbligo di garanzia
soddisfi il requisito della specificità, in ossequio al principio costituzionale di
legalità-tassatività355. Infine, si potrebbe affermare che, aderendo a questa
ricostruzione, non sia chiaro quali siano gli effettivi poteri d’impedimento del reato
altrui attribuiti ai politici che eccezionalmente dispongano di competenze
amministrative. Non pare, ad esempio, che a tal fine possa assumere rilievo il
potere/dovere di denuncia di cui all’art. 331 c.p.p., posto che, come evidenziato dalla
Suprema Corte, l’obbligo di denuncia sorge in seguito alla commissione del reato,
sicché non rappresenta un potere impeditivo preesistente, ma un dovere successivo
354
Retro pr. I.7.
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 158; GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit.,
p. 331
355
156
alla realizzazione dell’illecito356. In quest’ottica i giudici di legittimità hanno tracciato
la differenza tra omessa denuncia di reato e concorso omissivo nel reato altrui,
evidenziando che, nel primo caso, il pubblico ufficiale omette o ritarda di denunciare
un reato di cui sia venuto a conoscenza, mentre nell’altro caso egli non omette la
semplice notizia, ma il doveroso comportamento positivo (impedimento del reato)
che poteva materialmente attuare e che invece non ha attuato, concorrendo così al
compimento del reato stesso357.
III.5 Segue: b) nei casi regolari di separazione tra politica e amministrazione
Nella parte seconda del presente studio si è visto che, a seguito delle riforme
succedutesi dalla legge 8 giugno 1990 n. 142, l’attuale assetto della Pubblica
Amministrazione è improntato ad una netta separazione delle competenze tra organi
di indirizzo politico e organi di gestione amministrativa. Ciò premesso, occorre ora
domandarsi se gli organi politici assumano una posizione di garanzia sub specie di
obbligo d’impedimento dei reati commessi nel corso della gestione amministrativa.
Al riguardo, sembrano prospettabili due tesi contrapposte.
Secondo una prima ipotesi ricostruttiva, l’organo d’indirizzo politico dovrebbe essere
gravato dall’obbligo di impedire i reati che possano essere commessi dai burocrati
nell’esercizio della funzione pubblica. Tale tesi è supportata da diversi argomenti.
In primo luogo si potrebbe far leva sul potere di revoca dei dirigenti che la disciplina
amministrativa attribuisce agli organi politici. Infatti, si potrebbe sostenere che il
potere di revoca possa essere speso anche per impedire che il reato in itinere, di cui
l’organo politico abbia avuto conoscenza, possa essere portato a compimento. Ad
esempio, il Sindaco di un Comune potrebbe revocare il dirigente qualora venga a
sapere che quest’ultimo si stia lasciando corrompere nell’ambito di una procedura di
appalto prima che il delitto giunga a consumazione; oppure si pensi al Sindaco che
356
357
Cass., sez. II, 8 maggio 1984, Calvaruso, in Cass. pen., 1985, p. 1830
Cass., 8 maggio 1984, cit.
157
sia stato informato del proposito di un funzionario di favorire un conoscente con il
rilascio di un provvedimento favorevole. Del resto, ai sensi dell’art. 109 del d.lgs.
267 del 2000, gli incarichi dirigenziali possono essere revocati per responsabilità
particolarmente grave, fattispecie nella quale potrebbe rientrare anche la
realizzazione di un reato.
In secondo luogo, si potrebbe ritenere che l’obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p.
rilevi quale mancata attivazione di un potere teso ad impedire che il reato giunga a
conseguenze ulteriori, quanto meno nei casi in cui sia ipotizzabile una scissione tra
perfezione e consumazione. A titolo esemplificativo, il Presidente della Provincia,
che sia stato informato di un accordo corruttivo tra un privato e un dirigente dell’ente
locale, potrebbe denunciare il fatto per impedire che la somma sia riscossa e che il
delitto, già perfetto con la promissio, raggiunga la massima lesività con l’effettiva
datio. L’obbligo di denuncia, quindi, potrebbe essere visto anche quale potere
impeditivo ai sensi del combinato disposto degli artt. 40 c. 2 e 110 c.p.
In terzo luogo, si potrebbe far leva sulla già citata giurisprudenza in materia di reati
societari358, la quale spesso ravvisa una posizione di garanzia, sub specie di obbligo
d’impedimento dei reati altrui, in capo ai membri del collegio sindacale, adducendo,
tra i vari argomenti, anche il potere di denuncia, ex art. 2409 c.c., in caso di gravi
irregolarità nella gestione sociale. Pertanto, è possibile immaginare che la
giurisprudenza segua un’analoga linea di rigore anche con riferimento agli organi
d’indirizzo politico, che, come i membri del collegio sindacale delle s.p.a., non
hanno, di regola, poteri gestori, ma sono gravati da un obbligo di controllo sulla
gestione. L’analogia della situazione potrebbe, perciò, indurre ad estendere il
ragionamento condotto in materia societaria anche al diverso tema che qui più
interessa.
358
Cass., sez. V, 26 giugno 1990, n. 15850, in Cass. pen., 1991, p. 828; Cass., sez. V, 22 aprile 1998, n. 8327, in Cass.
pen., 1999, p. 651; Cass., sez. V, 13 dicembre 2006, n. 17393, in C.E.D. Cass., n. 236630; Cass., sez. V, 4 novembre
2009, n. 10186, in C.E.D. Cass., n. 246911; Cass., sez. V, 1 luglio 2011, n. 31163, in C.E.D. Cass., n. 250555. In
dottrina: PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, Milano, 2003, p. 185 e ss.;
CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009, p. 227 e ss.
158
Pur potendosi ipotizzare che la giurisprudenza accolga tale orientamento - soprattutto
alla lue delle pronunce rese in materia societaria - ad ogni modo non va trascurato che
esso si espone a diversi rilievi critici.
Infatti, in primo luogo, non pare che nella specie sia soddisfatto il requisito della
giuridicità dell’obbligo d’impedimento, che, come si è visto nella prima parte di
questo lavoro, è un elemento indispensabile ai fini della responsabilità penale per
omissione impropria. Non pare, per vero, che sussista una norma giuridica che
espressamente imponga un obbligo di tal tipo.
In secondo luogo, non va trascurato che la ratio ispiratrice delle riforme che hanno
dato luogo alla separazione tra politica e amministrazione era quella di estromettere
gli organi politici da ingerenze in ambito gestorio, con la conseguenza che sarebbe
assurdo ravvisare un obbligo di impedimento da parte di chi non ha un potere di
intervento.
In terzo luogo, si può richiamare l’art. 1 c.1-ter della legge n. 20 del 1994, il quale,
in tema di responsabilità amministrativa per danno erariale, prevede che, in caso di
atti che rientrino nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, la
responsabilità non si estenda ai titolari degli organi politici che in buona fede li
abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione. Tale
disposizione è interpretata dalla dottrina amministrativistica come elemento per
ritenere che la responsabilità per danno erariale sia di tipo gestionale, nel senso cioè
che gravi sugli organi burocratici e non anche su quelli di indirizzo politico. Ne
consegue che sarebbe davvero singolare, alla luce del principio penalistico di extrema
ratio, se fosse ravvisata una responsabilità penale per omesso impedimento del reato
altrui in capo a chi non è soggetto alla responsabilità amministrativa.
In quarto luogo, non sembra che gli organi politici abbiano idonei poteri
d’impedimento preesistenti alla commissione del reato, considerato che gli stessi
possono solo fissare l’indirizzo programmatico, ma non anche ingerirsi nella gestione
amministrativa che, invece, è riservata esclusivamente agli organi burocratici. Né
pare che a tal fine possa assumere rilievo il potere di revoca degli incarichi
159
dirigenziali attribuito agli organi politici, posto che esso va esercitato a consuntivo,
cioè al termine della gestione complessiva e alla luce dei risultati raggiunti dal
soggetto preposto. Vero è che il potere di revoca può essere speso anche nei casi di
“responsabilità particolarmente grave” del dirigente359, ma è altresì innegabile che, in
caso di illecito penale, tale potere si configura non già come preesistente alla
commissione del reato, ma come successivo alla sua realizzazione, con la
conseguenza che non può qualificarsi come potere preesistente di impedimento
dell’evento, ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. Tale conclusione non sembra possa essere
modificata nelle ipotesi citate di scissione tra momento di perfezione e momento di
consumazione del reato perché, anche in tali situazioni, il potere di revoca non si
configura come preesistente alla perfezione del reato, ma, semmai, come successivo
ad essa e può, perciò, fungere solo da strumento per evitare che il reato già perfetto
giunga a conseguenze ulteriori ed arrivi allo stadio della consumazione. Come si è già
visto nella premessa di diritto penale, infatti, la dottrina prevalente360 e la
giurisprudenza361 escludono che sussista una posizione di garanzia qualora il soggetto
non abbia poteri impeditivi preesistenti all’insorgere della situazione di pericolo, ma
possa soltanto evitare che il risultato negativo già prodottosi si aggravi ulteriormente.
In questi casi, per vero, egli non ha poteri-doveri di vigilanza e di intervento e,
quindi, di tutela anche preventiva, del bene da proteggere362, sicché non può essere
qualificato come garante, ma, eventualmente, come destinatario di obblighi di
attivarsi. Pertanto, non può rispondere a titolo di omissione impropria, ma, semmai,
sulla base di un reato omissivo proprio, sempre che la sua inerzia sia sanzionata da
una fattispecie penale di parte speciale. Se, dunque, gli organi d’indirizzo politico
sono sforniti di poteri d’impedimento del perpetrarsi di illeciti penali nell’ambito
della gestione amministrativa, allora non si può ravvisare una posizione di garanzia di
Si veda l’art. 109 d.lgs. n. 267 del 2000.
FIORELLA, Il trasferimento di funzioni, cit. p. 202; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di
sorveglianza, cit., p. 314 e ss.; MANTOVANI, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di
solidarietà, di libertà e di responsabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 344; PISANI, Controlli sindacali, cit.,
p. 52.
361
Cass., sez. IV, 19 febbraio 2008, n. 22614, in Rivista dei dottori commercialisti, 2008, p. 1266 ed in Cass. pen.,
2009, p. 537.
362
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 159.
359
360
160
tale genere in capo agli stessi, pena altrimenti la violazione del principio di
responsabilità penale personale di cui all’art. 27 c. 1 Cost. Come ha evidenziato la
dottrina363, infatti, la tesi che sostenesse la configurabilità di una responsabilità penale
per omesso impedimento dell’evento, in assenza di adeguati poteri giuridici
impeditivi, rappresenterebbe un’ipotesi di responsabilità per fatto altrui, poiché si
tradurrebbe nell’accollare la responsabilità a carico di un soggetto per il
comportamento illecito tenuto da un’altra persona pienamente capace di
autodeterminarsi e quindi autoresponsabile.
Analogamente, non appare appropriato il richiamo all’obbligo di denuncia ex art. 331
c.p.p., posto che, come evidenziato dalla Suprema Corte in altro ambito, l’obbligo di
denuncia sorge in seguito alla commissione del reato, sicché non rappresenta un
potere impeditivo preesistente, ma un dovere successivo alla realizzazione
dell’illecito364. In quest’ottica i giudici di legittimità hanno tracciato la differenza tra
omessa denuncia di reato e concorso omissivo nel reato altrui, evidenziando che, nel
primo caso, il pubblico ufficiale omette o ritarda di denunciare un reato di cui sia
venuto a conoscenza, mentre nell’altro caso egli non omette la semplice notizia, ma il
doveroso comportamento positivo (impedimento del reato) che poteva materialmente
attuare e che invece non ha attuato, concorrendo così al compimento del reato stesso.
Quanto all’argomento della tesi opposta che fa leva sulla giurisprudenza in materia di
reati societari, occorre segnalare che parte della dottrina365 si esprime al riguardo in
chiave critica, sostenendo che i sindaci delle società siano titolari di un mero obbligo
di sorveglianza e non già di una posizione di garanzia, attesa l’assenza di poteri
giuridici impeditivi in capo agli stessi.
Inoltre, anche ad accogliere la tesi giurisprudenziale emersa con riferimento ai reati
societari, ad ogni modo la conclusione raggiunta per i sindaci delle società non pare
estensibile al tema della responsabilità degli organi politici per i reati commessi
363
PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 61; MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria,
cit., p. 240.
364
Cass., sez. II, 8 maggio 1984, Calvaruso, in Cass. pen., 1985, p. 1830.
365
PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. società, 1962, p. 285; MANTOVANI, Diritto penale,
Parte generale, cit., p. 160; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 412; PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 231;
CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009, p. 288 e ss.
161
nell’attività di gestione amministrativa. Infatti, si può notare che per i sindaci delle
società l’art. 2403 c.c. pone un obbligo di controllo sull’amministrazione della
società, mentre analoga previsione non pare rinvenibile con riguardo agli organi
d’indirizzo politico. Si può, quindi, fondatamente ritenere che questi ultimi non siano
titolari di una posizione di garanzia in relazione all’impedimento di reati commessi
nel corso della gestione amministrativa. Residua, invece, il dubbio se sugli stessi
incomba un obbligo di sorveglianza o un mero dovere di attivarsi. Infatti, nessuna
norma giuridica impone agli organi politici un’attività di controllo sui singoli atti
amministrativi, ma solo sulla gestione complessiva, al fine di verificare la corretta
attuazione del proprio indirizzo programmatico ed allo scopo di esercitare
adeguatamente i poteri di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali. Pertanto, si
potrebbe forse ipotizzare che gli organi de quibus non siano gravati nemmeno da un
obbligo di sorveglianza, diversamente dai sindaci di società. In ogni caso, anche a
sostenere che sussista in capo agli stessi tale ultima tipologia di obbligo, comunque
ciò non sarebbe sufficiente per ravvisare una posizione di garanzia, con conseguente
obbligo di impedimento dell’evento sanzionato ex art. 40 c. 2 c.p., secondo gli
approdi della dottrina366 preferibile in materia di reati societari.
A ciò si aggiunga che una recente pronuncia della Suprema Corte367 ha ritenuto che in
capo al Sindaco di un Comune non sussista un generale obbligo di vigilanza sulle
attività che incidano sull’assetto urbanistico e paesaggistico del territorio. Infatti,
l’art. 107, comma 3, lettera g), del d.lgs. n. 267 del 2000, dispone testualmente che
sono attribuiti ai dirigenti (e non al Sindaco) “tutti i provvedimenti di sospensione dei
lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri
di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla
vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione
dell’abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale”. Da ciò discende, secondo i
366
Si veda la nota precedente.
Cass., sez. III, 11 ottobre 2011, n. 36571, in C.E.D. Cass. n. 251242, inedita. Nello stesso senso Cass., sez. III, 17
gennaio 2008, n. 2478, in C.E.D. Cass. n. 238593; Cass., sez. III, 11 maggio 2009, n. 19882, in C.E.D. Cass. n. 243717;
Cass., sez. VI, 11marzo 2010, n. 10009, in C.E.D. Cass. n. 246482; Cass., sez. IV, 6 giugno 2011, n. 22341, in C.E.D.
Cass. n. 250720.
367
162
giudici di legittimità, che il Sindaco non possa essere chiamato a rispondere del
mancato impedimento dei reati urbanistici e paesaggistici nella specie contestati ad
altri soggetti. E’ evidente, pertanto, che in tale occasione la Suprema Corte abbia
fatto una rigorosa applicazione dei riflessi penalistici del principio di separazione tra
politica e amministrazione, escludendo che di regola sussista una posizione di
garanzia, sub specie di obbligo d’impedimento dei reati altrui, in capo agli organi
d’indirizzo e programmazione.
Tanto premesso, quindi, sembra che ci siano valide ragioni per aderire alla tesi che
esclude una posizione di garanzia, sub specie di obbligo d’impedimento dei reati
altrui, in capo agli organi d’indirizzo politico, con la conseguenza che l’inerzia degli
stessi, a fronte dell’iter di svolgimento di un illecito penale da parte dei dirigenti,
dovrebbe essere qualificata come connivenza penalmente irrilevante. Rimane,
tuttavia, da domandarsi se, esclusa una responsabilità penale per concorso omissivo
nel reato commissivo, sia comunque ipotizzabile un obbligo risarcitorio in capo agli
organi politici che abbiano omesso di attivarsi pur essendo stati informati che era in
corso di realizzazione un illecito penale nell’ambito dell’amministrazione dell’ente
pubblico. In altri termini, occorre ora chiedersi se quella che si è vista essere una
connivenza penalmente irrilevante possa assumere un significato sul piano della
responsabilità civile. Più nel dettaglio, il problema va analizzato sia con riferimento
alla responsabilità per danno erariale dell’organo politico inerte, sia in relazione alla
responsabilità aquiliana dello stesso verso i terzi.
Con riguardo al primo aspetto, si è già notato che, secondo il disposto dell’art. l’art. 1
c.1-ter della legge n. 20 del 1994, la responsabilità erariale è di tipo gestionale368,
onde dovrebbe escludersi che i politici possano essere chiamati a rispondere davanti
alla magistratura contabile per il mancato impedimento del reato dei dirigenti.
Ciò posto, analoga soluzione dovrebbe essere seguita anche con riguardo alla
responsabilità civile verso terzi, appunto perché pare che il principio desumibile
dall’art. 1 c.1- ter della legge n. 20 del 1994 debba acquisire portata generale. Del
368
CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, cit., p. 631.
163
resto, il fatto che gli organi d’indirizzo politico non assumano una posizione di
garanzia, né ai fini della responsabilità penale, né con riguardo a quella
amministrativa e civile, sembra in linea con la ratio ispiratrice del principio di
separazione tra politica e amministrazione, che mira proprio ad estromettere i primi
dall’ambito della gestione degli enti pubblici.
Quanto fin qui esposto concerne esclusivamente i casi di condotta omissiva degli
organi d’indirizzo politico; diverso ragionamento deve invece essere condotto qualora
gli stessi abbiano partecipato attivamente al reato con un contributo morale o
materiale, nel qual caso essi risponderanno secondo le regole generali sul concorso di
persone nel reato e prescindendo da una verifica in merito alla sussistenza di una
posizione di garanzia, che è requisito imprescindibile solo del reato omissivo
improprio (monosoggettivo o plurisoggettivo). Nella stessa ottica, un concorso attivo
degli organi politici li esporrebbe anche a conseguenze risarcitorie sul piano della
responsabilità amministrativa e di quella civilistica, in base alla disciplina
normalmente applicabile.
Al riguardo, si è già notato nella prima parte della ricerca369 che la differenza tra
concorso attivo materiale e mera connivenza non dovrebbe creare notevoli problemi,
in quanto il primo consiste in una collaborazione nella concreta esecuzione del reato;
sorgono, invece, grandi difficoltà nel distinguere in concreto tra concorso attivo
morale (penalmente rilevante) e mera connivenza (penalmente irrilevante). Come
noto, il concorso attivo morale si manifesta o come determinazione in altri del
proposito criminoso o come rafforzamento di un proposito già esistente. Orbene,
giova ricordare che, in tema di responsabilità del proprietario dell’area per l’opera
abusiva da altri realizzata, la giurisprudenza tradizionale370, seguendo la tesi
funzionale circa l’obbligo di impedimento dell’evento, ravvisava una posizione di
garanzia in capo al titolare del diritto di proprietà sul terreno, considerata la
disponibilità giuridica e di fatto dell’area allo stesso spettante. In seguito, la Suprema
369
Retro pr. I.6.
Cass., sez. III, 14 ottobre 1999, n. 859, in C.E.D. Cass. n. 215598 e in Guida al diritto, 2000, n. 8, p. 90; Cass., sez.
III, 24 agosto 1988, in Riv. giur. edil., 1990, I, p. 315; Cass., sez. III, 8 luglio 1983, in Cass. pen., 1984, p. 2263.
370
164
Corte ha mutato orientamento e la tesi oggi prevalente371 esclude che in tal caso
sussista un obbligo di impedire l’abuso edilizio altrui. Ne consegue che, in base a tale
esegesi, una responsabilità del proprietario possa configurarsi solo in caso di
concorso attivo materiale o morale. Tuttavia, occorre segnalare che la stessa
giurisprudenza tende ad interpretare in senso lato il concetto di concorso attivo
morale, poiché presume una istigazione del coniuge proprietario nella semplice
circostanza che il manufatto abusivo, realizzato dal coniuge non proprietario, sia
destinato alla vita in comune della famiglia372. Ciò posto, occorre notare che sussiste
la possibilità che analogo orientamento venga seguito dalla Suprema Corte anche nel
caso in esame, ossia nell’ambito dei reati commessi dai funzionari pubblici nel corso
della gestione amministrativa, con la conseguente eventualità che si ravvisi un
concorso attivo morale dell’organo politico che abbia in qualche modo tratto
beneficio dalle condotte illecite poste in essere dai burocrati.
III.6 Prospettive di riforma
La soluzione in base alla quale gli organi d’indirizzo politico non assumono un
obbligo d’impedimento dei reati commessi nel corso della gestione amministrativa,
pur essendo preferibile in base alla vigente normativa, si espone tuttavia a rilievi
critici in una prospettiva de iure condendo. Essa, infatti, conferma le ambiguità
dell’attuale assetto normativo che, da un lato, sancisce solennemente il principio di
separazione tra politica e amministrazione, sottraendo, salvo casi eccezionali373,
371
Cass., sez. III, 3 ottobre 2002, n. 38193, in C.E.D. Cass. n.222658; Cass., sez. III, 1 ottobre 2003, n. 44160, in
C.E.D. Cass. n. 226589; Cass., sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, in C.E.D. Cass. n. 231645; Cass., sez. III, 12 aprile
2005, n. 26121, in C.E.D. Cass. n. 231954.
372
Cass., sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, cit.
373
Ad esempio: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4 d.lgs. 267/2000). Forse, più che
un’eccezione alla regola è una conferma della regola generale, posto che in tal caso il Sindaco non
viene in rilievo quale organo politico che “eccezionalmente” esercita poteri gestori, ma come
organo gestionale dello Stato, che “normalmente” esercita poteri amministrativi; b) enti locali con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L’art. 53 c. 23 della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (legge
finanziaria 2001), così come modificata dall’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 (legge
finanziaria 2002), prevede la possibilità per gli enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti
165
competenze gestorie agli organi d’indirizzo e programmazione, mentre, dall’altro
lato, attribuisce ai medesimi i poteri di nomina e revoca concernenti gli incarichi
dirigenziali, così nei fatti vanificando l’indipendenza della dirigenza pubblica rispetto
agli organi politici. Le recenti riforme della pubblica amministrazione, dunque, più
che realizzare un disegno di valorizzazione dell’autonomia degli organi di gestione
amministrativa, hanno condotto ad un’irresponsabilità della classe politica cui non fa
da contraltare, tuttavia, un’effettiva rimozione della possibilità da parte della stessa di
esercitare un’influenza sulla burocrazia. Infatti, il permanere del potere di nomina e
revoca degli incarichi dirigenziali in capo gli organi politici non può non determinare
in concreto uno stato di soggezione dei dirigenti verso coloro da cui dipendono le
sorti delle loro carriere, con apprezzabili riflessi anche economici nella vita di ciascun
destinatario dei provvedimenti in esame. Non è quindi inverosimile ipotizzare che,
nei casi patologici, gli organi politici possano esercitare pressioni sui dirigenti in
merito all’esercizio del potere loro riservato, soprattutto quando esigenze elettorali
inducano a piegare la funzione pubblica a logiche clientelari. Come del resto
conferma la prassi, può quindi accadere che l’incompleta realizzazione di un’effettiva
separazione tra politica e amministrazione agevoli fenomeni d’induzione da parte
degli organi politici nei confronti dei dirigenti affinché questi adottino provvedimenti
amministrativi tesi a favorire o sfavorire taluni soggetti nell’interesse del partito o
della persona fisica appartenente al ceto d’indirizzo e programmazione. Certamente,
tali situazioni danno luogo a comportamenti attivi punibili o in base al concorso di
persone nel reato o ai sensi dell’art. 317 c.p.374, ma è evidente che si tratta condotte
di adottare disposizioni regolamentari con le quali si attribuiscano ai componenti degli organi di
indirizzo politico poteri di natura gestionale; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000. Il t.u.
sugli enti locali, infatti, attribuisce al Consiglio Comunale poteri gestionali in materia di:
organizzazione dei servizi pubblici locali e relative concessioni; contrazioni di mutui e aperture di
credito ed emissione di prestiti obbligazionari; acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute,
appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che
non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria
amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del Segretario o di altri
funzionari.
Come chiarito dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, destinatario della condotta abusiva, ai sensi dell’art.
317 c.p., può essere anche un pubblico ufficiale, il quale - specie in presenza di un rapporto di soggezione – si venga a
trovare in una situazione di inferiorità psichica rispetto all’agente che persegue scopi di carattere personale. In tema:
374
166
difficilmente provabili (soprattutto quando assumono le forme implicite della
concussione ambientale375), con il rischio, perciò, che rimangano esenti da sanzione e
che gli unici a dover rispondere siano i burocrati che abbiano dato seguito alle
richieste degli organi politici.
Appare, quindi, auspicabile una riforma dell’attuale assetto organizzativo della
Pubblica Amministrazione che elimini le ambiguità esistenti, foriere di soluzioni
insoddisfacenti sotto i numerosi profili evidenziati.
III.7 L’atto di nomina del dirigente da parte dell’organo d’indirizzo politico
configura una delega di funzioni?
Il conferimento degli incarichi dirigenziali compete, nell’ambito degli enti locali, al
Sindaco e al Presidente della Provincia, mentre nelle strutture ministeriali occorre
fare una distinzione. Infatti, gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale
sono attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del
Ministro competente; gli altri incarichi dirigenziali, invece, sono assegnati dal
dirigente preposto all’ufficio di livello dirigenziale generale. Pertanto, salva
quest’ultima ipotesi, il potere di nomina dei dirigenti pubblici spetta, di regola, agli
organi politici, che svolgono funzioni d’indirizzo e programmazione. Si pone, quindi,
il problema di stabilire se tale atto di conferimento dell’incarico dirigenziale
costituisca o meno una delega di funzioni. Come noto, nell’ambito delle strutture
organizzative complesse accade spesso che i garanti pongano in essere deleghe di
funzioni ad altri soggetti, poiché i formali destinatari del precetto non possono
provvedere personalmente a tutti gli adempimenti inerenti alla loro qualifica né
CONTENTO, La concussione, Bari, 1970, p. 120; Cass., sez. VI, 6 novembre 1997, n. 1306, in C.E.D. Cass. n. 210842 ed
in Giust. pen., 1999, II, p. 208; Cass., sez. VI, 9 gennaio 1997, n. 1894, in C.E.D. Cass. n. 207522 ed in Archivio della
nuova procedura penale, 1997, p. 660.
375
Nel senso della configurazione del reato di concussione in presenza di una “convenzione tacitamente riconosciuta”,
fatta valere dal pubblico ufficiale e subita dalla vittima, Cass., sez. VI, 21 gennaio 2005, n. 12175, in Foro Italiano
2006, II, p. 23; Cass., sez. VI, 24 maggio 2006, n. 23776, in Riv. pen., 2007, p. 37; Cass., sez. VI, 13 luglio 1998, n.
13395, in Foro Italiano 1999, II, p. 645, con nota di MANES, La “concussione ambientale” da fenomenologia a
fattispecie “extra legem”.
167
possiedono tutte le capacità tecniche richieste376. L’istituto ha quindi la funzione di
evitare sia la concentrazione verso l’alto della responsabilità, sia la concentrazione
verso il basso, ossia il trasferimento sul dipendente delle responsabilità del superiore,
sia il verificarsi di un’”irresponsabilità organizzata”.377
Al riguardo giova segnalare che la giurisprudenza378 ha fissato la distinzione tra
delega di esecuzione e delega di funzioni. Con la prima il titolare dell’obbligo
giuridico si limita ad affidare ad un dipendente compiti meramente attuativi delle
proprie decisioni, conservando pienamente la propria posizione di garante. La
seconda, invece, si caratterizza per l’attribuzione di autonomi poteri deliberativi ad un
soggetto che non ne sia originariamente titolare379.
Circa gli effetti della delega di funzioni, un orientamento380 ritiene che, in ossequio al
principio di legalità, il titolare degli obblighi non li possa dismettere attraverso il loro
trasferimento ad altro soggetto con un atto di autonomia privata.
Secondo altra tesi381, invece, la delega, oltre ad essere ammessa, avrebbe l’effetto di
creare un nuovo titolare della posizione di garanzia. Il delegante, pertanto, sarebbe
liberato da qualsiasi responsabilità nel periodo di vigenza della delega.
In senso critico, però, si è notato che tale ricostruzione finisce col contrastare con il
principio di non derogabilità delle posizioni di garanzia.
GRASSO, Organizzazione aziendale e resp. pen. per omesso impedimento dell’evento, in Arch. pen., 1982, p. 744;
PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel dir. pen. del lavoro, in Riv. giur. lav., 1982,
p.181; FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel dir. pen. dell’impresa, Firenze, 1984; TRUCCO, Resp. pen.
dell’impresa: problemi di personalizzazione e delega, in Riv. it., 1985, p. 763;PAGLIARO, Problemi generali del diritto
penale dell’impresa, in Indice pen., 1985, p. 17; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, in Riv.
dir. pen. ec., 1988, p. 125; PALOMBI, La delega di funzioni, in Trattato di diritto penale dell’impresa, I, Padova, 1990,
p. 267; FLORA, I soggetti penalmente responsabili nell’impresa societaria, in Studi Nuvolone, II, Milano, 1991, p. 543;
PATRONO, Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, Padova, 1993, p. 126; PADOVANI, Dir. pen. del
lavoro. Profili generali, Milano, 1994, p. 26; BELLAGAMBA, Sulla responsabilità penale nella delega di funzioni, in
Cass. pen., 1996, p. 1272; MANTOVANI, Il principio dell’affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p.
245; GARGANI, La successione nella posizione giuridica di garanzia, St. iur., 2004, p. 909; CINGARI, Tipizzazione e
individuazione del soggetto attivo nei reati propri, in Indice pen., 2006, p. 275.
377
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2009, p. 116.
378
Cass. pen., sez. III, 3 maggio 1996, in Cass. pen., 1999, p. 2653.
379
GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 292.
380
Cass., sez. IV, 5 dicembre 2003, n. 4981, in C.E.D. Cass. n. 229672. Si veda anche l’analisi di GULLO, La delega di
funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 1508 e ss.;
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p.116; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 292.
381
Si veda l’analisi di MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 116; GAROFOLI, Manuale di diritto penale,
cit., p. 292.
376
168
Per questo motivo è emersa una tesi mista382 secondo la quale la delega di funzioni
rappresenta un mezzo per il garante per adempiere i propri obblighi. Il delegato,
quindi, assumerebbe una posizione di garanzia derivata, senza che il delegante sia
liberato dagli obblighi a lui facenti carico. Essi, quindi, non vengono meno, ma si
trasformano in doveri di vigilanza e d’intervento su situazioni conosciute o comunque
conoscibili. Al riguardo si parla di “residuo non delegabile”, evidenziando
plasticamente l’efficacia non pienamente liberatoria della delega di funzioni.
Quanto ai requisiti della delega di funzioni, la giurisprudenza ormai dominante ne ha
fornito un elenco dettagliato. Essi sono rappresentati, in primo luogo, dalle
dimensioni notevoli della struttura organizzativa; al riguardo, però, giova segnalare
che parte della dottrina383 si è espressa in senso critico perché la specificità e la
complessità dei compiti da svolgere nell’ambito delle strutture organizzative spesso
prescindono dalle dimensioni delle stesse.
In secondo luogo, la giurisprudenza indica come requisiti l’idoneità tecnica del
delegato ed il conferimento effettivo dei poteri al medesimo. Un’isolata pronuncia
della Suprema Corte384, tuttavia, ha escluso la necessità di tale requisito sulla base di
due argomenti. In primis, si è evidenziato che l’idoneità tecnica non è richiesta in
capo al delegante, con la conseguenza che sarebbe assurdo pretendere dal delegato
abilità non richieste al titolare della posizione di garanzia. In secundis, si è notato che,
altrimenti opinando, ne risulterebbe minato il principio d’insindacabilità delle scelte
di merito del delegante.
In terzo luogo, si ravvisano come requisiti la forma, l’accettazione e la
corrispondenza ai regolamenti interni dell’organizzazione. Sulla necessità della forma
scritta, però, si contrappongono due orientamenti giurisprudenziali. Il primo di essi
reputa che si possa fare a meno del requisito della forma scritta quando il
trasferimento di funzioni sia ricavabile dalla concreta ripartizione di compiti e poteri
382
PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro(tutela penale), in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 107 e ss.; GRASSO,
Organizzazione e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Arch. pen., 1982, p. 753; Cass. pen. n.
41943 del 2007 e Cass. pen., sez. IV, 12 ottobre 2007, n. 37610, in www.diritto-in-rete.com.
383
MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 117.
384
Cass., 3 agosto 2000, Biadene, in Foro it., 2001, II, p. 357 e ss.
169
nelle imprese di grandi dimensioni385. Il secondo, invece, ritiene necessaria sia la
forma scritta della delega, sia un’opportuna pubblicità della stessa, sia all’interno sia
all’esterno della struttura organizzativa386.
Ciò posto, occorre domandarsi se il conferimento degli incarichi dirigenziali
configuri una delega di funzioni, con tutte le conseguenze penalistiche del caso. Al
riguardo, occorre notare che negli enti pubblici i compiti dei dirigenti sono fissati
direttamente dalla legge, senza necessità di altri atti di natura attuativa. Inoltre,
nell’attuale assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, il criterio di
riparto delle competenze tra organi politici e amministrativi è improntato, almeno di
regola, ad una netta distinzione delle funzioni. Ne consegue il divieto d’ingerenza
reciproca tra i due attori istituzionali, posto che, altrimenti, la rigida divisione delle
competenze sarebbe sostanzialmente vanificata. Pertanto, le riforme che hanno
condotto alla graduale introduzione del principio di separazione tra politica e
amministrazione hanno, nello stesso tempo, segnato il passaggio, sul piano dei
rapporti organizzativi tra organi politici e amministrativi, da una relazione
interorganica di tipo gerarchico, ad una meno intensa, qualificabile come direzione387.
I dirigenti pubblici, pertanto, non sono più collaboratori dell’organo politico, ma
assumono uno spazio decisionale pienamente autonomo 388. Più precisamente, essi
sono ormai assimilabili ai manager d’impresa, poiché sono titolari di poteri di
gestione, di amministrazione attiva, di direzione, di organizzazione e di spesa, ai
quali corrisponde una responsabilità connessa alla verifica dei risultati conseguiti389.
Ai dirigenti spetta il compito di adottare gli atti e i provvedimenti idonei a realizzare i
programmi fissati dagli organi politici; in questo ambito i loro poteri sono pressoché
completi e autonomi, mentre a bilanciamento di essi sussiste una responsabilità
esclusiva per l’attività amministrativa, per la gestione e per i relativi risultati390.
385
Cass., sez. IV, 24 giugno 2000, n. 7402, in Cass. pen., 2001, p. 1321 e ss.; Cass., sez. IV, 24 marzo 2000, Bonomi.
Ad es. Cass., sez. IV, 9 gennaio 2001, Colombo, in Dir. pen e proc., 2001, p. 335.
387
MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 197.
388
D’ALESSIO, La nuova dirigenza pubblica, Roma, 1999, p. 36.
389
D’ALESSIO, op. cit., p. 54
390
FORLENZA – TERRACCIANO – VOLPE, La riforma del pubblico impiego, Milano, 1999, p. 36.
386
170
Da quanto esposto consegue che tra le strutture amministrative pubbliche e le imprese
private emergono ormai evidenti similitudini, soprattutto dopo la privatizzazione del
rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione391. Tuttavia, il
sistema di nomina dei dirigenti pubblici risponde a logiche nettamente diverse
rispetto alle dinamiche proprie delle imprese private. Infatti, l’assetto organizzativo
della Pubblica Amministrazione si caratterizza per una marcata rigidità nella
distribuzione delle funzioni, per il penetrante meccanismo dei controlli interni ed
esterni e per l’individuazione ex lege degli ambiti di competenza assegnati ai pubblici
amministratori. Per questi motivi, non pare configurabile quale delega di funzioni il
provvedimento di preposizione del dirigente pubblico. Invero, la delega di funzioni
costituisce un atto d’autonomia privata destinato a trasferire una posizione di garanzia
in capo al delegato, mentre sul delegante residuano solo doveri di vigilanza e
d’intervento. Essa rappresenta uno strumento per sollevare il delegante, nell’ambito
di strutture di notevoli dimensioni, da incombenze cui sarebbe tenuto in prima
persona, mentre tale finalismo appare assolutamente estraneo alla nomina dei
dirigenti pubblici. Quest’ultima, infatti, ha semplicemente lo scopo di costituire il
nesso d’immedesimazione organica tra ente e titolare dell’ufficio, in modo che gli atti
realizzati dal funzionario siano imputati direttamente alla struttura pubblica nella
quale egli è incardinato. La divisione delle competenze tra organi d’indirizzo politico
e burocrati, inoltre, fa sì che a questi ultimi siano riservati compiti di gestione sottratti
agli organi politici, con la conseguenza che l’atto di preposizione del dirigente
rappresenta
uno
strumento
imprescindibile
di
qualsiasi
ente
pubblico,
indipendentemente dalle dimensioni della pertinente struttura.
Si può quindi ritenere che la nomina dirigenziale debba essere qualificata non già
quale delega di funzioni, ma come manifestazione della funzione d’indirizzo propria
degli organi politici392. Essa, infatti, ha lo scopo di selezionare il soggetto ritenuto
maggiormente idoneo a realizzare i fini stabiliti dalla legge e dagli organi d’indirizzo
e programmazione. Ne consegue che nel momento in cui l’organo politico conferisce
391
392
Iniziata con il d.lgs. n. 29 del 1993 e poi confermata dal d.lgs. n. 80 del 1998 e dal d.lgs. n. 165 del 2001.
MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 200.
171
l’incarico al dirigente pubblico non gli delega dei poteri, ma gli stessi sono attribuiti
al nominato direttamente dalla legge393. In questo senso del resto si è espressa anche
la Suprema Corte la quale ha affermato che: “l’esigenza della delega è superata ed
assorbita dalla predeterminata suddivisione dei servizi, delle attribuzioni e dei
compiti, e, per altro verso, resa superflua dall’investimento della funzione tipica,
nonché dal suo concreto esercizio secondo la disciplina prestabilita dalle norme
legislative e regolamentari sulla ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche
competenze dell’ente”.394 Nella delega di funzioni, infatti, si trasferisce solo
l’esercizio di una competenza di cui resta pur sempre titolare il delegante, mentre
nell’atto di nomina del dirigente si seleziona solo il titolare di funzioni assegnate
dalla legge in modo esclusivo.
393
Cass., sez. III, 27 marzo 1998, n. 5889, in C.E.D. Cass. n. 210946 ed in Riv. pen., 1998, p. 776.
Cass., sez. III, 27 marzo 1998, n. 5889, cit.; MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione
impropria, cit., p. 203.
394
172
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