UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Dottorato di ricerca in diritto penale LA RESPONSABILITÀ PENALE OMISSIVA ALLA LUCE DEL PRINCIPIO DI SEPARAZIONE TRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE CANDIDATO Dott. Luigi Pacifici Matr. 1185239 TUTOR Prof. Franco Carlo Coppi 1 A tutti coloro che mi sono rimasti vicini nei momenti più difficili 2 INDICE Introduzione ………………………………………………………………………p. 5 I Parte prima: premessa di diritto penale …………..………………………… p. 8 I.1L’omissione penalmente rilevante …………………………………………….. p. 9 I.2 La distinzione tra reati omissivi propri e impropri ……...…………………… p. 17 I.3 Rapporti tra l’omissione penalmente rilevante ed il principio di offensività ... p. 20 I.4 In particolare: il reato omissivo improprio …………………………………... p. 22 I.5 Le diverse tipologie di posizione di garanzia: obblighi di protezione, di controllo e d’impedimento di reati ……………………………………………………….….. p. 40 I.6 Concorso omissivo e connivenza ………………………………………….… p. 51 I.7 Cenni sulle principali ipotesi applicative di concorso omissivo nel reato commissivo ……………………………………………………………………… p. 55 II Parte seconda: premessa di diritto amministrativo …….………………… p. 62 II.1 I diversi modelli di Pubblica Amministrazione che emergono dalla Costituzione……………………………………………………………………… p. 63 II.2 Il principio di separazione tra politica e amministrazione ………………..… p. 66 II.3 La riforma ad opera della legge n. 142 del 1990 …………………………… p. 67 II.4 Il decreto legislativo n. 29 del 1993 ………………………………………… p. 68 II.5 La legge n. 81 del 1993 ……………………………………………………... p. 71 II.6 Il principio di separazione delle funzioni nell’ambito della finanza e della contabilità locale ………………………………………………………………… p. 73 II.7 La riforma Bassanini: legge n. 127 del 1997 ……………………………..… p. 74 II.8 Il decreto legislativo n. 80 del 1998 ………………………………………… p. 77 II.9 Il testo unico degli enti locali: d.lgs. n. 267 del 2000 ……………………..... p. 79 II.10 La disciplina derogatoria per i comuni minori …………………………….. p. 93 II.11 Il d.lgs. n. 165 del 2001 e le modifiche ad opera della legge n. 145 del 2002…………………………………………………………………………….... p. 95 3 II.12 L’illegittimità costituzionale dello spoil system una tantum …………….. p. 100 II.13 La riforma Brunetta: d.lgs. n. 150 del 2009 ……………………………… p. 104 II.14 Le deroghe al principio di separazione tra politica e amministrazione nell’ambito delle leggi regionali in materia di banche di credito cooperativo … p. 106 II.15 Considerazioni finali sul principio di separazione tra politica e amministrazione. Prospettive de iure condendo ………………………………………………...… p. 115 II.16 La relazione tra politica e amministrazione nei principali Paesi europei.... p. 124 III Parte terza: analisi specifica del tema ……………………...……………. p. 132 III.1 Responsabilità omissiva impropria monosoggettiva: insussistenza di una posizione di garanzia a carico degli amministratori pubblici per la protezione di tutti i cittadini da qualsiasi pericolo ………………………………………………….. p. 133 III.2 Responsabilità per danni da uso delle strade …….……………………….. p. 134 III.3 La responsabilità del Sindaco quale autorità locale di protezione civile .… p. 149 III.4 Responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da parte dell’organo di indirizzo politico: a) nei casi eccezionali in cui l’organo politico abbia poteri gestori …………………………………………………………………… p. 151 III.5 Segue: b) nei casi regolari di separazione tra politica e amministrazione ... p. 157 III.6 Prospettive di riforma …………………………………………………….. p. 165 III.7 L’atto di nomina del dirigente da parte dell’organo d’indirizzo politico configura una delega di funzioni? ………………………………………………………… p. 167 Bibliografia ……………………………………………………………………. p. 173 4 INTRODUZIONE La tesi mira ad approfondire i riflessi penalistici della riforma dell’assetto della Pubblica Amministrazione che ha portato all’introduzione della separazione delle funzioni tra organi d’indirizzo e programmazione, da un lato, e quelli di gestione amministrativa, dall’altro. Il lavoro prende quindi le mosse da una premessa di diritto penale che consta di un’analisi generale sul concetto di omissione penalmente rilevante, per approfondire in seguito il tema classico della posizione di garanzia. Delineate le coordinate penalistiche, si passa alla premessa di diritto amministrativo, che tende ad evidenziare la progressiva affermazione del principio di distinzione tra politica e amministrazione, ripercorrendo le varie tappe delle riforme intervenute a partire dalla legge n. 142 del 1990. L’excursus storico compiuto, unitamente alla descrizione dell’attuale disciplina normativa, consente di trarre le conclusioni sul tema e di sollevare alcune considerazioni critiche. In particolare, si fa riferimento non solo alle non trascurabili deroghe che il principio di separazione incontra nella disciplina positiva (si pensi ad esempio alle norme relative ai Comuni di minori dimensioni o alle attribuzioni del Consiglio Comunale ex art. 42 del d.lgs. n. 267 del 2000), ma anche al sistema ordinario dei rapporti tra vertice politico e burocrati. Infatti, il legislatore, nello stesso momento in cui proclama solennemente la distinzione delle funzioni e l’autonomia della dirigenza dal ceto elettivo, sottopone la classe degli amministrativi al controllo degli organi politici, titolari del potere di nomina e revoca relativo agli incarichi dirigenziali. Con ciò creando inevitabilmente una situazione di soggezione della dirigenza verso la politica, se è vero che non vi può essere reale autonomia tra due attori istituzionali qualora l’uno sia sottoposto al controllo dell’altro e le relative progressioni di carriera siano nelle mani dell’organo verso cui si assume di voler garantire l’indipendenza. Sulla base dei rilievi critici 5 emersi si propongono, quindi, due diverse prospettive di riforma finalizzate ad evitare gli aspetti problematici dell’attuale disciplina. Conclusa la premessa di diritto amministrativo, si procede all’analisi specifica del tema, che presenta particolare interesse alla luce della sua novità nel panorama dottrinale italiano e di alcune recenti pronunce rese dalla Suprema Corte. In particolare, si affronta, in primo luogo, la questione della configurabilità di una responsabilità omissiva impropria monosoggettiva in capo agli amministratori pubblici, con particolare riferimento al tema degli eventi lesivi ricollegabili all’uso delle strade. Tale analisi permette di cogliere i riflessi penalistici del riparto di competenze tra organi politici e organi amministrativi, anche alla luce degli orientamenti espressi dalla recente giurisprudenza di legittimità. Lo studio della questione offre inoltre lo spunto per una ricognizione delle principali tesi emerse con riguardo all’istituto della delega di funzioni e per una loro applicazione ai fini che interessano in questa sede. In secondo luogo, la ricerca si sofferma sulla sussistenza di una responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da parte dell’organo d’indirizzo politico, sia nei casi eccezionali in cui gli organi elettivi abbiano poteri gestori, sia nelle ipotesi regolari di separazione tra politica e amministrazione. Al riguardo, atteso l’esiguo numero di contributi dottrinali e di pronunce della Suprema Corte, si possono ipotizzare possibili tesi, anche alla luce di quelle offerte nell’analogo tema della responsabilità dei sindaci delle società per i reati commessi dagli amministratori. Le ricostruzioni proposte sono diverse a seconda che si versi nella regola della separazione di funzioni o nelle eccezioni della confusione dei ruoli e si fondano su un’applicazione al problema in esame delle teorie elaborate con riguardo alla posizione di garanzia. La specificità del tema impone, tuttavia, un’adeguata ricognizione della disciplina extrapenale che regola il riparto di competenze all’interno della Pubblica Amministrazione, i diritti e i doveri dei dipendenti pubblici e la responsabilità erariale degli stessi. 6 Le soluzioni offerte sulla base della disciplina vigente, infine, confermano l’opportunità di una riforma dell’attuale configurazione del principio di separazione tra politica e amministrazione. Nella parte conclusiva del lavoro, pertanto, si analizzano i possibili riflessi penalistici delle diverse proposte di riforma della disciplina amministrativa. 7 I PARTE PRIMA: PREMESSA DI DIRITTO PENALE Al fine di analizzare lo specifico tema dei riflessi penalistici del vigente principio di separazione tra politica e amministrazione, giova effettuare una premessa generale sul reato omissivo improprio e, prima ancora, sul concetto di omissione penalmente rilevante. In questa sede, infatti, verranno tracciate le coordinate essenziali da applicare poi al tema oggetto di più specifica analisi in questo studio. In seguito, nella parte seconda, ci si soffermerà più nel dettaglio sulla questione, prettamente amministrativistica, della separazione di funzioni tra gli organi di indirizzo politico e quelli di gestione amministrativa, il che costituirà l’imprescindibile preludio all’analisi specifica del tema. Essa si svolgerà nell’ultimo capitolo e trarrà alimento dalle conclusioni raggiunte nelle due premesse di diritto penale e di diritto amministrativo. 8 I.1 L’omissione penalmente rilevante Come evidenziato dalla dottrina prevalente1 ed in via di prima approssimazione, l’omissione può definirsi come il mancato compimento, da parte di un soggetto, dell’azione possibile che era da attendersi. Sul piano storico può notarsi che, fino alla fine dell’800, sotto l’influenza dell’ideologia liberale e individualista, la responsabilità per omissione costituiva l’eccezione, giacché il sistema era di tipo essenzialmente conservativo. Con la conseguenza che la legislazione penale si connotava per una netta prevalenza dei divieti, ossia di obblighi di astenersi dal violare la sfera degli altrui diritti intangibili, mentre i doveri di attivarsi a favore degli interessi altrui erano quantitativamente ridotti ed i reati omissivi concernevano solamente la prestazione del servizio militare, il pagamento delle imposte e l’omissione di soccorso delle persone in pericolo. Nei regimi totalitari sorti durante i primi anni del ‘900, invece, si manifestò la tendenza alla creazione di un modello penale propulsivo, ovvero incentrato prevalentemente su comandi, poiché l’ideologia autoritaria concepiva il singolo in funzione degli interessi superiori ed assorbenti della Nazione o del Partito. Ne discendeva una serie numerosa di obblighi di attivarsi ed il conseguente incremento dei reati omissivi. In seguito alla conclusione del secondo conflitto mondiale, poi, l’affermarsi dello Stato solidaristico di diritto determinò l’insorgere di molteplici obblighi positivi, finalizzati alla rimozione degli ostacoli che, di fatto, limitavano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, oltre ad impedire il pieno sviluppo della persona umana e BONUCCI, L’omissione nel sistema giuridico, Perugina, 1911; VANNINI, i reati commissivi mediante omissione, Roma, 1916;GRISPIGNI, L’omissione nel diritto penale, in Riv. it. di dir. e proc. pen., Milano, 1934, p. 592; GUARNERI, il delitto di omissione di soccorso, Padova, 1937; DALL’ORA, Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria generale del reato, Milano, 1950; SPASARI, L’omissione nella teoria della fattispecie penale, Milano, 1956; CARACCIOLI, Omissione (diritto penale), in Nov. Dig., XI, Torino, 1965, p. 895; FIANDACA, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Archivio penale, Napoli, 1983, p. 3; FIANDACA; Omissione, in Dig. Disc. pen., VIII, Torino, 1994, p. 546; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2006, p. 538 e ss.; STILE, Omissione rifiuto e ritardo di atti d’ufficio, Napoli, 1974; GALIANI, Il problema della condotta nei reati omissivi, Napoli, 1980; NUVOLONE, L’omissione nel diritto penale italiano, in L’indice penale, Padova, 1982, p. 434; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 2007, p. 126; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2008, p. 325; Per la dottrina tedesca: ROXIN, An der Grenze von Begehung and Unterlassung, in Festschrift Engisch, 1969, p. 380; GALLAS, Studien zum Unterlassungsdelikt, Heidelberg, 1989; RADBRUCH, Der Handlunsbegriff in seiner Bedeutung für das strafrechtssystem, 1904 (ristampa 1967), p. 132 e ss. 1 9 l’effettiva partecipazione dei singoli all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 c. 2 Cost.). Pertanto, si verificò un progressivo aumento delle fattispecie penali omissive (si pensi alle norme in materia di rapporti di lavoro, di assistenza familiare, di istruzione e mantenimento della prole, di previdenza sociale etc…), con il derivante abbandono dell’idea della responsabilità omissiva come eccezione ad un modello penale essenzialmente incentrato su ipotesi commissive, senza tuttavia trascurare l’esigenza di adeguata protezione della libertà individuale, come accaduto, invece, nei regimi totalitari. Il fenomeno in questione, d’altro canto, interessò non solo l’ordinamento italiano, ma, come testimoniano talune indagini comparativistiche2, si diffuse in tutti gli ordinamenti europei, anche se con minore incidenza nell’ordinamento inglese dove rimase (ed è) ancora radicato il tradizionale spirito individualista. Sempre in questa direzione, la nascita della cosiddetta era tecnologica ha determinato, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, un ulteriore aumento della sfera degli illeciti omissivi, soprattutto al fine di tutelare l’incolumità pubblica e la vivibilità dell’ambiente (si pensi ad esempio alle norme in tema di sicurezza del lavoro, di circolazione stradale, di tutela dell’ambiente etc…), con evidente sviluppo in specie del diritto penale extracodicistico. Come emerso dalla succinta analisi storica del reato omissivo, esso pone inevitabilmente il problema politico-criminale di trovare un punto di equilibrio tra due opposte esigenze fondamentali: da un lato, garantire la libertà individuale; dall’altro, dare attuazione al principio solidaristico3. Quanto al primo aspetto, occorre dare atto che, secondo l’orientamento tradizionale, il comando di agire in un determinato modo, che l’omissione viola, vincolerebbe il cittadino in misura più intensa rispetto al semplice dovere di astensione sotteso al reato commissivo; infatti si ritiene che il soggetto tenuto a compiere una specifica azione è costretto a rinunciare a tutte le altre che potrebbe, nel medesimo tempo, 2 CADOPPI, Il reato omissivi proprio, Padova, 1988, p. 327 ss.; VINCIGUERRA, Introduzione allo studio del diritto penale inglese, Padova, 1992, p. 151; FIANDACA, Omissione, cit., p. 550 3 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 127. 10 liberamente compiere; il divieto di realizzare un’azione, invece, consente il compimento di tutte le possibili azioni concomitanti4. Di qui la manifesta ostilità dell’ideologia liberale nei riguardi della responsabilità penale omissiva, storicamente testimoniata dalla esiguità del numero di fattispecie di omissione fino alla conclusione del XIX secolo. Tuttavia, bisogna segnalare che l’assunto della ritenuta maggiore incidenza sulla libertà personale dei comandi rispetto ai divieti è stato di recente sottoposto a revisione critica, al punto da risultare ormai ridimensionato5. Si è notato, infatti, che nella moderna società l’individuo non è più un’entità astratta e isolata che può disporre della propria libertà fuori da ogni vincolo esterno. Ogni soggetto, invece, in quasi tutti i momenti della vita, è sottoposto a una fitta rete di obblighi sia negativi, sia positivi, di natura etico-sociale e/o giuridica, sicché il precetto penale omissivo, lungi dal sacrificare una illimitata libertà dei cittadini, può finire col confliggere con obblighi di agire in altra direzione; ne consegue che il vero problema diviene ormai quello di appurare quale sia l’obbligo giuridicamente prevalente sugli altri.6 In secondo luogo, inoltre, si è evidenziato che per stabilire se sia più costrittivo un divieto o un comando di agire non bisogna effettuare una valutazione astratta, ma occorre un accertamento in concreto. Vi sono infatti divieti che limitano la libertà dei cittadini in misura più accentuata di quanto non facciano i comandi in quanto tali: ad esempio, il divieto di non superare il limite di velocità per l’automobilista stanco che ha fretta di far rientro a casa, può essere percepito come ben più costrittivo di una prestazione di soccorso alle vittime di un incidente stradale attuabile mediante la semplice chiamata di un’autoambulanza tramite telefono cellulare7. D’altra parte, la dottrina moderna nemmeno ha condiviso la considerazione per cui, mentre l’adempimento di un comando richiede la spendita di un’ energia positiva, il rispetto di un divieto implica la mera rinuncia al proposito criminoso, per sua natura meno dispendiosa; la psicologia individuale, infatti, ha chiarito che la rinuncia ad un’azione criminosa particolarmente attraente può comportare maggiori 4 FIANDACA, Omissione, cit., p. 549. JAKOBS, Strafrecht, AT, Berlin-New york, 1983, p. 642 e ss. 6 FIANDACA, Omissione, cit., p. 550. 7 FIANDACA, Omissione, cit., p. 550. 5 11 sacrifici psichici rispetto alla spendita d’energia richiesta dall’adempimento di un comando di agevole esecuzione8. D’altra parte, nemmeno va sottaciuto che sussistono fattispecie penali costruite in modo tale per cui la responsabilità trova il suo fondamento non già nelle caratteristiche attive o omissive del comportamento tipico, ma nel ruolo giuridico-sociale rivestito dal soggetto attivo e nel rapporto di particolare vicinanza che lo lega al bene protetto e che lo rende, perciò, garante dell’intangibilità di esso9. Ci si riferisce, ad esempio, ai cosiddetti “reati di obbligo” (Pflichtdelikte)10, i quali sono realizzabili indifferentemente mediante azione o omissione, come nel caso dell’art. 380 c.p., che punisce il consulente tecnico il quale, in violazione dei suoi doveri personali, arreca nocumento agli interessi della parte assistita; infatti, la fattispecie de qua può essere integrata anche dalla dolosa omissione da una doverosa attività processuale11. Nello stesso senso si pensi, ancora, ad alcune delle ipotesi di illecito omissivo improprio punibile, anch’esse caratterizzate dalla sussistenza dell’obbligo di impedire l’evento in ragione della posizione giuridica rivestita; in effetti, per la realizzazione dell’ipotesi di omicidio, è indifferente se la madre uccida il bambino soffocandolo nel sonno o negandogli il nutrimento oppure se il medico provochi la morte del paziente a lui affidato iniettandogli una dose di veleno o omettendo di praticargli la cura salvavita12. Ciò posto con riguardo al principio di libertà individuale, occorre evidenziare, con riferimento all’opposto principio solidaristico, che in una moderna visione il soggetto non vive isolatamente, ma in un contesto sociale che gli assicura notevoli benefici e verso il quale, di conseguenza, è tenuto ad adempiere a taluni obblighi tesi appunto a tutelare, in particolare, interessi collettivi o superindividuali. Nondimeno, essi non possono divenire per numero e qualità così invasivi da ridurre eccessivamente la libertà individuale e da spostare il pendolo dell’ordinamento verso la sponda dell’autorità. 8 FIANDACA, Omissione, cit., p. 550. FIANDACA, Omissione, cit. p. 551. 10 ROXIN, Täterschaft und tatherrschaft, 1984, p. 354 e ss. 11 FIANDACA, Omissione, cit. p. 551. 12 FIANDACA, Omissione, cit., p. 551. 9 12 Quanto alla struttura del reato omissivo, la dottrina si è soffermata in primis sulla natura dell’omissione. Secondo la tesi tradizionale, la stessa avrebbe essenza fisiconaturalistica al pari dell’azione. Tale teoria era mossa dall’esigenza, in passato particolarmente avvertita, di ricercare un concetto unitario di condotta penalmente rilevante, capace di comprendere in sé tanto il fare, quanto l’omettere13. Negli ultimi tempi, invece, è emerso un orientamento che, preso atto dell’impossibilità di rinvenire un simile concetto, tende a ridimensionare l’importanza delle categorie unitarie e a scomporre la teoria del reato in sottosistemi autonomi, corrispondenti alle diverse tipologie criminose (reati dolosi e colposi, da un lato; commissivi e omissivi, dall’altro)14. La teoria dell’essenza fisico-naturalistuca dell’omissione, peraltro, si è divisa al suo interno in diversi orientamenti che hanno seguito percorsi diversi per dimostrare il medesimo assunto. In particolare, secondo una prima ricostruzione15, l’omissione consisterebbe nel non aver agito in un determinato modo, ossia in un nihil facere; in senso contrario, però, si obietta che la tesi sarebbe inidonea a distinguere l’omissione dalla mera inerzia, priva di alcuna valenza penale16. In base ad altra teoria17, l’omissione si sostanzierebbe in un aliud agere, ossia nel compiere una determinata azione positiva ed in ciò sarebbe rinvenibile la sua essenza fisico-naturalistica. Tuttavia, si è rilevato che chi omette di agire può non aver posto in essere un’altra azione, ma essere rimasto totalmente inerte, continuando ad esempio a dormire; in secondo luogo, si è evidenziata l’impossibilità di individuare l’azione diversa quando l’obbligo di agire deve essere adempiuto entro un termine più o meno ampio, durante il quale il soggetto compie una molteplicità di azioni, salvo che si consideri l’ultima azione, compiuta nella imminenza della scadenza del 13 MARINUCCI, Il reato come <<azione>>. Critica di un dogma, Milano, 1971; ROXIN, Il concetto di nei più recenti dibattiti della dommatica penalistica, in St. Delitala, III, Milano, 1984, p. 2087 e ss; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2000, p. 219. 14 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2006, p. 188. 15 ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2000, p. 224 e ss. 16 GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 326. 17 LUDEN, Abhanlungen aus dem gemeinem deuttschen Strafrecht, II, 1840, p. 250 e ss; MASSARI, Il momento esecutivo del reato, Pisa, 1923; MASSARI, Le dottrine generali del diritto penale, Spoleto, 1929. 13 termine; infine, si è notato che l’azione diversa è comunque irrilevante per l’esistenza del reato, posto che il giudice deve accertare solamente che il soggetto non abbia tenuto il comportamento dovuto e non già che lo stesso abbia realizzato tale diversa azione. Ad esempio, nel caso in cui nel termine di alcuni mesi debbano essere denunciate le armi possedute, il giudice non indaga che cosa il reo abbia fatto in questo periodo di tempo, ma si limita a stabilire se, pur potendo, egli non abbia eseguito la prescritta denuncia18. Per un ultimo orientamento19, infine, l’omissione consisterebbe in un movimento interno nervoso con cui si arresta un impulso ad agire. In senso critico si è però rilevato innanzitutto che tale sforzo psichico non si rinviene in tutte le omissioni e che in particolare difetta in quelle incoscienti20. Sotto altro profilo si è notato che la tesi riduce comunque l’omissione ad un’entità meramente psichica ed in tal modo tradisce l’ispirazione di fondo tesa a riconoscere all’omissione un’essenza fisico naturalistica21. Quando si fa riferimento alla fisicità, infatti, si intende una consistenza fisica esteriore, ossia un atto di volontà esteriorizzato che, anche ad aderire a tale impostazione, in ogni caso non sussisterebbe22. Le critiche suesposte, concernenti i vari sforzi volti ad introdurre, nella struttura dell’omissione in quanto tale, uno spessore naturalistico di cui essa è irrimediabilmente priva, hanno indotto la dottrina più recente a prendere atto che l’azione e l’omissione stanno nello stesso rapporto di contraddizione in cui si pongono “A e non A”23. Infatti, l’azione rappresenta qualcosa di reale nel mondo esterno, ossia un fenomeno dotato di fisicità e perciò naturalisticamente percepibile con i sensi; ne consegue che essa è stata definita come “un movimento corporeo dell’uomo che provoca una modificazione osservabile del mondo esterno” 24. Non si può trascurare, tuttavia, che l’importanza del concetto naturalistico di azione è stata 18 ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 224 MANTOVANI, Diritto penale, cit. p. 128; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 326. 19 BELING, Grundzüge des Strafrechts, Tübingen, 1925. 20 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p.128. 21 GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit, p. 326. 22 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p.128. 23 RADBRUCH, Der Handlunsbegriff in seiner Bedeutung fur das Strafrechtssystem, 1904, p. 132 e ss. 24 FIANDACA, Omissione, cit., p. 547. 14 posta in discussione dalla dottrina tedesca e da una parte di quella italiana25. In effetti, sono state sostenute teorie tese a dimostrare l’esistenza di un concetto sociale di condotta, o di una nozione negativa di azione (che si sostanzierebbe nel non evitare ciò che il diritto comanda di non compiere), o l’assorbimento della condotta nella tipicità e nella antigiuridicità (con la conseguenza che non avrebbe tanto rilievo l’agire umano, quanto la qualificazione che ne dà l’ordinamento), oppure, da ultimo, la qualificazione dell’azione come manifestazione di personalità26. Tali ricostruzioni, però, sebbene abbiano apportato contributi di rilievo alla studio del tema, non sono riuscite a convincere la maggioranza degli interpreti né a superare la tesi prevalente della natura fisico-materialistica dell’azione. L’omissione, al contrario, è un quid materialmente intangibile, ovvero un dato privo di substrato naturalistico, in altri termini un “nulla”27. Per questi motivi, la tesi ormai prevalente28 attribuisce all’omissione un’essenza non già fisico-naturalistica, ma normativa, poiché essa consiste nel “non compiere l’azione possibile, che il soggetto ha il dovere giuridico di compiere”, ossia in un non facere quod debetur29. In altri termini, mentre l’azione appartiene al mondo del sein (ossia dell’essere), l’omissione riguarda il terreno del sollen (ovvero del dover essere), ed è pertanto inconcepibile in assenza di una norma qualsivoglia (religiosa, morale, sociale o giuridica), che imponga di agire. Le omissioni rilevanti giuridicamente, però, sono solo quelle consistenti nella violazione di un dovere giuridico di fare e non già le altre; ai fini del presente studio, invece, interessano solo, tra le omissioni giuridiche, quelle che sono sanzionate da norme penali e integranti perciò fattispecie omissive di reato 30. La 25 JESCHEK, Lehrbuch des Strafrechs, parte generale, Berlin- München, 1969, p. 149; MARINUCCI, Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 167 e ss. 26 ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2000, p. 220; ROXIN, Il concetto di azione nei più recenti dibattiti della dommatica penalistica tedesca, in Studi in memoria di Delitala, cit., p. 2087 e ss.; DOSI, Categorie giuridiche e categorie psicologiche. Nota sullo sviluppo del concetto di azione nella teoria giuridica del reato, in Delitti e pene, 1986, p. 135. 27 FIANDACA, Omissione, cit., p. 547. 28 GRISPIGNI, Diritto penale italiano, II, Padova, 1947, p. 34; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 140; FIORE, Diritto penale, Torino, 1993, p. 228; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 128; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 544; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 326 e ss. 29 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 128; 30 E’ noto che, in base ad una concezione formale di reato, ciò che contraddistingue la norma penale è la sanzione da essa astrattamente comminata, ossia la pena. In particolare, è reato ogni fattispecie che sia sanzionata con le pene principali, ovvero ergastolo, reclusione, multa, arresto e ammenda (art. 17 c.p.): MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 14. 15 distinzione tra queste ultime e le fattispecie dei reati di azione si fonda, dunque, sul carattere, rispettivamente, positivo o negativo della condotta che sta al centro del fatto tipico. In altre parole, mentre l’illecito commissivo ha alla base un’azione in senso stretto, il reato omissivo si risolve nel mancato compimento di un’azione doverosa31. Di conseguenza, la norma penale che configura il reato di azione si atteggia a divieto, in quanto vieta di realizzare la condotta positiva prevista ex lege; la fattispecie penale omissiva, invece, ha la struttura del comando, poiché impone un comportamento attivo e ne punisce la violazione32. Tanto premesso sulla natura del reato omissivo, occorre dare atto che, secondo autorevole dottrina33, lo stesso non sussiste in due casi: in primo luogo, qualora vi sia l’impossibilità concreta di adempiere al dovere di agire (ad impossibili nemo tenetur), che può dipendere da condizioni personali psico-fisiche (ad es. il soggetto gravato dall’obbligo di soccorso non sa nuotare) o esterne (ad es. eccessiva distanza dal luogo del soccorso); in secondo luogo, in caso di insuccesso dell’azione idonea, tenuta dal soggetto obbligato, ove il fallimento sia dovuto a circostanze esterne (es. denuncia di reato spedita ma non pervenuta per disguidi postali non imputabili al pubblico ufficiale). In entrambi i casi il reato non sussiste per difetto della tipicità (aderendo alla teoria tripartita34) o per insussistenza dell’elemento oggettivo (se si segue la tesi bipartita35), posto che in dette situazioni non pare proprio integrata la condotta omissiva prevista dal legislatore. Inoltre, laddove si tratti di doveri di agire che incombono su più soggetti, e che non presuppongono necessariamente un adempimento di tipo personale, l’assolvimento dell’obbligo da parte di uno dei coobbligati può far venir meno i presupposti della situazione tipica e, quindi, può rendere penalmente irrilevante l’omissione degli altri che rimangano successivamente 31 FIANDACA, Omissione, cit., p. 547. FIANDACA, op. cit., p. 547. 33 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 129. 34 ALIMENA, Appunti di teoria generale del reato, Milano, 1938, p. 35 e ss. DELITALA, Il fatto nella teoria generale del reato, 1930, in Raccolta degli scritti, I, Milano, 1976, p. 5 e ss. MAGGIORE, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 1951, p. 205; PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990., p. 124; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 155. 35 MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, I, Torino, 1961, p. 607; FLORIAN, Parte generale del diritto penale, I, Milano, 1934, p. 398; FIORELLA, Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, p. 786; ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 212; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 101 e ss. 32 16 inerti36. In quest’ultimo caso, peraltro, altra parte della dottrina37 esclude la sussistenza del reato per difetto di offensività, atteso che, ad esempio, non vi può essere alcuna lesione o messa in pericolo per l’interesse al normale funzionamento della giustizia38 allorché la denuncia di reato sia stata presentata solo da uno dei pubblici ufficiali tenuti (art. 361 c.p.). I.2 La distinzione tra reati omissivi propri e impropri Fin qui si è fatto genericamente riferimento al concetto di omissione penalmente rilevante; tuttavia, è noto che dottrina e giurisprudenza pacificamente distinguono due tipologie di illeciti di omissione: i reati omissivi propri (delicta omissiva) e quelli impropri (delicata commissiva per omissionem). Orbene, se non sussiste alcun dubbio sulla necessità di tale separazione concettuale, molto incerti risultano, invece, i criteri di divisione tra le due categorie. Secondo un primo orientamento39, la distinzione tra reati omissivi propri e impropri si fonderebbe sul carattere della norma violata, ovvero di comando in quelli propri e di divieto negli illeciti commissivi per omissione; in questi ultimi, infatti, la norma trasgredita vieta la causazione di un evento e non impone un comportamento attivo. Ne consegue che, secondo tale impostazione, i reati omissivi impropri sarebbero mere forme di manifestazione dei reati commissivi, onde l’espressione delicta commissiva per omissionem.40 Tale tesi è stata però oggetto di critiche giacché la differenza tra comandi e divieti si basa sulla natura della condotta richiesta: i divieti impongono l’omissione, mentre i comandi esigono l’esecuzione di un’azione. Pertanto, i reati omissivi impropri sono 36 FIANDACA, Lesività e dolo nel delitto di omessa denuncia di reato, in St. Costa, Milano, 1982, p. 95 e ss. Per una ricostruzione dell’ipotesi in chiave di difetto di offensività si veda MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 216 e infra nel testo. 37 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 216. 38 ERRA, Denuncia penale (omessa o ritardata), in Enciclopedia del diritto, XII, Milano, 1981, p. 199 e ss. 39 LUDEN, Abhandlungenaus dem gemeinem teutschen Strafrecht, 2 Band, Ueben den Thatbestand des Verbreches, Gottingen, 1840, p. 219; VANNINI, I reati commissivi mediante omissione, Roma, 1916, p. 48 e ss.; MANZINI, Trattato di diritto penale, I, Torino, 1961, p. 690-691. 40 GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 327. 17 reati omissivi a tutti gli effetti, poiché sono realizzati in violazione di norme di comando. In base ad altro orientamento41, il criterio distintivo tra le due categorie si baserebbe sulla tecnica di tipizzazione utilizzata: i reati omissivi propri sarebbero previsti espressamente dalla legge (sia o no presente un evento naturalistico nella loro struttura), mentre quelli impropri risulterebbero dalla combinazione della norma di parte speciale, configurante una fattispecie di azione, con la clausola generale di cui all’art. 40 c. 2 c.p. Con la conseguenza che i reati di omesso impedimento dell’evento, esplicitamente previsti in norme di parte speciale42, andrebbero considerati come reati omissivi propri, visto che per essi vi è una espressa tipizzazione legislativa. Tale scelta classificatoria è ritenuta preferibile da tali Autori, giacché mette meglio in risalto la specifica problematica del reato omissivo improprio quale figura criminosa priva (almeno in parte) di tipizzazione normativa espressa e, perciò, di dubbia compatibilità con i principi di legalità e sufficiente determinatezza della fattispecie43. La tesi, tuttavia, non appare condivisibile perché si fonda su un dato eventuale ed estrinseco, quale la tecnica di tipizzazione normativa utilizzata, e non già sulla struttura intrinseca delle due tipologie di reati. Per questi motivi, appare preferibile il criterio di distinzione seguito dalla dottrina prevalente, che si basa sulla ontologia delle fattispecie: tale teoria, infatti, ritiene che, mentre i reati omissivi propri sono integrati dal mero mancato compimento di un’azione imposta dalla legge, quelli impropri, invece, sono caratterizzati dal mancato impedimento di un evento naturalistico; ne consegue che, in quest’ultimo caso, l’omittente assume la veste di garante del bene protetto e risponde, perciò, anche dei risultati connessi al suo mancato attivarsi. Pertanto, gli illeciti omissivi propri sono reati di mera condotta, 41 FIANDACA, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Rapporto italiano al Colloquio preparatorio del XIII Congresso dell’Aciation Internazionale de droit pénal sul tema Infractions d’omission et responsabilità penale pour omission, Urbino, 7-10 ottobre 1982, in Foro It., 1983, V, c. 29 e spec. nota (8); FIANDACA, Omissione, cit., p. 549; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 542; GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obiettiva della fattispecie, Milano, 1983, p. 3 e ss. 42 Ad esempio l’art. 450 c.p., che punisce il fatto di far sorgere il pericolo di un disastro ferroviario con la propria azione od omissione colposa, o l’art. 650 c.p., che incrimina il mancato impedimento dello strepito di animali. 43 In particolare, FIANDACA, Omissione, cit., p. 549. 18 laddove quelli impropri sono reati di evento. Da ciò discende che, seguendo tale impostazione, le ipotesi di omesso impedimento dell’evento previste nella parte speciale del codice penale (ad es. il mancato impedimento di strepiti di animali ex art. 659 c.p.) rientrano nella categoria dei reati omissivi impropri, poiché ciò che rileva ai fini del distinguo non è la tecnica di tipizzazione utilizzata accidentalmente dal legislatore, ma la diversità strutturale esistente tra le due tipologie di illecito omissivo. Nei reati omissivi propri, quindi, gli elementi costitutivi sono dati: in primis, dalla situazione tipica, ossia dall’insieme dei presupposti da cui scaturisce l’obbligo di agire; in secundis, dalla condotta omissiva, che consiste nel mancato compimento dell’azione richiesta al soggetto dalla norma giurdica; in tertiis, dal termine, esplicito o implicito, entro cui l’azione deve essere adempiuta44. Sulla struttura dei reati omissivi impropri si tornerà in seguito in modo più approfondito. Per ora è sufficiente precisare che i tratti essenziali della categoria sono rappresentati dal mancato compimento dell’azione doverosa impeditiva imposta da un obbligo giuridico, dall’evento naturalistico e dal nesso di causalità tra il primo ed il secondo elemento45. Con riferimento ai soggetti attivi dei reati omissivi, autorevole dottrina 46 ha evidenziato che quelli impropri sono tutti reati propri, poiché la qualifica soggettiva, su cui poggia l’obbligo di garanzia, deve essere preesistente al precetto penale, mentre i reati omissivi propri possono essere reati propri o comuni a seconda che l’obbligo di attivarsi abbia come destinatari soggetti con qualifica soggettiva preesistente (es. art. 328 c.p.) o meno (es. art. 593 c.p.). 44 CADOPPI, Il reato omissivo proprio, cit., p. 865; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 328. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 129. 46 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 130. 45 19 I.3 Rapporti tra l’omissione penalmente rilevante ed il principio di offensività Come già esposto nella ricostruzione storica dell’istituto, il legislatore ha progressivamente incrementato il numero delle fattispecie penali omissive al fine di soddisfare finalità di natura collettivo-solidaristica, con la conseguenza che si è posto con insistenza il problema della compatibilità tra la punibilità delle omissioni ed il principio di offensività. Infatti, mentre il reato di azione reprime la modificazione in peius di una situazione preesistente, e cioè la lesione di un bene giuridico, l’illecito penale omissivo, invece, tende a promuovere in melius il progresso e il benessere collettivo, onde si corre il rischio che il diritto penale si trasformi da strumento di tutela di beni giuridici a mezzo di “governo della società”47. Da ciò discende il pericolo di una strumentalizzazione politica dell’individuo che si porrebbe in tensione con i principi costituzionali in materia penale (soprattutto con quelli di offensività e di extrema ratio). Per questi motivi, una parte della dottrina48 considera il reato omissivo un illecito di pura disubbidienza, mentre altri autori, in senso sostanzialmente analogo, ritengono che il disvalore dell’illecito omissivo consista non tanto nella lesione di un bene giuridico preesistente, ma nella mancata produzione di una utilità futura49. Ne consegue che, da questo angolo visuale, si auspica, de iure condendo, la depenalizzazione degli illeciti di pura omissione. Tale impostazione non ha però convinto autorevole dottrina50, la quale ha notato che una disamina approfondita del tema consente di distinguere tra ipotesi di pura disobbedienza e altre nelle quali la fattispecie omissiva è posta a tutela di beni giuridici. Infatti, si sostiene che in taluni casi possa assurgere al rango di bene meritevole di protezione penale proprio l’interesse attuale al conseguimento di utilità future. Ciò si verifica, in specie, nelle ipotesi di “beni prestazione”, costituiti dalle 47 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 540; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 128. 48 A tale impostazione ha aderito per primo il BINDING, Compendio di diritto penale, trad. it. del Prof. A. Borettini, Roma, 1927; nella dottrina italiana: CADOPPI, Il reato omissivo proprio, I, Padova, 1988, p. 374 e ss; MATOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 128. 49 ZAFFARONI, Panorama attual da problematica da omissão, in Revista de direito penal e criminologia, 1982, p. 30 e ss. 50 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 541. 20 disponibilità economico-finanziarie necessarie per assolvere le funzioni tipiche di uno Stato sociale: ad esempio, l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi, leso dall’evasione fiscale. Almeno in questi casi il problema non è allora quello della compatibilità dell’omissione con il principio di offensività, ma, semmai, la necessità di verificare di volta in volta se sia necessario il ricorso alla sanzione penale o se possa dirsi, invece, sufficiente la predisposizione di sanzioni amministrative, in base ai dettami del principio di extrema ratio51. Altri Autori52, invece, al fine di non ingenerare confusioni, hanno più correttamente analizzato i rapporti tra omissione e principio di offensività distinguendo tra illeciti omissivi propri e impropri, pur chiarendo in via generale che entrambi sono conciliabili con esso non in termini naturalistici (attesa l’inconsistenza fisica dell’omissione), ma normativi53. Quanto ai primi, si sostiene che sia possibile un recupero degli stessi sotto l’egida del principio suddetto a patto che tali fattispecie siano costruite in termini di offesa, ad esempio mediante la loro trasformazione in reati di evento, e che la loro interpretazione sia volta all’accertamento della offensività in concreto, con la conseguenza che il reato dovrebbe essere escluso qualora il bene tutelato non risulti in concreto pregiudicato dall’omissione. Ad esempio, nell’ipotesi di cui all’art. 328 c. 2 c.p. l’offensività in concreto difetta se il pubblico ufficiale pone in essere un atto diverso da quello dovuto, ma parimenti in grado di soddisfare l’interesse del richiedente. Del pari, nel caso dell’omissione di soccorso (art. 593 c.p.), non sussiste il delitto qualora la situazione di pericolo sia rimossa da altri. Nei reati omissivi impropri, invece, la compatibilità con il principio di offensività è possibile attraverso la loro lettura in termini di equiparazione, sotto il profilo del disvalore sociale, dell’offesa non impedita a quella cagionata. Ne consegue che a tal fine è necessario: in primo luogo, che il legislatore formuli le fattispecie commissive, 51 CADOPPI, Il reato omissivo, cit., p. 571 e ss.; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 541. STILE, Omissione, rifiuto e ritardo di atti d’ufficio, Napoli, 1974; MAZZACUVA, Il disvalore di evento nell’illecito penale, Milano, 1983, p. 158; CADOPPI, “Non evento” e beni giuridici “relativi”: spunti per una reinterpretazione dei reati omissivi in chiave di offensività, in L’indice penale, Padova, 1999, p. 373; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 216. 53 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 130. 52 21 convertibili ex art. 40 c. 2 c.p., come reati di offesa; in secondo luogo, che l’obbligo di garanzia venga delimitato nei termini di cui in seguito si darà conto54; infine, che la condotta doverosa sia quella idonea ad impedire l’evento55, poiché essa assume un ruolo centrale nella struttura del reato omissivo improprio. I.4 In particolare: il reato omissivo improprio Tanto premesso in generale sull’omissione penalmente rilevante e chiarita la distinzione tra reato omissivo proprio e improprio, occorre soffermarsi in modo più approfondito sui reati commissivi mediante omissione, poiché, come si vedrà, tali ipotesi assumono un ruolo centrale nell’analisi dello specifico tema oggetto di studio. Come si è già notato, il reato omissivo improprio, pur possedendo un’autonomia concettuale rispetto alla fattispecie commissiva-base, nasce da un processo di conversione di quest’ultima ad opera dell’interprete. Tale fenomeno non fa altro che recepire ciò che da tempo è pacifico nella coscienza sociale, ossia che in taluni casi il mancato impedimento di un evento equivale a cagionarlo: si pensi, ad esempio, al famoso caso della madre che lascia morire di fame il bambino. E’ facile, quindi, intuire che il problema fondamentale diviene quello di definire compiutamente le condizioni in presenza delle quali il non impedire un evento equivale a cagionarlo. D’altro canto, sul piano del principio di legalità, si pone il non lieve dilemma di come ricondurre la condotta di mancato impedimento a fattispecie di parte speciale di tipo commissivo56. Di fronte a tali rilevanti questioni i vari ordinamenti giuridici forniscono soluzioni diverse. Infatti, mentre in Francia e in Belgio il rilievo attribuito al principio di legalità57porta a ritenere punibili i soli casi di mancato impedimento dell’evento espressamente previsti da norme di parte speciale, nei Paesi di common 54 Infra Pr. I.4. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 217. 56 FIANDACA, Omissione, cit., p. 554. 57 Si ricordi che in tali sistemi il giudice è definito come mera “bocca della legge”, mentre sul piano costituzionale il Parlamento, in quanto organo rappresentativo della volontà popolare, assume un ruolo centrale. 55 22 law si ammette in via giurisprudenziale (in assenza quindi di una norma di legge ad hoc) la rilevanza penale dell’omissione impropria, purché sul reo incomba un obbligo giuridico di agire. Infine, in Germania, in Austria, in Portogallo e in Italia si segue una via per certi versi mediana: infatti, nella parte generale del codice penale è contenuta una clausola di equivalenza che si combina con le singole norme di parte speciale commissive. In tal modo, da un lato, si rimedia alla difficoltà di prevedere puntualmente nella parte speciale del codice tutte le ipotesi di mancato impedimento dell’evento punibili e, dall’altro, si riduce l’attrito tra l’illecito omissivo improprio e il principio di legalità58. Tale sistema normativo, tuttavia, finisce inevitabilmente per responsabilizzare l’interprete, giacché in definitiva gli si affida la determinazione degli ambiti di applicabilità della clausola di equivalenza contenuta nella parte generale, onde l’importanza di delimitare con esattezza le condizioni, in presenza delle quali il non impedire sia assimilabile al cagionare59. Nel prosieguo, pertanto ci si soffermerà sulla portata dell’art. 40 c. 2 c.p., sì da fissare le coordinate teoriche da applicare poi alla specifica problematica oggetto del presente studio. Al riguardo si può innanzitutto notare che la clausola di equivalenza tra il cagionare e l’omettere, di cui all’art. 40 c. 2 c.p., è stata posta dal legislatore sotto la rubrica relativa al “rapporto di causalità”, il che costituisce un significativo indice normativo della applicabilità della stessa ai soli reati di evento in senso naturalistico, giacché solo per essi assume rilevanza il rapporto di causalità60. Peraltro, occorre aggiungere che non tutti i reati di tal tipo sono suscettibili di conversione ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p., ma solo quelli cosiddetti causali puri, ossia quei reati commissivi la cui carica di disvalore si incentra tutta nella realizzazione dell’evento, indipendentemente dal tipo di condotta posta in essere, come nel classico esempio dell’omicidio. Al contrario, non rientrano nella sfera di operatività dell’art. 40 c. 2 c.p. i reati di evento a forma vincolata61, ovvero quelli nei quali la legge richiede che l’azione produttrice 58 CADOPPI, Il reato omissivo, I, cit., p. 316 e ss.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, p. 15 e ss.; JESCHECK-GOLDMANN, Die Behandlung der unechten Unterlassungsdelikte im deutschen und auslandischen Strafrecht, in ZStW, 1965, p. 109 e ss. 59 FIANDACA, Omissione, cit., p. 554; FIORELLA, Responsabilità penale, in Enc. dir., Milano, 1988, p. 1300. 60 FIANDACA, Omissione, cit., p. 554. 61 SGUBBI, Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975, p. 103. 23 dell’evento si articoli in determinate modalità (es. nel furto l’impossessamento della cosa deve avvenire mediante sottrazione) o attraverso determinati mezzi (es. nella truffa l’induzione in errore deve avvenire attraverso artifici o raggiri). Poiché, dunque, in tali ultime ipotesi il legislatore seleziona, tra le possibili condotte offensive del bene protetto, quelle perseguibili penalmente, ne consegue che esse sono compatibili solo con una causazione in forma attiva del risultato lesivo, in base alle specifiche modalità previste nella norma di parte speciale. Per questi motivi, una parte della dottrina62 nega che la truffa possa essere integrata mediante il semplice silenzio serbato su circostanze atte a trarre in inganno la vittima, giacché il mero tacere tali circostanze non sarebbe sufficiente ad integrare gli artifici o raggiri richiesti dall’art. 640 c.p., né la truffa potrebbe mai combinarsi con la clausola generale di cui all’art. 40 c. 2 c.p., posto che si tratta di reato a forma vincolata in cui le specifiche modalità della condotta sono rappresentate appunto dagli artifici o raggiri. Occorre però segnalare che sul punto la giurisprudenza prevalente è orientata in senso opposto ed ammette, dunque, la configurabilità della truffa mediante silenzio “maliziosamente serbato” ogni volta che il soggetto, violando norme giuridiche, anche extrapenali (es. l’art. 1337 c.c.), induca in errore la vittima 63. La suprema Corte ritiene, quindi, o che la clausola di equivalenza ex art. 40 c. 2 c.p. sia estensibile anche alla truffa o che nel concetto di raggiro possa rientrare anche l’omessa comunicazione di informazioni giuridicamente dovute. Al riguardo si può osservare che pare cogliere nel segno la dottrina citata nel momento in cui evidenzia la natura di reato a forma vincolata della truffa, con la conseguenza che l’unico modo per poter ritenere integrato l’art. 640 c.p. dalla condotta di chi tace è non già l’utilizzo del processo di conversione disposto dall’art. 40 c. 2 c.p., ma solo quello di affermare che già la norma di parte speciale di per sé sia sufficiente per la punibilità dell’ipotesi de qua, atteso che nel concetto di raggiro astrattamente ben può rientrare anche il 62 FIANDACA, Omissione, cit., p. 555; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 550; FIANDACAMUSCO, Diritto penale, Parte speciale, II, Bologna, 1997, p. 140; MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 162. 63 Ad esempio, Cass., 14 aprile 1978, in Giust. pen., 1979, II, p. 231; Cass., 21 novembre 1973, in Cass. pen. Mass. Ann., 1975, p. 534; Cass., 2 marzo 1996, Capra, in Massimario delle decisioni penali, 204030; Cass., sez. VI, 3 aprile 1998, Antonino, n. 5579, in C.E.D. 199805579. 24 silenzio circostanziato. In queste ipotesi, perciò pare che non si possa invocare il reato omissivo improprio, ma che, al più, si debba porre il problema, tipicamente di parte speciale, della corretta esegesi della locuzione “artifici o raggiri”. Tornando alla portata applicativa dell’art. 40 c. 2 c.p., si può notare che, secondo parte della dottrina64, essa andrebbe ulteriormente circoscritta ai soli reati causali puri posti a tutela di beni giuridici di rango elevato, come la vita o l’incolumità personale, in linea, del resto, con l’indagine storica e comparativistica, la quale mostra che i settori accennati sono appunto quelli in cui con minore incertezza si ammette l’equivalenza tra il cagionare e il non impedire65. Tale orientamento, tuttavia, non appare convincente poiché la lettera dell’art. 40 c. 2 c.p. non ammette restrizioni in merito al bene giuridico tutelato66, onde la configurabilità di una responsabilità per omesso impedimento dell’evento anche con riguardo a reati posti a tutela di beni patrimoniali. Come emerso dall’analisi fin qui compiuta, la portata applicativa dell’art. 40 c. 2 c.p. è sostanzialmente rimessa all’opera dell’interprete, con il rischio di un eccesso di discrezionalità giudiziale, che, di per sé, si pone in frizione con il principio di legalità e con l’esigenza della calcolabilità ex ante delle conseguenze del proprio agire. Proprio al fine di evitare i conseguenti rischi di arbitrio, parte della dottrina propone, de iure condendo, di abrogare la clausola generale di cui all’art. 40 c. 2 c.p. e di introdurre un sistema, sul modello di quello francese, basato su una tipizzazione legislativa espressa nella parte speciale delle ipotesi di equivalenza tra il cagionare e il non impedire67. Quanto alla struttura del reato omissivo improprio, occorre evidenziare che gli elementi costitutivi sono dati: in primo luogo, dal presupposto di fatto che genera una situazione di pericolo per il bene da proteggere, rendendo doveroso il compimento dell’azione tesa all’impedimento dell’evento; in secondo luogo, dall’omissione, ossia FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979, p. 40 e ss.; VIOLANTE, Considerazioni sull’art. 40 cpv., in Indice pen., 1983, p. 734. 65 FIANDACA, Il reato commissivo mediante omissione, cit., p. 40 e ss. 66 ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, p. 53. 67 FIANDACA, Omissione, cit., p. 555. 64 25 dal mancato compimento dell’azione volta all’impedimento dell’evento, in presenza della c.d. posizione di garanzia; in terzo luogo, dall’evento naturalistico descritto nella fattispecie commissiva di parte speciale; infine, dal rapporto di causalità tra la condotta negativa e l’evento68. Con particolare riferimento all’omissione, si è già visto che essa, a differenza dell’azione, è una condotta priva di essenza fisico-naturalistica, con la conseguenza che non è in grado di dare l’avvio a processi causali reali69; è stata infatti abbandonata l’artificiosa teoria ottocentesca della “causalità dell’omissione”70 e la causalità omissiva è oggi ritenuta pacificamente una causalità non naturalistica, poiché l’omissione, essendo un mero non facere, non possiede un reale valore condizionante (ex nihilo nihil fit). Pertanto, l’evento è naturalisticamente attribuibile non già all’omissione, ma alle forze causali della natura che sono in svolgimento: ad esempio, la morte del paziente è cagionata dal processo patologico in atto e non dall’omessa terapia da parte del medico. La causalità omissiva è, quindi, una causalità soltanto normativa, in quanto è la legge che equipara il non impedire al cagionare. Ne consegue che il rimprovero che si muove al reo è di non aver impedito l’evento e non certo di averlo causato. A ciò si aggiunga che la causalità omissiva, proprio in ragione delle sue peculiarità, si presenta come una causalità doppiamente ipotetica, in quanto occorre, prima, domandarsi se l’evento sia stato cagionato da una certa causa naturale (ad es., il paziente è morto per infezione tetanica?) e, poi, se l’azione omessa sarebbe stata in grado di eliminare la causa naturale dell’evento (sempre nello stesso esempio: la cura antitetanica avrebbe eliminato l’infezione in atto?). In quest’ultimo caso, quindi, il giudizio controfattuale va realizzato, anziché eliminando mentalmente l’azione del reo, sostituendo teoricamente l’omissione con l’azione (c.d. addizione mentale)71. Anche nell’ambito della causalità omissiva, però, resta valido il criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche, onde il giudice dovrà rinvenire la legge 68 GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 329. FIANDACA, Omissione, cit., p. 555. 70 Riferimenti in MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 152; CONTRA, STELLA, La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, p. 1217 e ss., il quale contesta la tesi della causalità omissiva come causalità meramente ipotetica; per la dottrina tedesca si veda SOFOS, Mehrfachkausalität beim Tun und Unterlassen, Berlin, 1999, p. 199 e ss. 71 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 153 69 26 scientifica o la regola di esperienza, in base alla quale si possa sostenere che, ove ricorrano determinati antecedenti, vengano meno conseguenze del tipo di quelle che si sono verificate nel caso di specie. D’altra parte, poiché i giudizi ipotetici sono esposti inevitabilmente a margini di incertezza, la dottrina ha sostenuto che, in sede di accertamento del nesso di condizionamento tra la condotta omissiva e l’evento, non si possa raggiungere lo stesso livello di rigore esigibile nell’accertamento del nesso di causalità attiva; pertanto, nell’applicare il criterio della condicio, ci si accontenta di esigere che la condotta doverosa, supposta come realizzata, sarebbe valsa ad impedire l’evento con una probabilità prossima alla certezza72. Sul punto in giurisprudenza si è assistito ad un’evoluzione scandita da quattro passaggi fondamentali, che hanno contribuito a dissolvere le incertezze, in particolare con riguardo alla responsabilità medica, ma con considerazioni estensibili a tutte le ipotesi di responsabilità omissiva, di cui si darà succintamente conto nel prosieguo73. L’orientamento tradizionale della Suprema Corte si esprimeva in modo molto severo, ispirandosi espressamente all’esigenza di tutela dei beni fondamentali, come ad esempio la vita. In questa fase la giurisprudenza seguiva, quindi, il criterio della c.d. “volatilizzazione del rischio” 74, che comportava una sovrapposizione tra rapporto di causalità e regola cautelare trasgredita e, dunque, il sostanziale svuotamento dell’accertamento relativo al nesso di causalità, ricondotto senza residui alla verifica circa gli estremi della colpa 75. Per questi motivi, nel 199176 la Corte di Cassazione ha aderito alla diversa tesi delle “serie ed apprezzabili probabilità di successo” della condotta omessa, formula che gli stessi giudici concretizzavano in una percentuale molto bassa di successo (30 %). Anche tale ricostruzione non è andata esente da critiche da parte della dottrina, che ha evidenziato la sua incompatibilità con il principio di legalità, posto che il criterio attribuiva all’interprete un eccessivo margine di discrezionalità nell’individuazione 72 FIANDACA, Causalità (Rapporto di), in Dig. Disc. pen., II, Torino, 1998, p. 126 e ss. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. it. Med. Leg., 1992, p. 821; CARCANO, sub artt. 40 e 41 c.p., in Lattanti-Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano, 2000, p. 14 e 61; CANAIA, Causalità medica, in CARINGELLA-GAROFOLI, Studi di diritto penale, Milano, 2002, p. 433 e ss. 74 PALIERO, La causalità dell’omissione, cit., p. 823. 75 GAROFOLI, manuale di diritto penale, cit., p. 380 nota 145. 76 Cass., sez. IV, 12 luglio 1991, Silvestri, in Foro it., 1992, II, p. 363, con nota di GIACONA, Sull’accertamento del nesso di causalità tra la colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente. 73 27 del rapporto di causalità, e con il principio della responsabilità penale per fatto proprio, che implica “un più accentuato rigore nel perseguimento del livello di certezza, in specie scartando quelle soluzioni genericamente probabilistiche che lasciano residuare consistenti o comunque significativi margini di aleatorietà sulla spiegazione della riferibilità di quel concreto evento ad una specifica condotta che l’agente doveva (e poteva) tenere”77. Aderendo a tali obiezioni della dottrina, la Suprema Corte ha nuovamente mutato orientamento con tre storiche pronunce del 200078, con cui la Cassazione ha preso le mosse dalla ricostruzione della natura della causalità omissiva, sostenendo l’identità dell’accertamento relativo al rapporto di causalità nei reati tanto omissivi che commissivi. Pertanto, in base a tale teoria, ai fini della sussistenza del nesso di causalità occorre il riscontro di una percentuale di successo prossima alla certezza. Ne consegue che, secondo le sentenze citate, le leggi di copertura utilizzabili nell’accertamento causale sono solo quelle universali o quasi universali, ossia provviste di un coefficiente probabilistico vicinissimo ad uno 79. Tale impostazione, pur annotata favorevolmente dai primi interpreti80, non è risultata in seguito del tutto convincente. Infatti, il livello di certezza imposto dalle pronunce in esame è talmente difficile da raggiungere da rendere concreto il rischio dell’impunità anche per condotte dotate di evidente incidenza sul decorso causale, specialmente in quei settori (come il campo medico) caratterizzati dall’incertezza del risultato dell’intervento del garante. Anche alla luce di tali considerazioni le Sezioni Unite 11 settembre 2002, Franzese, hanno nuovamente cambiato orientamento, chiarendo la distinzione tra probabilità statistica e probabilità logica: infatti, mentre la prima riguarda l’individuazione della frequenza che caratterizza una determinata successione di eventi, la seconda “contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento 77 ALESSANDRI, sub art. 27, c.1 Cost., in Commentario della Costituzione, curato da G. BRANCA e continuato da PIZZORUSSO, Bologna-Roma, 1991, p. 34. 78 Cass., sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, Baltrocchi; Cass., sez. IV, 28 novembre 2000, n. 21123, Di Cintio; Cass., sez. IV, 29 novembre 2000, n. 2139, Musto; tutte e tre in Riv. it. Dir. e proc. pen., 2001, p. 277 e ss., con nota di CENTONZE, Causalità attiva e causalità omissiva: tre rivoluzionarie sentenze della giurisprudenza di legittimità. 79 In dottrina: STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 2003, p. 306 e ss. 80 CENTONZE, op. cit., p. 290 28 giudiziale”81. Alla luce di tale distinguo la sentenza Franzese ritiene che l’accertamento del nesso di causalità non debba basarsi sull’adozione di un determinato coefficiente (più o meno alto) di probabilità statistica, ma vada condotto verificando, in primo luogo, la riferibilità della legge scientifica al caso di specie e, in secondo luogo, l’esclusione di decorsi causali alternativi. Con la conseguenza che, in questa logica, anche coefficienti di probabilità non prossimi ad uno possono, in un contesto probatorio caratterizzato dal raggiungimento della prova dell’insussistenza di altri fattori eziologici, condurre ad un accertamento positivo dell’esistenza del nesso causale82; allo stesso modo, coefficienti elevatissimi di probabilità non potranno di per sé soli giustificare il riconoscimento della sussistenza del nesso causale in presenza di un quadro probatorio inidoneo ad escludere la presenza di spiegazioni causali alternative a quella incentrata sulla condotta del reo. Ai fini della sussistenza del reato omissivo improprio, peraltro, non basta l’accertamento del nesso di causalità (doppiamente ipotetico) tra omissione ed evento naturalistico, ma occorre un elemento ulteriore, che “assume un rilievo fondamentale proprio perché serve a compensare il divario tra la causalità reale dell’azione e la causalità normativa dell’omissione”83, ossia la violazione di un obbligo giuridico di impedire l’evento84. Nel tentativo di dare una corretta interpretazione a tale espressione è fiorito un vasto dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che può schematicamente essere sintetizzato nelle tesi di seguito esposte. 81 Sezioni Unite, 11 settembre 2002, Franzese, cit.; STELLA F., Causalità omissiva, probabilità, giudizi controfattuali. L’attività medico-chirurgica, in Cass. pen., 2005, 1062 ss.; DI MARTINO A., Il nesso causale attivato da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento, in Dir. pen. proc., 2003, 58 ss.; DI GIOVINE O., Il problema causale tra scienza e giurisprudenza (con particolare riguardo alla responsabilità medica), in Ind. pen., 2004, 1125 ss. 82 Si pensi, ad esempio, al caso del soggetto che sia morto per avvelenamento e che abbia mangiato solo un fungo per il quale sussiste una percentuale statistica bassa di esiti letali; orbene, l’esclusione di decorsi causali alternativi (è provato infatti che il soggetto non abbia ingerito altro) può far ritenere accertato il nesso causale pur in presenza di una probabilità statistica esigua di morte da avvelenamento (ad esempio solo del 5%). Esempio tratto da DI GIOVINE O., Lo statuto epistemologico della causalità penale tra cause sufficienti e condizioni necessarie, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 634 ss. 83 FIANDACA, Omissione, cit., p. 556. 84 PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, Milano, 2003, p. 37 e ss.; MARCONI, rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 65 e ss. 29 Secondo la teoria tradizionale85, espressione del liberalismo giuridico ottocentesco86, a causa dell’insufficienza ai fini della responsabilità ex art. 40 c. 2 c.p. della mera violazione del generale principio del neminem laedere87, soltanto alcuni atti sarebbero in grado di creare, di volta in volta, per soggetti determinati, l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Si sostiene, infatti, che detto obbligo debba trovare scaturigine in fonti qualificate sul piano formale, come la legge penale, la legge extrapenale di diritto pubblico o di diritto privato, i regolamenti, i provvedimenti amministrativi, il contratto (che ex art. 1372 c.c. ha forza di legge tra le parti), la consuetudine, la precedente attività pericolosa (ad es. apertura di una buca nel cortile della casa) e, infine, la negotiorum gestio (vincolante ex art. 2028 c.c.). Tale orientamento, tuttavia, ha sollevato molti rilievi critici88, onde il suo progressivo superamento nella moderna letteratura penalistica. In primo luogo, infatti, si è evidenziato che esso determina la subordinazione del diritto penale agli altri rami dell’ordinamento, poiché individua, tra gli obblighi penalmente rilevanti, quelli posti da fonti di diritto privato evidentemente per soddisfare esigenze di tutela di natura diversa rispetto a quelle tipiche del diritto penale. In secondo luogo, si è sottolineato che tale tesi determina un’eccessiva estensione della punibilità, poiché ritiene sufficiente la mera previsione formale dell’obbligo di agire, con la conseguenza che essa sarebbe inidonea a selezionare, tra i molteplici obblighi di attivarsi, previsti dall’ordinamento, quelli che realmente sono tali da giustificare l’equiparazione all’azione causale dell’omissione non impeditiva. In terzo luogo, sono state segnalate le inaccettabili conseguenze derivanti dalla rigida adesione a tale teoria, in particolare nei casi di nullità o annullamento del contratto produttivo dell’obbligo di garanzia. In queste ipotesi, infatti, aderendo al criterio meramente formale, si dovrebbe escludere 85 ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 257 e ss.; BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1982, p. 280; PANNAIN, Manuale di diritto penale, Parte generale, Torino, 1967, p. 383. In giurisprudenza tra le molte si segnalano: Cass., sez. IV, 13 settembre 1994, Di Martino, in Massimario delle decisioni penali, 1995, 200141; Cass., sez. IV, 4 agosto 1990, Mearini, in Massimario delle decisioni penali, 1990, 185161; Cass., sez. IV, 29 novembre 1988, Tondelli, in Rivista penale, 1989, p. 994; Cass., sez. IV, 2 maggio 1988, Catalano, in Rivista penale, 1989, p. 630 86 FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinem in Deutschland gültigen peinlichen Rechts, Gieben, 1826, 24, il quale, partendo dalla premessa dell’eccezionalità della responsabilità penale omissiva, riteneva che il reato omissivo improprio potesse sussistere solo in presenza di obblighi giuridici di agire, aventi fondamento nella legge o nel contratto. 87 Cass., sez. III, 24 febbraio 1967, Bencini, in Giustizia penale, 1967, II, p. 580. 88 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 155; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, p. 330. 30 la responsabilità ex art. 40 c. 2 c.p., posto che non sussiste o è venuto meno l’obbligo giuridico di impedire l’evento, perfino qualora vi sia stata la effettiva presa in carico del bene da proteggere (ad es. la bambinaia ha preso in custodia il bimbo). D’altra parte, siffatto orientamento porterebbe specularmene (e intollerabilmente) a ravvisare la posizione di garanzia qualora il contratto sia valido, ma non vi sia stata la presa in carico del bene da tutelare (ad es. la baby sitter non si è presentata all’ora e nel luogo pattuito). Infine, si è notato che la tesi tradizionale risulta incoerente nella misura in cui ammette una responsabilità penale omissiva per la precedente attività pericolosa, malgrado essa non sia, invero, riconducibile alle fonti formali, giacché non si fonda né su una consuetudine (per mancanza dell’usus e dell’opino iuris), né sul principio del neminem laedere (che per taluni Autori impone solo divieti e non obblighi di fare89). Alla luce di tali rilievi critici, parte della dottrina90, in linea con la letteratura tedesca91, ha sostenuto la c.d. teoria funzionale dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, in base alla quale si dovrebbe guardare, più che all’obbligo formale che grava sul soggetto, all’effettivo potere di controllo e di dominio su alcune condizioni essenziali per il verificarsi dell’evento. In questa prospettiva, la funzione della responsabilità penale omissiva diverrebbe quella di tutelare in modo rafforzato taluni beni giuridici a causa della incapacità di adeguata protezione da parte del titolare, attraverso la predisposizione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento in capo a taluni garanti, ossia soggetti che si pongono in uno speciale vincolo di tutela con il bene. Tale tesi ha l’evidente pregio di non limitare la sua indagine alla fonte formale dell’obbligo di agire, ma di accentuare l’attenzione sul contenuto materiale 89 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 155. CONTRA, a favore della configurabilità di una responsabilità civile omissiva ai sensi dell’art. 2043 c.c., GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 709 e Cass. n. 21641 del 2005 e n. 488 del 2003, in CIAN-TRABUCCHI, Commentario breve al codice civile, Padova, 2007, p. 2103. 90 PADOVANI, Diritto penale, Milano, 1990, p. 162 e ss.; GRASSO, Il reato omissivo, cit., p. 277 e ss.; FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 21 e ss. e 24 e ss. FIANDACA- MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 562; GIUNTA, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 620 e ss.; RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., p. 384 e ss. 91 GRÜNWALD, Zur gesetzlichen Regelung der. un. Unterlas., in ZStW, 1958, p. 412; KAUFMANN, Die Dogmatik der Unterlassungsdelikte, Göttingen, 1959, p. 282; ANDROULAKIS, Studien zur problematik der unechten Unterlassungsdelikte, 1963; BÄRWINKEL, Die Struktur der Garantieverhältnisse bei den un. Unterlas., 1968; HERZBERG, Die Unterlas. Im Strafrecht und das Garantenprinzip, 1972; BRAMMSEN, Die Entstehnungsvoraussetzungen der Garantenpflichten, 1986; VOGEL, Norm und Plifcht bei un. Unterlas., 1993. 31 dell’obbligo, al fine di selezionare, tra i molteplici obblighi di agire previsti dall’ordinamento, quelli che sono realmente rilevanti ai fini della clausola generale di conversione di cui all’art. 40 c. 2 c.p., sì da contribuire alla concretizzazione interpretativa del reato omissivo improprio. La teoria funzionale, però, si pone inevitabilmente in frizione con il principio della riserva di legge, giacché si fonda esclusivamente su criteri fattuali. Inoltre, la tesi non soddisfa adeguatamente il principio di tassatività, poiché non consente di circoscrivere la responsabilità penale per omissione impropria entro confini certi, attesa la diversità dei vari criteri elaborati per individuare in concreto le posizioni di garanzia92. Per questi motivi, la dottrina ormai prevalente ha tentato di realizzare una sintesi tra i due orientamenti suesposti, proponendo una teoria mista formale-fattuale93, che tenta di selezionare, tra gli obblighi giuridici previsti da fonti formali, quelli che rispondono a criteri sostanziali di individuazione della posizione di garanzia. Nella sua versione94 più evoluta e preferibile, la tesi si propone di conciliare la clausola generale di equivalenza ex at. 40 c. 2 c.p. con i principi costituzionali rilevanti in materia penale. Pertanto, in base al principio della riserva di legge (art. 25 c. 2 Cost.), l’obbligo di agire deve avere origine in norme giuridiche. In base al principio di tassatività (art. 25 c. 2 Cost.), l’obbligo di garanzia deve essere specifico, con la conseguenza che bisogna escludere gli obblighi indeterminati, che non sono idonei a tipizzare il reato omissivo improprio; pertanto, in quest’ottica non appare condivisibile quanto sostenuto da una parte della giurisprudenza 95, incline a ravvisare nel generico dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. un obbligo giuridico rilevante ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. In base al principio di solidarietà (art. 2 Cost.), invece, i beneficiari dell’obbligo di garanzia devono essere solo i soggetti incapaci di adeguata autotutela (ad es. i minori o i malati); in base al principio di libertà (art. 13 Cost.), i destinatari dell’obbligo di garanzia devono essere specifici, poiché esso non può 92 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 156. GRASSO, Il reato omissivo, cit, p. 242 e ss. 94 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 156. 95 Cass., 6 dicembre 1990, in Cass. pen., 1992, n. 2726. 93 32 gravare su tutti i consociati, ma solo su specifiche categorie predeterminate di soggetti, che si trovano in un particolare rapporto giuridico con il bene da proteggere (ad es. genitori, medici) o con la fonte di pericolo da controllare (ad. es. proprietario dell’edificio pericolante). Per questi motivi, come si è già visto96, il reato omissivo improprio non è mai un reato comune, ma è sempre un reato proprio. Ne consegue, ad esempio, che il “chiunque” obbligato a prestare soccorso ex art. 593 c.p. non potrà mai assurgere a garante in senso penalistico del mancato impedimento della morte del soggetto in pericolo e, ove l’esito letale si verifichi, sarà integrato non certo un omicidio mediante omissione, ma un reato di omissione di soccorso aggravato dall’evento morte; infatti, nella situazione tipica prevista dall’art. 593 c.p., la presenza del soccorritore è soltanto occasionale e manca una speciale relazione di tutela preesistente al manifestarsi del pericolo sulla quale l’ordinamento possa fare previo affidamento97. In base al principio della responsabilità penale personale (art. 27 Cost.), infine, il garante deve essere titolare di poteri giuridici impeditivi, ossia di vigilanza sull’insorgenza di situazioni di pericolo e di intervento (personale o tramite terzi) sulle situazioni di pericolo in atto, conferiti all’obbligato da una specifica norma giuridica. Infatti, l’obbligo di garanzia e l’affidamento della tutela del bene in tanto hanno senso in quanto il soggetto abbia i correlativi poteri giuridici impeditivi. Occorre quindi verificare se l’evento in concreto verificatosi rientri nei poteri impeditivi spettanti all’obbligato. Peraltro, non va trascurato che il potere-dovere impeditivo deve preesistere al presupposto di fatto che lo rende attuale, “poiché solo così il garante può esercitare i poteri-doveri di vigilanza ed intervento e, quindi, di tutela anche preventiva, del bene affidatogli”98. A ciò si aggiunga che deve sussistere la possibilità materiale per il garante di tenere l’azione impeditiva idonea, poiché altrimenti viene meno l’obbligo di garanzia, secondo il noto brocardo ad impossibilia nemo tenetur99. 96 Retro pr. I.2. FIANDACA, Omissione, cit., p. 556. 98 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 157; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, p. 331; in giurisprudenza: Cass., 19 febbraio 2008, in Cass. pen., 2009, p. 597. 99 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 157. 97 33 La necessità che sussistano tutti i citati requisiti, imposti dai principi costituzionali rilevanti in ambito penale, fa sì che l’obbligo di garanzia, in tal modo delineato, si distingua dagli altri obblighi giuridici di agire, che sono inidonei a fondare l’equivalenza normativa di cui all’art. 40 c. 2 c.p. e che possono al più integrare un reato omissivo proprio, ove una norma penale di parte speciale ne sanzioni specificamente l’inadempimento100. Tra gli obblighi di agire diversi rispetto a quello di garanzia la dottrina ormai prevalente101 ritiene che si debba effettuare un’ulteriore distinzione tra obblighi di sorveglianza e obblighi di attivarsi. I primi sono gli obblighi giuridici che gravano su specifiche categorie di soggetti, i quali sono dotati dei poteri di vigilanza sulle altrui attività e di informazione al titolare o al garante del bene, ma sono privi dei poteri giuridici di intervento impeditivo. Al riguardo si fa spesso l’esempio dei sindaci delle società per azioni (artt. 2403 e 2407 c.c.), ma, come si vedrà in seguito, la giurisprudenza prevalente102 tende a ravvisare in dette ipotesi non già dei meri obblighi di sorveglianza, ma delle vere e proprie posizioni di garanzia, onde l’operatività della clausola di equivalenza ex art. 40 c. 2 c.p. In ogni caso, la dottrina citata ritiene che, attesa l’insussistenza di poteri giuridici impeditivi, coloro che sono gravati da obblighi di sorveglianza, in caso di inadempimento, non possano essere chiamati a rispondere ex art. 40 c. 2 c.p., né a titolo autonomo né per concorso omissivo nell’altrui reato commissivo del soggetto sottoposto a sorveglianza, giacché si tratterebbe di una responsabilità per fatto altrui, salvo che non abbiano posto in essere un’ulteriore condotta attiva, come ad es. l’istigazione dell’autore materiale, con la promessa della futura omessa vigilanza. In altre parole, non si può muovere un rimprovero di omesso impedimento dell’evento a chi non è fornito di adeguati poteri d’intervento per impedire che lo stesso si verifichi, pena l’introduzione di un’inammissibile e incostituzionale 100 GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, p. 332. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985, p. 173 e 382; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, p. 57 e ss; PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, cit., p. 50 e ss.; MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 61 e ss.; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 158 e ss.; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 332. 102 Cass., 28 febbraio 1991, in Cass. pen., 1991, p. 1849; Cass., sez. V, 27 luglio 2004, n. 32730 in C.E.D. 200432730; Cass., sez V, 10 novembre 2005, n. 40815 in C.E.D. 200540815. 101 34 responsabilità per fatto altrui. Pertanto, l’omessa sorveglianza è punibile solo nei casi espressamente previsti da norme di parte speciale, onde gli inevitabili vuoti repressivi che, però, secondo tale tesi, dovrebbero essere colmati non già tramite l’improprio utilizzo del combinato disposto degli artt. 40 c. 2 e 110 c.p., ma con l’introduzione nella parte generale di una norma che sanzioni la violazione degli obblighi di sorveglianza e ne fissi una volta per tutte i requisiti, oppure aggiungendo alla parte speciale del vigente sistema penale nuove fattispecie di violazione degli obblighi in esame103. Gli obblighi di attivarsi, invece, sono individuati in via residuale come tutti quelli imposti a soggetti privi di poteri giuridici impeditivi e di sorveglianza. Ne consegue che per essi l’obbligo di agire sorgere al verificarsi del presupposto di fatto previsto dalla norma incriminatrice, senza che sussista, perciò, alcuna preesistente relazione giuridica di garanzia o di sorveglianza tra obbligato e bene protetto dall’ordinamento. Quanto ai destinatari degli obblighi di attivarsi, essi possono essere o la generalità dei consociati, come ad es. negli art. 355 e 679 c.p., o specifiche categorie di soggetti, come ad. es. negli artt. 361 e 365 c.p., sicché possono dar luogo sia a reati comuni sia a reati propri. Esempio paradigmatico che permette di cogliere con chiarezza la differenza tra gli obblighi di attivarsi, da una parte, e quelli di garanzia, dall’altra, è dato dall’art. 593 c.p.. Orbene, la norma impone l’obbligo di soccorso a chiunque ritrovi un soggetto che versi in condizioni di pericolo, con la conseguenza che il soccorritore occasionale non ha, come il garante, il preesistente potere giuridico di impedire il sorgere della stessa situazione di pericolo, né, come il soggetto gravato da un obbligo di sorveglianza, quello parimenti preesistente di vigilare sulla medesima, ma può solo impedire che la situazione di pericolo si evolva in evento lesivo o che lo stesso si aggravi. Si dia allora il caso di alcuni bambini che, alla presenza della madre e di un estraneo, che osserva la scena, stiano ponendo in essere giochi pericolosi in un parco; successivamente, uno dei bimbi si ferisce, ma né la madre né l’estraneo intervengono 103 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 158. 35 per soccorrerlo, benché entrambi si siano resi conto dell’incidente; a seguito dell’aggravarsi della lesione, il bambino muore ed è dimostrato che cure repentine lo avrebbero salvato. Orbene, mentre il genitore, in quanto garante, ha il preesistente potere di vietare al figlio tali giochi e, quindi, di impedire il sorgere della situazione di pericolo, onde può rispondere di omesso impedimento dell’evento verificatosi ex art. 40 c. 2 c.p., l’estraneo non può vietare ai bimbi tali giochi, ma può solo soccorrerli ad incidente già avvenuto, con la conseguenza che, in caso di inerzia anche da parte dell’estraneo e di morte dei fanciulli, questi risponde non di omicidio mediante omissione, ma di omissione di soccorso aggravata dall’evento morte, ai sensi dell’art. 593 c. 3 c.p.104. In senso contrario si potrebbe però sostenere che, se è vero che il soccorritore occasionale non ha i poteri per impedire il sorgere della situazione di pericolo, è altrettanto vero, tuttavia, che egli può evitare che la stessa, una volta verificatasi, si evolva in evento lesivo o che il medesimo, dopo la sua realizzazione, si aggravi; perciò, nella misura in cui egli è titolare di tali poteri impeditivi potrebbe essere ritenuto un garante e rispondere di omesso impedimento dell’evento che si verifica successivamente all’assunzione di tale posizione qualificata. Per questi motivi, autorevole dottrina105 ritiene che in tali ipotesi sia integrato l’omicidio volontario ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. ove la condotta omissiva e l’evento morte siano coperti dal dolo. E’ bene però notare che si tratta di ricostruzione minoritaria che non ha convinto la dottrina prevalente, la quale ritiene, invece, che, in caso d’inosservanza di un mero obbligo di attivarsi, esattamente come si è visto per gli obblighi di sorveglianza, non sia applicabile la clausola di equivalenza ex art. 40 c. 2 c.p., ma il soggetto sia punibile solo ai sensi di una norma di parte speciale che preveda un reato omissivo proprio 106, eventualmente aggravato dal verificarsi dell’evento, come nel caso dell’art. 593 c. 3 c.p. 104 FIORELLA, Il trasferimento di funzioni, cit. p. 202; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, cit., p. 314 e ss.; MANTOVANI, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 344; PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 52. 105 PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 1996, p. 368. 106 MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, cit., p. 159. 36 Quanto alle fonti dell’obbligo di garanzia, la tesi mista ormai maggioritaria reputa che esse possano essere solo quelle formali e, precisamente, la legge ed il negozio giuridico. Più nel dettaglio, la legge dovrebbe essere solo quella extrapenale, di diritto pubblico o di diritto privato. Andrebbero quindi escluse sia le fonti sublegislative (regolamenti, atti amministrativi e consuetudini), in ossequio al principio di riserva di legge ex art. 25 c. 2 Cost., sia la legge penale, perché si ritiene che gli imprescindibili poteri giuridici impeditivi siano conferibili solo da una previa e compiuta regolamentazione extrapenale della posizione di garanzia107. Inoltre, per la tesi in esame, non rientrerebbe tra le fonti dell’obbligo di garanzia la precedente attività pericolosa, poiché, altrimenti opinando, si verificherebbe un vulnus inaccettabile al principio di riserva di legge, posto che non esiste una norma che preveda un siffatto agire come fonte di un generale obbligo di garanzia; né pare che al riguardo si possa invocare l’art. 2050 c.c., giacché esso si riferisce ad attività non precedente ma in atto. E’ stata quindi disattesa la teoria dell’ingerenza, in passato utilizzata per le azioni pericolose già compiute, per quelle in atto e perfino per situazioni statiche di pericolo, non riconducibili ad un’azione del soggetto, ma da lui dominabili (es. proprietà di animali pericolosi) e che aveva il suo antecedente storico nella dottrina tedesca del XIX secolo, la quale, per la difficoltà di spiegare l’autonoma efficacia causale dell’omissione, era costretta a far leva sulla precedente condotta attiva del soggetto. Tale tesi, però, non ha riscosso consensi nella dottrina italiana moderna, sia per il già evidenziato contrasto con il principio di legalità, sia perché permette a chiunque di assurgere al rango di garante, per il solo fatto di aver commesso un’azione pericolosa, sia perché, come si vedrà in seguito, ingenera pericolose confusioni tra causalità attiva ed omissiva, giacché chi apre, ad es., una buca in un cortile dovrebbe rispondere di reato commissivo e non certo ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. Infatti, si ha causalità attiva nei casi di azione pericolosa posta in essere dal reo, considerato che la componente omissiva della colpa, pur presente anche in tali casi, non può trasformare in omissivi reati commissivi, giacché obbligo di diligenza e 107 LEONCINI, op. loc. ult. cit.; MANTOVANI, op. loc. ult. cit. 37 obbligo di garanzia si muovono su due piani diversi, visto che il primo attiene all’elemento soggettivo, mentre il secondo al nesso di causalità108. Con riferimento, invece, alla fonte negoziale, si può notare che la forza vincolante del contratto (tipico o atipico che sia) trova il suo fondamento direttamente nella legge che, all’art. 1372 c.c., attribuisce tale valore all’incontro dei consensi delle parti. Peraltro, l’efficacia vincolante del contratto non è da sola sufficiente a determinare la nascita dell’obbligo di garanzia, giacché è del pari necessario che il bene sia concretamente affidato alla parte. Ne consegue che se per es. la baby sitter non si presenta all’ora stabilita, ma i genitori decidono comunque di uscire, lasciando il bambino da solo, potrà ipotizzarsi un inadempimento della bambinaia sul piano civilistico, ma non certo una responsabilità penale omissiva per omesso impedimento degli eventi eventualmente occorsi al bimbo, posto che il bene non le è stato concretamente consegnato. Inoltre, ai fini dell’integrazione di una responsabilità per omissione impropria, è altresì necessario che il negozio sia concluso con il titolare dell’interesse da proteggere o con un precedente garante, onde non sorge una posizione di garanzia nel noto esempio del filantropo che, prima di una gara di nuoto, assume un pescatore affinché stia con la sua barca nei pressi del tratto di mare in cui si svolge la competizione in modo da salvare eventuali concorrenti in difficoltà. Pertanto, in caso d’inadempimento del pescatore e morte di un nuotatore, sussiste senza dubbio un illecito civile contrattuale, ma non è ravvisabile una responsabilità penale per omissione impropria. Si è poi posto il problema se gli obblighi di garanzia possano sorgere anche da un’assunzione unilaterale della posizione di garante. Al riguardo, una parte della dottrina109 risponde positivamente, utilizzando lo schema civilistico della gestione d’affari altrui ex art. 2028 c.c. Altri Autori110, invece, sostengono che, ai fini della sussistenza di una posizione di garanzia, è sufficiente che l’intervento del garante determini o accentui un’esposizione a pericolo del bene da proteggere, o perché 108 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 170. GRASSO, Il reato omissivo, cit., p. 274 e ss. 110 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 568; SCHMIDHÄUSER, Srafrecht, AT, Studienbuch, Tübingen, 1982, p. 290. 109 38 induce ad affrontare un pericolo che altrimenti non si sarebbe corso (ad es. l’alpinista decide di affrontare una difficile scalata proprio in conseguenza della spontanea presenza di una guida) o perché impedisce di attivare istanze di protezione alternative (ad es. la madre non provvede ad allattare il bambino, confidando nell’intervento di un’amica che si è spontaneamente impegnata a nutrirlo in sua vece). Altra tesi111 ancora, infine, riconduce tali situazioni ai contratti atipici, giacché all’assunzione unilaterale della posizione di garante corrisponde pur sempre un’accettazione del servizio da parte del beneficiario, mentre esclude che l’art. 2028 c.c. possa essere il fondamento di una posizione di garanzia, visto che esso è la fonte di un mero obbligo di attivarsi, poiché, rispetto all’obbligo di garanzia, è privo dei requisiti della preesistenza del rapporto giuridico tra soggetto e bene e dei poteri-doveri impeditivi dell’insorgenza della situazione di pericolo; il gestore, infatti, non ha il potere di prevenire la situazione di pericolo, ma può solo intervenire per eliminare la stessa, una volta che questa si sia realizzata. Sull’argomento occorre segnalare un recente arresto della Suprema Corte112, secondo cui tra le fonti dell’obbligo di garanzia rientrano non solo i contratti tipici, ma anche quelli atipici e le iniziative unilaterali assunte di fatto, pur in assenza di uno specifico obbligo giuridico113. In particolare, secondo la citata pronuncia, le assunzioni unilaterali della posizione di garante assumono rilevanza o aderendo alla teoria civilistica sul contatto sociale qualificato114 o valorizzando la effettiva presa in carico del bene protetto. 111 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 163 e 167. Cass., sez. IV, 4 luglio 2007, n. 25527, in Guida al diritto, 2007, n. 43, con nota di AMATO, Anche l’assunzione volontaria può essere motivo di addebito, p. 80; e in www.altalex.com. 113 Nel caso di specie, a seguito di una cena tenutasi in un rifugio, i partecipanti fecero ritorno in albergo con alcuni slittini, accompagnati da una guida del posto che li precedeva su di una motoslitta, tramite il cui faro veniva indicata la strada da seguire. Mentre procedevano verso valle, uno degli slittini intraprendeva una strada errata e, a causa della ripidità della pista, si infrangeva contro un albero, determinando la morte di una delle passeggere. Alla guida veniva contestato il delitto di omicidio colposo (per non aver evitato l’evento letale), malgrado avesse assunto spontaneamente l’incarico, in assenza cioè di un previo accordo contrattuale. 114 CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, p. 45 e ss. 112 39 I.5 Le diverse tipologie di posizione di garanzia: obblighi di protezione, di controllo e d’impedimento di reati Tanto premesso sui caratteri dell’obbligo di garanzia e sulla differenza rispetto a quelli di sorveglianza e di attivarsi, occorre ora segnalare che la tesi ormai maggioritaria115 distingue, all’interno delle posizioni di garanzia, tra quelle di protezione, di controllo e di impedimento di reati. Quanto alle prime, si tratta di obblighi di tutela di determinati beni rispetto a tutte le fonti di pericolo che possono minacciarli; essi sono posti in capo a soggetti che si trovano in una particolare relazione con il titolare del bene da proteggere, il quale, a sua volta, versa in una situazione di incapacità di preservare l’intangibilità dei beni di sua appartenenza, onde l’ordinamento vi fa fronte attribuendo poteri salvifici al garante116. Ne consegue che, secondo la dottrina, la posizione di protezione presenta due condizioni fondamentali: in primo luogo, il titolare del bene protetto deve essere incapace di contrastare, facendo appello alle proprie forze, i pericoli che possono mettere a repentaglio il bene medesimo; in secondo luogo, deve sussistere un rapporto di protezione tra un soggetto che assume la veste di garante dell’integrità del bene in questione e il titolare del bene oggetto di garanzia117. Proprio al fine di compensare l’incapacità di autodifesa del soggetto da proteggere, l’ordinamento attribuisce al garante specifici poteri di vigilanza e di prevenzione, attraverso i quali è possibile l’opera di presidio dei beni da salvaguardare contro tutte le eventuali fonti di pericolo in grado di investirli118. I poteri d’impedimento conferiti al garante, per intensità e incidenza, non sono diversi da quelli che potrebbe avere, in ipotesi anche in misura superiore, qualunque terzo, del tutto estraneo alla posizione di garanzia, sicché la presenza del garante non incrementa di per sé la possibilità di tenere indenne il bene minacciato, se non nella misura in cui sopperisce all’incapacità del 115 FIANDACA, Omissione, cit., p. 556; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 565; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, p. 168; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 332. 116 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 168; MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 68; 117 FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 172; GRASSO, Il reato omissivo improprio. La struttura obiettiva della fattispecie, Milano, 1983, p. 294 e ss. 118 LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 82. 40 titolare e riporta quindi alla normalità un livello di tutela che altrimenti sarebbe inferiore rispetto alla media. Questo profilo costituisce il principale elemento di differenziazione tra gli obblighi di protezione e quelli di controllo, posto che, in presenza di questi ultimi, il garante è invece munito di particolari poteri fattuali di intervento e di inibizione che conferiscono una tutela rafforzata al bene119. Quanto alla tipologia degli obblighi di protezione, la maggior parte di essi sono previsti dal diritto di famiglia, come per esempio quelli dei genitori e dei tutori di proteggere la vita e l’incolumità personale dei figli minori e degli interdetti 120. Altri obblighi di protezione sono sanciti da leggi speciali che, in ragione del ruolo sociale svolto dal garante o della sua posizione giuridica, affidano allo stesso la salvaguardia della vita, dell’incolumità e della salute del garantito. Ad esempio, le norme sull’ordinamento penitenziario fanno carico ai dipendenti dell’amministrazione carceraria di proteggere la vita e l’incolumità personale dei detenuti e degli internati; allo stesso modo, le norme sul servizio sanitario nazionale (art. 32 Cost., d.lgs. n. 502 del 1992, d.lgs. n. 229 del 1999 e d.lgs n. 168 del 2000) impongono al personale medico e paramedico di consigliare e fornire, mediante gli opportuni approcci diagnostici, appropriate terapie ai pazienti al fine di preservarne la salute, nella più ampia prospettiva di assicurare esigenze di cura individuale e collettiva121. Elemento comune di tali specie di obblighi di protezione è il fatto che i titolari dei beni da preservare si trovino in una situazione di minorata capacità, con la conseguenza che l’ordinamento affida alle cure del garante la tutela degli stessi. In particolare per i trattamenti sanitari, però, gli obblighi di protezione vanno bilanciati con il principio consensualistico (artt. 2, 13 e 32 Cost.), atteso che l’ordinamento ha ripudiato BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, p. 1365. 120 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 168; FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 173 e ss.; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 295 e ss. 121 MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 71; ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, I, Milano, 2004, p. 387. 119 41 impostazioni paternalistiche, onde le cure non possono essere somministrate al paziente dissenziente122. Le posizioni di controllo, invece, si sostanziano negli obblighi di monitorare talune fonti di pericolo per proteggere tutti i beni ad esse esposti; esse presuppongono che tali fonti di pericolo siano sotto i poteri giuridici di signoria del garante, con la conseguenza che i soggetti minacciati non potrebbero autoproteggersi se non con un’inammissibile ingerenza nella altrui sfera giuridica123. Da quanto esposto discende che le posizioni di controllo si distinguono da quelle di protezione perché, mentre queste ultime concernono la tutela di determinati beni giuridici nei confronti di ogni tipo di lesione, al contrario, gli obblighi di controllo riguardano solo la sorveglianza di una determinata fonte di pericolo in grado di compromettere gli interessi di tutti i terzi che possono venire in contatto con essa124. Pertanto, per il sorgere di una posizione di controllo occorre sia la sussistenza in capo al garante di una situazione giuridico-fattuale di dominio su un oggetto materiale o sullo svolgimento di un’attività pericolosa, sia l’impossibilità per i soggetti minacciati di tutelarsi dalla fonte di pericolo, giacché il controllo della stessa è di esclusiva pertinenza del garante. Ne consegue che nelle posizioni di controllo i titolari dei beni protetti si trovano in una situazione di minorata capacità di tutela non già per le loro caratteristiche psico-fisiche, ma perché non possono ingerirsi nella gestione della fonte di pericolo, che spetta solo al garante. Solo questi, infatti, è titolare di poteri di vigilanza e di intervento sulla medesima, onde si può affermare che egli abbia una posizione particolare rispetto al bene o all’attività da cui sorge la minaccia e che possa assicurare una protezione rafforzata dei beni esposti a pericolo, tramite l’utilizzo di poteri non comuni alla generalità dei consociati 125. Dunque, in tali situazioni l’ordinamento impone la tutela dei terzi, sia perché essi sono privi del 122 Tra la ricca giurisprudenza sul punto si segnala la pronuncia delle Sezioni Unite penali, 21 gennaio 2009, n. 2437, in Guida al diritto, n. 7 del 2009, p. 54 e ss., la quale offre un esauriente elenco dei principali arresti della Suprema Corte in materia. 123 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 169; FIANDACA, Omissione, cit., p. 556; ROMANO, Commentario sistematico al codice penale, cit., p. 386; MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2003, p. 136. 124 MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 71. 125 BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui, cit., p. 1365; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 96 e ss. 42 potere di signoria sulla fonte del pericolo, che è di esclusiva competenza del garante, sia perché un eventuale intervento di fatto compiuto dagli stessi sulla sorgente della minaccia non potrebbe non trasformarsi in un’illegittima intrusione nella sfera giuridica del garante. Per questi motivi, si è notato che la posizione di controllo si manifesta con tratti opposti rispetto a quella di protezione. Infatti, la prima riguarda la relazione non tra un bene specifico e le capacità di tutela comuni del garante nei confronti delle potenziali fonti di minaccia, ma tra le capacità di tutela specifiche (e non comuni agli altri soggetti) del garante e una determinata fonte di pericolo, idonea a minacciare i beni di chiunque126. Alla luce di quanto esposto, parte della dottrina ritiene che le posizioni di controllo comprendano unicamente doveri di sicurezza a carattere preventivo, ma non l’obbligo di salvataggio del bene posto in pericolo a causa dell’inadempimento. Infatti, qualora a causa dell’inosservanza di tali doveri si verificasse l’evento che andava impedito, si creerebbe una nuova e diversa situazione di fatto, del tutto estranea allo scopo di protezione dei doveri di sicurezza, i quali non includono l’obbligo di soccorso127. Dai caratteri accennati delle posizioni di controllo si evince che la responsabilità per l’inosservanza dei relativi obblighi presenta maggiori analogie con la responsabilità per la condotta attiva, anziché con quella ex art. 40 c. 2 c.p. Infatti, come nella causalità attiva, i beni tutelati sono tutti quelli che possono entrare in contatto con la fonte di pericolo, in relazione alla quale il garante possiede speciali poteri, e non i soli beni previamente individuati e affidati al soggetto che si trova in un rapporto di vicinanza con gli stessi. Inoltre, si ritiene che le posizioni di protezione sussistano sia in caso di oggetti materiali del garante potenzialmente idonei a cagionare danni a terzi, sia in caso di attività pericolose svolte dallo stesso, analogamente a quanto accade nella causalità commissiva 128. Al riguardo occorre però segnalare che, secondo una parte minoritaria della dottrina129, non sono riconducibili alle posizioni di controllo gli obblighi di diligenza connessi ad attività pericolose e consistenti nell’adozione di misure cautelari, giacché si tratta di 126 BISORI, op. loc. ult. cit. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 99. 128 FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 189; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 320. 129 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 169. 127 43 meri obblighi di attivarsi, non di garanzia, e perché, essendo l’evento riconducibile ad una condotta attiva pericolosa (es. trattamento dei dati personali), si versa nell’ambito della causalità attiva e non già di quella omissiva. Il medesimo Autore, infatti, per evitare le frequenti confusioni tra causalità attiva ed omissiva, precisa che sussiste sempre e solo causalità attiva nei casi di azione pericolosa del reo, anche se con connesso obbligo di diligenza, espressamente imposto e sanzionato per legge (es. art. 2050 c.c.), poiché si tratta di un mero obbligo di attivarsi e non di garanzia, atteso che di questo difettano i preesistenti poteri impeditivi. Invero, la componente omissiva della colpa (inosservanza dell’obbligo di diligenza) non può trasformare in omissivi i reati commissivi, giacché obbligo di garanzia e obbligo di diligenza si muovono su due piani diversi. Infatti, mentre l’obbligo di garanzia attiene alla causalità, quello di diligenza riguarda l’elemento soggettivo. L’inosservanza di quest’ultimo, perciò, è requisito tanto del reato commissivo che di quello omissivo improprio colposo ed è oggetto di accertamento distinto ed ulteriore rispetto al requisito della causalità, attiva od omissiva che sia, e perciò, dell’inosservanza dell’obbligo di garanzia130. Come esempi di posizioni di controllo si annoverano i proprietari, i possessori e i detentori di cose o di animali pericolosi, ai quali si impone di adottare misure impeditive di danni a terzi e, più in generale, i soggetti che dispongono di un potere di organizzazione o di gestione di situazioni potenzialmente pericolose. Al riguardo la giurisprudenza131 ha ritenuto sussistente una posizione di controllo in capo agli organizzatori di una gara automobilistica, con particolare riferimento alla idoneità tecnica e ai requisiti di sicurezza del circuito. Con la conseguenza che è stata affermata la responsabilità ex art. 40 c. 2 c.p. degli stessi per il decesso di spettatori e di un pilota in seguito ad un incidente verificatosi lungo il medesimo tracciato. Secondo una parte della dottrina132, inoltre, rientrano nelle posizioni di protezione gli obblighi gravanti sulle persone dotate di un particolare potere di direttiva o di orientamento, derivante da un rapporto di educazione, istruzione e cura da esercitare 130 MANTOVANI, op. loc. ult. cit. Cass., sez. IV, n. 9367 del 1981, in GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 517. 132 FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 74; ROMANO, Commentario, cit., p. 386; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 97. 131 44 su minori, infermi, di mente o su individui comunque non in grado di autogovernarsi, ai quali deve essere impedito di cagionare eventi dannosi. Altri133, invece, come si vedrà, collocano tali doveri in una categoria autonoma: i cosiddetti obblighi di impedimento dei reati altrui. Tanto premesso sulle posizioni di protezione e su quelle di controllo, giova ora segnalare che entrambe si dividono in originarie e derivate, a seconda che spettino in considerazione del ruolo svolto o della posizione rivestita oppure per effetto del trasferimento compiuto dal garante ad altro soggetto, generalmente tramite contratto134. Come si è già accennato, secondo una tesi autorevole135 esiste una terza tipologia di posizione di garanzia: gli obblighi di impedimento di reati commessi da soggetti sottoposti ai poteri giuridici impeditivi del garante, il quale, ove ne sussistano i requisiti, risponde di concorso omissivo nel reato non impedito. Come noto, infatti, l’omissione nel concorso di persone può manifestarsi sotto due forme: o come concorso nel reato omissivo, o come concorso omissivo nel reato commissivo. La prima ipotesi si può realizzare, a sua volta, in due modi diversi: o sotto forma di concorso mediante omissione, che si ha qualora tutti i soggetti siano obbligati a tenere una certa condotta e si accordino ciascuno per non adempiere (es. i genitori di comune accordo lasciano morire di fame il figlio), nel qual caso il concorso ha una funzione al più di disciplina, ma non incriminatrice, posto che essi rispondono già per la loro omissione in base alla fattispecie omissiva monosoggettiva; oppure attraverso una condotta commissiva che si innesta su una omissiva (es. il privato cittadino convince il pubblico ufficiale a non denunciare il reato), nel qual caso il concorso di persone può avere una funzione incriminatrice ove taluni dei concorrenti non siano già obbligati ad attivarsi. Il concorso omissivo nel reato commissivo altrui, invece, presuppone, sul piano oggettivo, due requisiti: il primo, comune a tutte le forme di partecipazione, consiste 133 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 169; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 329 e ss. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 332. 135 MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 519; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 292 e ss. 134 45 nella rilevanza causale (condizionalistica o agevolatrice) dell’omissione rispetto alla verificazione dell’evento; il secondo, peculiare della responsabilità omissiva, concerne il ruolo di garante dell’impedimento dell’evento in capo al soggetto attivo, cioè la presenza di un obbligo giuridico alla cui violazione è subordinata l’operatività dell’art. 40 c. 2 c.p.136. Sul piano soggettivo è necessario il dolo, da ravvisarsi nella coscienza e volontà di concorrere con altri alla realizzazione di un reato comune. A tal fine la giurisprudenza ritiene che il comportamento successivo al reato, tenuto dal soggetto che omette i controlli di sua competenza, possa costituire un elemento significativo di prova della volontà criminosa137. Quanto all’ambito applicativo di tale posizione di garanzia, occorre dare atto del contrasto esistente nella dottrina italiana. Infatti, secondo la tesi prevalente138, il concorso omissivo è configurabile rispetto a tutti i reati altrui, siano essi di evento o di mera condotta, a forma libera o a forma vincolata. A sostegno di tale assunto si evidenzia che l’art. 40 c. 2 c.p. possa combinarsi con la norma generale sul concorso di persone nel reato (art. 110 c.p.), con la conseguenza che il termine “evento” di cui all’art. 40 c. 2 c.p., dovrebbe essere inteso anche come “altrui reato”, senza necessità di limitare la portata di tale equiparazione solo ad alcune tipologie di illeciti penali. Inoltre, si segnala che la validità di tale conclusione troverebbe conferma nella previsione dell’art. 138 c.p.m.p., in base al quale “ferma in ogni altro caso la disposizione del secondo comma dell’art. 40 c.p. è punito il militare che per timore di un pericolo o altro inescusabile motivo non usa ogni mezzo possibile per impedire l’esecuzione di alcuno dei reati contro la difesa o la fedeltà militare, o di rivolta o di ammutinamento che si commetta in sua presenza”. Orbene, la clausola di rinvio all’art. 40 c.2 c.p., si sostiene, non avrebbe alcun senso se quest’ultima norma non disciplinasse la partecipazione omissiva al reato commesso da altri. 136 Cass. 10 ottobre 1985, in R. pen, 1986, p. 827. Cass. 22 settembre 1994, citata in Commentario breve al codice penale, Padova, 2008, p. 423. 138 FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 181; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 139 e ss.; VINCIGUERRA, Sulla partecipazione atipica mediante omissione a reato proprio (in tema di concorso del custode alla sottrazione di cose pignorate commessa dal proprietario), in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, p. 307; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 519 e ss.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte generale, Milano, 2003, p. 562 e ss.; MARINUCCIDOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2003, p. 281 e ss. 137 46 Una tesi minoritaria139, invece, limita l’ammissibilità del concorso omissivo ai soli reati causali puri, esattamente come si è già visto, mutatis mutandis, con riguardo al reato omissivo improprio monosoggettivo. Al riguardo, tali Autori osservano che l’eccezionalità della responsabilità omissiva ed il principio di frammentarietà del diritto penale impediscono di ritenere che la clausola di equivalenza di cui all’art. 40 c. 2 c.p. possa avere nel concorso omissivo un ambito di operatività più ampio di quello che si riscontra nella responsabilità omissiva monosoggettiva. Occorre però segnalare che, nell’ambito di tale teoria minoritaria, sono emerse due posizioni diverse. Secondo una parte dei sostenitori di siffatta impostazione restrittiva,140 il concorso omissivo non sarebbe proprio configurabile, attesa l’assenza di un valido fondamento normativo, onde la punibilità del non impedimento del reato dovrebbe desumersi direttamente dal combinato disposto dell’art. 40 c. 2 c.p. con la norma sul reato commissivo e non già sulla base degli artt. 40 c. 2 e 110 c.p. Infatti, si reputa che una cumulativa applicazione delle due clausole di estensione della punibilità, rispettivamente previste dagli artt. 40 c. 2 c.p. e 110 c.p., si porrebbe in insanabile conflitto con il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. Altri141, invece, sempre nell’ambito dell’impostazione minoritaria, ritengono che il concorso omissivo sia ammissibile, ma che sia limitato ai soli reati di evento a forma libera, posto che l’”evento” di cui all’art. 40 c. 2 c.p. dovrebbe essere inteso come evento naturalistico, in ossequio ai principi di legalità e frammentarietà propri del diritto penale. Infine, i fautori della tesi restrittiva sottolineano l’inidoneità dell’art. 138 c.p.m.p.- che, come si è visto, è invocato come argomento dalla dottrina tradizionale- a fornire indicazioni sulla portata della figura generale del concorso omissivo, giacché si tratterebbe di fattispecie del tutto autonoma rispetto a quella risultante dagli artt. 40 c. 2 e 110 c.p. La teoria suesposta non ha però convinto la maggior parte degli interpreti, i quali hanno replicato puntualmente alle argomentazioni poste alla base dell’impostazione 139 RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato. Contributo ad una teoria delle clausole generali di incriminazione suppletiva, Milano, 2001, p. 450; RISICATO, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo. Genesi e soluzione di un equivoco, in Riv. It. Dir. proc. pen., 1995, p. 1294; CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Padova, 1998, p. 620 e ss.; BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1369. 140 RISICATO, op. loc. ult. cit. 141 FIANDACA, op. loc. ult. cit. 47 restrittiva. Infatti, si è detto che il richiamo al principio di frammentarietà non è nella specie pertinente, perché, se è vero che esso permette di escludere che la clausola di equivalenza ex art. 40 c.2 c.p. operi rispetto alle fattispecie monosoggettive a forma vincolata, con riguardo alle fattispecie plurisoggettive, invece, o esso porta ad escludere la punibilità di qualsiasi contributo atipico, attivo o omissivo che sia, oppure non consente di discriminare tra contributi atipici, in quanto ciascun concorrente fa proprio l’intero fatto142. A ciò si aggiunga che il fondamento normativo del concorso omissivo sussiste e va rinvenuto: nell’art. 116 c.p., che fa riferimento indifferentemente all’azione o all’omissione; nell’art. 138 c.p.m.p., in cui la clausola di riserva non avrebbe senso se l’art. 40 c. 2 c.p. richiamato non comprendesse anche il concorso omissivo; infine, nelle ipotesi di agevolazione colposa realizzabili anche mediante omissione (artt. 335 e 350 c.p.), giacché bisogna evitare l’assurdo di considerare punibile il contributo omissivo colposo e non quello omissivo doloso, sicché quest’ultimo deve necessariamente rientrare nella norma generale sul concorso di persone nel reato143. Da quanto esposto discende che, secondo la teoria maggioritaria e preferibile, gli artt. 40 c. 2 c.p. e 110 c.p. possono combinarsi tra loro e dar luogo alla generale figura del concorso omissivo nel reato commissivo altrui. Ciò del resto è confermato dalle funzioni rispettivamente assegnate dal legislatore alle due norme citate: infatti, l’art. 110 c.p. ha il compito di incriminare tutti i contributi atipici, compresi quelli omissivi; l’art. 40 c.2 c.p., invece, delimita l’ambito applicativo dell’omissione impropria, sancendo la necessaria sussistenza di una posizione di garanzia144. Pertanto, non appare condivisibile un’aprioristica delimitazione ai soli reati causali puri delle fattispecie rilevanti ai fini del concorso omissivo nell’altrui reato commissivo. Né pare che una tale ricostruzione possa trovare ostacoli di sorta nell’esegesi del termine “evento” di cui all’art. 40 c. 2 c.p., poiché è ben possibile che questa espressione, nell’ambito del concorso di persone, assuma il significato non già di evento naturalistico, ma di reato 142 MANTOVANI, Diritto penale,Parte generale, cit., p. 520. LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 362. 144 LEONCINI, op. cit., p. 363. 143 48 commesso da altri. Infatti, l’art. 40 c. 2 c.p. fa rinvio all’obbligo di garanzia, sicché la determinazione del contenuto dello stesso è demandata alla fonte legislativa dell’obbligo medesimo, con la conseguenza che ad essa occorre avere riguardo anche per chiarire il significato dell’evento da impedire. Quindi, bisogna esaminare i singoli obblighi di garanzia previsti dall’ordinamento per assegnare il giusto significato all’espressione “evento” contenuta nell’art. 40 c. 2 c.p. Inoltre, la scelta di limitare l’equivalenza tra il cagionare e l’impedire ai soli reati a forma libera, se ha un senso rispetto alle fattispecie monosoggettive, attesa l’ontologica impossibilità di sussumere nel detto meccanismo reati a forma vincolata, non pare invece giustificata rispetto alle fattispecie plurisoggettive, poiché la punibilità del contributo omissivo, necessario o agevolatore, costituisce normale applicazione dell’art. 110 c.p. Né può sostenersi145 che il ricorso alla combinazione degli artt. 40 e 110 c.p. sia inutile, visto che il contributo solo agevolatore e non necessario può assumere rilievo solo nell’ambito del concorso di persone nel reato, non anche nelle fattispecie monosoggettive. E’noto, infatti, che nell’ambito del concorso di persone la tesi prevalente146 ammette la configurabilità di un contributo meramente agevolatore da parte dei concorrenti, mentre nei reati monosoggettivi il nesso di causalità che lega la condotta all’evento naturalistico risponde alle logiche della causalità condizionalistica. A ciò si aggiunga che, come ha evidenziato autorevole dottrina147, nella fattispecie plurisoggettiva l’azione impeditiva giuridicamente obbligatoria riguarda di regola l’altrui condotta illecita e non un processo causale determinato da forze naturali; pertanto, in caso di contributo omissivo, il secondo termine del nesso di causalità è sempre rappresentato dalla realizzazione del reato da parte di altri, perfino nelle ipotesi di reati causalmente orientati. Del resto, si è notato che la funzione che l’ordinamento assegna all’art. 110 c.p. consiste proprio nel dar vita, per effetto della combinazione con la norma di parte speciale, ad una nuova e autonoma 145 Come fanno invece RISICATO, Combinazione e interferenza di forme di manifestazione del reato, cit., p. 450 e BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui, cit., p. 1369. 146 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 46; ALBEGGIANI, Imputazione dell’evento e struttura obiettiva della partecipazione criminosa, in Indice pen., 1977, p. 412 e ss. 147 LEONCINI, obbligo di attivarsi, cit., p. 367 e 368. 49 fattispecie plurisoggettiva eventuale, nell’ambito della quale risultano punibili anche condotte che non lo sarebbero ai sensi della fattispecie monosoggettiva148. Ne consegue che dovrebbe considerarsi punibile, ai sensi dell’art. 110 c.p., il contributo omissivo che, pur inidoneo di per sé ad integrare l’ipotesi tipica monosoggettiva, abbia fornito comunque un contributo necessario o anche solo agevolatore alla realizzazione del reato. Per questi motivi, alla dottrina maggioritaria è apparsa fuorviante l’affermazione della tesi restrittiva, in base alla quale l’attribuzione di rilevanza penale ai contributi omissivi, nell’ambito di fattispecie diverse da quelle causali pure, rischierebbe di produrre un vulnus al principio di frammentarietà. Invero, mentre il richiamo ad esso risulta pertinente con riguardo alle fattispecie monosoggettive, al cui interno non possono infatti trovare conversione ex art. 40 c. 2 c.p. reati a forma vincolata, per quanto concerne, invece, le fattispecie plurisoggettive eventuali, una rigida applicazione del principio di frammentarietà porterebbe all’assurdo di escludere rilevanza penale a qualsiasi contributo atipico, attivo o omissivo, il che, evidentemente, finirebbe con il contraddire la stessa ratio della norma estensiva della punibilità di cui all’art. 110 c.p. Si deve quindi ritenere che, nell’ambito della fattispecie plurisoggettiva, sia essenziale solo la realizzazione della specifica modalità di aggressione tipica della norma di parte speciale, e che, al contrario, resti irrilevante se l’integrazione di essa sia avvenuta ad opera di uno, di più o di tutti i concorrenti149. Nel concorso di persone, infatti, ciascuno dei concorrenti risponde anche per i contributi degli altri (come se fossero i propri), e, quindi, dell’intera condotta tipica prevista dalla norma di parte speciale, posto che, per aversi responsabilità concorsuale, è sufficiente la produzione di un contributo atipico della minima importanza (artt. 110 e 114 c.p.)150. Pertanto, deve ritenersi che l’omittente, il quale collabori con altri alla realizzazione di un fatto di reato, faccia inevitabilmente proprio l’intero fatto tipico realizzato dai correi, sia esso un reato di evento o di mera condotta, a forma libera o a forma vincolata. Del resto, non 148 LEONCINI, op. cit., p. 365; MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 236. In relazione al concorso di perone nel reato, infatti, la tesi dell’accessorietà è stata ormai disattesa dalla dottrina nettamente prevalente. Sul punto si veda l’esauriente analisi di PADOVANI, Codice penale, Milano, 2000, p. 535. 150 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 520. 149 50 sembrano esserci dubbi sul fatto che l’art. 116 c.p., laddove utilizza il termine “evento”, in realtà si riferisce al reato commesso, il che evidentemente fornisce un chiaro fondamento di diritto positivo alla tesi maggioritaria151. Si può quindi concludere che la tesi restrittiva propugnata dalla dottrina citata, nella parte in cui sostiene la rilevanza del concorso omissivo solo con riguardo ai reati di evento a forma libera, non appare condivisibile. Tuttavia, non va trascurata la giusta esigenza sottesa alla teoria in esame, ossia quella di contenere una forma di responsabilità che, più delle altre, è in grado di incidere sulla sfera di libertà dei singoli. Lo strumento per soddisfare tale scopo, però, dovrebbe essere rappresentato dalla individuazione restrittiva dei requisiti soggettivi e oggettivi del concorso omissivo nel reato commissivo152 e non già da aprioristiche limitazioni delle fattispecie di reato convertibili. A tal fine appare dirimente una corretta verifica della sussistenza di un obbligo di garanzia, la quale tenga nel dovuto conto le ricostruzioni dottrinali esaminate e, in particolare, la distinzione tra obblighi di attivarsi, di sorveglianza e di garanzia, con la conseguenza che il dato centrale di siffatta analisi dovrebbe essere l’accertamento della sussistenza o meno in capo all’omittente di un obbligo di impedimento delle azioni illecite di terzi. La tesi maggioritaria e quella restrittiva, quindi, pur nelle diversità dei punti di vista, finiscono col concordare sulla non sussumibilità dei meri obblighi di sorveglianza nell’ambito del concorso omissivo nel reato commissivo153. I.6 Concorso omissivo e connivenza Come si è visto, uno dei tratti peculiari del concorso omissivo, che vale a distinguerlo dalle altre forme di partecipazione all’altrui reato, è dato dalla presenza di un obbligo d’impedimento dell’evento, secondo il generale canone del reato omissivo improprio, 151 LEONCINI, op. cit., p. 365. MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 238. 153 LEONCINI, op. cit., p. 372, per la tesi estensiva; RISICATO, Combinazione e interferenza, cit., p. 412, per quella restrittiva. 152 51 di cui all’art. 40 c. 2 c.p. Per tale ragione nello studio di tale istituto è fondamentale tracciare il più possibile con precisione i confini tra concorso per omissione e mera connivenza. Quest’ultima, infatti, consiste nel comportamento di chi assiste alla perpetrazione di un reato senza intervenire, non avendo però alcun obbligo giuridico di impedirne la commissione154. In tal caso, non è ipotizzabile alcuna responsabilità penale in capo al soggetto rimasto inerte, poiché nel vigente ordinamento non incombe sui cittadini un generale obbligo di impedire i reati altrui, salvo che si tratti di persone che rivestono una posizione di garanzia. Si è già notato155, infatti, che uno dei tratti peculiari di essa, secondo un’esegesi costituzionalmente orientata, è dato dalla specificità dei destinatari dell’obbligo di impedimento, in ossequio al principio di libertà ex art. 13 Cost. Ciò del resto trova conferma, in primo luogo, nella facoltatività del soccorso difensivo ai sensi dell’art. 52 c.p.156, giacché non vi è dubbio che la norma non imponga un obbligo di difendere i diritti altrui contro i pericoli attuali di offese ingiuste; in secondo luogo, l’assunto pare corroborato dalla specifica previsione di obblighi impeditivi a carico di determinati soggetti, posto che essi altrimenti non avrebbero senso se esistesse un generale dovere di questo genere; in terzo luogo, tale ricostruzione argomenta dall’omessa previsione di un generalizzato obbligo del singolo di cooperare a fini di polizia, come si evince a contrario dagli artt. 364, 652 e 709 c.p. Anche tali fattispecie, infatti, apparirebbero prive di una reale giustificazione se tutti i cittadini soggiacessero a un simile obbligo. Sul piano teorico, dunque, sembra ormai un dato acquisito che la mera connivenza debba essere considerata penalmente irrilevante, ma ciò non ha eliminato il dubbio che essa possa assumere rilievo ad altri fini. Ci si è chiesti, invero, se la stessa possa integrare un illecito civile in base al canone del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. Orbene, sul punto giova segnalare che la giurisprudenza prevalente157 ritiene che, anche ai fini risarcitori, l’omesso impedimento di un evento assuma significato solo 154 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 512; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 897; Cass., 22 gennaio 1996, in Mass. Dec. Pen., 1996, m. 203.797; Cass., 14 marzo 1989, in Cass. pen., 1990, I, p. 1283; Cass., 6 luglio 1987, in Riv. Pen., 1989, p. 511. 155 retro, pr. I.3. 156 MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 250. 157 Cass. civile n. 11207 del 1992; Cass. n. 7698 del 2000; Cass. n. 1859 del 2000; Cass. n. 488 del 2003; Cass. n. 21641 del 2005. 52 nei casi tassativamente previsti, sicché la mera connivenza non dovrebbe integrare un illecito aquiliano. Tuttavia, merita di dar conto di una innovativa tesi dottrinale158, secondo la quale, in primo luogo, l’art. 2 Cost. è norma precettiva nei rapporti interprivati, in ossequio alla cosiddetta drittvirkung; in secondo luogo, poiché l’ingiustizia del danno ex art. 2043 c.c. si fonda su un giudizio sintetico-comparativo, la soluzione della questione non andrebbe ricercata in astratto, ma attraverso un’analisi in concreto e caso per caso; in terzo luogo, si afferma che nel diritto civile non esistono le esigenze di tassatività proprie del sistema penale, attesa la logica non già sanzionatoria, ma riparatoria. Con la conseguenza che si dovrebbe ritenere che l’art. 2 Cost. imponga a tutti i cittadini di impedire la realizzazione di eventi dannosi, nei limiti in cui tale impedimento non si traduca in un apprezzabile sacrificio, secondo la nota teoria di BIANCA sull’obbligo di buona fede159. Merita quindi interrogarsi se, alla luce di tale ultima tesi, la connivenza - penalmente irrilevante non possa invece assumere rilievo ai fini di una responsabilità aquiliana per omissione, in base al combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 2 Cost. Tornando alle problematiche più strettamente penalistiche, si è già detto che in caso di mera connivenza non sussiste responsabilità. Al contrario, qualora vi sia un concorso attivo (morale o materiale), sempre che ne sussistano i presupposti richiesti dalla legge, rimane ferma la punibilità anche del concorrente sul quale non gravi una posizione di garanzia. Peraltro, mentre la differenza tra concorso attivo materiale e connivenza non dovrebbe creare notevoli problemi, in quanto il primo consiste in una collaborazione nella concreta esecuzione del reato, sorgono, invece, grandi difficoltà nel distinguere in concreto tra concorso attivo morale – penalmente rilevante - e mera connivenza – penalmente irrilevante. Come noto, il concorso attivo morale si manifesta o come determinazione in altri del proposito criminoso (ad es. Tizio convince Caio ad uccidere Sempronio) o come rafforzamento di un proposito già esistente (un’amica istiga il medico titubante a lasciar morire il paziente). Al riguardo giova segnalare che, in tema di responsabilità del proprietario dell’area per l’opera 158 159 CARINGELLA, Manuale di diritto civile, II, Milano, 2006, p. 786. BIANCA, Diritto civile, 3, Milano, 2000, p. 162 e ss. 53 abusiva da altri realizzata, la giurisprudenza tradizionale160, seguendo la tesi funzionale circa l’obbligo di impedimento dell’evento, ravvisava una posizione di garanzia in capo al titolare del diritto di proprietà sul terreno, considerata la disponibilità giuridica e di fatto dell’area allo stesso spettante. In seguito, la Suprema Corte ha mutato orientamento e la tesi oggi prevalente161 esclude che in tal caso sussista un obbligo di impedire l’abuso edilizio altrui. Ne consegue che, in base a tale esegesi, una responsabilità del proprietario possa configurarsi solo in caso di concorso attivo materiale o morale. Tuttavia, occorre segnalare che la stessa giurisprudenza tende ad interpretare in senso lato il concetto di concorso attivo morale, posto che presume una istigazione del coniuge proprietario nella semplice circostanza che il manufatto abusivo, realizzato dal coniuge non proprietario, sia destinato alla vita in comune della famiglia162. Allo stesso modo, si è notato che, se sul piano astratto può risultare agevole tracciare la distinzione tra concorso morale nel reato e mera connivenza penalmente irrilevante, nel momento della valutazione del caso concreto sorgono notevoli difficoltà, soprattutto quando si tratta di accertare quali siano stati gli effetti derivanti dalla mera presenza di un soggetto nel luogo del reato. La questione si è posta di frequente in giurisprudenza con riguardo ai delitti di violenza carnale, estorsione e rapina. Al riguardo, la Suprema Corte ha seguito inizialmente una linea di particolare rigore, affermando che la mera presenza sul luogo del reato abbia necessariamente un’efficacia rafforzativa dell’altrui proposito163; in seguito la Cassazione ha precisato i termini della distinzione tra concorso morale e connivenza, ponendo l’accento sulla necessità di accertare caso per caso quale sia stata la condotta tenuta dal soggetto, sia sotto il profilo materiale, sia sul piano dell’elemento soggettivo, distinguendo la mera presenza passiva, penalmente irrilevante, dal comportamento oggettivamente 160 Cass., sez. III, 14 ottobre 1999, n. 859, in C.E.D. Cass. n. 215598 e in Guida al diritto, 2000, n. 8, p. 90; Cass., sez. III, 24 agosto 1988, in Riv. giur. edil., 1990, I, p. 315; Cass., sez. III, 8 luglio 1983, in Cass. pen., 1984, p. 2263. 161 Cass., sez. III, 3 ottobre 2002, n. 38193, in C.E.D. Cass. n.222658; Cass., sez. III, 1 ottobre 2003, n. 44160, in C.E.D. Cass. n. 226589; Cass., sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, in C.E.D. Cass. n. 231645; Cass., sez. III, 12 aprile 2005, n. 26121, in C.E.D. Cass. n. 231954. 162 Sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, cit. 163 Cass.,7 febbraio 1992,n. 1172 e Cass., 24 agosto 1993, n. 79851, citate in GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 897. 54 rafforzativo del proposito criminoso altrui ed accompagnato dall’adesione psicologica al fatto criminoso164. I.7 Cenni sulle principali ipotesi applicative di concorso omissivo nel reato commissivo La giurisprudenza si è occupata in varie occasioni del complesso tema del concorso omissivo nell’altrui reato commissivo, con soluzioni che hanno contribuito non poco a tracciare le linee generali di assetto dell’istituto. Pertanto, ai fini del presente studio, appare opportuno analizzare, sia pur sinteticamente, le principali questioni che sul punto sono state affrontate e risolte dalla Suprema Corte. Per quanto concerne gli appartenenti alle forze dell’ordine, la tesi tradizionale ritiene che essi abbiano l’obbligo giuridico di impedire che in loro presenza si realizzino reati. Secondo un’interpretazione più restrittiva, invece, perché sorga una responsabilità per concorso omissivo, occorrerebbe la presenza di uno specifico obbligo di protezione (come accade ad es. per gli agenti di scorta), mentre negli altri casi l’agente risponderebbe eventualmente solo per omissione di atti d’ufficio ex art. 328 c.p., ove ne ricorrano i presupposti. In senso critico, però, si è notato che le preoccupazioni della tesi restrittiva, circa un’eccessiva estensione dell’obbligo in esame, sono infondate, poiché la posizione di garanzia delle forze dell’ordine trova comunque un limite nella effettiva possibilità per gli agenti di intervenire. Inoltre, si evidenzia che l’interpretazione restrittiva rischia di minare in parte il ruolo istituzionale delle forze dell’ordine, legato proprio all’impedimento dei reati. Altra questione assai controversa in dottrina e giurisprudenza è quella concernente la responsabilità dei sindaci delle s.p.a. per i reati commessi dagli amministratori, la quale ha dato luogo ad un vasto dibattito che in questa sede è possibile solo 164 DELLA VALLE, Concorso nel reato omissivo e concorso mediante omissione, in CARINGELLA-GAROFOLI, Studi di diritto penale, Milano, 2002, p. 1179; Cass., sez. I, 11 ottobre 2000, n. 12089, in C.E.D. Cass. n. 217347. 55 sintetizzare165. E’ noto, infatti, che il ruolo tradizionalmente assegnato al collegio sindacale nell’ambito delle società consiste nel controllo sull’andamento della gestione, sicché si è posto il problema della configurabilità di un concorso omissivo dei sindaci per i reati commessi dagli amministratori nello svolgimento delle loro funzioni. Al riguardo una parte della dottrina166 si esprime in senso negativo, poiché ritiene che i sindaci siano privi di poteri impeditivi dell’evento, ma che abbiano solo un obbligo di sorveglianza, in quanto tenuti a controllare e informare gli organi societari preposti. Ciò - si dice - trova conferma nel testo dell’artt. 2403 c.c., che prevede genericamente l’obbligo dei sindaci di “vigilare sull’osservanza della legge”, senza imporre loro l’impedimento della commissione di illeciti. La tesi prevalente in dottrina167 e giurisprudenza168, invece, ravvisa in capo ai membri del collegio sindacale una posizione di garanzia, con la conseguenza che si ritiene ipotizzabile una responsabilità per omesso impedimento dei reati realizzati nell’attività gestionale. Più nel dettaglio, aderendo alla teoria funzionale circa l’obbligo di impedimento dell’evento, si sostiene che la posizione dei sindaci sia di controllo, considerato che gli stessi sono tenuti a vigilare sull’attività di gestione degli amministratori. A sostegno di tale assunto si adducono diversi argomenti. In primo luogo, si ritiene che l’art. 2403 c.c., ove sancisce l’obbligo del collegio sindacale di vigilare “sull’osservanza della legge”, in realtà faccia riferimento anche alla legge penale, con la conseguenza che i sindaci dovrebbero rispondere per l’omesso impedimento dei reati degli amministratori. In secondo luogo si fa leva sull’art. 2407 c. 2 c.c., il quale prevede una responsabilità solidale dei sindaci con gli amministratori “per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe 165 DE PALMA, La responsabilità penale dei sindaci per i reati commessi dagli amministratori di società anche alla luce della riforma del diritto societario, in Diritto e formazione, 2003, p. 4. 166 PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. società, 1962, p. 285; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 160; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 412; PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 231. 167 GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 357; MAZZACUVA, La responsabilità penale dei sindaci, in Le Società, 1989, p. 379; STELLA-PULITANÒ, La responsabilità penale di sindaci di società per azioni, in Riv. trim. dir. pen. Economia, 1990, p. 557 e ss. 168 Cass., sez. V, 26 giugno 1990, n. 15850, in Cass. pen., 1991, p. 828; Cass., sez. V, 22 aprile 1998, n. 8327, in Cass. pen., 1999, p. 651; Cass., sez. V, 13 dicembre 2006, n. 17393, in C.E.D. Cass., n. 236630; Cass., sez. V, 4 novembre 2009, n. 10186, in C.E.D. Cass., n. 246911; Cass., sez. V, 1 luglio 2011, n. 31163, in C.E.D. Cass., n. 250555. In dottrina: PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, Giuffrè, 2003, p. 185 e ss.; CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Giuffrè, 2009, p. 227 e ss. 56 prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”, sicché - si assume - la norma parrebbe configurare l’attività di vigilanza come strumento per impedire che gli organi amministrativi pongano in essere atti pregiudizievoli per la società. In terzo luogo, si reputa che l’art. 2405 c.c., laddove impone ai sindaci di partecipare alle riunioni del consiglio di amministrazione, implicitamente conferisca ai membri del collegio sindacale il potere di intervenire, di avvertire gli amministratori circa le conseguenze di una determinata scelta e, perfino, di chiedere l’inserimento a verbale di proprie osservazioni. Altrimenti opinando - si dice - il controllo esercitato dai sindaci sarebbe solo formale e non già sostanziale, così come la loro partecipazione alle sedute del consiglio di amministrazione non sarebbe reale ed effettiva. Infine, si nota che i membri del collegio sindacale, possono denunciare le irregolarità gestionali all’autorità giudiziaria e/o alle Amministrazioni preposte alla vigilanza sul settore in cui opera la società (ad es. Banca d’Italia e Consob). Più nel dettaglio, si evidenzia che il potere di denuncia all’autorità giudiziaria (art. 2409 c.c.), a seguito della riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, si configura come possibilità per i sindaci di rivolgersi direttamente al Tribunale mentre in passato potevano solo sollecitare l’intervento del Pubblico Ministero - onde un incremento degli strumenti impeditivi che l’ordinamento mette a disposizione dei membri del collegio sindacale. Dai citati argomenti, dunque, la tesi in parola fa discendere la sussistenza di una posizione di garanzia in capo ai sindaci sub specie di obbligo d’impedimento dei reati commessi nella gestione sociale. Ciò posto, tale orientamento si è interrogato sull’ampiezza di siffatta Garantestellung e, in particolare, sulla tipologia di reati che i sindaci avrebbero l’obbligo giuridico di impedire. Al riguardo, la giurisprudenza ha fornito risposte non omogenee. Infatti, secondo un primo orientamento, rileverebbero a tal fine solo i reati commessi dagli amministratori dai quali sia derivato un danno all’integrità del patrimonio sociale, come ad esempio quelli societari o fallimentari, giacché l’art. 2407 c.2 c.c. prevede la responsabilità dei sindaci per omesso controllo sugli organi di gestione in relazione ai danni patrimoniali arrecati alla società. Peraltro, si è precisato che può trattarsi di un 57 reato qualsiasi, purché idoneo a produrre un danno al patrimonio sociale, con la conseguenza che tra i reati che i sindaci hanno l’obbligo giuridico di impedire possono essere inclusi anche quelli in materia edilizia che abbiano compromesso il patrimonio della società, come nel caso, ad esempio, della perdita economica di denaro impiegato nella realizzazione di una costruzione abusiva soggetta a provvedimento di demolizione169. Altre pronunce della Suprema Corte, invece, intendono in senso ancor più lato la posizione di garanzia de qua, poiché interpretano il termine “legge”, di cui all’art. 2403 c.c., come comprensivo di tutte le norme penali, sicché i sindaci avrebbero l’obbligo giuridico di impedire qualsiasi reato commesso nel corso della gestione amministrativa. Più nel dettaglio, si sostiene che i membri del collegio sindacale siano tenuti ad impedire non solo i reati realizzati in danno della società, ma anche quelli posti in essere a danno di terzi entrati in contatto con la società. Ad esempio, si è ritenuta sussistente la responsabilità dei sindaci per omesso impedimento di una truffa a danno di terzi commessa da parte degli amministratori, attraverso il collocamento di strumenti finanziari, posto in essere sulla base di un prospetto informativo falso170. In senso critico, però, si è notato che, per affermare la responsabilità omissiva dei membri del collegio sindacale, deve sussistere un collegamento tra il reato commesso dall’amministratore e l’oggetto del controllo assegnato ai sindaci, con la conseguenza che la posizione di garanzia dei sindaci dovrebbe riguardare solo i reati propri degli amministratori e non anche quelli comuni realizzati in danno di terzi171. Sempre nell’ambito del diritto societario, una recente sentenza della Suprema Corte172 ha affermato la responsabilità degli amministratori senza deleghe per omesso impedimento dei reati realizzati da parte degli amministratori delegati. In tale pronuncia i giudici di legittimità hanno ribadito la configurabilità di un concorso omissivo nell’altrui reato commissivo, chiarendone i presupposti. Più nel dettaglio, la 169 Cass., 31 agosto 1993, Minelli, in Cass. pen., 1994, p. 716. Trib. Milano, sez. II, 28 novembre 1987, Cultrera, in Banca, borsa e titoli di credito, 1988, p. 623; App. Milano, 13 giugno 1990, in Giur. Comm., 1991, II, p. 619; Cass., sez. V, 28 febbraio 1991, in Cass. Pen., 1991, I, p. 1849. 171 STELLA-PULITANÒ, responsabilità penale di sindaci di società per azioni, cit., p. 560. 172 Cass., sez. V, 9 dicembre 2008, n. 45513, in La Rivista Neldiritto, 2009, 1, p. 80 e ss., con nota di CANTAGALLI, La responsabilità dell’amministratore di società per omesso impedimento del reato commesso da altro amministratore. Conf. Cass., sez. V, 19 giugno 2007, n. 23838. 170 58 Corte di Cassazione ha sostenuto che, ai fini della sussistenza di una responsabilità penale di tal tipo, sono necessari: in primo luogo, una fonte formale dell’obbligo di garanzia; in secondo luogo, l’esistenza di poteri giuridici impeditivi in capo all’omittente; in terzo luogo, la prova della conoscenza del reato in itinere da parte del garante; in quarto luogo, il dolo del soggetto rimasto inerte, che può assumere anche la forma del dolo eventuale. Infine, i giudici hanno notato che possono essere considerati elementi significativi, ai fini della prova della sussistenza del dolo eventuale, i cosiddetti “indici d’allarme”, dei quali deve essere dimostrata l’avvenuta percezione da parte del soggetto rimasto inerte. Con particolare riferimento al caso sottoposto al suo esame, la Corte ha ritenuto che su ogni amministratore di s.p.a, benché non delegato, gravi una posizione di garanzia, fondata sull’art. 2392 c. 2 c.c., che lo obbliga a porre in essere ogni possibile condotta per impedire fatti pregiudizievoli per la compagine sociale, ivi compresi i reati compiuti da altro amministratore. I giudici di legittimità, inoltre, hanno sottolineato la necessità di accertare, in capo al titolare della posizione di garanzia, la sussistenza di un adeguato potere impeditivo del fatto, che, nel caso di specie, è stato individuato nella possibilità, per gli amministratori imputati, di opporsi all’approvazione del bilancio, attraverso l’espressione del voto contrario. In senso critico, però, parte della dottrina173 ha evidenziato che la possibilità di esercitare il voto contrario non espleta una reale capacità impeditiva in tutte le ipotesi in cui l’adozione della delibera consiliare sopravvive alla cosiddetta prova di resistenza, ovvero nei casi in cui la maggioranza necessaria all’approvazione della delibera collegiale (che realizza l’illecito o costituisce una fase dell’iter criminis) sarebbe stata raggiunta anche con l’espresso dissenso del singolo amministratore. Né - si è detto - può considerarsi potere giuridico impeditivo la possibilità per gli amministratori di impugnare la delibera consiliare ex art. 2388 c. 4 c.c., quantomeno laddove il reato sia già consumato con l’adozione della stessa. CANTAGALLI, La responsabilità dell’amministratore di società per omesso impedimento del reato commesso da altro amministratore, cit., p. 85. 173 59 Procedendo nella rassegna delle pronunce più rilevanti della Corte di Cassazione in materia di concorso omissivo nel reato commissivo, giova segnalare che, di recente, i giudici di legittimità hanno escluso la sussistenza di una posizione di garanzia di tal fatta in capo al titolare di un internet point per i reati realizzati dai clienti, attesa la ritenuta mancanza di un obbligo giuridico di impedire l’evento sullo stesso incombente. A ciò si è aggiunto che, non solo il soggetto de quo non ha l’obbligo giuridico di controllare i contenuti dei file utilizzati dai propri clienti, ma, se anche lo facesse, commetterebbe il reato previsto dall’art. 617-quater c.p., con la conseguenza che gli è addirittura vietato di esercitare i poteri di vigilanza necessari perché possa ipotizzarsi una posizione di garanzia174. Sempre sul tema in oggetto, la Suprema Corte ha ritenuto che il concorso mediante omissione si differenzi dall’omessa denuncia di reato (art. 361 c.p.), perché in quest’ultima ipotesi il pubblico ufficiale ometterebbe o ritarderebbe di denunciare un reato di cui è venuto a conoscenza, mentre nell’altra egli ometterebbe non la semplice notizia, ma il doveroso comportamento positivo (impedimento del reato) che poteva materialmente attuare e non ha attuato, così concorrendo al compimento del reato stesso175. In materia di diritto di famiglia, inoltre, la Corte176 ha affermato che il dovere di generica sorveglianza sui minori, attribuito a chi su di loro esercita la patria potestà, non è sufficiente per farne derivare una responsabilità penale della madre per i reati di induzione alla prostituzione e corruzione di minorenni. Altra pronuncia177, invece, ha ritenuto che, in base al precetto generale contenuto nell’art. 147 c.c., il genitore è costituito garante anche dell’integrità morale e della libertà sessuale dei figli, così da rendere responsabile, a titolo di concorso in atti di libidine, una madre che aveva tenuto un atteggiamento di sostanziale acquiescenza ai fatti ripetutamente commessi sui suoi figli minori dal convivente. In un caso assai simile, la Suprema Corte178 ha 174 Cass., sez. IV, 11 febbraio 2009, n. 6046, in La Rivista Neldiritto, 2009, 3, p. 370 e ss. Cass., 8 maggio 1984, in Cass. pen., 1985, p.1830. 176 Cass., 20 maggio 1963, in Riv. pen., 1963, II, p. 471. 177 Cass., 19 ottobre 1987, in Cass. pen., 1989, p. 39. 178 Cass., sez. III, 21 novembre 2007, n. 42981, in Guida al diritto, 2007, 50, p. 73, con nota di CISTERNA, Oltre alla denuncia del colpevole sono poche le soluzioni efficaci. 175 60 escluso la responsabilità di una madre che aveva ritardato la denuncia contro il marito, il quale abusava della figlia, poiché la donna si era comunque attivata informando i familiari e ottenendo dall’uomo la promessa che avrebbe cessato le molestie sulla bimba. Pertanto, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la denuncia dei fatti di reato a danno dei figli minori non sia un passaggio obbligato per la tutela degli stessi, ma possa essere efficacemente sostituita da iniziative diverse, parimenti finalizzate alla protezione dell’integrità psicofisica della prole. 61 II PARTE SECONDA: PREMESSA DI DIRITTO AMMINISTRATIVO Le coordinate penalistiche tracciate nella parte prima sono funzionali all’analisi dello specifico problema oggetto del presente studio, ossia i riflessi penalistici del principio di separazione tra politica ed amministrazione. A tal fine occorre effettuare una seconda premessa, questa volta di diritto amministrativo, al fine di un migliore inquadramento del tema. 62 II.1 I diversi modelli di Pubblica Amministrazione che emergono dalla Costituzione Secondo la tesi dottrinale ormai prevalente, dalla Costituzione emergono due modelli di Pubblica Amministrazione del tutto differenti. Il primo di essi è quello che si ricava dall’art. 95 c. 2 Cost.: “i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri e, individualmente, degli atti dei loro dicasteri”. Tale disposizione, nel prevedere la responsabilità del vertice politico per gli atti della struttura amministrativa cui è preposto, sembrerebbe implicare un modello di amministrazione come apparato necessariamente dipendente dall’autorità politica. Alla responsabilità del Ministro per gli atti della pertinente struttura burocratica deve infatti corrispondere la possibilità per lo stesso di esercitare un controllo sul suo dicastero179. Altrimenti opinando, del resto, non avrebbe senso sancire una responsabilità del vertice politico per l’attività amministrativa senza i correlativi poteri di controllo e di influenza sulla medesima. D’altro canto, la delineazione di una Pubblica Amministrazione organizzata in modo piramidale, con al vertice il Ministro, risponde ad una chiara esigenza di legittimazione democratica dell’agire pubblico, posto che il Ministro riceve la fiducia dalle Camere e quindi, indirettamente, dagli elettori. Nel modello di Stato elaborato da Montesquieu180, infatti, il potere esecutivo è legittimato dalla fiducia del Parlamento che si pone in posizione centrale, pur nella sostanziale parità dei poteri, in quanto a sua volta diretta emanazione del popolo, unico legittimo depositario della sovranità181 (art.1 c.2 Cost.). Ne consegue che la responsabilità del Ministro ex art. 95 c. 2 Cost. ha come presupposto necessario l’attribuzione allo stesso di una posizione verticistica nell’ambito del dicastero, la quale, a sua volta, è strumentale a conferire investitura democratica all’attività amministrativa, attraverso il circuito di responsabilità politica del Governo di fronte alle Camere. Mutatis mutandis, le stesse considerazioni ovviamente valgono in relazione agli organi politici delle Regioni e degli enti locali 179 CHIEPPA- GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, Milano, 2009, p. 102. MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, libro XI, Torino, 2005. 181 CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, p. 647. 180 63 nei rapporti con le rispettive amministrazioni. Anche in questi ambiti, infatti, la presenza di organi politici (Presidente della Regione, Presidente della Provincia, Sindaco, Consigli e Giunte) all’interno delle relative amministrazioni contribuisce ad attribuire legittimazione democratica alla funzione esecutiva in esse svolta, posto che tali organi sono rappresentativi della volontà popolare. E’ dunque evidente il profondo fondamento costituzionale e logico del modello di amministrazione innanzi tracciato. Esso tuttavia non è l’unico, giacché gli artt. 97, c. 1 e 3, 98 e 51 Cost. sembrano fissare un modello diverso che mira invece a preservare la P.A. e i suoi dipendenti da possibili influenze politiche182. Infatti, l’affermazione del principio di imparzialità, l’accesso agli impieghi pubblici tramite concorso, il principio per cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione sono strumentali a garantire l’indipendenza della struttura burocratica dalle pressioni della politica, per sua natura parziale ed espressione di una fazione (ancorché eventualmente maggioritaria), e non già dell’intera collettività. Si pone dunque un conflitto tra i due modelli amministrazione evincibili dalla Costituzione: il primo, orientato ad attribuire un ruolo verticistico agli organi politici per esigenze di legittimazione democratica della funzione esecutiva, ed il secondo, preoccupato di preservare l’indipendenza della Pubblica Amministrazione dalle influenze della politica. La dottrina che si è occupata del tema ha tentato di risolvere tale contrasto attraverso una lettura capace di conciliare i due modelli. Infatti, si è affermato che il sistema desumibile dall’art. 95 Cost. si riferisce alla Pubblica Amministrazione in senso tradizionale, la quale presuppone che la struttura amministrativa costituisca lo strumento utilizzato dal Governo per l’attuazione dell’indirizzo politico: in tal caso il Governo deve essere messo nelle condizioni di imporre alla struttura burocratica il proprio indirizzo politico, onde evitare che i propri programmi siano neutralizzati da un eventuale ostruzionismo dei funzionari nominati per concorso 183. Al contrario, il secondo modello funge da fondamento costituzionale per le Autorità Amministrative 182 183 CHIEPPA- GIOVAGNOLI, op. cit., p. 102. CHIEPPA- GIOVAGNOLI, op. cit., p. 102. 64 Indipendenti (Banca d’Italia, Consob, Isvap etc..), le quali, pur essendo Pubbliche Amministrazioni184, non concorrono all’attuazione dell’indirizzo politico, proprio perché sono preposte alla cura di interessi sensibili che l’ordinamento ha inteso sottrarre alle ingerenze della politica ed affidare ad enti indipendenti composti esclusivamente da soggetti dotati di competenze tecniche. Non è questa la sede per approfondire la tematica concernente le Autorità Amministrative Indipendenti, ma per mere esigenze di completezza giova segnalare che i loro principali tratti distintivi sono: 1) l’indipendenza dal Governo; 2) la neutralità rispetto agli interessi su cui la loro attività incide, non già quindi il perseguimento in modo imparziale dell’interesse pubblico; 3) l’esercizio di funzioni cosiddette giusdicenti (regolare un settore e decidere in modo neutrale); 4) il deficit di legittimazione democratica, compensato attraverso deroghe alla disciplina comune in materia di partecipazione e motivazione nell’ambito dell’esercizio dei poteri regolamentari; 5) l’alto tasso di discrezionalità tecnica nel’ambito delle funzioni espletate185. Peraltro, anche nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni tradizionali di cui all’art. 95 Cost. si è affermata negli ultimi anni la tendenza ad accentuare la separazione tra politica e amministrazione, nel senso che la gestione amministrativa viene attribuita ai dirigenti, mentre ai politici sono assegnati compiti di indirizzo e controllo, oltre al regime delle nomine e delle revoche degli incarichi professionali, che assicurano agli organi politici rilevanti capacità di influenza sulle strutture burocratiche186. In quest’ottica la presunta antinomia tra art. 95 e art. 97 Cost. può essere ricomposta alla luce della distinzione tra responsabilità politica e responsabilità amministrativa: la prima concerne la fissazione degli obiettivi da raggiungere e riguarda gli organi politici, la seconda ha ad oggetto l’adozione del 184 In questo senso Cass., sez. I civ., 20 maggio 2002, n. 7341, in Foro It., 2002, I, p. 2680, con nota di GRANIERI, Il garante dei dati personali ed il baricentro (sbilanciato) della tutela forte dei diritti della personalità. 185 GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, p. 263 e ss. 186 CHIEPPA- GIOVAGNOLI, op. cit., p. 103; CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, tomo I, Milano, 2005, p. 1068. 65 singolo atto o la gestione di un singolo affare specifico e si appunta in capo agli organi amministrativi187. Ne consegue che il conflitto tra i due modelli di amministrazione, evincibili dalla Carta costituzionale, deve trovare soluzione non già nell’ottica di una rigida ripartizione di competenze, ovvero nel senso che il primo si riferisca solo alle P.P.A.A. in senso tradizionale ed il secondo solo alle Autorità Indipendenti, ma in una visione di sintesi tale per cui, anche nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni in senso tradizionale, il secondo modello si combina con il primo al fine di conciliare le opposte esigenze della legittimazione democratica dell’agire pubblico e dell’imparzialità dell’attività amministrativa. II.2 Il principio di separazione tra politica e amministrazione Come si è visto nel paragrafo precedente, l’incontro tra i due modelli di amministrazione presenti nella Carta costituzionale ha prodotto, nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni in senso tradizionale, il progressivo affermarsi del principio di separazione tra politica ed amministrazione. Più nel dettaglio, le recenti riforme hanno accentuato la distinzione tra funzioni di indirizzo e controllo, spettanti agli organi elettivi, e la gestione amministrativa, attribuita ai dirigenti pubblici. Occorre però segnalare che l’introduzione in via legislativa di tale principio è solo recente posto che, fino ad un recente passato, le Pubbliche Amministrazioni in senso tradizionale erano organizzate in modo piramidale, con al vertice l’organo politico che era l’unico in grado di porre in essere provvedimenti capaci di impegnare l’amministrazione verso l’esterno. In questo contesto la responsabilità degli organi di governo non era solo politica, ma anche amministrativa, poiché essi erano al vertice della struttura burocratica con forti poteri di ingerenza. Infatti, la relazione tra organi 187 CARINGELLA, op. cit., p. 1068; CASSESE, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Il Lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2003, II, 231 ss; 66 elettivi e dirigenti era pacificamente configurata in termini di gerarchia, con la conseguenza che il vertice politico aveva il potere di intromettersi nella gestione amministrativa attraverso la potestà d’ordine, ossia la possibilità dell’ufficio sovraordinato di prescrivere, con atti generali o puntuali, le modalità di comportamento cui deve attenersi l’ufficio subordinato188. Dalla qualificazione in chiave gerarchica della relazione de qua conseguiva l’attribuzione agli organi politici degli ulteriori poteri che, secondo la dottrina prevalente189, caratterizzano tale modello interorganico, ovverosia il potere di impartire direttive, quello di risoluzione dei conflitti tra organi subordinati, di decisione dei ricorsi gerarchici, di avocazione, di sostituzione e di delegazione. A ciò si aggiunga che pacificamente si ritiene che presupposto della relazione gerarchica è la comunanza di competenze tra l’organo superiore e quello inferiore, dato questo sussistente nel pregresso quadro dei rapporti tra politica e amministrazione. E’ evidente, quindi, che in tale contesto normativo il modello di amministrazione di cui all’art. 95 Cost. trovava integrale attuazione nelle P.A. in senso tradizionale, senza subire alcun temperamento ad opera del secondo modello di cui all’art. 97 Cost190, il quale era operativo solo con riferimento alle Autorità Amministrative Indipendenti. II.3 La riforma ad opera della legge n. 142 del 1990 Solo con la legge 8 giugno 1990 n. 142, concernente le autonomie locali, si è affermato il passaggio da un sistema in cui valeva la concentrazione totale delle competenze in capo agli organi politici, ad un sistema di separazione tra, da un lato, i poteri di indirizzo programmatico e di controllo sull’attuazione delle scelte di intervento amministrativo, propri degli organi politici, e, dall’altro lato, quelli di attuazione gestionale, in forza degli impegni di spesa e delle priorità individuate nel 188 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. cit., p. 112; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2006, p. 127; CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, p. 569. 189 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. loc. ult. cit.. 190 Sul punto si veda retro al paragrafo precedente. 67 piano esecutivo, propri ed esclusivi della dirigenza191. In questo senso emblematico è l’art. 51 c. 2 della legge 142 del 1990 il quale recitava: “i poteri di indirizzo e controllo spettano agli organi elettivi, mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti”. Inoltre, il comma terzo del medesimo articolo chiariva che ai dirigenti spettassero tutti i compiti, compresi quelli concernenti l’adozione di atti impegnativi per l’amministrazione verso l’esterno, non espressamente riservati agli organi di governo dell’ente. Logica conseguenza di tale riforma era la configurazione della relazione tra vertice politico e dirigenza non già in termini di gerarchia, ma nella forma più attenuata della direzione192. Più nel dettaglio la relazione di direzione è caratterizzata dal fatto che l’ufficio sovraordinato è dotato del potere di adottare direttive, con le quali, anziché imporre comportamenti (come nel caso d’ordine), indica gli scopi da perseguire, stabilisce eventuali priorità, lasciando però all’ufficio inferiore la scelta delle modalità per realizzare tali fini193. Nell’ambito di questa relazione organizzativa, peraltro, l’organo superiore non ha il potere di avocazione o sostituzione, se non nei casi stabiliti dalla legge194. Con riferimento, quindi, agli enti locali il modello di amministrazione di cui all’art. 95 Cost. iniziava a subire una forte contaminazione ad opera dell’opposto sistema ex art. 97 Cost., giusta l’affermazione del principio di separazione tra politica e amministrazione nell’ambito di P.A. in senso tradizionale. In questo contesto il controllo esercitato dagli organi politici non investe il singolo atto adottato dai dirigenti, ma l’azione complessiva dell’ufficio ed il livello di capacità mostrato nell’esercizio di determinate funzioni. 191 MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria. Il paradigma degli enti locali territoriali, Milano, 2005, p. 2; BARUSSO, Le competenze degli organi degli enti locali, Rimini, 2001, p. 33 e ss. 192 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. cit., p. 112; CASETTA, op. cit., p. 128; CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 571. 193 La direttiva, infatti, deve limitarsi a definire le linee generali dell’azione, poiché si tratta di una atto di portata ampia, tale da consentire una gamma abbastanza ampia di scelte gestionali attuative del disegno globale delineato dall’organo di governo. Spetta invece al dirigente scegliere quale tra le possibili alternative gestionali sia la più indicata nel caso di specie. In questo senso Corte dei Conti, Sez. giur. Regione Piemonte, n. 1192/EL/2000 del 13 aprile 2000, in www.diritto.it, con nota di OLIVERI, Il potere di direttiva dell’organo politico nei confronti dei dirigenti: contenuti dell’attività direttiva e confini con quella gestionale. 194 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. loc. ult. cit. 68 II.4 Il decreto legislativo n. 29 del 1993 In seguito, con il d.lgs. n. 29 del 1993 il legislatore consacrava il principio di separazione tra politica e amministrazione anche a livello di amministrazione statale, eliminando in tal modo discrasie tra assetto organizzativo centrale e locale. In particolare, l’art. 3 del dlgs. in esame stabiliva che nelle amministrazioni pubbliche agli organi di governo spettasse definire gli obiettivi e i programmi da attuare oltre che verificare la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite. Nella stessa ottica l’art. 14 del medesimo decreto delineava le attribuzioni proprie degli organi di governo: “Il Ministro… definisce gli obiettivi…, indica le priorità ed emana le conseguenti direttive generali…, assegna una quota parte del bilancio dell’amministrazione”. Come chiarito dalla dottrina195, si trattava di una norma di principio che, ancorché dettata per le amministrazioni centrali, era idonea ad esplicare effetti su ogni altro ente pubblico, compresi quelli locali. In questa stessa direzione particolare rilevanza assumeva inoltre il comma 3 dell’art. cit., che poneva il divieto per il Ministro di avocare a sé gli atti di competenza dirigenziale, “se non per particolari motivi di necessità ed urgenza specificamente indicati nel provvedimento di avocazione”. Ne conseguiva l’inammissibilità, di regola, di un intervento sostitutivo degli organi elettivi nell’attività di gestione amministrativa, salvi i casi eccezionali e debitamente giustificati di avocazione 196. L’estensione della disciplina in oggetto anche agli enti diversi dalle amministrazioni centrali era poi dettata dall’art. 13 del dlgs n. 29 del 1993, come modificato dal dlgs. n. 470 del 1993, il quale affermava che le disposizioni in esame si applicassero alle amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo e che gli enti locali dovessero recepirne i principi. Gli effetti della riforma operata dal dlgs. n. 29 del 1993 erano quindi nel senso della accentuazione della distinzione tra politica e amministrazione, attraverso le due direttrici della valorizzazione dell’autonomia gestionale dei burocrati e del correlativo incremento della responsabilità dirigenziale, 195 196 MARCONI, op. cit., p. 7. FORLENZA- TERRACCIANO-VOLPE, La Riforma del pubblico impiego, Milano, 1999, p. 19; MARCONI, op. loc. ult. cit. 69 essendo inevitabile che alle prerogative di autonomia nella gestione della struttura facesse da contraltare l’obbligo del perseguimento degli obiettivi prefissati e la conseguente instaurazione di meccanismi di controllo197. Peraltro giova ribadire che il controllo esercitato dagli organi politici si poneva (e si pone tuttora) non già in termini puntuali ed atomistici, ma in chiave globale e sintetica, ossia sotto forma di verifica dell’azione complessiva dell’ufficio cui il dirigente è preposto. Tuttavia, il progressivo consolidamento della autonomia tra politica e amministrazione incontrava due limiti capaci di minarne il fondamento e di renderne ambigua la configurazione: in particolare, da un lato, nei comuni medi e piccoli gli assessori finivano comunque con lo svolgere di fatto funzioni proprie dell’apparato burocratico; dall’altro lato, e forse in modo assai più rilevante, il meccanismo di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali, facente capo agli organi elettivi, non poteva (e non può tuttora) non rendere i funzionari “assai più prossimi alle logiche politiche della maggioranza e della giunta a cui sono legati da rapporti di natura fiduciaria e da un processo decisionale non facilmente segmentabile”198. Da ciò discendeva che la reciproca contaminazione tra i due modelli di amministrazione, il primo facente capo all’art. 95 Cost. ed il secondo al principio di imparzialità ex art. 97 Cost., si riducesse ad un’affermazione più di facciata che di sostanza, essendo il baricentro spostato nei fatti a favore del primo, posto il ruolo preminente ancora ricoperto dalla politica nell’ambito della gestione amministrativa, soprattutto in forza nel riconosciuto potere di nomina e revoca dei dirigenti. Per tali ragioni era (ed è ancora) possibile avanzare, non senza fondamento, il sospetto che il delineato sistema di apparente separazione tra politica e amministrazione fosse più che altro un espediente per sottrarre alla politica la responsabilità diretta per la gestione amministrativa, pur rimanendo ferma la capacità degli organi elettivi di ingerirsi nei fatti nell’attività esercitata formalmente dalle strutture burocratiche. Una chiave di lettura alternativa della riforma era (ed è ancora come si vedrà infra) quella di 197 MARCONI, op. cit., p. 8. CAMMELLI, Privatizzazione del pubblico impiego e riforma della pubblica amministrazione, in Organizzazione amministrativa e pubblico impiego, a cura di Vandelli-Bottari- Zanasi, Rimini, 1995, p. 263. 198 70 evidenziarne non già il passo in avanti verso una più accentuata valorizzazione del principio di imparzialità ex art. 97 Cost., ma quella di denunciarne l’ipocrisia insita nella solenne affermazione dell’autonomia del ceto burocratico rispetto alle logiche della politica e nella contemporanea soggezione dei dirigenti al potere di nomina e revoca ad opera degli organi elettivi. Non vi può essere vera autonomia, infatti, ove le carriere dei dirigenti siano in tal modo esposte ai condizionamenti della politica. Basti pensare che ove il legislatore ha avuto realmente a cuore la salvaguardia dell’autonomia di una classe di soggetti dai condizionamenti politici ha nettamente sottratto le relative vicende del rapporto di servizio alla sfera di influenza degli organi elettivi, creando enti di autogoverno (come ad esempio il Consiglio Superiore della Magistratura o il Consiglio Superiore della Banca d’Italia) ed escludendo la politica dalle pertinenti scelte. In questa ottica allora si potrebbe ritenere che la riforma in esame, lungi dal porsi come un passo in avanti verso la marginalizzazione dell’influenza della politica nell’ambito della gestione amministrativa, si rivelasse (e si riveli ancora) uno strumento per accrescere i privilegi degli organi elettivi ormai privi di responsabilità dirette, ma pur sempre in grado di esercitare forti pressioni sui burocrati, ridotti ormai a soggetti formalmente autonomi e, quindi, responsabili, ma nella sostanza esposti alle pressioni provenienti dai partiti. Come si vedrà in seguito, pertanto, il delineato sistema rischia di diventare terreno fertile per fatti di concussione da parte degli organi elettivi nei riguardi dei burocrati, resi ancor più pericolosi dalla inevitabile difficoltà di accertamento. II.5 La legge n. 81 del 1993 Proseguendo nell’excursus storico, giova segnalare che la legge n. 81 del 1993 ha introdotto l’elezione diretta a suffragio universale del capo degli enti locali (Sindaco e Presidente della Provincia) e ha attribuito allo stesso la responsabilità dell’amministrazione dell’ente di appartenenza, nonché la sua rappresentanza politica 71 e giuridico-legale. Tali innovazioni sono state poi recepite dall’art. 46 del dlgs n. 267 del 2000 (testo unico enti locali) e, di recente, sono state valorizzate da una parte della giurisprudenza amministrativa199 per sostenere la natura di atto politico (e quindi insindacabile in sede giurisdizionale) della revoca dell’assessore comunale ad opera del sindaco. Si è, infatti, affermato che la citata riforma ha segnato un rafforzamento del ruolo del capo dell’ente nella compagine comunale, con l’attribuzione al medesimo del potere di fissare l’unità di indirizzo della giunta secondo il programma politico sulla base del quale è stato eletto. Con la conseguenza che il rapporto tra sindaco ed assessori dovrebbe ormai essere configurato in termini fiduciari così come la struttura burocratica dell’ente locale dovrebbe ormai tenere conto del peso rappresentativo in termini di legittimazione democratica acquisito dal sindaco. Ai fini di ciò che interessa nel presente studio è quindi innegabile che la legge n. 81 del 1993 ha segnato nel sistema degli enti locali un deciso rafforzamento del ruolo e dei poteri del vertice politico, contribuendo a consolidare la struttura piramidale dell’amministrazione comunale e provinciale. Nella stessa direzione l’art. 13 della stessa legge attribuiva al capo dell’ente locale il potere di nominare i responsabili degli uffici e dei servizi, di conferire e definire gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo i criteri definiti dall’art. 51 legge n. 142 del 1990, dallo statuto e dai regolamenti comunali e provinciali. Per il resto, invece, la legge n. 81 del 1993 si muoveva verso l’attuazione del riparto di competenze tra politici e burocrati, tanto che una parte della dottrina ha correttamente evidenziato che in questo contesto la separazione tra politica ed amministrazione potesse essere vista come funzionale a garantire ai politici di progettare strategie e programmi anche sgraditi ai cittadini, senza doverne sopportare il peso della responsabilità, la quale ormai andava quantomeno condivisa con i burocrati, ossia con persone non soggette al giudizio elettorale ed in grado di catalizzare su un’istituzione non politica le 199 Tar Liguria, 7 dicembre 2004 n. 1600, in La Rivista Nel Diritto, n. 5 del 2009 p. 744 e ss. CONTRA, però, Consiglio di Stato, sez. V, 23 gennaio 2007 n. 209, in La Rivista Nel Diritto, n. 5 del 2009 p. 746, secondo cui il provvedimento di revoca dell’assessore comunale avrebbe natura di atto amministrativo sindacabile in sede giurisdizionale, posto che le deroghe all’art. 113 Cost. dovrebbero essere eccezionali ed avere un fondamento costituzionale, mentre tale ultimo dato non sarebbe rinvenibile nella revoca del’assessore comunale, prevista solo a livello di legislazione primaria. 72 decisioni assunte200. Questo dato si espone ad una diversa lettura posto che esso, da un lato, appare apprezzabile nella parte in cui permette di attuare scelte amministrative non più miopi e condizionate dalla scadenza elettorale, ma, dall’altro lato, può far sorgere il sospetto della solo apparente attuazione del principio di separazione tra politica ed amministrazione, con il conseguente rischio che l’effetto delle citate riforme si riduca semplicemente a creare una sacca di irresponsabilità giuridica e politica degli organi elettivi, senza una corrispondente riduzione dei poteri dai medesimi in fatto esercitabili sulla gestione amministrativa. II.6 Il principio di separazione delle funzioni nell’ambito della finanza e della contabilità locale In seguito, il dlgs n. 77 del 1995 ha esteso il principio di separazione tra politica e amministrazione anche all’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, giacché l’art. 11 stabiliva: “sulla base del bilancio di previsione annuale deliberato dal consiglio, l’organo esecutivo definisce, prima dell’inizio dell’esercizio, il piano esecutivo di gestione, determinando gli obiettivi di gestione ed affidando gli stessi, unitamente alle dotazioni necessarie, ai responsabili dei servizi”. Alla luce di tale disciplina il piano esecutivo di gestione, deliberato dalla giunta, costituiva (e costituisce tuttora) il documento fondamentale di programmazione dell’ente locale; esso, tuttavia, non era (e non è) concepito come un prodotto di esclusiva competenza degli organi elettivi, posto che, ai sensi dell’art. 19 c. 1 del dlgs n. 77 del 1995: “se a seguito di idonea valutazione, il responsabile del servizio ritiene necessaria una modifica della dotazione assegnata, propone la modifica con modalità definite dal regolamento di contabilità”. Il comma secondo del medesimo articolo precisava, inoltre, che la mancata accettazione della proposta di modifica della dotazione dovesse essere motivata dall’organo esecutivo. Come evidenziato da attenta 200 RUSSO, Il management amministrativo. Ruolo unico, controllo e responsabilità, Milano, 2000, p. 63; MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 11. 73 dottrina201, la scelta del legislatore di fare riferimento ai responsabili dei servizi anziché ai dirigenti era funzionale a garantire il rispetto del principio di separazione tra politica e amministrazione anche negli enti sforniti di qualifiche dirigenziali. Al fine poi di rendere oggettivamente controllabile il grado di conseguimento dei risultati gestionali, evitando soggettivismi e valutazioni non ispirate al rispetto dell’interesse pubblico, l’art. 39 del d.lgs. n. 77 del 1995 introduceva il controllo di gestione, ossia lo strumento teso a verificare, con riferimento ai singoli servizi, i risultati dell’azione amministrativa programmata, mediante il ricorso ad indicatori di efficacia, di efficienza, di economicità, di produttività e di qualità. Tale controllo era demandato ad un nucleo di valutazione le cui rilevazioni sarebbero dovute servire per misurare l’andamento della gestione dei singoli servizi. Nella misura in cui tale sistema fosse servito realmente a rendere oggettivo il controllo esercitato dagli organi elettivi sull’azione dei burocrati, esso sarebbe servito a realizzare nella sostanza, e non solo nella forma, quel principio di separazione tra politica e amministrazione cui il legislatore pare ormai tendere, non senza ambiguità, a partire dalla legge n. 142 del 1990. II.7 La riforma Bassanini: legge n. 127 del 1997 Con la legge n. 127 del 1997, oltre ad una più puntuale definizione delle attribuzioni degli organi amministrativi, veniva precisato che: “gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell’assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di 201 MARCONI, op.cit., p. 12. 74 ciascun anno finanziario degli obiettivi loro assegnati nel piano nel piano esecutivo di gestione previsto dall’art. 11, d.lgs. 77/95 e successive modificazioni, o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dall’art. 20 d.lgs. 29/93 e dai contratti collettivi di lavoro. L’attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi”. Tale disciplina tentava quindi, di regolamentare l’esercizio dei poteri di nomina e revoca dei dirigenti e responsabili degli uffici e servizi, al fine di rendere più effettiva la separazione tra politica e amministrazione e meno arbitrario l’esercizio dei poteri spettanti agli organi elettivi. Tuttavia, la scelta di prescindere da meccanismi di stampo concorsuale, oltre a porsi in frizione con il generale principio desumibile dall’art. 97 c. 3 Cost., pare essere in controtendenza con la preoccupazione del legislatore di favorire l’autonomia degli organi burocratici rispetto alle ingerenze della politica. Il sistema dei concorsi, infatti, (ove correttamente gestito) non solo garantisce la scelta dei migliori, ma è anche uno strumento essenziale per garantire l’autonomia e l’imparzialità del funzionario pubblico, il quale può svolgere le sue funzioni senza debiti di riconoscenza verso alcuno, posto che la sua nomina è frutto esclusivo delle sue abilità, delle sue conoscenze tecniche e dei titoli acquisiti. Né può inficiare tale assunto la considerazione dell’innegabile margine di discrezionalità tecnica insita nelle valutazioni concorsuali, posto che esistono adeguati strumenti per garantire sia l’anonimato (ove possibile) degli elaborati dei candidati, sia il controllo in sede giurisdizionale dell’esercizio di detto potere di scelta202. A conferma della correttezza di tale ragionamento basti pensare che ove il legislatore ha avuto realmente a cuore la tutela dell’autonomia e della imparzialità di taluni organi, ne ha previsto l’accesso tramite concorsi, come nel caso dell’accesso all’impiego in magistratura o presso Autorità Amministrative Indipendenti. Nel senso della sindacabililtà dell’esercizio della discrezionalità tecnica: Consiglio di Stato, sez. IV, n. 601 del 1999, in Dir. proc. amm., 2000, p. 182. Conf. tra le molte: Cons. St., sez. VI, n. 515 del 2007; in dottrina: CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 961 e ss. 202 75 La medesima legge provvedeva poi ad introdurre la figura del direttore generale o city manager; l’art. 10 della legge in esame, infatti, recitava: “il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15000 abitanti e il presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o provinciale, possono nominare un direttore generale, al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, e secondo criteri stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi previsto dalla lett. a) del comma 2 dell’art. 40 dlgs n. 77 del 1995, nonché la proposta di piano esecutivo di gestione. A tali fini, al direttore generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell’ente, ad eccezione del segretario del comune e della provincia. Il direttore è revocato dal sindaco o dal presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o provinciale…”. La durata dell’incarico del city manager, inoltre, non può eccedere quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia: tale organo costituisce quindi una sorta di fiduciario dell’organo elettivo di vertice, incaricato di gestire i collegamenti tra livello politico e livello gestionale203. La possibile presenza del direttore generale nei comuni e nelle province rendeva peraltro necessaria una disciplina dei rapporti tra questi ed il segretario dell’ente locale. Il legislatore ha risolto tale problema evidenziando la diversità di funzioni tra i due soggetti: al segretario spetta garantire la legittimità, l’economicità e l’efficacia dell’azione amministrativa; il direttore, invece, è responsabile dell’attività gestionale in ordine al raggiungimento degli obiettivi dell’ente204. Ciò nondimeno, la nomina del city manager comporta un certo depotenziamento della figura del segretario, posto che in passato il segretario svolgeva anche compiti di gestione diretta, mentre a seguito della citata riforma la nomina del direttore relega il segretario al ruolo di mero consulente giuridico-amministrativo, di ufficiale rogante e verbalizzante. 203 204 CASETTA, Manuale di diritto CASETTA, op. cit., p. 273. amministrativo, cit. p. 272. 76 In questo quadro normativo autorevole dottrina205 non ha mancato di segnalare che il meccanismo di forte condizionamento derivante dal potere di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali attribuito al capo dell’amministrazione locale, nonché il possibile condizionamento esercitatile dallo stesso sulle progressioni di carriera dei burocrati possono costituire dei mezzi per vanificare il principio della distinzione tra politica e amministrazione e per instaurare una sorta di governo del sindaco o del presidente della provincia per interposta persona, ossia tramite dirigenti e direttori generali di fiducia. Con la conseguenza che nei fatti il sistema non sarebbe mutato rispetto al regime ante legge n. 142 del 1990, salvo che per l’introduzione dell’ulteriore privilegio dell’irresponsabilità nei riguardi di una classe politica ancora capace nei fatti di condizionare la gestione amministrativa. II.8 Il decreto legislativo n. 80 del 1998 In seguito è intervenuto il dlgs. n. 80 del 1998, il quale ha provveduto ad una complessiva ed estesa riformulazione del dlgs. n. 29 del 1993. In particolare, il dlgs n. 80 del 1998 provvedeva ad una chiara definizione delle attribuzioni proprie rispettivamente degli organi elettivi e dei dirigenti, nel quadro del principio di separazione tra politica e amministrazione. L’art. 3 del decreto in esame disponeva infatti: “(Indirizzo politico-amministrativo. Funzioni e responsabilita'). - 1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attivita' amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare: a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo; 205 BARUSSO, Le competenze degli enti locali, Rimini, 2001, p. 70; MARCONI, op. cit., p. 20. 77 b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione; c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalita' e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale; d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi; e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni; f) le richieste di pareri alle autorita' amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato; g) gli altri atti indicati dal presente decreto. 2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonche' la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”. Lo stesso decreto chiariva poi che tali disposizioni trovavano applicazione non solo alle amministrazioni statali, ma anche agli altri enti nazionali ad ordinamento autonomo, alle regioni a statuto ordinario e agli enti locali. I dati più significativi di tale disciplina erano non solo il rafforzamento delle competenze dirigenziali con la previsione di una formula de residuo, nel senso cioè che spettava ai burocrati tutto ciò che non era espressamente attribuito agli organi politici, ma anche la clausola di rafforzamento del principio di separazione delle funzioni, volta a precludere a fonti sublegislative di alterare la distinzione e l’equilibrio tra attività di indirizzo e attività di gestione206. Il dlgs n. 80 del 1998, peraltro, ribadiva che la definizione da parte degli organi politici degli obiettivi e dei programmi dovesse avvenire tramite lo strumento tecnico della direttiva e non già per 206 CLARICH-IARIA, La riforma del pubblico impiego, Rimini, 2000, p. 107; MARCONI, op. cit., p. 24. 78 mezzo di ordini gerarchici, che come tali hanno il carattere della puntualità. Inoltre, poiché l’art. 3 c. 1 lett. b) del dlgs stabiliva che la direttiva dovesse essere “generale”, l’organo politico si doveva limitare a fissare obiettivi e programmi in un’ottica di gestione globale dell’attività amministrativa o di erogazione di un servizio pubblico, e non a esercitare un’attività riferita a un singolo atto207. Il dlgs n. 80 del 1998 ha apportato, infine, una rilevante modifica al sistema delineato dal dlgs n. 29 del 1993: quest’ultimo, infatti, aveva conservato in capo al Ministro il potere di avocazione degli atti dirigenziali, e non si era pronunciato sulla permanenza dei poteri ministeriali di annullamento, di revoca, di riforma e di decisione dei ricorsi gerarchici. Il dlgs n. 80 del 1998, al contrario, ha escluso che il Ministro potesse revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare gli atti dei dirigenti, avendo solo la possibilità di fissare, in caso di inerzia o di ritardo, un termine perentorio entro il quale il dirigente dovesse adottare gli atti o i provvedimenti. Decorso tale termine, qualora l’inerzia fosse rimasta, o in caso di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, il Ministro non poteva avocare l’atto ma solo nominare un commissario ad acta, dandone comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri208. Tale disciplina è sopravvissuta alla ulteriore riforma operata dal dlgs n. 165 del 2001 ed è tuttora in vigore. Essa segna un deciso passo in avanti nel quadro della separazione delle competenze tra organi politici e burocrati, eliminando il potere di avocazione ministeriale che, ancorché ridotto ad ipotesi eccezionali, era comunque un residuo di quella confusione di ruoli tra le due tipologie di attori istituzionali tipica del sistema anteriore alla stagione riformista iniziata con la promulgazione della legge n. 142 del 1990. 207 CLARICH, La nuova disciplina del lavoro nelle amministrazioni pubbliche, in Organizzazione amministrativa e pubblico impiego, Rimini, 1995, p. 19. 208 CARINGELLA, Manuale di diritto ammnistrativo, cit., p. 571; CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 1085 e ss. 79 II.9 Il testo unico degli enti locali: d.lgs. n. 267 del 2000 In seguito il legislatore ha provveduto a riordinare l’intera disciplina in materia di enti locali con il d.lgs. n. 267 del 2000 (meglio noto come testo unico enti locali 209), emanato dopo circa un decennio dall’entrata in vigore della legge n. 142 del 1990 e tuttora vigente. Il decreto in esame non ha apportato variazioni di grande rilievo rispetto alla normativa anteriore, limitandosi per lo più ad un’opera di sistemazione e di razionalizzazione. In primo luogo, il d.lgs. n. 267 del 2000 ha chiarito che gli statuti comunali o provinciali possono svolgere solo una funzione specificativa delle attribuzioni degli organi dell’ente territoriale, le quali sono fissate dal legislatore attraverso due modalità: o l’elencazione analitica delle competenze di cui è fornito un organo, come nel caso dell’art. 42 del testo unico; o la fissazione di principi inderogabili, quale appunto quello di separazione delle competenze tra organi di governo e organi gestionali. In tale ultimo caso la disciplina primaria lascia allo statuto e all’interprete il compito di specificare le funzioni in concreto conferite ai vari soggetti istituzionali210. Tanto premesso, giova ora analizzare le competenze assegnate dal testo unico ai vari organi degli enti locali, posto che tale operazione costituisce la logica premessa per la successiva analisi dei problemi prettamente penalistici. Più nel dettaglio, secondo l’art. 42 del tuel: “1. Il consiglio è l'organo d’indirizzo e di controllo politicoamministrativo. 2. Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: a) statuti dell'ente e delle aziende speciali, regolamenti salva l'ipotesi di cui all'articolo 48, comma 3, criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi; b) programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi Di seguito “tuel”. OLIVIERI, Statuti e principio di distinzione tra attività di gestione e attività di indirizzo politico e di controllo, in Giust. It., n. 7/8, 2001 209 210 80 triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie; c) convenzioni tra i comuni e quelle tra i comuni e provincia, costituzione e modificazione di forme associative; d) istituzione, compiti e norme sul funzionamento degli organismi di decentramento e di partecipazione; e) assunzione diretta dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione; f) istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi; g) indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza; h) contrazione dei mutui non previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio comunale ed emissione dei prestiti obbligazionari; i) spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo; l) acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari; m) definizione degli indirizzi per la nomina e la designazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni, nonché nomina dei rappresentanti del 81 consiglio presso enti, aziende ed istituzioni ad esso espressamente riservata dalla legge. 3. Il consiglio, nei modi disciplinati dallo statuto, partecipa altresì alla definizione, all'adeguamento e alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco o del presidente della provincia e dei singoli assessori. 4. Le deliberazioni in ordine agli argomenti di cui al presente articolo non possono essere adottate in via d'urgenza da altri organi del comune o della provincia, salvo quelle attinenti alle variazioni di bilancio adottate dalla giunta da sottoporre a ratifica del consiglio nei sessanta giorni successivi, a pena di decadenza”. Come emerge dall’esame di tale disposizione, le competenze attribuite ai Consigli non sono solo di indirizzo politico, ma anche gestionali: si pensi alle lettere e) (in materia di servizi pubblici), h) (in tema di mutui e prestiti obbligazionari), l) (concernente acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari) dell’art. 42 c. 2 t.u.e.l. Con la conseguenza che in tali casi il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico e competenze gestionali incontra delle significative eccezioni. Occorre inoltre segnalare che tale confusione di ruoli tra i principali attori istituzionali è presente solo nell’ordinamento degli enti locali, non anche nelle amministrazioni centrali, dove il principio di distinzione tra politica e amministrazione si presenta in modo più netto e rigido. La differenza tra i due modi di atteggiarsi del principio in esame tra le amministrazioni centrali e quelle locali è forse dato dalle caratteristiche dimensionali e tipologiche delle seconde, nelle quali la vicinanza dell’ente alla popolazione e la frequente esiguità della struttura burocratica giustificano talune contaminazioni alla rigida separazione delle competenze. Con riferimento alla Giunta - ribadito che, a seguito della legge n. 81 del 1993, i suoi componenti sono nominati in modo fiduciario dal sindaco o dal presidente della provincia - l’art. 48 del testo unico chiarisce che: ”1. La giunta collabora con il 82 sindaco o con il presidente della provincia nel governo del comune o della provincia ed opera attraverso deliberazioni collegiali. 2. La giunta compie tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia o degli organi di decentramento; collabora con il sindaco e con il presidente della provincia nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio; riferisce annualmente al consiglio sulla propria attività e svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso. 3. E', altresì, di competenza della giunta l'adozione dei regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio”. Quanto alle competenze del sindaco e del presidente della provincia - premesso che esse hanno subito un sostanziale incremento a seguito dell’introduzione, ad opera della legge n. 81 del 1993, della loro elezione diretta - il relativo elenco è fornito dall’art. 50 del testo unico: “1. Il sindaco e il presidente della provincia sono gli organi responsabili dell'amministrazione del comune e della provincia. 2. Il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l'ente, convocano e presiedono la giunta, nonché il consiglio quando non e' previsto il presidente del consiglio, e sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti. 3. Salvo quanto previsto dall'articolo 107 essi esercitano le funzioni loro attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e sovrintendono altresì all'espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia. 4. Il sindaco esercita altresì le altre funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge. 5. In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Negli altri casi l'adozione dei provvedimenti d'urgenza ivi compresa la costituzione di centri e organismi di 83 referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali. 6. In caso di emergenza che interessi il territorio di più comuni, ogni sindaco adotta le misure necessarie fino a quando non intervengano i soggetti competenti ai sensi del precedente comma. 7. Il sindaco, altresì, coordina e riorganizza, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e nell'ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti. 8. Sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio il sindaco e il presidente della provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende ed istituzioni. 9. Tutte le nomine e le designazioni debbono essere effettuate entro quarantacinque giorni dall'insediamento ovvero entro i termini di scadenza del precedente incarico. In mancanza, il comitato regionale di controllo adotta i provvedimenti sostitutivi ai sensi dell'articolo 136. 10. Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali. 11. Il sindaco e il presidente della provincia prestano davanti al consiglio, nella seduta di insediamento, il giuramento di osservare lealmente la Costituzione italiana. 12. Distintivo del sindaco e' la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla. Distintivo del presidente della provincia e' una fascia di colore azzurro con lo stemma della Repubblica e lo stemma della propria provincia, da portare a tracolla”. 84 Tra i dati significativi che emergono da tale disposizione giova segnalare in primo luogo l’affermazione iniziale secondo cui i vertici politici degli enti locali sono i responsabili dell’amministrazione del comune e della provincia. Orbene, come si chiarirà in seguito, tale disposizione va interpretata non già nel senso della generale competenza del capo dell’ente locale in ogni ambito dell’amministrazione dello stesso, ma nel quadro dell’ormai imperante principio di separazione delle funzioni tra organi di indirizzo politico e burocrati, espresso chiaramente nel successivo art. 107 del medesimo decreto. Ne consegue che la responsabilità del vertice istituzionale non riguarda i singoli atti e provvedimenti posti in essere nell’ambito dell’amministrazione dell’ente locale, ma il controllo sulla gestione complessiva alla luce delle competenze attribuite all’organo di indirizzo politico, nell’ottica dei principi di distinzione delle funzioni e di autonomia del ceto dirigenziale. Occorre quindi privilegiare un’interpretazione non già letterale ma sistematica della citata disposizione. Allo stesso modo, il comma 2 dell’art. 50 del testo unico, laddove fa riferimento al fatto che i vertici dell’ente sovrintendono al funzionamento degli uffici e dei servizi e all’esecuzione degli atti, non intende assegnare agli stessi puntuali poteri di ingerenza nella gestione amministrativa, ma solo ribadire i generali poteri di indirizzo e programmazione propri dell’organo politico, nell’ambito di una relazione interorganica con le strutture burocratiche, che si è visto essere non già di tipo gerarchico ma sotto forma di direzione. Degno di particolare attenzione è, inoltre, il comma 5 del medesimo articolo, il quale fa riferimento al potere di ordinanza del sindaco come rappresentante della comunità locale in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale. Non pare sussistano dubbi che in tal caso il principio di separazione delle funzioni incontri una notevole deroga, atteso il carattere evidentemente amministrativo della competenza assegnata all’organo elettivo di vertice dell’ente locale. Nello stesso senso si ritiene che debba essere letto il disposto del comma 7 dell’articolo in esame. 85 Al vertice politico dell’ente locale sono inoltre attribuiti i poteri di nomina e revoca dei responsabili degli uffici e dei servizi, che la dottrina prevalente211 include nell’ambito delle funzioni di indirizzo e programmazione. Si è già notato, tuttavia, che l’attribuzione di siffatte prerogative introduce un elemento di significativa ambiguità nel modello di separazione tra politica e amministrazione, posto che, malgrado le nomine e le revoche debbano ispirarsi a criteri oggettivi ed avere come obiettivo l’ottimizzazione dei risultati dell’agire pubblico, è innegabile che l’autonomia dei dirigenti rischia di essere fortemente compromessa dai condizionamenti della politica, attesa la soggezione delle loro carriere ai poteri degli organi elettivi. Il sistema di separazione delle funzioni creato dal legislatore rischia di rilevarsi, quindi, una mera facciata priva di sostanza, con la conseguenza di accrescere i privilegi della politica, non più direttamente responsabile per l’adozione dei singoli atti, ma nei fatti ancora capace di esercitare la medesima influenza sulla gestione amministrativa, accresciuta peraltro dall’impunità conseguente alla formale autonomia delle competenze. Non è da escludere, quindi, che il modello vigente si risolva alla fine in una sorta di governo per interposta persona, ossia nella possibilità per gli organi politici di effettuare scelte puntuali anche illegittime o sgradite agli elettori, avvalendosi di dirigenti compiacenti e direttamente responsabili. Occorre, infine, evidenziare che, secondo l’art. 54 del testo unico, al Sindaco sono attribuiti importanti funzioni come ufficiale di Governo. Tra di esse merita menzione il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana212. Anche 211 CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 1080; CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, cit., p. 103; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, cit. p. 34 e ss.; GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, p. 348 e ss. 212 Con sentenza n. 115 del 7 aprile 2011, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54 c. 4 del d.lgs. n. 267 del 2000, come sostituito dall’art. 6 del decreto legge 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprendeva la locuzione “anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”. Secondo la Consulta, infatti, la novella del 2008 aveva attribuito ai Sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme legislative o regolamentari vigenti, si presentavano come esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico, genericamente identificato dal legislatore nell’esigenza di “prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Tale disciplina si poneva, quindi, in contrasto con il principio di legalità, desumibile dagli artt. 23 e 97 Cost., il quale impone che la disciplina primaria perimetri i confini del potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, non esclusivamente sotto il profilo finalistico, ma individuando anche le basi contenutistiche del provvedimento da adottare. Attraverso la citata pronuncia, 86 tali competenze sembrerebbero configurare una deroga al principio di separazione tra funzioni politiche e gestionali, posto che si sostanziano in poteri di stampo evidentemente amministrativo. Tuttavia, non si può trascurare che esse, più che una eccezione alla regola della distinzione tra politica e amministrazione, costituiscono una conferma della stessa, giacché sono conferite al sindaco non in relazione alla sua qualità di organo politico, bensì nella sua diversa veste di ufficiale di Governo, ossia come organo amministrativo dello Stato213. Le attribuzioni proprie del segretario e del direttore generale non hanno subito, ad opera del testo unico, modifiche sostanziali rispetto a quanto si è visto in precedenza; è quindi sufficiente richiamare ciò che si è detto relativamente alla legge n. 127 del 1997. In questa sede, tuttavia, si può aggiungere che la previsione secondo cui al direttore generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell’ente, ad eccezione del segretario comunale, costituisce un ulteriore fattore di ambiguità nel delineato sistema di separazione tra politica e amministrazione. Infatti, come noto, il direttore generale costituisce un organo fiduciario del vertice politico dell’ente locale, sicché la posizione di preminenza da questi assunta nei riguardi dei dirigenti rischia nei fatti di rendere gli stessi soggetti alle puntuali e pregnanti ingerenze della politica, esercitabili per mezzo di direttori generali eventualmente compiacenti. La norma chiave in tema di separazione delle funzioni politiche da quelle amministrative è contenuta nell’art. 107 del testo unico enti locali: “1. Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti pertanto, la Corte Costituzionale ha ripristinato la formulazione della disposizione anteriore al d.l. n. 92 del 2008, in tal modo confinando i poteri del Sindaco, quale Ufficiale di Governo, alla sola adozione degli atti contingibili. Cfr. CUOCCI MARTORANO, Poteri del Sindaco ex art. 54 c. 4 d.lgs. n. 267 del 2000, in La Rivista Neldiritto, n. 6/11 del 2011, p. 890 e ss. 213 GAROFOLI, manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2008, p. 915. 87 mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. 2. Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108. 3. Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente: a) la presidenza b) la responsabilità c) la delle commissioni delle di procedure gara e di concorso; d'appalto e di concorso; stipulazione dei contratti; d) gli atti di gestione finanziaria, ivi compresa l'assunzione di impegni di spesa; e) gli atti di amministrazione e gestione del personale; f) i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie; g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggisticoambientale; h) le attestazioni, certificazioni comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza; 88 i) gli atti ad essi attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco. 4. Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. 5. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'articolo 50, comma 3, e dall'articolo 54. 6. I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione. 7. Alla valutazione dei dirigenti degli enti locali si applicano i principi contenuti nell'articolo 5, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, secondo le modalità previste dall'articolo 147 del presente testo unico”. Come emerge chiaramente dalla lettura della citata disposizione, ai dirigenti sono attribuite in via esclusiva le funzioni di gestione amministrativa, salvo le ipotesi eccezionali di confusione dei ruoli tra politica e amministrazione già evidenziate nel presente studio214. Il legislatore, peraltro, si è preoccupato di tutelare il principio de quo da possibili interventi degli statuti degli enti locali, chiarendo che le attribuzioni dei dirigenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. Si è in tal modo voluto evitare che la politica potesse riprendersi per mezzo degli statuti gli spazi che la disciplina primaria ha ormai stabilmente conferito in via esclusiva ai dirigenti. Giova, inoltre, segnalare che, secondo autorevole dottrina215, anche molte delle materie rientranti nella sfera di Si pensi ai poteri di ordinanza conferiti al sindaco ex art. 50 c. 5 o alle attribuzioni del Consiglio ai sensi dell’art. 42 c. 2 lett. e), h), l). 215 NOBILE, Le competenze dei dirigenti degli enti locali territoriali ed il sindaco ufficiale di Governo nel d.lgs. 18/8/2000 n. 267. Un tentativo di riconduzione ad unità del sistema, in Giust. It., n. 4 del 2001; MARCONI, op. cit., p. 43. 214 89 prerogative del sindaco quale ufficiale di Governo non siano sottratte alla competenza dei dirigenti, ai quali fa capo l’adozione degli atti e dei provvedimenti necessari per garantire il soddisfo e la gestione delle funzioni di matrice statale demandate all’ente locale. Il testo unico, inoltre, conferma la diretta ed esclusiva responsabilità dei dirigenti per l’attività di gestione amministrativa, il che, come si vedrà, ha importanti riflessi nella soluzione dei problemi penalistici, e demanda la relativa valutazione agli organismi di controllo interno istituiti ai sensi dell’art. 147 del medesimo disposto normativo. Per quanto concerne, invece, il conferimento degli incarichi dirigenziali, l’art. 109 del testo unico stabilisce che si tratta di incarichi a tempo determinato e che il relativo provvedimento deve essere motivato e conforme alle modalità fissate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi. Dalla disciplina in esame si evince che le nomine dovrebbero fondarsi su criteri di competenza professionale e sugli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia. Nei comuni privi di personale con qualifica dirigenziale è possibile l’attribuzione delle relative competenze ai responsabili degli uffici e dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale. Quanto al potere di revoca, il testo unico tenta di disciplinarne l’esercizio, circoscrivendolo ai casi di inosservanza delle direttive degli organi politici o di mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall’art. 169 o di responsabilità particolarmente grave e reiterata o, infine, negli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro. Ciò distingue nettamente il potere di revoca dei dirigenti e dei responsabili degli uffici e dei servizi da quello concernente il direttore generale, per il quale l’art. 108 c. si limita a sancirne la possibilità senza limitarne le modalità di esercizio. La differenza tra le due ipotesi è forse dovuta al fatto che il legislatore ha inteso configurare il direttore generale come organo fiduciario del vertice istituzionale, mentre i dirigenti e i responsabili dei servizi come organi tecnici. Il direttore generale è, infatti, una figura a metà strada tra la funzione di indirizzo e quella di gestione. La giurisprudenza amministrativa si è 90 interrogata sulla natura di tale organo ed è giunta ad escludere che esso sia da annoverare tra quelli politici, in primo luogo perché non è indicato espressamente dal testo unico come tale; in secondo luogo, poiché lo stesso tenore letterale delle disposizioni ad esso relative si muove nel senso della configurazione come organo burocratico, posto che sua competenza fondamentale è “attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco”216. Nello stesso senso le Sezioni Unite217 hanno chiarito che “il direttore generale, pur essendo investito di compiti e funzioni che valgano a conferirgli una posizione differenziata rispetto a quella degli altri dirigenti, è esso stesso un dirigente”. I tratti peculiari della figura in esame che lo rendono divergente rispetto agli altri burocrati si sintetizzano nella relazione fiduciaria con il vertice politico dell’ente. Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha precisato che: “cessato dal suo ufficio il sindaco che ha attribuito l’incarico, la cessazione delle funzioni di direttore generale opera ipso iure, secondo la testuale previsione dell’art. 108 del d.lgs. n. 267 del 2000, che dispone che l’incarico di direttore generale non può eccedere quello del mandato del sindaco, per cui la comunicazione della decadenza dalla carica di direttore generale ha finalità meramente conoscitiva e dichiarativa”218. La disciplina concernente il direttore generale diverge anche rispetto a quella relativa al segretario che, secondo l’art. 100 del testo unico, può essere revocato solo con provvedimento motivato e per violazione dei doveri d’ufficio: non è quindi sufficiente la mera rottura del rapporto fiduciario. Da quanto esposto si trae la conseguenza che, mentre nel caso del direttore generale la rimozione dall’incarico può essere giustificata anche semplicemente dal venire meno della fiducia da parte degli organi elettivi, nel caso dei dirigenti la revoca deve essere motivata da inosservanze degli indirizzi politici espressi o da incapacità gestionali gravi, ossia da ragioni tecniche e non fiduciarie. 216 Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2002, n. 5216 Ordinanza n. 13538 del 12 giugno 2006 218 Tar Puglia, Bari, sez. I, 30 aprile 2002, n. 2681. 217 91 La ratio della disciplina sembra essere, quindi, quella di trovare un difficile equilibrio tra l’esigenza che la politica possa reagire ad eventuali ostruzionismi della classe burocratica e la necessità di garantire l’autonomia degli organi di gestione, la quale risulta strumentale ad assicurare il rispetto del principio di imparzialità della Pubblica Amministrazione. La soluzione offerta dal legislatore, tuttavia, si espone a rilievi critici nella parte in cui pare aver spostato il baricentro del problema eccessivamente in favore della classe politica, con il rischio di minare seriamente l’imparzialità e l’indipendenza dei dirigenti. Per quanto, infatti, la revoca dei dirigenti sia soggetta a vincoli maggiori rispetto a quella del direttore generale, i margini di discrezionalità in essa insiti appaiono comunque estremamente ampi e tali da porre di fatto i burocrati in una posizione di soggezione rispetto agli organi rappresentativi, con la conseguenza di minare in radice l’effettività del principio di separazione tra politica e amministrazione. In relazione alla programmazione, il dlgs. n. 267 del 2000 ribadisce che, sulla base del bilancio di previsione annuale deliberato dal Consiglio, la Giunta definisce il piano esecutivo di gestione, attraverso la determinazione degli obiettivi di gestione e l’affidamento degli stessi, insieme alle dotazioni necessarie, ai responsabili dei servizi (art. 169 tuel); a questi sono quindi affidati dei mezzi finanziari dei quali assumono la responsabilità gestionale, secondo il disposto dell’art. 165 del testo unico. E’ inoltre previsto un fondo di riserva che gli enti locali iscrivono nel proprio bilancio di previsione in misura non inferiore allo 0,3% e non superiore al 2% del totale delle spese correnti inizialmente previste in bilancio, che può essere utilizzato, nei casi in cui si verifichino esigenze straordinarie di bilancio, o qualora le dotazioni finanziarie si rivelino insufficienti, sulla base della deliberazione della Giunta, da comunicare al Consiglio nei tempi fissati dal regolamento di contabilità (art. 166 tuel)219. Il bilancio annuale di previsione viene predisposto dalla Giunta e deliberato dal Consiglio; esso può subire variazioni nel corso dell’esercizio solo a seguito di apposita approvazione, oppure di ratifica ad opera del consiglio, ove le modifiche 219 MARCONI, op. cit., p. 46. 92 siano state adottate in via d’urgenza dalla Giunta nell’esplicazione del potere previsto dall’art. 42 c. 4 del testo unico. Al riguardo il principio di distinzione delle competenze subisce una significativa deroga di tipo opposto rispetto a quelle finora esaminate, caratterizzate da attribuzioni gestionali ad organi politici, giacché i responsabili dei servizi hanno un potere di incidenza correttiva sulle voci di bilancio riguardanti lo specifico settore loro assegnato. Infatti, ai sensi dell’art. 177 del tuel, laddove ritengano necessaria una modifica della dotazione assegnata per esigenze sopravvenute rispetto all’adozione degli atti di programmazione, possono effettuare una proposta di modifica della stessa da sottoporre alla Giunta. Ne consegue che il ceto burocratico non è totalmente estraneo ai processi di programmazione, ma ha un duplice potere di incidenza, da un lato, mediante l’indicazione, in sede di predisposizione del bilancio, dei fabbisogni di spesa dell’ente, dall’altro lato, attraverso la proposta di modifica della dotazione già assegnata. Occorre, infine, evidenziare che il testo unico ribadisce la necessità del controllo di gestione, ossia la procedura diretta a verificare lo stato di attuazione dei programmi fissati dagli organi politici oltre alla efficacia ed efficienza dall’azione amministrativa. Tale procedimento è finalizzato a permettere ai responsabili dei servizi gli opportuni interventi correttivi sulla gestione in corso, o utilizzando le risorse disponibili o effettuando una proposta di modifica ex art. 177 tuel. Come evidenziato dalla dottrina prevalente220, quindi, tale tipologia di controllo è di supporto alla funzione dirigenziale, nel senso che è mirato a consentire ai dirigenti di ottimizzare i rapporti costi/risultati. Diversamente, il controllo strategico supporta l’attività degli organi di indirizzo politico, verificando il raggiungimento degli obiettivi programmati. Al vertice istituzionale, pertanto, compete una sorta di verifica a consuntivo dell’operato degli amministratori, senza possibilità di esercitare poteri di ingerenza sulla gestione in corso. 220 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, cit., p. 547; CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit. p. 1239; CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 143; GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 1079. 93 II.10 La disciplina derogatoria per i comuni minori Dopo le molte riforme tese ad introdurre e consolidare il principio di separazione tra politica e amministrazione, il legislatore, con l’art. 53 c. 23 della legge n. 388 del 2000, ha introdotto una disciplina speciale per i comuni con popolazione inferiore ai tremila abitanti. Più nel dettaglio, nell’ambito di siffatti enti locali, qualora non sia possibile affidare al segretario le funzioni dirigenziali e sia dimostrata la mancanza non emendabile di figure professionali idonee a svolgere il predetto incarico tra i dipendenti, possono essere adottate, anche al fine di operare un contenimento della spesa pubblica, disposizioni regolamentari organizzative attribuendo ai componenti della Giunta la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. In seguito, l’art. 29 c. 4 della legge n. 448 del 2001 (legge finanziaria per l’anno 2002) ha esteso la portata della deroga compiuta con la legge n. 388 del 2000, da un lato estendendo ai comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti la possibilità di confusione delle competenze tra i due attori istituzionali, dall’altro lato svincolando la scelta organizzativa in esame sia dalla previa verifica di insussistenza tra i dipendenti di figure professionali idonee ad assumere la responsabilità degli uffici e dei servizi, sia dalla dimostrazione dell’irrimediabilità di tale carenza soggettiva nell’ambito dell’ente locale. Ne consegue che la sola motivazione sufficiente a giustificare la deroga al principio di distinzione delle competenze tra organi elettivi e burocrati è quella di assicurare il contenimento della spesa pubblica221. Come ha notato una parte della dottrina222, la legge finanziaria per il 2002 ha trasformato la deroga al principio di separazione dei poteri da istituto eccezionale, applicabile solo in caso di carenze nell’organico, in un sistema regolare di organizzazione degli enti di piccole dimensioni. Da quanto esposto si evince che nei comuni con popolazione fino 221 MARCONI, op. cit., p. 49. OLIVIERI, Si approfondiscono le differenze del regime delle competenze tra enti locali di grandi e piccole dimensioni, in Giust. It., n. 12 del 2001. 222 94 a 5000 abitanti sono configurabili due modelli alternativi, la cui scelta dipende sostanzialmente da ragioni finanziarie: o il sistema generale di separazione tra politica e amministrazione disciplinato dal teso unico degli enti locali, o il modello derogatorio di commistione delle competenze di cui all’art. 29 c. 4 della legge n. 448 del 2001. Come si vedrà in seguito, tale disciplina derogatoria ha importanti riflessi sul versante penalistico, in specie con riferimento all’individuazione delle posizioni di garanzia, mentre sul crinale più propriamente amministrativistico è una ulteriore conferma che il principio di separazione tra politica ed amministrazione, che si configura in modo assai netto nelle amministrazioni centrali, tende a sfumare negli enti locali, in specie in quelli di minori dimensioni, quasi che il legislatore avesse avvertito che quanto più il soggetto pubblico è vicino alla popolazione e quanto più presenta strutture burocratiche semplici, tanto meno è realizzabile la distinzione delle funzioni tra i due principali attori istituzionali. II.11 Il d.lgs. n. 165 del 2001 e le modifiche ad opera della legge n. 145 del 2002 Il d.lgs. 165 del 2001 ha provveduto a riordinare la disciplina sul pubblico impiego contenuta nei d.lgs n. 29 del 1993, 470 del 1993, 80 del 1998 e 387 del 1998, realizzando una sorta di statuto generale sul rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, applicabile sia allo Stato, sia alle Regioni, sia agli Enti Locali. Il citato decreto conferma e consolida il principio di separazione tra politica e gestione, ribadendo che agli organi di governo compete la definizione dell’indirizzo politico-amministrativo e la determinazione dei programmi da attuare, mentre ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi quindi quelli capaci di impegnare l’amministrazione verso l’esterno, oltre che la gestione amministrativa, di cui assumono in via esclusiva la responsabilità, con le 95 evidenti ricadute, delle quali si darà conto nel prosieguo, in tema di individuazione delle posizioni di garanzia223. Ai fini della definizione delle funzioni dei dirigenti occorre in via preliminare dare atto che il legislatore, a livello di amministrazioni centrali, ha distinto tra dirigenti di uffici dirigenziali generali e altri dirigenti. Al riguardo, e per mere esigenze di completezza, giova segnalare che il d.lgs. n. 29 del 1993 aveva escluso la prima categoria dalla privatizzazione del rapporto di impiego; solo con il d.lgs. n. 80 del 1998, confermato sul punto dal d.lgs. n. 165 del 2001, è stata estesa la disciplina privatistica anche ai rapporti di lavoro concernenti i dirigenti degli uffici dirigenziali generali, in tal modo realizzandosi al riguardo una parificazione tra le due figure224. Quanto alle loro attribuzioni, l’art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001 afferma: “1. I dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque denominati, nell'ambito di quanto stabilito dall'articolo 4 esercitano, fra gli altri, i seguenti compiti e poteri: a) formulano proposte ed esprimono pareri al Ministro, nelle materie di sua competenza; b) curano l'attuazione dei piani, programmi e direttive generali definite dal Ministro e attribuiscono ai dirigenti gli incarichi e la responsabilità di specifici progetti e gestioni; definiscono gli obiettivi che i dirigenti devono perseguire e attribuiscono le conseguenti risorse umane, finanziarie e materiali; c) adottano gli atti relativi all'organizzazione degli uffici di livello dirigenziale non generale; d) adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri di spesa e quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti; e) dirigono, coordinano e controllano l'attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con potere sostitutivo in caso di inerzia, e propongono l'adozione, nei confronti dei dirigenti, delle misure previste dall'articolo 21; 223 224 MARCONI, op. cit., p. 51. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 607. 96 f) promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare e di transigere, fermo restando quanto disposto dall'articolo 12, comma 1, della legge 3 aprile 1979, n.103; g) richiedono direttamente pareri agli organi consultivi dell'amministrazione e rispondono ai rilievi degli organi di controllo sugli atti di competenza; h) svolgono le attività di organizzazione e gestione del personale e di gestione dei rapporti sindacali e di lavoro; i) decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti amministrativi non definitivi dei dirigenti; l) curano i rapporti con gli uffici dell'Unione europea e degli organismi internazionali nelle materie di competenza secondo le specifiche direttive dell'organo di direzione politica, sempreché tali rapporti non siano espressamente affidati ad apposito ufficio o organo. 2. I dirigenti di uffici dirigenziali generali riferiscono al Ministro sull'attività da essi svolta correntemente e in tutti i casi in cui il Ministro lo richieda o lo ritenga opportuno. 3. L'esercizio dei compiti e dei poteri di cui al comma 1 può essere conferito anche a dirigenti preposti a strutture organizzative comuni a più amministrazioni pubbliche, ovvero alla attuazione di particolari programmi, progetti e gestioni. 4. Gli atti e i provvedimenti adottati dai dirigenti preposti al vertice dell'amministrazione e dai dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui al presente articolo non sono suscettibili di ricorso gerarchico. 5. Gli ordinamenti delle amministrazioni pubbliche al cui vertice e' preposto un segretario generale, capo dipartimento o altro dirigente comunque denominato, con funzione di coordinamento di uffici dirigenziali di livello generale, ne definiscono i compiti ed i poteri”. Al contrario, le funzioni proprie degli altri dirigenti sono indicate dall’art. 17 del medesimo decreto: “1. I dirigenti, nell'ambito di quanto stabilito dall'articolo 4, esercitano, fra gli altri, i seguenti compiti e poteri: 97 a) formulano proposte ed esprimono pareri ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali; b) curano l'attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, adottando i relativi atti e provvedimenti amministrativi ed esercitando i poteri di spesa e di acquisizione delle entrate; c) svolgono tutti gli altri compiti ad essi delegati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali; d) dirigono, coordinano e controllano l'attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia; e) provvedono alla gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai propri uffici”. Come emerge chiaramente dalla lettura dei citati disposti normativi, le due categorie di dirigenti, pur nella diversità delle loro competenze, si inquadrano entrambe nell’ambito delle funzioni di tipo gestionale, distinte da quelle di indirizzo politico-amministrativo di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001. Malgrado le attribuzioni della dirigenza siano fissate ex lege, il relativo rapporto di impiego è regolato dal diritto privato; ne consegue che l’oggetto, gli obiettivi, la durata ed il trattamento economico relativo all’incarico dirigenziale sono disciplinati dal contratto individuale che viene concluso con la P.A., il quale soggiace, a sua volta, alle pattuizioni del pertinente accordo collettivo225. In materia è poi intervenuta la legge n. 145 del 2002, che ha abolito il principio di rotazione degli incarichi dirigenziali226 ed ha attribuito maggiore libertà agli organi di governo nelle nomine dei dirigenti, attraverso una formulazione più sintetica e generica dell’art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001227. La stessa legge n. 145 del 2002 ha poi qualificato come “provvedimenti” gli atti di conferimento dell’incarico dirigenziale. Essi sono emanati non a seguito di una valutazione comparativa degli aspiranti, ma 225 MARCONI, op.cit., p. 52. Fino alla legge in esame, infatti, era obbligatorio seguire il criterio di rotazione degli incarichi dirigenziali, tenendo anche conto dei risultati ottenuti in precedenza. 227 MARCONI, op.cit., p. 53. 226 98 all’esito di una valutazione globale della preparazione professionale e delle capacità gestionali del nominato. La stessa legge, inoltre, ha specificato che a tali atti, cui accede un contratto individuale al quale spetta la definizione del solo trattamento economico (e non anche, a differenza di quanto statuito in passato, dell’oggetto, degli obiettivi da conseguire e della durata dell’incarico), è affidata la funzione di delineare il contenuto dei compiti attribuiti ai dirigenti, nonché la durata dell’incarico. La riforma, infine, ha confermato che le controversie concernenti i provvedimenti di conferimento degli incarichi dirigenziali restano devolute al giudice ordinario. La citata disciplina ha quindi sollevato un importante dibattito dottrinale e giurisprudenziale concernente la natura dei provvedimenti di conferimento degli incarichi dirigenziali e la conseguente qualificazione della giurisdizione del giudice ordinario come esclusiva o meno. Secondo una tesi minoritaria 228, si tratterebbe di veri e propri provvedimenti amministrativi, con la conseguenza che la giurisdizione del giudice ordinario per essi prevista dovrebbe reputarsi come esclusiva. Tuttavia, l’orientamento prevalente229 opta per la natura privatistica degli atti in esame giacché la lettera del nuovo art. 19 li qualifica come “provvedimenti” e non come “provvedimenti amministrativi”, espressione che costantemente caratterizza gli atti di esercizio del potere pubblico; in secondo luogo, si è evidenziato che gli atti de quibus, attenendo a profili organizzativi e gestionali di rapporti di lavoro già costituiti, non possono essere inclusi tra i provvedimenti amministrativi di cui all’art. 2 c. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, per i quali solo residua il regime pubblicistico 230. Con la conseguenza che, trattandosi di atti privatistici assunti con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, la giurisdizione del giudice ordinario è non già esclusiva, ma una generale giurisdizione individuata in base al criterio della causa petendi. Aderendo a tale interpretazione, si deve pertanto convenire che la specificazione del contenuto dei compiti attribuiti ai dirigenti avviene ad opera di atti 228 Cons. Stato, sez. V, n. 1519 del 2001 e Cass., sez. unite, n. 10419 del 2006, citate in CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 633. 229 Tra le molte si segnalano: Cass., sez. unite, n. 13583 del 2006 e Cass., sez. unite, 25521 del 2006, citate in CARINGELLA, Lezioni di diritto amministrativo, Roma, 2008, p. 243 230 CARINGELLA, Manuale, cit., p. 634. 99 di diritto privato, sulla base delle indicazioni astratte fornite dal legislatore negli artt. 16 e 17 del d.lgs. 165 del 2001. Con riguardo al potere di revoca degli incarichi dirigenziali, che, come si vedrà, assume un ruolo centrale nel presente studio, la legge n. 145 del 2002 ha chiarito che il mancato raggiungimento degli obiettivi o l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1999, comportano, ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dell’incarico. Nei casi più gravi, inoltre, l’amministrazione può revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001, ovvero recedere dal rapporto di lavoro (art. 21 d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 3 c. 2 della legge n. 145 del 2002). Ne consegue che il controllo esercitato dagli organi politici si manifesta sotto forma di verifica a consuntivo e non è in grado di incidere in fieri sullo svolgimento della gestione amministrativa, con gli inevitabili precipitati in punto di individuazione delle posizioni di garanzia, di cui si darà conto nel prosieguo. La riforma in esame, pur riguardando direttamente le amministrazioni dello Stato, si applica in realtà anche agli enti locali giacché, ex artt. 88 e 111 del d.lgs. 267 del 2000, i principi dettati dal d.lgs. n. 165 del 2001 si estendono, in quanto compatibili, agli ordinamenti di comuni e province. II.12 L’illegittimità costituzionale dello spoil system una tantum In relazione ai rapporti tra politica e amministrazione nel vigente ordinamento, degna di attenzione, anche ai fini della presente ricerca, è la recente declaratoria di incostituzionalità del c.d. spoil system una tantum. 100 Come noto, l’art. 3 c. 1 lett. b) e c. 7 della legge n. 145 del 2002 aveva introdotto una particolare ipotesi di cessazione automatica degli incarichi dirigenziali di livello generale al sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della stessa disciplina. Con sentenza n. 103 del 23 marzo 2007, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma per violazione degli artt. 97 e 98 Cost. - ossia delle basi positive del secondo modello di amministrazione emergente dalla Carta Costituzionale231 - sull’assunto che lo spoil system una tantum, determinando un’interruzione automatica del rapporto di ufficio prima dello spirare del termine stabilito, violasse, in carenza di garanzie procedimentali, il principio di continuità e di buon andamento dell’azione amministrativa232. La Consulta, infatti, ha evidenziato che le recenti riforme dell’apparato pubblico hanno instaurato un sistema in cui il dirigente è tenuto a perseguire dei risultati, stabiliti sulla base degli indirizzi espressi dal vertice politico, in un congruo periodo di tempo a disposizione. Ne consegue che la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impediva che l’attività del dirigente potesse svolgersi in conformità al modello di azione amministrativa dinanzi indicato. E’ quindi necessario - a parere della Consulta - che l’ordinamento garantisca un confronto dialettico tra dirigente e organo politico, nel caso in cui il secondo manifesti la volontà di non consentire la prosecuzione del rapporto sino alla scadenza contrattualmente prevista e che vengano esternate le ragioni in base alle quali i soggetti elettivi ritengano, alla luce degli obiettivi da realizzare, di revocare l’incarico dirigenziale in precedenza affidato. Con la conseguenza che l’art. 3 della legge n. 145 del 2002, nel prevedere lo spoil system una tantum, ledeva il diritto di difesa dell’interessato e contraddiceva il modello di distinzione tra politica e amministrazione, che tende comunque a salvaguardare, nella figura dei dirigenti, la continuità dell’azione amministrativa alla quale è anche 231 Retro pr. II.1. GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, p. 367; MASSERA, Il difficile rapporto tra politica e amministrazione: la Corte Costituzionale alla ricerca di un punto di equilibrio, in giornale di diritto amministrativo, 2007, p. 1307 e ss. ; ROSANO, La Consulta delimita il confine di costituzionalità dello spoil system, in Giur. Cost., 2007, p. 2302 e ss.; RUSCIANO, Dirigenze pubbliche e spoil system, in astridonline.it; SCOCA, Politica e amministrazione nelle sentenze sullo spoil system, in Giur. Cost., 2007, p. 1015 e ss. 232 101 correlato il principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione 233. Solo per i dirigenti apicali (segretario generale, capo di dipartimento) - prosegue la Corte il rapporto fiduciario stretto che li lega agli organi politici potrebbe giustificare un sistema di spoil system una tantum, giacché in tal caso le esigenze della politica potrebbero prevalere sul principio di continuità dell’azione amministrativa. La dirigenza generale, invece, deve essere sottratta a forme di spoil system non collegate a un qualche meccanismo di accertamento in concreto e in contraddittorio della responsabilità dirigenziale. Da sottolineare, inoltre, è la necessità che, all’esito di una siffatta valutazione, la P.A. adotti un atto motivato e ciò a prescindere dalla natura di diritto pubblico o di diritto privato del provvedimento che fa valere la responsabilità dirigenziale. La Corte, infatti, in un’ottica sostanzialistica, sorvola su tutte le discussioni, cui in precedenza si è fatto cenno, circa la natura pubblica o privata del rapporto giuridico tra dirigenti e amministrazioni di appartenenza, per sottolineare l’importanza della motivazione dell’atto di revoca ai fini della trasparenza e della verificabilità della decisione del vertice politico234. In definitiva, la Corte costituzionale riscatta la dirigenza pubblica da un ruolo troppo subalterno rispetto alla politica, senza per questo ripristinare il vecchio modello dei direttori generali inamovibili, in grado di ostacolare l’attività dei ministri di turno (in passato soggetti a un rapido ricambio dovuto alle crisi politiche frequenti). Anche a seguito della pronuncia della Consulta, pertanto, la primazia della politica non è messa in discussione; Ciò che si vuole evitare è soltanto che all’interno di una Costituzione democratica, in base alla quale al potere si alternano i partiti politici, l’amministrazione si trasformi in “un’amministrazione di partiti”235. La stessa Corte Costituzionale, inoltre, con sentenza n. 161 del 2008, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 c. 161 del d.l. n. 262 del 2006, in base al quale gli incarichi di funzioni dirigenziali, conferiti a personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata 233 GAROFOLI, op. cit., p. 367. CLARICH, Una rivincita della dirigenza pubblica nei confronti dello strapotere della politica a garanzia dell’imparzialità della pubblica amministrazione, in www.neldiritto.it. 235 CLARICH, op. loc. ult. cit. 234 102 in vigore dello stesso decreto, contemplando in tal modo un meccanismo di spoil system automatico e una tantum. Anche tale disposizione, infatti, in assenza di idonee garanzie procedimentali, violava i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, il principio di continuità dell’azione amministrativa, che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’agire pubblico. Anche per i dirigenti esterni, infatti, il rapporto di servizio instaurato con l’Amministrazione deve essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che lo stesso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico e quelli di gestione amministrativa236. La natura esterna dell’incarico, infatti, non costituisce un elemento in grado di trasformare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico e funzioni propriamente gestorie. L’orientamento del Giudice delle leggi è stato poi recepito in occasione della riforma della dirigenza operata dal d.lgs. n. 150 del 2009 (cosiddetta riforma Brunetta), che ha circoscritto ai soli incarichi dirigenziali apicali l’ipotesi della cessazione conseguente al decorso di novanta giorni dal voto di fiducia al Governo237. Ciò che emerge dall’analisi delle citate pronunce della Consulta e dalla recente riforma Brunetta non è solo la risoluzione dello specifico tema in oggetto, ossia l’inammissibilità dello spoil system una tantum, ma anche un quadro più chiaro dei rapporti tra politica e amministrazione, capace di condizionare le soluzioni interpretative più disparate e connesse all’argomento. Le indicazioni che provengono dalla Corte Costituzionale e dal Legislatore, infatti, sembrano essere di respiro più ampio, teso a rafforzare l’autonomia dei dirigenti e l’imparzialità dell’azione amministrativa. Il messaggio evincibile, in particolare dalle motivazioni del Giudice delle leggi, è quello di procedimentalizzare e rendere verificabile l’esercizio del potere di revoca degli incarichi dirigenziali, onde evitare che si instauri nei fatti una relazione fiduciaria tra burocrati e politici, salvo quanto si è detto con riferimento ai 236 237 GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 368. GAROFOLI, op. cit., p. 369. 103 dirigenti apicali. Del resto, ciò costituisce un passaggio imprescindibile per assicurare che la gestione amministrativa non venga condizionata dalle pressioni di parte provenienti dalla politica e per garantire che la stessa assicuri in modo imparziale il soddisfacimento dei fini individuati dagli organi di governo, cui di regola dovrebbe essere inibito ingerirsi nell’attività di concreta attuazione dei medesimi. II.13 La riforma Brunetta: d.lgs. n. 150 del 2009 Il d.lgs. n. 150 del 2009 (meglio noto come riforma Brunetta, dal nome del Ministro proponente) ha apportato importanti modifiche alla disciplina sul rapporto di lavoro privatizzato238 alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. Tale intervento normativo si prefigge una serie di obiettivi ambiziosi e interessanti ai fini del presente studio, quali il miglioramento dell’organizzazione del lavoro, la realizzazione di elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, l’incentivazione della qualità della prestazione lavorativa, la selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera, il riconoscimento di meriti e demeriti, la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali, il rafforzamento dell’autonomia dei poteri e della responsabilità della dirigenza, l’incremento dell’efficienza del lavoro pubblico ed il contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo, nonché la trasparenza dell’operato delle amministrazioni pubbliche, anche a garanzia della legalità239 (art. 1 d.gls. n. 150 del 2009). E’ noto, infatti, che, a partire dal d.lgs. n. 29 del 1993, i rapporti di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione si distinguono in due grandi categorie: in primo luogo, quelli (e sono la regola) per i quali è avvenuta la contrattualizzazione, i quali, salvo che per la fase anteriore di svolgimento del concorso pubblico, sono regolati dalla disciplina privatistica; in secondo luogo, i rapporti di lavoro che eccezionalmente sono rimasti soggetti al vecchio regime pubblicistico, come nel caso dei Magistrati ordinari e amministrativi, degli Avvocati e Procuratori dello Stato, dei funzionari della carriere prefettizia e della Polizia dello Stato etc… 239 DEODATO- FRETTONI, La riforma Brunetta. Le nuove regole del lavoro pubblico, Roma, 2009; GAROFOLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 325. 238 104 Tra gli aspetti principali della riforma si segnala, in primo luogo, il mutamento del rapporto tra legge e contrattazione collettiva. Più nel dettaglio, l’art. 33 c. 1 lett. a) del d.lgs. n. 150 del 2009 ha chiarito la natura imperativa delle norme contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001, con la conseguenza che la contrattazione collettiva non può derogare alle disposizioni di legge, a meno che non sia lo stesso legislatore a permetterlo 240, al fine di evitare che le scelte effettuate dal legislatore possano essere vanificate da interventi contrattuali successivi. In questo senso, e per quello che più interessa ai fini del presente studio, l’innovazione in esame contribuisce a rafforzare la portata del principio normativo di separazione delle competenze di indirizzo politico da quelle di gestione amministrativa, ponendolo al riparo dalle possibili deroghe ad opera della contrattazione collettiva o individuale. Tra gli obiettivi della riforma, peraltro, occorre segnalare che l’art. 37 del medesimo decreto si sofferma sull’esigenza di rafforzare il principio di distinzione tra i compiti di indirizzo e controllo (spettanti agli organi di governo) e le funzioni di gestione amministrativa (attribuite alla dirigenza), nel rispetto della giurisprudenza costituzionale in materia, regolando il rapporto tra organi di vertice e dirigenti titolari di incarichi apicali in modo da garantire la piena e coerente attuazione dell’indirizzo politico in ambito amministrativo. E’ evidente pertanto il chiaro adeguamento del legislatore alle recenti pronunce della Consulta n.103 del 2007 e 161 del 2008, di cui in precedenza si è dato atto. Altro aspetto assai rilevante del d.lgs. n. 150 del 2009 è l’introduzione di un nuovo sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti, così da assicurare elevati standard qualitativi ed economici del servizio, tramite la valorizzazione dei risultati e della performance organizzativa ed individuale. In particolare, è prevista l’attribuzione selettiva degli incentivi economici e di carriera, in modo da premiare i capaci e i meritevoli e da affermare la cultura della valutazione, che può definirsi, secondo le indicazioni delle scienze aziendali ed amministrative, come l’attitudine a predisporre in modo organico e sistematico procedure idonee ad individuare 240 AA. VV., Elementi di diritto del lavoro, Napoli, 2011, p. 168. 105 periodicamente, secondo criteri omogenei, il rendimento e le caratteristiche professionali dei dipendenti241. Come evidenziato da attenta dottrina242, “meritocrazia e premialità presuppongono, dunque, un giudizio e questo, a sua volta, la giudicabilità del lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni”. Ne consegue il tentativo di rendere misurabili, valutabili e trasparenti le attività delle amministrazioni pubbliche e dei loro dipendenti e di “passare dalla logica dei mezzi a quella dei risultati” 243. In questa prospettiva il decreto Brunetta definisce una serie di strumenti premiali, quali il bonus annuale delle eccellenze, il premio annuale per l’innovazione, le progressioni economiche e di carriera, l’attribuzione di incarichi e di responsabilità ed infine l’accesso a percorsi di alta formazione e di crescita professionale, in ambito nazionale ed internazionale. Inoltre, non va trascurato che lo sforzo del legislatore di rendere oggettivo il giudizio sul rendimento dei dipendenti pubblici appare utile anche nell’ottica della valorizzazione del principio di separazione tra politica e amministrazione, posto che rende più vincolato e meno esposto a soggettivismi il sistema delle nomine e delle revoche concernenti gli incarichi dirigenziali. In tal senso la riforma Brunetta contribuisce, quindi, ad attenuare quello che si è visto essere uno dei punti di maggiore ambiguità dell’attuale assetto dei rapporti tra organi di governo e dirigenza pubblica, ossia la spettanza alla classe politica del potere di nomina e di revoca dei dirigenti. II.14 Le deroghe al principio di separazione tra politica e amministrazione nell’ambito delle leggi regionali in materia di banche di credito cooperativo. In materia di Banche di credito cooperativo, la legislazione regionale prevede spesso delle deroghe al principio di separazione delle competenze tra organi d’indirizzo 241 GAROFOLI, op. cit., p. 326. GAROFOLI, op. loc. ult. cit. 243 DEODATO-FRETTONI, op. cit., cap. II. 242 106 politico e organi di gestione amministrativa. Tale disciplina pone, inoltre, notevoli problemi di coordinamento con le funzioni attribuite alla Banca d’Italia, Autorità Indipendente dal Governo e preposta alla vigilanza nel settore creditizio. E’ quindi opportuno chiarire sinteticamente gli aspetti principali della questione. Al riguardo giova richiamare, come esempio, l’art. 13 della legge regionale Valle d’Aosta n. 21 del 13 maggio 1980, istitutiva della ex Cassa rurale e artigiana di Gressan (ora B.C.C. Valdostana). La disposizione prevede un procedimento di competenza della Regione in tema di autorizzazione alle modifiche statutarie da parte della banca di credito cooperativo, che si configura come del tutto separato rispetto a quello di competenza della Banca centrale nazionale; peraltro, non specificando la medesima legge i criteri in base ai quali l’autorizzazione di competenza regionale viene concessa, l’esame dello statuto da parte della Regione potrebbe condurre a esiti non coincidenti con quelli assunti dall’Autorità di vigilanza. Orbene, l’analisi dei segnalati profili impone di prendere le mosse dal principio dell’unicità del potere di direzione e di controllo del credito, cui si ispira il vigente ordinamento e al quale, in varie occasioni, ha fatto riferimento la Corte Costituzionale244. Come noto, tale principio impone che la vigilanza sull’attività bancaria e creditizia debba ritenersi di esclusiva competenza dello Stato e, segnatamente, della Banca d’Italia, in attuazione del disposto dell’art. 47 Cost.245 Ciò, nell’attuale assetto normativo e creditizio, ridimensiona nettamente i poteri delle Regioni e delle Province autonome, ancorché esse dispongano nella specifica materia, per espressa previsione statutaria, di particolari competenze. Va ricordato, infatti, che alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome spettano, in materia di credito, poteri legislativi e amministrativi di varia ampiezza, con esclusione, peraltro, di potestà normative di tipo esclusivo. In particolare, lo Statuto speciale della Regione Valle d’Aosta246 prevede, all’art. 3, il potere della Regione di 244 Corte Cost., 24 novembre 1958, n. 58, in Giur. Cost., 1958, I, p. 875; 22 ottobre 1982, n. 162, in Foro It., 1983, I, p. 595; 29 aprile 1983, n. 118, in Giur. Cost., 1983, I, p. 525. 245 Nel senso che le funzioni della Banca d’Italia, pur nelle garanzie d’indipendenza dal Governo che la caratterizzano, siano coessenziali a quelle dello Stato-amministrazione, di talché si verifica più l’apparenza che la sostanza di una separazione tra la prima ed il secondo: Tar Piemonte, Torino, sez. I, sent. 23 gennaio 2007, n. 93. 246 Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4. 107 “emanare norme legislative di integrazione e di attuazione delle leggi della Repubblica” in materia, tra l’altro, di “istituzione di enti di credito a carattere locale”; questo potere è conferito alla Regione per adattare le leggi statali alle condizioni regionali e deve essere esercitato “entro i limiti indicati dall’art. 2” dello Statuto speciale. Più nel dettaglio, questi consistono nell’”armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica” e nel “rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico sociali della Repubblica”. La disposizione statutaria ha trovato riscontro nell’art. 13 della legge regionale della Valle d’Aosta n. 21 del 1980, che prevede il potere della Giunta regionale di autorizzazione delle modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto della attuale B.C.C. Valdostana. Peraltro, il quadro descritto è cambiato con la riforma costituzionale del 2001: essa, infatti, ha assegnato a tutte le Regioni una potestà legislativa concorrente con quella dello Stato - dunque più ampia di quella integrativo-attuativa già spettante alla Valle d’Aosta in forza del suo Statuto speciale - in materia di banche regionali247 (art. 117, c. 3 Cost.), con la conseguenza che, in forza dell’art. 10 legge cost. n. 3 del 2001, anche la Valle d’Aosta beneficia di tale potestà. Infatti, la citata norma dispone che “sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” (c.d. clausola di maggior favore). A ciò si aggiunga che, quanto al riparto delle competenze amministrative, la nuova formulazione dell’art. 118 Cost., a seguito della riforma del 2001, attribuisce le relative funzioni ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Ne consegue, quindi, che la menzionata clausola dell’art. 10 legge cost. n. 3 del 2001 dovrebbe esercitare forza attrattiva delle 247 La disposizione costituzionale, essendo mutuata dagli statuti speciali delle Regioni autonome, utilizza una terminologia ormai obsoleta (cfr. la “Testimonianza” del Governatore della Banca d’Italia innanzi alla 1 Commissione permanente del Senato, 12 dicembre 2001, nel Bollettino economico della Banca, n. 38 del marzo 2002, 8-9), cui va comunque, per quanto possibile, dato un contenuto. 108 Regioni speciali nel regime ordinario di tutte le altre Regioni, anche con riguardo al riparto di competenze amministrative. Tanto premesso, tuttavia, occorre dare atto che l’attuale ordinamento bancario, soprattutto in conseguenza dell’adeguamento della disciplina di settore ai principi comunitari espressi nelle direttive CE/77/780 (c.d. prima direttiva bancaria) e CE/89/646 (c.d. seconda direttiva bancaria), risulta profondamente diverso da quello esistente sotto il vigore della c.d. legge bancaria (r.d.l. n. 375/1936), sulla cui base sono state promulgati lo Statuto speciale della Valle d’Aosta e la legge regionale n. 21 del 1980. Pertanto, attualmente è dato riscontrare un assetto normativo regionale in gran parte obsoleto in quanto perlopiù inattuabile e parzialmente inapplicabile, ancorché formalmente vigente, attesa l’intangibilità delle norme statutarie delle Regioni autonome (e delle norme ad esse di attuazione) da parte della legislazione statale248. Con ciò non si vuol dire che alle Regioni non possa essere riconosciuto alcun potere nella speciale materia del credito e del risparmio, ma, più semplicemente, che gli interventi ad esse consentiti dalla normativa regionale, ferma restando l’esigenza di uniformità a livello nazionale del potere di indirizzo, in tanto sono ammissibili in quanto siano conformi al nuovo assetto ordinamentale venutosi a creare in ragione dell’adeguamento della legislazione nazionale ai principi comunitari e ai presidi di ordine costituzionale vigenti249. E’ noto, infatti, che le norme e i principi comunitari (analogamente alle norme attuative di essi) prevalgono sulle contrarie disposizioni nazionali, ancorché di rango costituzionale, salvi i limiti derivanti dal rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dai principi supremi dell’ordinamento250. Ciò posto, occorre stabilire l’esatta portata dei poteri regionali in materia di credito e risparmio. Al riguardo giova segnalare che le principali e più importanti attribuzioni delle Regioni si concretano nella potestà di autorizzare l’esercizio del credito e di 248 GESMUNDO, Regioni a statuto speciale, in La nuova legge bancaria, a cura di Ferro Luzzi- Castaldi, Milano, III, p. 2268 e ss.; CONDEMI, art. 159 T.U.B., in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di CAPRIGLIONE, Tomo II, Padova, 2001, p. 1232. 249 CONDEMI, op. loc. ult. cit. 250 Corte Cost., 8 giugno 1984, n. 170, in Foro it., 1974, I, p. 2062. 109 provvedere circa l’ordinamento delle banche operanti nel territorio regionale. Il termine “ordinamento” è stato interpretato dalla Corte Costituzionale in modo assai restrittivo, limitato cioè al solo momento organizzativo delle banche e non alla disciplina della loro attività251. Pertanto, le valutazioni degli organi regionali in materia, tese alla cura di profili di particolare interesse regionale, non possono interferire con lo svolgimento dell’attività degli organismi interessati252. Da qui la sottrazione agli organi regionali della competenza ad adottare i provvedimenti concernenti l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa degli enti di credito, i quali vengono emanati dai competenti organi dello Stato253. Alla luce delle considerazioni che precedono, si comprende che il primo comma dell’art. 159 T.u.b., in base al quale le valutazioni di vigilanza sono riservate alla Banca d’Italia, ha semplicemente recepito il principio, già elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui in materia creditizia la vigilanza è riservata agli organi centrali e, segnatamente, alla Banca d’Italia, in modo da assicurare la necessaria uniformità dell’azione di controllo e di vigilanza sull’intero territorio nazionale. Tale conclusione è confermata dai successivi commi 2 e 3 del medesimo art. 159, i quali, tenendo conto del mutato quadro ordinamentale imposto dalle direttive comunitarie, mirano a rendere effettivo il principio, sopra richiamato, dell’uniformità del’azione di controllo e di vigilanza sul piano nazionale 254. D’altra parte, in un’ottica più propriamente europeista, è importante che le valutazioni di vigilanza competano alla Banca d’Italia, la quale è il soggetto che pare possa meglio realizzare un’uniforme e adeguata attuazione delle indicazioni provenienti dall’Eba (European Banking Authority)255 circa la vigilanza sul sistema bancario. 251 Corte Cost., 24 novembre 1958, n. 58, cit. CONDEMI, op. cit., p. 1237; COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, p. 176. 253 Corte Cost., 9 luglio 1956, n. 16. 254 CONDEMI, op. cit., p. 1238. 255 L’Eba (European Banking Authority) è un organismo dell'Unione europea, istituito con Regolamento UE n. 1093/2010, che dal 1 gennaio 2011 ha il compito di sorvegliare il mercato bancario europeo. Ad essa partecipano tutte le autorità di vigilanza bancaria dell'Unione europea. L'Autorità sostituisce il Committee of European Banking Supervisors (CEBS) e ha sede a Londra. L'obiettivo dell'Autorità è proteggere l'interesse pubblico contribuendo alla stabilità e all'efficacia a breve, medio e lungo termine del sistema finanziario, a beneficio dell'economia dell'Unione, dei suoi cittadini e delle sue imprese. L'Autorità opera nel settore di attività delle banche, dei conglomerati finanziari, delle imprese di investimento, degli istituti di pagamento e degli istituti di moneta elettronica. L'Autorità contribuisce a: 1) migliorare il funzionamento del mercato interno in particolare attraverso una regolamentazione efficace e uniforme; 2) 252 110 In questa prospettiva, l’art. 159 del T.u.b., nella consapevolezza che i provvedimenti in tema di ordinamento delle banche regionali possano avere forti ripercussioni sulla gestione dell’impresa, impone il parere vincolante della Banca d’Italia come condizione per le eventuali decisioni che in proposito fossero affidate al potere regionale256. Per questi motivi si è notato in dottrina che la necessità di un parere vincolante per il provvedimento di cui all’art. 56 T.u.b., relativo alla materia delle modifiche statutarie, dal momento che tale intervento attiene alla struttura degli organismi piuttosto che alle peculiari attività di essi, unitamente alla generale riserva delle valutazioni di vigilanza affidate alla Banca d’Italia, equivale, in concreto, a sottrarre le indicate competenze alla sfera dei poteri regionali257. Inoltre, occorre dare atto che, contro l’art. 159 del d.lgs. n. 385 del 1993, le Regioni ad autonomia speciale hanno proposto diversi ricorsi alla Corte Costituzionale, la quale, tuttavia, con sentenza n. 224 del 9 giugno 1994,258 li ha rigettati tutti, sulla base della considerazione che le competenze attribuite alle Regioni dagli Statuti speciali assumevano a presupposto un quadro normativo di riferimento che, trovando la sua base nella legge bancaria del 1936, risultava ispirato a principi del tutto diversi da quelli che caratterizzano il nuovo assetto normativo di derivazione comunitaria delineato dal T.u.b. Né pare che tale conclusione possa essere modificata alla luce della sopravvenienza normativa dovuta alla riforma costituzionale del 2001, giacché, anche in tale nuovo assetto del titolo V della Costituzione, sembra si possa ritenere che le competenze in materia di vigilanza bancaria debbano essere affidate allo Stato e, più in particolare, alla Banca d’Italia. Infatti, alla luce dei principi di sussidiarietà verticale, differenziazione e adeguatezza, di cui al nuovo art. 118 Cost., le funzioni garantire l'integrità, la trasparenza, l'efficienza e il regolare funzionamento dei mercati finanziari; 3) rafforzare il coordinamento internazionale in materia di vigilanza bancaria; 4) impedire l'arbitraggio regolamentare e promuovere pari condizioni di concorrenza; 5) assicurare che i rischi siano adeguatamente regolamentati e monitorati; 6) aumentare la protezione dei consumatori. 256 COSTI, op. cit., p. 179. 257 CONDEMI, op. cit., p. 1238. 258 Corte Cost., 9 giugno 1994, n. 224, in Banca, borsa e titoli di credito, 1994, II, p. 597 e ss., con nota di MARZONA, Il riordino del sistema bancario: le regioni a confronto con una nuova statualità; in Diritto della banca e del mercato finanziario, 1995, p. 395 e ss., con nota di MAZZINI, Le norme del T.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia sui poteri delle Regioni a statuto speciale al vaglio della Corte costituzionale. 111 amministrative sono conferite allo Stato qualora sia opportuno, come nella specie, assicurarne l’esercizio unitario a livello nazionale. Si è visto, quindi, che il complessivo impianto del T.u.b., conforme ai principi costituzionali e comunitari, riconduce le valutazioni di vigilanza alla Banca d’Italia, quale supremo organo tecnico nella specifica materia bancaria. I compiti alla stessa attribuiti sono esplicitamente indicati nell’art. 4 del d.lgs. n. 385 del 1993, il cui comma secondo fa obbligo all’Istituto, per evidenti ragioni di trasparenza, di “determinare e rendere pubblici previamente i principi e i criteri dell’attività di vigilanza”. Quest’ultima, come noto, è attività complessa, che si esplica secondo regole di carattere oggettivo, a valenza generale, facenti perno sulla situazione tecnica delle istituzioni bancarie259. La vigilanza in materia bancaria, quindi, è attività amministrativa ad elevato contenuto tecnico, sicché appare logico che la stessa venga attribuita ad un’Autorità Indipendente, fornita del necessario bagaglio specialistico per poterla esercitare in modo adeguato260. L’at. 159 T.u.b., peraltro, chiarisce che il parere deve essere espresso, a fini di vigilanza, e quindi esclusivamente mirato a verificare se il provvedimento regionale sia compatibile con la sana e prudente gestione dell’impresa bancaria. Orbene, come evidenziato da autorevole dottrina, è vero che la norma limita l’intervento della Banca d’Italia alle sole valutazioni tecniche, ma è anche vero che esse, nelle materie in cui vengono richieste, esauriscono di per sé la funzione amministrativa261. Pertanto, ulteriori valutazioni, previste di volta in volta nelle varie leggi regionali, pur non contrastando con l’esercizio della funzione di vigilanza, “appaiono tuttavia sovrabbondanti e, comunque, inidonee a soddisfare alcun’altra forma di controllo”262. Anzi, si è perfino ipotizzato che, tenendo a mente i principi di efficienza e di economicità, riconducibili all’art. 97 Cost., l’intera impalcatura dei controlli regionali in materia bancaria e creditizia violi il più volte affermato, da parte della Corte 259 LAMANDA, Note sui controlli di vigilanza bancaria, in Le attività finanziarie. I controlli, a cura di MINERVINI, Bologna, 1990, p. 87 e ss. 260 SCHINAIA, Il controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1999, p. 1101 e ss. 261 CONDEMI, op. cit., p. 1239. 262 CONDEMI, op. loc. ult. cit. 112 Costituzionale, principio di proporzionalità. Infatti, alla luce della liberalizzazione ormai intervenuta nel settore creditizio, appare difficile immaginare quali siano gli spazi di valutazione, concernenti la materia delle modifiche statutarie, riservati alle Regioni e diversi da quelli afferenti alla sana e prudente gestione dell’impresa bancaria, che, come visto, sono di esclusiva competenza della Banca d’Italia. Del resto, la stessa previsione di un parere vincolante in capo alla Banca d’Italia sembra un’evidente conferma della chiara scelta del legislatore di assegnare un potere sostanzialmente decisorio all’Istituto di vigilanza. Al riguardo, è noto che tale categoria di pareri racchiude quelli obbligatori che non possono essere disattesi dall’amministrazione interessata. Essi hanno dato luogo a numerose dispute in dottrina. Se, infatti, il parere deve essere espressione di un’attività di consulenza, il parere vincolante non dovrebbe essere qualificato come tale, avendo una natura decisoria, atteso che l’amministrazione attiva non può discostarsi da esso. In questa logica, ad esempio, si è sostenuto in dottrina che il ricorso straordinario al Capo dello Stato, la cui disciplina, dopo la riforma operata dalla legge n. 69 del 2009, prevede un parere ormai vincolante del Consiglio di Stato, abbia assunto la sostanza di un vero e proprio processo amministrativo in unico grado, considerato che la previsione di un parere vincolante in capo al Supremo organo di giustizia amministrativa equivale ad assegnare al medesimo il potere decisorio. Viceversa, laddove si ritenga che tale tipo di parere riguardi comunque una fase preparatoria rispetto a quella (costitutiva) alla quale si collegano gli effetti esterni, si potrebbe affermare la sua appartenenza ai pareri, in quanto atto insuscettibile di produrre direttamente effetti. In una prospettiva sostanziale non sembra, però, che possa essere negato che un parere che non lasci nessuno spazio di scelta all’organo di amministrazione attiva non esprime nessuna consulenza, ma pone in essere una decisione preliminare, sicché solo impropriamente può essere definito alla stregua di un parere. A ciò si aggiunga che l’attività di consulenza ha il fine di fornire un mero sussidio alla decisione finale, consentendo di norma a chi deve agire di sostituire la propria valutazione a quella espressa dal consulente. Nei casi in cui ciò non accada, dunque, non si hanno pareri in senso 113 proprio, ma atti di natura diversa263. Sul punto autorevole dottrina264 ha sostenuto che, anche dal punto di vista della collocazione in seno alla fattispecie procedimentale, dovrebbe concludersi che i pareri vincolanti determinino il contenuto della decisione finale, per cui bisognerebbe espungerli dal novero degli atti preparatori e ricondurli nell’ambito di quelli decisori. Con tutte le conseguenze del caso: in primo luogo, quella dell’imputazione degli effetti non solo all’organo che ha emanato l’atto finale, ma anche a quello che ha espresso il parere265. Alla luce di quanto esposto, si può, quindi, ritenere che, ai sensi dell’art. 159 T.u.b., la sostanza decisoria in materia di modifiche statutarie competa alla Banca d’Italia e che non dovrebbero residuare margini di valutazione in capo alle Regioni, giacché si è visto che l’unico controllo esercitabile al riguardo dovrebbe essere quello concernente la sana e prudente gestione dell’impresa bancaria, che, come noto, è riservato alla Banca centrale nazionale266. Ne consegue che il potere di autorizzazione previsto dall’art. 13 della legge regionale della Valle d’Aosta n. 21 del 1980 dovrebbe essere configurato come meramente formale e comunque andrebbe interpretato in senso restrittivo alla luce dell’attuale assetto dell’ordinamento bancario suesposto, della segnalata necessità (nazionale e comunitaria) che le valutazioni di vigilanza sia affidate esclusivamente alla Banca d’Italia e del chiaro disposto dell’art. 159 T.u.b. A ciò si aggiunga che l’attribuzione di un potere di autorizzazione alla Giunta Regionale della Valle d’Aosta, secondo il citato art. 13 della legge regionale n. 21 del 1980, risulta eccentrico anche rispetto ad un altro profilo di rilievo, onde ne risulta rafforzata la convinzione che vada letto in chiave restrittiva. Infatti, come si è visto nei paragrafi precedenti, a partire dalla legge n. 142 del 1990 e con le successive riforme effettuate dai d.lgs. n. 29 del 1993, n. 80 del 1998 e n. 165 del 2001, la tendenza dell’ordinamento nazionale è nel senso di sancire il principio di separazione tra politica e amministrazione, ossia di riservare agli organi politici l’indirizzo e la programmazione e di attribuire le competenze tecniche e gestorie agli organi 263 Consiglio di Stato, sez. I, parere n. 530 del 1999. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2010, p. 485. 265 CASETTA, op. loc. ult. cit. 266 CONDEMI, op. cit., p. 1239. 264 114 amministrativi267. Orbene, in questo quadro la norma di cui all’art. 13 della citata legge regionale, nell’assegnare un potere di autorizzazione ad un organo politico, quale la Giunta regionale, sembrerebbe costituire un’eccezione al principio di separazione tra politica e amministrazione, onde se ne dovrebbe operare una interpretazione restrittiva. Del resto, l’attribuzione di un potere di autorizzazione ad un organo politico in materia di modifiche dello statuto di una banca, privo peraltro della predeterminazione dei criteri in base ai quali vada esercitato, rischia di reintrodurre surrettiziamente un controllo pubblicistico ampiamente discrezionale sull’esercizio dell’attività bancaria, in violazione dei principi di liberalizzazione e di imprenditorialità, introdotti dal Testo unico del 1993 in attuazione della normativa comunitaria. II.15 Considerazioni finali sul principio di separazione tra politica e amministrazione. Prospettive de iure condendo L’excursus storico compiuto in merito ai rapporti tra politica e amministrazione nell’ordinamento nazionale, unitamente alla descrizione dell’attuale disciplina normativa al riguardo, permettono di trarre le conclusioni sul tema e di sollevare alcune considerazioni critiche. Come si è visto, il legislatore, a partire dalla legge n. 142 del 1990, si è mosso progressivamente nella direzione di assicurare il principio della separazione tra poteri di indirizzo programmatico e di controllo, attribuiti agli organi politici, e le funzioni di attuazione gestionale, sulla base delle risorse finanziarie conferite e delle priorità individuate dal ceto elettivo, spettanti invece alla classe dei burocrati. L’aspirazione alla distinzione delle competenze tra i due principali attori istituzionali appare in linea con le indicazioni provenienti dalla stessa Carta Costituzionale, la quale, come già 267 MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, Milano, 2005, p. 1 e ss. 115 esposto, attribuisce notevole risalto all’imparzialità dell’agire pubblico e all’indipendenza dei funzionari dai condizionamenti della politica (artt. 97, 98 e 51 Cost.), non solo nell’ambito delle Autorità Amministrative indipendenti, ma anche all’interno delle Pubbliche Amministrazioni in senso tradizionale. Se, dunque, si può considerare favorevolmente la tendenza normativa degli ultimi anni, ciononostante si deve notare che il sistema fin qui concretamente realizzato presenta non pochi aspetti di ambiguità. Con ciò si fa riferimento non solo alle non trascurabili deroghe che il principio di separazione incontra nella disciplina positiva (si pensi ad esempio alle norme relative ai Comuni di minori dimensioni o alle attribuzioni del Consiglio ex art. 42 d.lgs. n. 267 del 2000), ma anche al sistema ordinario dei rapporti tra vertice politico e burocrati. Infatti, il legislatore, nello stesso momento in cui proclama solennemente la distinzione delle funzioni e l’autonomia della dirigenza dalla politica, sottopone, in modo forse poco coerente, la classe dei burocrati al controllo degli organi politici, titolari in particolare del potere di nomina e revoca relativo agli incarichi dirigenziali. Con ciò creando inevitabilmente una situazione di soggezione della dirigenza verso la politica, se è vero che non vi può essere vera autonomia tra due attori istituzionali se l’uno è sottoposto al controllo dell’altro e le relative progressioni di carriera sono nelle mani dell’organo verso cui si assume di voler garantire l’indipendenza268. Del resto, quando il legislatore ha realmente perseguito l’obiettivo di assicurare l’autonomia di un ceto dalla classe politica, lo ha fatto prima di tutto sottraendo alla stessa poteri di nomina, di revoca e di incidenza sulle progressioni di carriera dei funzionari pubblici, creando a tal fine specifici organismi di autogoverno, come nel caso del Consiglio Superiore della Magistratura per i Magistrati ordinari o del Consiglio Superiore della Banca d’Italia per i dipendenti di tale Autorità di Vigilanza. Occorre poi rilevare che il divieto d’intromissione degli organi politici nella gestione amministrativa (art. 14 d.lgs. n. 165 del 2001) è in parte minato da taluni strumenti giuridici di condizionamento dell’operato dei dirigenti. In particolare, la diretta 268 PONTI, La nozione di indipendenza nel diritto pubblico come condizione del funzionario, in Dir. Pubbl., 2006, I, p. 185 e ss. 116 intromissione, esclusa per gli organi politici, potrebbe essere realizzata indirettamente, attraverso gli uffici di diretta collaborazione (o uffici di Gabinetto)269. Essi sono previsti dall’art. 14 d.lgs. n. 165 del 2001 come strumento di necessario supporto per gli organi politici nell’esercizio della funzione d’indirizzo loro riservata. La stessa normativa cerca di evitare che gli uffici di diretta collaborazione, evidentemente legati agli organi politici da un rapporto di fiducia, possano essere usati come strumenti di condizionamento del comportamento dei dirigenti. L’art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, infatti, precisa che tali uffici hanno solo compiti di supporto e di raccordo con l’amministrazione. Analogamente, l’art. 90 del testo unico sugli enti locali ha previsto la possibilità di costituire, in sede di regolamento locale, uffici di supporto agli organi di direzione politica, posti alle dirette dipendenze di questi ultimi. In linea teorica appare dunque evidente che agli uffici legati agli organi politici da rapporti di fiducia si estendano gli stessi divieti d’intromissione fissati per questi ultimi270. Nell’attuazione pratica del modello, però, una recente ricerca271 ha evidenziato che, mentre la collocazione organizzativa degli uffici di staff rispetta la disciplina normativa (nel senso che non sono posti formalmente in posizione sovraordinata rispetto agli uffici amministrativi), più problematica è apparsa la definizione dei compiti agli stessi attribuiti. Invero, in numerosi casi si sono riscontrati poteri di rapporto diretto con gli uffici e con i loro dirigenti, poteri di coordinamento intersettoriale e, perfino, poteri di avocazione degli atti riservati ai dirigenti. Ne consegue, quindi, il rischio che il divieto d’intromissione degli organi politici nella gestione amministrativa venga di fatto aggirato attraverso l’utilizzo distorto degli uffici di diretta collaborazione. Altro strumento giuridico di condizionamento dell’operato dei dirigenti è l’intromissione attraverso le figure amministrative di vertice272. Con tale locuzione si fa riferimento agli alti dirigenti, spesso coadiuvati da specifiche strutture MERLONI, Distinzione tra politica e amministrazione e spoil system, in L’Amministrazione sta cambiando? Una verifica dell’effettività dell’innovazione nella pubblica amministrazione, AA. VV., Milano, 2007, p. 47 e ss. 270 MERLONI, op. cit., p. 50. 271 MERLONI, op. loc. ult. cit. 272 MERLONI, op. loc. ult. cit. 269 117 burocratiche, che sono posti al vertice dell’organizzazione degli uffici dell’Amministrazione. Ad essi sono attribuite differenti funzioni: dal supporto all’organo politico nello svolgimento del suo mandato, alla garanzia della continuità dell’amministrazione nel fisiologico succedersi dei titolari degli organi d’indirizzo273. Tali figure si distinguono nettamente dagli uffici di diretta collaborazione. Questi ultimi, infatti, svolgono funzioni di supporto agli organi politici e sono legati agli stessi da un intenso rapporto fiduciario. La figura amministrativa di vertice, invece, è dotata di poteri di coordinamento e, in alcuni casi, di poteri gerarchici sui dirigenti preposti agli uffici amministrativi. Tale figura si pone dunque sulla linea di confine tra la sfera di competenza degli organi d’indirizzo e quella riservata alla gestione amministrativa; sul piano teorico la stessa ha dunque posto il problema se debba essere ricompresa nell’ambito della competenza politica o nell’area amministrativa. Malgrado la difficoltà teorica d’inquadramento, il ricorso alle figure amministrative di vertice si è fatto più intenso proprio a seguito dell’introduzione del principio di separazione tra politica e amministrazione274. La prassi ha dimostrato, inoltre, una progressiva accentuazione del carattere fiduciario del relativo incarico. Più nel dettaglio, nei Ministeri che seguono il modello a direzione generale275, è frequente la nomina di Segretari Generali, posti al vertice della struttura amministrativa, con funzioni di coordinamento degli uffici dirigenziali generali, nei quali si articola il Ministero. Nei Ministeri che adottano il modello dipartimentale276, invece, i Capi dei Dipartimenti svolgono le funzioni proprie delle figure amministrative di vertice. Sia i Segretari Generali, sia i Capi dei Dipartimenti sono sottoposti ad un regime unitario: nomina politica con D.P.R. e decadenza automatica decorsi novanta giorni dal voto di fiducia al Governo (art. 19 c. 3 e 8 del d.lgs. n. 165 del 2001). Negli enti locali (Comuni sopra i 15.000 abitanti e province) gli organi politici di vertice (Sindaco e 273 MERLONI, op. cit. p. 51. MERLONI, op. cit., p. 52. 275 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, cit., p. 122; si tratta dei Ministeri la cui azione investe un solo settore, pur articolato in una pluralità di specializzazioni, come ad esempio il Ministero dell’Ambiente. 276 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, op. loc. ult. cit. Il modello dipartimentale è tipico dei Ministeri la cui azione investe settori di amministrazione tra loro fortemente differenziati ed omogenei al loro interno, come ad esempio il Ministero dell’Economia e delle Finanze. In questi casi il Ministero si articola in dipartimenti (a loro volta suddivisi in direzioni generali), costituiti per assicurare l’esercizio organico ed integrato delle funzioni del Ministero in relazione a grandi aree di materie omogenee. 274 118 Presidente della Provincia) possono nominare un Direttore Generale, che, come si è visto, provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dagli organi politici e che sovraintende alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia e di efficienza (art. 108 c. 1 del Tuel). Analogamente, le Regioni hanno provveduto all’introduzione di figure amministrative di vertice, con soluzioni differenti: dall’unica figura, sul modello del Segretario Generale, alla pluralità di soggetti, similmente ai Ministeri a struttura dipartimentale. Orbene, secondo una parte della dottrina277 il frequente ricorso nella prassi alle figure amministrative di vertice è dovuto, più che alla loro utilità in vista del buon andamento dell’azione amministrativa, alla possibilità che esse finiscano per inserirsi nel rapporto tra politica e amministrazione per assicurare all’organo politico di recuperare, nei fatti, quei poteri d’ingerenza nella gestione che la legge gli preclude. Ciò può avvenire in vari modi: in primo luogo, attribuendo alle figure amministrative di vertice un forte potere sui dirigenti, sia nella fase della nomina, sia in sede di valutazione; in secondo luogo, assegnando a tali soggetti poteri non di mero coordinamento, ma anche di direttiva puntale e di ordine, secondo gli schemi tipici del rapporto gerarchico. Inoltre, recenti indagini empiriche278 hanno rivelato che il rapporto tra organi politici e figure amministrative di vertice è spesso caratterizzato dai tratti tipici di una relazione fiduciaria, con conseguente contaminazione del modello di separazione tra politica e amministrazione. Quanto ai poteri attribuiti a tali figure, le ricerche effettuate hanno dimostrato che nella prassi è frequente l’utilizzo di poteri di condizionamento delle scelte dei dirigenti, mentre in alcuni casi è perfino esplicita l’assegnazione di poteri di avocazione degli atti dei dirigenti e di comando sugli stessi, secondo i crismi di un rapporto gerarchico classico. Da quanto esposto consegue quindi il rischio che le figure amministrative di vertice costituiscano uno 277 278 MERLONI, op. cit., p. 52. MERLONI, op. cit. p. 53. 119 strumento per l’aggiramento del principio della separazione tra politica e amministrazione. Tra i mezzi giuridici di condizionamento dell’operato dei dirigenti devono essere altresì segnalate le modifiche organizzative279. Infatti, l’adozione di una diversa organizzazione degli uffici e l’introduzione di modificazioni della natura giuridica di strutture amministrative - rimesse a fonti normative pubblicistiche (per lo più regolamenti) nella disponibilità degli organi politici - possono essere utilizzate per operare rimozioni dagli incarichi dirigenziali, realizzando in tal modo forme di spoils system mascherate. Tali strumenti si rivelano quindi idonei a sancire la supremazia degli organi politici su quelli amministrativi, inducendo questi ultimi ad una maggiore disponibilità verso indebite intromissioni degli organi d’indirizzo nella gestione amministrativa. Nello stesso tempo, tali situazioni patologiche mostrano una difficile accertabilità, attesa l’evidente difficoltà di dimostrare che la riorganizzazione sia motivata solo o prevalentemente dall’esigenza di rimuovere dirigenti non graditi. Nello stesso senso, non va trascurata la possibilità di conferire l’incarico dirigenziale anche a soggetti non appartenenti ai ruoli della dirigenza e all’amministrazione interessata. Infatti, la non chiara formulazione dell’art. 19 c. 6 del d.lgs n. 165 del 2001 ha consentito di frequente alle Amministrazioni statali di utilizzare la c.d. dirigenza esterna come un modo per ampliare l’area degli incarichi di tipo fiduciario. Invero, spesso è accaduto che tali nomine siano state effettuate non tanto sulla base dei meriti professionali, ma per la fedeltà del dirigente esterno alla persona dell’organo politico o al pertinente partito280, con conseguente inquinamento della distinzione tra politica e amministrazione. Infine, si è notato che la non precisa formulazione a livello normativo dei doveri di comportamento e delle incompatibilità dei dirigenti abbia in concreto interferito con l’attuazione del principio di separazione tra funzioni d’indirizzo e compiti di gestione. Infatti, il dirigente pubblico, proprio perché titolare in via esclusiva dei compiti di amministrazione e gestione, deve non solo essere sottratto ai poteri di 279 280 MERLONI, op. loc. ult. cit. MERLONI, op. cit., p. 56. 120 condizionamento degli organi politici, ma deve anche mantenere una posizione imparziale rispetto agli interessi privati che possono interferire nell’attività amministrativa. In questo senso, la mancata esatta definizione nel vigente ordinamento dei doveri di comportamento e delle incompatibilità dei dirigenti pubblici rischia di tradursi, unitamente alle altre criticità evidenziate, in un’incompleta realizzazione del principio di separazione tra politica e amministrazione. Certamente, tuttavia, bisogna anche evitare di cadere nella situazione opposta rispetto a quella attuale, in cui si corre cioè il pericolo che gli indirizzi espressi dalla politica non ricevano attuazione a causa degli ostruzionismi di intoccabili e potenti dirigenti. Tale affascinante tematica, quindi, impone la ricerca di un difficile punto di equilibrio che, per vero, non pare però essere stato raggiunto dall’odierno assetto normativo. La soluzione seguita, infatti, sembra troppo sbilanciata nei fatti a favore degli organi politici, al di là delle solenni enunciazioni di principio spesso effettuate dal legislatore. In questo angolo visuale devono essere letti con favore tutti gli interventi di riforma, tra cui in particolare il decreto Brunetta (d.lgs. n. 150 del 2009), i quali tendono concretamente a rendere misurabile ed oggettivo il giudizio sull’operato dei funzionari pubblici, magari avvalendosi delle più moderne tecniche di analisi dei dati, in modo da ridurre gli spazi di discrezionalità e di soggettivismo in capo agli organi politici, pericolosi strumenti per la contaminazione dell’imparzialità dell’agire pubblico e per la penetrazione di pressioni faziose nell’azione amministrativa. L’ambiguità del vigente sistema si coglie, inoltre, anche sotto un altro profilo: l’attuale disciplina, infatti, fa sì che gli organi elettivi fissino solo gli indirizzi, senza essere più responsabili dei provvedimenti, posto che essi sono ormai di esclusiva competenza dei dirigenti, i quali, a loro volta, sono sottoposti ai controlli dei vertici politici. Si potrebbe pertanto sostenere che tale assetto determini un deficit di legittimazione democratica nell’azione amministrativa, posto che essa si realizza principalmente per mezzo di provvedimenti la cui competenza e la cui responsabilità ricadono su soggetti (i dirigenti) non eletti dal popolo, ma ciononostante sottoposti ai 121 controlli della politica. Il modello di Pubblica Amministrazione sancito dall’art. 95 Cost., per il quale i vertici politici sono responsabili degli atti posti in essere nell’ambito delle pertinenti strutture burocratiche, rischia quindi di essere messo seriamente a repentaglio dalle scelte di compromesso operate dal legislatore, senza nemmeno che a ciò faccia da contrappeso un’adeguata garanzia dell’imparzialità dell’agire pubblico; con la conseguenza che sembra rimanere del pari inattuato anche il disposto degli artt. 97, 98 e 51 Cost. Alla luce di quanto emerso si può quindi sostenere che le vie per eliminare le attuali ambiguità normative potrebbero essere due ed alternative tra loro. In primo luogo, si potrebbe optare per un sistema in cui i provvedimenti e le responsabilità (anche gestionali) siano assunte direttamente dalla politica, mentre la dirigenza fungerebbe solamente da organismo di supporto tecnico e non più da soggetto responsabile all’esterno, ma privo della necessaria investitura democratica. Tale scelta finirebbe quindi per spostare indietro le lancette dell’orologio istituzionale a data anteriore alla legge n. 142 del 1990, superando quindi il principio di separazione tra funzioni d’indirizzo politico e competenze gestorie. In questo contesto le assegnazioni degli incarichi dirigenziali potrebbero avvenire esclusivamente con sistemi di tipo concorsuale, poiché gli unici aspetti da vagliare dovrebbero essere le loro conoscenze tecnico-specialistiche, con la conseguenza che il relativo potere dovrebbe essere concretamente affidato a commissioni composte da esperti del settore e professori universitari. Aderendo a questa impostazione, pertanto, non avrebbe più senso l’attuale meccanismo delle nomine e delle revoche degli incarichi affidato agli organi politici, che nella vigente disciplina, in linea teorica, serve a recuperare un minimo di legittimazione democratica dell’azione amministrativa, mentre, nei fatti, mina in radice l’autonomia dei dirigenti dal ceto elettivo, consentendo alla politica di governare per interposta persona - ossia avvalendosi di funzionari eventualmente compiacenti - senza assumere le relative responsabilità. 122 Questa soluzione, tuttavia, si espone al rilievo che rischia di compromettere eccessivamente l’imparzialità dell’agire pubblico ed il modello di Pubblica Amministrazione evincibile dagli artt. 97, 98 e 51 Cost., giacché protagonisti assoluti non solo dell’attività di indirizzo, ma anche delle concrete scelte gestorie diverrebbero gli organi politici, per loro natura espressione di una parte, ancorché maggioritaria, della comunità. Pertanto, ciò che si recupera sul terreno della legittimazione democratica si perde su quello dell’imparzialità, con la conseguenza che il vero problema diventerebbe solo capire in quale misura tale sacrificio sia giustificato dalla gratificazione della prima esigenza. In secondo luogo, si potrebbe ipotizzare una diversa scelta che lasci fermo il principio di separazione tra politica ed amministrazione, ma che si sforzi di perfezionarne la concreta realizzazione. Secondo tale angolo visuale, andrebbero corrette le ambiguità tuttora esistenti, in particolare sottraendo alla politica i poteri di nomina e revoca relativi agli incarichi dirigenziali e quello di controllo sull’attività di gestione, al fine di realizzare una reale autonomia della struttura burocratica dalle possibili ingerenze degli organi elettivi. Pertanto, siffatti poteri andrebbero affidati ad organismi di autogoverno della dirigenza, composti da rappresentanti della medesima classe (o interni al singolo ente o costituiti su base nazionale), analogamente a quanto accade nell’ambito della Magistratura o delle Autorità Amministrative Indipendenti. Del resto, le ultime riforme, in particolare il decreto Brunetta, hanno cercato di rendere oggettivo e misurabile il rendimento dei funzionari pubblici, onde il giudizio concernente le nomine e le revoche dei dirigenti dovrebbe divenire ormai essenzialmente tecnico e perciò affidato ad organismi competenti. Non avrebbe più molto senso, quindi, riservare detti poteri agli organi politici, posto che non è affatto detto che essi siano forniti delle necessarie conoscenze specialistiche occorrenti a tal fine281. Né pare si possa sostenere che l’attribuzione agli organi politici dei poteri di 281 I politici, infatti, vengono eletti e non selezionati in base alle loro competenze tecniche. Il giudizio elettorale, invero, prescinde dalle conoscenze specialistiche del soggetto e si basa su altri elementi, quali l’affidabilità e la caratura del personaggio, la sua capacità di riscuotere consensi e di fare le scelte più opportune sul piano mediatico, la sua abilità nel gestire al meglio i rapporti all’interno del partito. Non è infrequente, infatti, che siano nominati per esempio Sindaci o Ministri persone non dotate delle competenze tecniche tipiche della struttura burocratica cui sono preposti (ad esempio, un medico Sindaco di una grande città o un Ministro della giustizia ingegnere). Né ciò deve sorprendere perché agli 123 nomina e revoca dei dirigenti sia funzionale a garantire una legittimazione democratica all’attività di gestione amministrativa, giacché, se è vero che ormai la valutazione del rendimento dei funzionari pubblici si fonda su un giudizio tecnico ed oggettivo, non si capisce quale investitura democratica del dirigente possa celarsi dietro di esso. Gli spazi di discrezionalità tecnica comunque sussistenti (e forse ineliminabili), rischiano, ove il relativo potere continui ad essere affidato agli organi politici, di compromettere l’indipendenza della classe dei burocrati e di divenire il terreno per l’esercizio di indebite ingerenze della politica nei settori ad essa sottratti dall’ordinamento. Ne consegue che i poteri di nomina e revoca dei dirigenti dovrebbero fondarsi esclusivamente su meccanismi di tipo concorsuale (per esami e/o per titoli) ed essere affidati ad organismi di autogoverno della categoria. Agli organi politici residuerebbero, pertanto, i poteri d’indirizzo e programmazione, ossia quelli sulla base dei quali dovrebbe realmente fondarsi il giudizio elettorale e per i quali tali soggetti dovrebbero assumere la responsabilità sul piano esterno. D’altro canto, il rischio che le strutture burocratiche possano porre in essere condotte ostruzionistiche verso gli indirizzi ed i programmi espressi dalla politica pare essere adeguatamente contenuto dal meccanismo di valutazione tecnica cui sono soggetti i dirigenti, poiché esso dovrebbe fondarsi principalmente sulla capacità di conseguimento degli obiettivi prefissati in via generale. In conclusione, non va in ogni caso trascurato che il tema dei rapporti tra politica ed amministrazione è un problema non solo di regole, ma anche di uomini, nel senso che il concreto successo del modello teorico prescelto dipende comunque dalla capacità e dalla correttezza delle persone che vi danno attuazione. Come sempre accade, quindi, nello studio delle soluzioni normative più appropriate, non si può mai dimenticare che le idee, anche le migliori, camminano inevitabilmente sulle gambe degli individui. organi rappresentativi non dovrebbero essere assegnate funzioni tecniche, ma solo d’indirizzo politico e di rappresentanza dell’ente. 124 II.16 La relazione tra politica e amministrazione nei principali Paesi europei. Il problema dei rapporti tra politica e amministrazione si pone non solo nell’ordinamento italiano, ma in ogni Paese democratico e ispirato ai principi dello Stato di diritto. Anche sul piano comparatistico, dunque, la questione principale è rappresentata dalla necessità di tradurre l’indirizzo politico in atti di gestione coerenti, senza però privare la dirigenza pubblica dell’autonomia funzionale a garantirne l’imparzialità. Le soluzioni adottate al medesimo problema dai vari Stati europei divergono tra loro anche notevolmente, ma tutte mostrano, in misura più o meno maggiore, taluni profili di ambiguità e di criticità. In questa sede si procederà, quindi, ad una sintetica panoramica delle scelte di fondo seguite nei principali Paesi del Vecchio Continente, che mostreranno problemi analoghi a quelli fin qui riscontrati nell’ordinamento nazionale. Nel Regno Unito, ad esempio, si segue un modello c.d. unitario, nell’ambito del quale la sfera politica e quella amministrativa si rivelano sostanzialmente coincidenti e la seconda rappresenta una mera esecutrice materiale della prima 282. Tale sistema si fonda sui principi di democrazia rappresentativa e di sovranità popolare, i quali prevedono che l’esercizio della funzione pubblica riceva una chiara ed evidente legittimazione democratica283. A tal fine è stato creato un circuito di responsabilità (chain of accountability), in base al quale i funzionari pubblici rispondono del loro agire davanti ai Ministri, che sono responsabili di fronte al Parlamento, che, a sua volta, risponde direttamente all’elettorato, di cui, peraltro, è espressione. In tal modo emerge un rapporto di dipendenza delle strutture burocratiche dalla volontà dei cittadini; infatti, questi ultimi scelgono i membri del Parlamento, i quali, attraverso la responsabilità politica del Governo, danno legittimazione democratica all’operato 282 VALENSISE, Le relazioni tra politica e amministrazione: la dirigenza pubblica, in Istituzioni, politica e amministrazione. Otto Paesei europei a confronto, Torino, 2005, p. 234. 283 Storicamente, infatti, la monarchia inglese, a differenza di quella in passato esistente in altri Stati come la Francia, si basava (e tuttora si basa) sulla volontà della Nazione e non tanto sulla Grazia di Dio, evidenziando così plasticamente la tradizionale attenzione culturale della Gran Bretagna per l’investitura democratica delle Istituzioni. 125 della Pubblica Amministrazione. Pertanto, il Regno Unito rifiuta la natura tecnocratica delle scelte compiute per la tutela dell’interesse pubblico, dando prevalenza al principio di sovranità popolare e configurando, perciò, l’Amministrazione come uno strumento nelle mani della politica284. Per questi motivi, i politici dispongono di un potere di scelta fiduciaria dei funzionari pubblici, i quali restano anonimi in quanto gli atti amministrativi sono adottati direttamente dai primi. Tale sistema sembrerebbe pregiudicare l’esigenza che la Pubblica Amministrazione agisca in modo imparziale. Tuttavia, occorre notare che i burocrati di carriera inglesi hanno sviluppato una spiccata cultura della neutralità, secondo la quale il funzionario pubblico deve essere in grado di servire fedelmente qualsiasi maggioranza politica, a prescindere dalle convinzioni personali. Alcune riforme intervenute nel corso degli ultimi anni, però, hanno alterato la purezza del modello inglese, contaminandolo con elementi spuri. In particolare, nel 1988 sono state istituite le next steps agencies, ossia entità organizzative dotate di autonomia rilevante al loro vertice, dove sono stati posti dirigenti di nomina politica con contratti a termine. In tal modo si è verificata una scissione tra politica e amministrazione che non consente di ravvisare una responsabilità esclusiva del Ministro per tutti gli atti amministrativi. Nello stesso tempo sono aumentate le nomine dei c.d. policy advisers, ossia consiglieri del Ministro di nomina fiduciaria, spesso scelti tra soggetti esterni all’Amministrazione. Essi esercitano un notevole potere direttivo nei confronti dei funzionari di carriera, erodendo progressivamente gli spazi decisionali loro riservati, e non manifestano quella spiccata imparzialità propria invece dei vecchi dirigenti vincitori di concorso pubblico. La burocrazia inglese sta dunque mutando sì da apparire composta sempre più da uomini di fiducia dei politici e non da tecnocrati imparziali e anonimi. In Francia, invece, si tende a seguire un modello di separazione tra politica e amministrazione esattamente opposto rispetto a quello del Regno Unito. Ciò non significa, però, che non sia adeguatamente soddisfatta la necessità che l’indirizzo 284 VALENSISE, op. cit., p. 235. 126 politico riceva piena attuazione da parte dei dirigenti pubblici, attesa la presenza di formule di raccordo tra le due sfere285. In questo sistema la burocrazia ha acquisito forza e prestigio grazie all’elevata preparazione tecnica e culturale dei funzionari, i quali accedono agli impieghi di livello più alto attraverso l’Ecole Nationale d’Administration e l’Ecole Polytechnique. Concluso il periodo di formazione, gli allievi di queste scuole vengono immessi direttamente all’interno dei grand corps, ossia organizzazioni interne al pubblico impiego, nei quali sono inquadrati tutti i funzionari sottoposti allo stesso statuto (ad esempio coloro che prestano servizio per lo Stato) e nel cui ambito si sviluppa la carriera di ciascuno di essi. Ciò ha favorito la nascita di uno spirito corporativistico e di severe regole deontologiche di categoria, i quali hanno contribuito alla difesa dei funzionari da condizionamenti esterni e all’esercizio imparziale della funzione pubblica. Si aggiunga, poi, che l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, richiamata nel preambolo della Costituzione del 1958, sancisce la parità di accesso di tutti i cittadini alle cariche pubbliche, senza altre distinzioni che quelle fondate sulle loro capacità professionali. Anche il sistema francese, però, è entrato progressivamente in crisi. Le nomine dei funzionari pubblici, infatti, non avvengono solo attraverso le grandi istituzioni formative, ma anche tramite meccanismi di designazione fiduciaria. Invero, il Governo può assegnare discrezionalmente circa 700 incarichi di livello apicale, ossia gli emplois à la discretion. In questi casi la procedura non prevede alcun concorso ed è riconosciuto un potere di revoca alla stessa autorità che ha effettuato la nomina. Inoltre, il Governo può avvalersi del c.d. tour extérieur che consente l’immissione in via permanente di soggetti nell’alta burocrazia senza alcuna procedura concorsuale. Ne consegue, quindi, il rischio di una forte politicizzazione di tali funzionari e d’inquinamento del modello dualistico francese. 285 VALENSISE, op. cit., p. 230. 127 Infine, il Governo può assegnare a soggetti esterni e in modo fiduciario gli incarichi presso gli uffici di diretta collaborazione dei Ministri, analogamente a quanto accade nell’ordinamento italiano. Come evidenziato dalla dottrina286, il problema della politicizzazione dell’Amministrazione francese è aumentato con l’affermarsi di maggioranze stabili di Governo che vedevano come un ostacolo al conseguimento degli obiettivi programmati la presenza di una burocrazia forte e indipendente. In tal modo, però, si è sacrificata in modo forse eccessivo l’esigenza d’imparzialità della funzione amministrativa. Per quanto riguarda la Germania, occorre segnalare che, considerata la struttura federale del Paese, la funzione esecutiva compete ai vari Lander, ciascuno organizzato in modo diverso, con la conseguenza che in tale ordinamento risulta difficile ricostruire in modo unitario i rapporti tra politica e amministrazione. In ogni caso, la Carta costituzionale (Grundgesetz) riserva l’esercizio del potere pubblico ai funzionari della carriera più elevata (Beamten), in tal modo evidenziando una propensione alla tutela dell’imparzialità dell’azione amministrativa287. Inoltre, in base ad alcune pronunce della Corte costituzionale tedesca, per i livelli più alti della burocrazia sarebbe preclusa una disciplina del rapporto di lavoro in termini privatistici. Per le altre categorie di lavori pubblici, invece, non esiste alcun ostacolo alla privatizzazione del rapporto d’impiego, cosicché il legislatore ha introdotto per esse regole privatistiche, salvo il rinvio ad alcune norme di diritto pubblico. Alcune recenti riforme, poi, hanno permesso di porre al vertice dell’Amministrazione non solo funzionari nominati previo concorso pubblico, ma anche soggetti esterni, selezionati in modo fiduciario, pur sempre assoggettati, però, ad un regime pubblicistico. Nello stesso tempo, è stato previsto un potere politico di rimozione dei dirigenti sgraditi. In tal modo, dunque, sono stati introdotti elementi di politicizzazione in una struttura organizzativa tendenzialmente meritocratica, sì da 286 287 VALENSISE, op. cit., p. 231. VALENSISE, op. cit., p. 233. 128 rendere il modello tedesco per molti aspetti contraddittorio288. In ogni caso, la soluzione adottata in Germania, pur con i suoi difetti, è apparsa a molti studiosi tra le più equilibrate nell’ambito del ricco scenario europeo, in quanto riesce a coniugare in modo apprezzabile l’esigenza di attuazione del programma politico con la garanzia dell’imparzialità dell’azione amministrativa289. In Spagna è sempre stata considerata prevalente l’esigenza da parte della politica di assicurarsi un legame fiduciario con la dirigenza pubblica. Ciononostante, la Carta costituzionale stabilisce che l’accesso al pubblico impiego debba avvenire in base a criteri paritari e meritocratici. Pertanto, l’ordinamento spagnolo vive questa profonda contraddizione di fondo tra la valorizzazione del carattere professionale della burocrazia e l’intento di consentire alla politica la realizzazione degli obiettivi programmati. Questa duplicità di fini emerge plasticamente nella Ley de Medidas para la Reforma de la Funciòn pùblica del 1984, nell’ambito della quale convivono sia l’accesso alla funzione pubblica per il tramite di concorso pubblico sia gli incarichi affidati fiduciariamente a soggetti esterni290. Questi ultimi in particolare possono avvenire attraverso due differenti sistemi di designazione. In primo luogo, vi è il c.d. personal eventual, ossia la possibilità di effettuare nomine fiduciarie che non soggiacciono ad alcun tipo di onere procedurale e formale. Tale metodo si applica ai componenti dei Gabinetti ministeriali, ai Segretari generali, agli Ambasciatori e ai presidenti di enti pubblici economici, i quali, peraltro, possono essere revocati in modo ampiamente discrezionale. Il secondo sistema di designazione fiduciaria è la c.d. libre designaciòn politica, con la quale alcuni incarichi vengono attribuiti a funzionari di carriera scelti dagli organi politici secondo valutazioni discrezionali fondate sulle capacità professionali dimostrate dal soggetto nel corso della vita lavorativa. Questo metodo si applica alle figure direttive e, solo di recente, è stato esteso ai subsecretarios291. 288 VALENSISE, op. cit., p. 234. VALENSISE, op. cit., p. 234. 290 VALENSISE, op. cit., p. 241. 291 VALENSISE, op. loc. ult. cit. 289 129 Una recente ricerca ha dimostrato che nel 1996 oltre 400 dirigenti apicali sono stati designati secondo il sistema del c.d. personal eventual, mentre 6.000 posizioni direttive sono state attribuite in base alla c.d. libre designaciòn politica292. Da quanto esposto consegue che in Spagna il modello della separazione tra politica e amministrazione sia rimasto sostanzialmente inattuato, nonostante il principio di selezione meritocratica dei dipendenti pubblici presente nella Carta costituzionale. Infatti, il sistema concorsuale si applica solo con riferimento alle cariche di livello più basso della burocrazia, mentre gli incarichi di vertice sono assegnati in modo fiduciario dagli organi politici. Ne discende, perciò, una scelta dell’ordinamento fortemente sbilanciata a favore delle esigenze della politica, analogamente a quanto si è visto accadere nel sistema italiano. La Polonia, infine, si trova ancora in una fase di transizione dovuta al passaggio dal regime autoritario alla democrazia parlamentare293. Fino al 1989 i dirigenti pubblici erano legati fiduciariamente al regime politico ed erano tenuti a dare piena e fedele esecuzione al programma del Partito comunista. La burocrazia appariva, quindi, priva di una propria autonomia decisionale e spesso accadeva che talune decisioni fossero assunte ed eseguite direttamente da organi politici. Dopo la caduta del muro di Berlino, invece, è stata istituita la Scuola Nazionale di Amministrazione Pubblica, la quale ha consentito l’ingresso nel pubblico impiego di giovani selezionati con logiche meritocratiche. Ciò ha permesso di offrire l’immagine di un’amministrazione politicamente più neutrale e più indipendente dalle maggioranze politiche. Pertanto, la Polonia ha iniziato un lento cammino verso un modello di separazione tra politica e amministrazione in cui agli organi politici compete l’attività d’indirizzo e programmazione, mentre alla burocrazia spetta l’esercizio delle funzioni di gestione. A tal fine sono stati garantiti sia la stabilità del posto di lavoro per i funzionari pubblici sia il potere di rifiuto, da parte di questi 292 293 VALENSISE, op. cit., p. 242. VALENSISE, op. cit., p. 238. 130 ultimi, degli ordini erronei o illegali. Lo disciplina sul pubblico impiego prevede altresì che il funzionario non debba essere influenzato nell’esercizio delle sue mansioni dalle proprie convinzioni politiche o religiose e che non possa manifestarle pubblicamente. Inoltre, per i livelli più alti della dirigenza è preclusa ex lege la partecipazione attiva in partiti politici294. Malgrado gli sforzi compiuti nella direzione della separazione tra politica e amministrazione, il sistema polacco resta ancora caratterizzato da una forte ingerenza della politica nella gestione amministrativa, con la conseguenza che è necessario che prosegua ancora molto nel percorso apprezzabile intrapreso. 294 VALENSISE, op. cit., p. 240. 131 PARTE TERZA: ANALISI SPECIFICA DEL TEMA Le soluzioni emerse nelle esposte premesse consentono di analizzare con maggiore consapevolezza il tema specifico dei riflessi penalistici del principio di separazione tra politica e amministrazione. E’ evidente, infatti, che le riforme succedutesi negli ultimi anni, che hanno contribuito a delineare l’attuale assetto di competenze tra organi di indirizzo politico e organi burocratici, hanno avuto, nel contempo, forti impatti sul sottosistema penale dei reati realizzabili nel corso dell’attività amministrativa. Nell’ultima parte di questo lavoro, quindi, non si farà altro che applicare le coordinate generali, fin qui esposte, all’oggetto immediato del presente studio, dando atto delle possibili tesi ipotizzabili e dei contributi dottrinali e giurisprudenziali al momento esistenti. In particolare, ci si soffermerà sui reati omissivi impropri realizzabili dagli organi politici, alla luce dell’attuale riparto di competenze esistente in materia. Più nel dettaglio, ci si occuperà, in primo luogo, dei reati omissivi impropri monosoggettivi, distinguendo tra ipotesi dolose e colpose; in secondo luogo, l’analisi si sposterà sulla verifica circa la sussistenza di una responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato doloso dell’organo di gestione amministrativa da parte dell’organo di indirizzo politico. Ci si domanderà, cioè, se l’organo di rappresentanza democratica assuma una posizione di garanzia (di controllo) sull’operato altrui nell’ambito della propria attività istituzionale. 132 III.1 Responsabilità omissiva impropria monosoggettiva: insussistenza di una posizione di garanzia a carico degli amministratori pubblici per la protezione di tutti i cittadini da qualsiasi pericolo. Alla luce di quanto emerso nella prima parte del presente studio, secondo la tesi prevalente e preferibile non dovrebbe essere rinvenibile, a carico degli amministratori degli enti pubblici territoriali, un obbligo di garanzia-protezione che imponga l’esercizio di poteri-doveri di vigilanza e impeditivi allo scopo di preservare tutti i cittadini, che vivono nella zona, da qualsiasi rischio per i beni o interessi di loro spettanza. Infatti, nell’attuale assetto normativo manca una norma giuridica che imponga un obbligo di questo genere, sicché difetta il primo dei requisiti della posizione di garanzia, in precedenza analizzati, ossia la giuridicità dell’obbligo. Peraltro, ove anche esistesse una fonte giuridica dello stesso, in ogni caso un simile obbligo sarebbe inesigibile, attesa l’enorme varietà dei casi e dei pericoli cui ciascun soggetto è esposto nel corso della vita sociale295. A ciò si aggiunga che l’obbligo di garanzia deve corrispondere a specifiche istanze di protezione, che si traducono in relazioni bilaterali tra garante e bene, onde non è immaginabile una posizione di garanzia diretta alla salvaguardia di tutti i beni di tutti i consociati296. La ratio delle posizioni di garanzia è, infatti, la tutela di beni giuridici scelti in base alla loro vulnerabilità e in ragione degli eventi lesivi prevedibili, con la conseguenza che non è condivisibile una dilatazione del reato omissivo improprio che ne alteri natura e funzione. Del resto, non è accettabile l’idea che la comunità dei cittadini sia composta per definizione da persone incapaci di autoprotezione. Non si può, infatti, seguire la tesi paternalistica, che si fonda sull’idea che il consociato sia parzialmente incapace di difendere i suoi beni, poiché essa contrasta con i principi di libertà e dignità 295 MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 91; Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 1998, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, p. 1407. 296 FIANDACA, Il reato commissivo, cit., p. 197; BISORI, L’omesso impedimento del reato altrui, cit., p. 1373; RUDOLPHI, in SK, Stgb,17, Lfg, 6, Berlin, 1992, 44/14 ss., il quale si pone in chiave critica rispetto alle dilatazioni delle posizioni di garanzia dei pubblici amministratori e, conseguentemente, esclude che l’obbligo di cura dello Stato possa riguardare un cittadino minacciato nei suoi beni, che non si trovi in uno stretto rapporto con l’organo pubblico, ma si relazioni con l’ente nell’ambito di normali rapporti intersoggettivi. In tal caso, infatti, il cittadino non si trova in una condizione di minorazione tale per cui non possa tutelare i beni giuridici di sua spettanza. In queste ipotesi, quindi, l’ordinamento deve solo garantirgli le facoltà di autodifesa e le reazioni di necessità. MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 91. 133 dell’individuo, che ispirano la Costituzione repubblicana, e con l’art. 2 Cost., il quale, tra i diritti inviolabili dell’uomo, include anche quello di autodifesa ex art. 52 c.p.297 Si è già visto, inoltre, che le posizioni di garanzia sono volte a sopperire alla totale o parziale incapacità del titolare dei beni da tutelare, mentre la piena capacità dei soggetti da proteggere rappresenta un serio ostacolo alla configurazione di un obbligo d’impedimento dell’evento. Infine, non va trascurato che nel caso di specie manca un atto di disposizione da parte dei soggetti capaci, titolari dei beni da proteggere, tramite il quale sarebbe possibile l’affidamento del bene al garante: è noto, infatti, che, ai fini dell’insorgenza di una posizione di garanzia derivata, non può ritenersi sufficiente il generico e astratto affidamento ai pubblici amministratori della funzione istituzionale298, ma occorre una delega precisa e circoscritta. III. 2 Responsabilità per danni da uso delle strade Escluso, pertanto, che sugli amministratori degli enti pubblici territoriali sussista una posizione di garanzia di tale ampiezza da comportare l’obbligo d’impedimento di qualsiasi evento lesivo nei confronti di qualunque consociato che si muova all’interno della zona di competenza, occorre ora soffermarsi sul tema della responsabilità per danni da uso delle strade. Partendo dall’analisi dei profili civilistici, per giungere solo in seguito a quelli più prettamente penalistici, occorre dare atto innanzitutto del quadro normativo di riferimento. Al riguardo, viene in rilievo, in primo luogo, l’art. 2051 c.c., ossia la disposizione concernente la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia, sulla cui applicabilità alla Pubblica Amministrazione si è registrato in passato un contrasto giurisprudenziale. Infatti, inizialmente la Corte di Cassazione civile299 ha escluso che la P.A. soggiacesse alla disposizione de qua, sulla base di due argomenti 297 PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 74. MARCONI, op. cit., p. 93. 299 Cass., 29 novembre 1966, n. 2806; Cass., 5 febbraio 1969, n. 385; Cass., 23 gennaio 1975, n. 260; Cass., 13 febbraio 1978, n. 671; Cass., 23 luglio 1991, n. 8244. 298 134 principali: in primo luogo, si è ritenuto che la stessa si ponesse in frizione con il principio della presunzione di legittimità, caratterizzante l’attività della P.A.; in secondo luogo, si è sostenuta l’incompatibilità tra l’art. 2051 c.c. e la notevole estensione dei beni di proprietà dell’Amministrazione. In senso critico si è, però, obiettato che la presunzione di legittimità riguarda l’agire pubblicistico dell’Amministrazione e non già i comportamenti materiali della stessa assunti iure privatorum. Inoltre, in chiave empirica, si è giustamente evidenziato che non tutti i beni nella disponibilità della P.A. sono caratterizzati dal requisito della notevole estensione. Per tali ragioni, in seguito la Suprema Corte ha mutato orientamento, ritenendo applicabile anche alla Pubblica Amministrazione l’art. 2051 c.c., giacché quest’ultima, quando agisce iure privatorum, soggiace alle norme di diritto civile come qualunque altro soggetto privato300. Presupposti di operatività dell’art. 2051 c.c. sono, come noto, la custodia e la derivazione del danno dalla cosa. Quanto al concetto privatistico di custodia, esso consiste nel potere di concreta disponibilità e controllo della res. Tale potere deve essere effettivo301 e può corrispondere ad una situazione anche di mero fatto, ossia priva di un supporto giuridico. Infatti, sono qualificabili come custodi tutti i soggetti pubblici o privati che hanno il possesso o la detenzione (legittima o anche abusiva302) della cosa. Inoltre, il dovere di custodia e la correlata responsabilità ex art. 2051 c.c. non vengono meno (anche per la P.A.) nemmeno laddove il potere di fatto sulla cosa risulti solo in parte trasferito a terzi, poiché perdura in tal caso l’obbligo di vigilanza e controllo303. Ne consegue, quindi, che la situazione giuridica qualificante è da ravvisarsi nella particolare relazione del soggetto con la cosa, sia essa di fonte legale o negoziale. Orbene, con particolare riguardo all’applicabilità dell’art. 2051 c.c. alla P.A., si è già visto che la giurisprudenza ormai prevalente l’ha affermata in termini generali, ma 300 Cass., 21 maggio 1996, n. 4673; Cass., 1998, n. 11749; Cass., 22 aprile 1998, n. 4070. Tra le molte si richiamano, per l’approfondito excursus giurisprudenziale, Cass. Civile, sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, in Corriere giuridico, n. 12 del 2006, p. 1727 e ss. e Cass., 11 novembre 2011, n. 23562, in La Rivista Neldiritto, 2, 2012, p. 212 e ss., con nota di ROSSETTI, Insidia stradale e colpa della P.A. 301 Cass., 23 ottobre 1990, n. 10277; Cass., 25 novembre 1988, n. 6340. 302 Cass., 3 giugno 1976, n. 1992; Cass., 20 ottobre 2005, n. 20317. 303 Cass., 2 aprile 2004, n. 6515. 135 occorre ora segnalare che, all’interno di tale filone, l’orientamento meno recente della Suprema Corte l’ha negata in relazione ai beni demaniali sui quali si esercita un uso generale e diretto da parte dei cittadini, come nel caso delle strade e delle autostrade. In tali casi, infatti, la giurisprudenza in passato dominante ha sostenuto che l’uso indifferenziato attribuito al quisque de populo renda impossibile l’esercizio concreto di un’idonea custodia da parte dell’Amministrazione pubblica, tale da poter essere fonte della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c.304. Pertanto, in questi casi si reputava al più applicabile il generale principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. In questo contesto i giudici di legittimità hanno elaborato il concetto di insidia o trabocchetto determinante un pericolo occulto, per il carattere oggettivo della non visibilità e soggettivo della non prevenibilità305. Lo stesso è stato considerato “un indice tassativo ed ineludibile della responsabilità della P.A.” 306, il cui onere della prova incombeva sul danneggiato307, in ossequio alla regola generale in tema di responsabilità aquiliana, secondo cui la prova degli elementi costitutivi dell’illecito è a carico del creditore. Più di recente, invece, una parte della giurisprudenza di legittimità308 ha sostenuto che gli unici presupposti applicativi dell’art. 2051 c.c. siano la custodia e la derivazione del danno dalla res, mentre difetterebbero di un fondamento normativo gli ulteriori requisiti, individuati dall’orientamento tradizionale, della estensione ridotta del bene e della mancanza di un uso generale e diretto da parte dei consociati. Infatti, secondo il nuovo indirizzo, l’art. 2051 c.c. pone una presunzione di colpa in capo al soggetto che esercita la custodia sul bene, con la conseguenza che incombe sul danneggiante l’onere di provare l’insussistenza dell’elemento soggettivo. Al riguardo, la prova liberatoria da fornire concerne il c.d. caso fortuito, nell’ambito del quale possono assumere un significato l’estensione del bene e l’uso diretto e generalizzato da parte dei consociati, che in passato erano considerati, nei casi in esame, alla stregua di presupposti 304 Cass. Civ., sez. III, 15 gennaio 1996, n. 265, in Giust. Civ. Mass., 1996, p. 46; Cass. Civ., sez. I, 26 gennaio 1999, n. 674, in Riv. Giur. Polizia, 1999, p. 610; Corte Cost., 10 maggio 1999, n. 156, in Cons. Stato, 1999, II, p. 693. 305 Cass., 28 gennaio 2004, n. 1571; Cass., 8 novembre 2002, n. 15710; Cass., 21 dicembre 2001, n. 16179 etc.. 306 Cass., 1 dicembre 2004, n. 22592. 307 Cass., 4 giugno 2004, n. 10654; Cass., 30 luglio 2002, n. 11250; Cass., 12 giugno 2001, n. 7938. 308 Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, cit.; Cass., 6 giugno 2008, n. 15042. 136 applicativi dell’art. 2051 c.c. In altri termini, la P.A. può escludere la colpa, e quindi la responsabilità civile, provando che l’impedimento dell’evento avrebbe comportato l’impiego di mezzi straordinari inesigibili. In questa prospettiva, pertanto, l’art. 2051 c.c. rappresenta semplicemente un’eccezione al riparto dell’onus probandi di cui all’art. 2697 c.c., la cui ratio pare debba essere rinvenuta nel principio di vicinanza della prova309. Per altro verso, l’indirizzo più recente della Suprema Corte310 reputa che al danneggiato non possa farsi carico della prova anche dell’insidia o del trabocchetto, che sono estranei alla responsabilità ex art. 2051 c.c., così come alla generale figura di cui all’art. 2043 c.c. In altre parole, diversamente da quanto sostenuto costantemente in passato dalla Suprema Corte311 e dalla Consulta312, la tesi seguita negli ultimi anni dai giudici di legittimità esclude che si possa assegnare rilievo a figure come l’insidia o il trabocchetto determinanti pericolo occulto, in quanto prive di un fondamento normativo e frutto solamente dell’elaborazione giurisprudenziale che, muovendo da esigenze di limitazione delle ipotesi di responsabilità, ha finito tuttavia per risolversi, laddove veniva a porre la relativa prova a carico del danneggiato, in termini di ingiustificato privilegio per la P.A. La posizione probatoria del danneggiato risultava, infatti, in tal modo aggravata, in contrasto non solo con il tenore letterale ed il portato sostanziale delle norme, ma, in termini generali, anche con le stesse scelte di fondo dell’ordinamento in materia di responsabilità civile, rispondenti al riconosciuto favor per il soggetto che ha subito un danno. Tanto premesso sul crinale del diritto civile, occorre ora soffermarsi sugli aspetti penalistici della questione, con particolare riguardo alla responsabilità per omissione impropria colposa degli organi dell’Amministrazione competenti in materia di gestione dei beni in custodia della P.A. Orbene, si è già visto che il primo dei requisiti della posizione di garanzia è la giuridicità dell’obbligo di impedimento dell’evento, onde la necessità di rinvenire una norma che istituisca un soggetto come garante. Nel 309 Cass., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, cit. Cass., 17 maggio 2001, n. 6767; Cass., 20 febbraio 2006, n. 3651; Cass., 6 giugno 2008, n. 15042. 311 Sez. Unite, 7 agosto 2001, n. 10893. 312 Corte Cost., 10 maggio 1999, n. 156. 310 137 caso in esame, ossia in tema di responsabilità per eventi lesivi derivanti da beni nella disponibilità della P.A., il fondamento giuridico della posizione di garanzia è stato rinvenuto nell’art. 2051 c.c., con la conseguenza che la giurisprudenza penale sul punto ha inevitabilmente risentito delle opzioni ermeneutiche seguite dalla Suprema Corte in ambito civilistico. Infatti, una pronuncia della sezione IV del 1998313, facendo pedissequa applicazione in un processo penale della tesi all’epoca dominante nella Cassazione Civile, ha escluso che il Sindaco di un Comune fosse responsabile degli eventi lesivi derivanti da uso delle strade, sull’assunto che l’art. 2051 c.c. non fosse applicabile in presenza di beni pubblici di notevole estensione e soggetti all’uso indifferenziato da parte dei consociati. I giudici di legittimità, invero, hanno ritenuto che sarebbe stato assurdo ravvisare una responsabilità penale dell’organo esponenziale del Comune in un caso di irresponsabilità civile della stessa Amministrazione, alla luce dell’esegesi dell’art. 2051 c.c. all’epoca fornita dalle Sezioni Civili. Si è già visto, però, che negli anni successivi la Corte di Cassazione Civile ha mutato orientamento in merito alla responsabilità per danni da cose in custodia, escludendo che presupposti di non operatività dell’art. 2051 c.c. siano la notevole estensione del bene e l’uso indifferenziato dello stesso da parte dei consociati. L’eliminazione di siffatto privilegio della P.A. in ambito civilistico dovrebbe quindi spiegare effetti sul versante penalistico, con la conseguenza che l’art. 2051 c.c. dovrebbe ora fungere da fondamento normativo per la sussistenza di una posizione di garanzia in capo all’organo dell’Amministrazione competente alla gestione e manutenzione delle strade. In questo senso, del resto, si era espressa parte della dottrina nel commentare in senso critico la citata pronuncia della IV sezione del 1998314. Si può quindi ritenere che dalla relazione di custodia tra Amministrazione e bene (anche di notevole estensione e soggetto ad uso generalizzato) nasca una posizione di garanzia, sub specie di controllo su situazioni di pericolo, in capo alla persona fisica preposta all’organo della P.A, competente in materia di gestione di tale 313 Cass. pen., sez. IV, 16 gennaio 1998 (ud. 18 novembre 1997), in Dir. pen. e proc., 1998, 11, p. 1408, con nota di LEONCINI, Le perduranti incertezze sul fondamento della responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento. 314 LEONCINI, Le perduranti incertezze sul fondamento della responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, cit., p. 1415. 138 res, la cui giuridicità trova base nel citato art. 2051 c.c. Con ciò, tuttavia, non si vuol negare che la notevole estensione del bene e l’uso generalizzato assumano un qualsiasi significato ai fini della responsabilità penale, ma si vuol semplicemente evidenziare che essi possono acquisire rilievo - come del resto ritiene oggi la Cassazione Civile ai fini della responsabilità aquiliana - solo sul piano dell’elemento soggettivo e non già per escludere in radice la sussistenza di una posizione di garanzia. Ciò posto, il problema penalistico diviene allora quello di individuare in concreto il soggetto sul quale si appunti un simile obbligo d’impedimento dell’evento lesivo derivante da cose in custodia dell’Amministrazione. Al riguardo, e con particolare riferimento ai reati omissivi impropri colposi per lesioni o omicidi derivanti dall’uso delle strade, ipotesi purtroppo di frequente applicazione giudiziaria, si registra in giurisprudenza una notevole incertezza in merito all’individuazione del soggetto garante. Infatti, la citata pronuncia della IV sezione del 1998 ha individuato, come possibile destinatario dell’obbligo di impedimento dell’evento, il Sindaco, in quanto organo di vertice del Comune che, ai sensi dell’art. 28 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, è l’ente proprietario delle strade locali e, perciò, è tenuto alla relativa manutenzione. La stessa pronuncia, inoltre, in un obiter dictum, prospetta in via ipotetica, laddove sia individuabile una responsabilità del Capo dell’Amministrazione, l’attrazione nell’imputazione dei responsabili di altri uffici comunali (come ad. es. l’ufficio tecnico e la polizia municipale). Altra sentenza del febbraio 2011,315 invece, ha ritenuto responsabile di lesioni colpose il dirigente dell’ufficio tecnico comunale che, in qualità di addetto alla manutenzione della rete stradale del Comune stesso, abbia omesso la necessaria manutenzione ordinaria del piano di calpestio del passaggio comunale tra il marciapiede e l’attraversamento della carreggiata, così permettendo il permanere di una “bolla” di materiale bituminoso rialzata rispetto al piano di camminamento e pericolosa in quanto difficilmente visibile e non segnalata in alcun modo, tale da provocare la caduta della persona Cass. pen, sez. IV, 16 febbraio 2011, in Diritto penale contemporaneo, con nota di DI LANDRO, Le” insidie stradali” e la responsabilità colposa dei dirigenti e degli amministratori pubblici locali: punti fermi e questioni ancora aperte nella giurisprudenza di legittimità, www.penalecontemporaneo.it 315 139 offesa. La sentenza in esame, dunque, si inserisce nel diverso filone giurisprudenziale secondo cui le omissioni nell’attività di manutenzione di una strada possono determinare una responsabilità colposa in capo al responsabile dell’ufficio tecnico comunale, considerati i compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti degli enti locali, ed i corrispondenti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo in merito alle fonti di pericolo. Tale orientamento prende, dunque, atto dell’intervenuta separazione a livello normativo delle funzioni di indirizzo e programmazione, assegnate agli organi politici da quelle gestionali di competenza dei burocrati degli enti pubblici. Al riguardo giova segnalare che un importante arresto della Suprema Corte316 ha espressamente escluso che sussistesse una responsabilità colposa, per danni da c.d. insidia stradale, in capo ai membri del Consiglio Comunale, attesa la distinzione di competenze emergente dall’art. 107 d.lgs. n. 267 del 2000, già analizzata nella parte seconda di questo studio. Nello stesso senso, una più risalente sentenza della Suprema Corte317, in un’ipotesi di mancato ripristino di un segnale stradale, ha escluso che il Sindaco e l’Assessore ai lavori pubblici siano tenuti a verificare personalmente la presenza dei prescritti cartelli stradali, in quanto, in via di principio, all’amministrazione comunale spettano compiti di vigilanza in ordine al regolare funzionamento di servizi e uffici, ma non anche il dovere di acquisire direttamente, fatta eccezione per i Comuni di piccole dimensioni, conoscenza delle eventuali carenze esistenti. Al contrario, la citata pronuncia ha ritenuto corretta l’affermazione di responsabilità - per il mancato ripristino del segnale di pericolo e per le conseguenti lesioni colpose - a carico del dirigente dell’ufficio tecnico comunale, il quale, nella sua qualità, ha l’obbligo di controllare la presenza e l’efficienza dei cartelli stradali e il ripristino di quelli rimossi. 316 Cass., sez. IV, 4 giugno 2004, Cattaneo, in Foro it., Rep. 2005, voce Omicidio e lesioni personali colposi, n. 29. Cass., 22 aprile 1982, Tecchio, in Arch. Circ., 1983, p. 216 e in Foro it., Rep. 1983, voce Omicidio e lesioni personali colposi. 317 140 Altro orientamento della Suprema Corte, invece, opina nel senso della responsabilità concorsuale degli organi politici e burocratici del Comune318. Infatti, in un caso di danno da insidia stradale (nella specie un dislivello privo di segnalazione), i giudici di legittimità hanno reputato che il Sindaco, con delega assessoriale ai lavori pubblici, rispondesse, in concorso con il responsabile dell’ufficio tecnico comunale, del reato di cui all’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose) per non aver attivato i necessari controlli sulla manutenzione delle strade. La Corte, invero, ha sostenuto che la posizione di garanzia del Sindaco e del responsabile dell’ufficio tecnico comunale imponesse loro di vigilare nell’ambito delle rispettive competenze al fine di evitare ai cittadini situazioni di pericolo quali quelle derivanti da una non adeguata manutenzione delle strade e dalla inerzia dei controlli. Nello stesso senso si è espressa altra pronuncia della Corte di Cassazione319, la quale ha affermato che, in tema di omicidio colposo mediante omissione, il Sindaco e l’Assessore comunale sono responsabili nel caso che non adottino alcun provvedimento urgente atto ad eliminare una situazione di pericolo di cui sono consapevoli. Secondo tale sentenza, la colpa omissiva di tali organi è esclusa solo nel caso in cui gli stessi non abbiano avuto conoscenza del pericolo, ovvero non abbiano avuto la possibilità concreta, anche con la normale diligenza, di porre in essere i rimedi utili per eliminare la fonte di pericolo. Nel caso concreto - morte di un soggetto precipitato nel vuoto perché appoggiatosi ad una ringhiera instabile nel corso dell’esecuzione di alcuni lavori pubblici - i giudici di legittimità hanno ritenuto che le autorità comunali avrebbero potuto adottare una serie di provvedimenti, come l’immediata chiusura della piazza, il transennamento della zona pericolosa, il piantonamento della stessa, o, quantomeno, avrebbero potuto assicurarsi che l’impresa e il direttore dei lavori avessero adempiuto l’incarico affidato. Ad avviso della Corte, quindi, il completo disinteresse manifestato dal Sindaco e dall’Assessore comunale per la situazione de qua configura evidente Cass., sez. IV, 15 gennaio 2008, n. 36475, Picone, in Riv. giur. circolaz. e trasp. – Antologia, 2008, p. 448 e in Foro it., Rep. 2008, voce Omicidio e lesioni personali colposi, n. 46. 319 Cass., sez. IV, 29 novembre 2005, Pelle, in Giur. it., 2007, p. 449. 318 141 manifestazione di negligenza e imprudenza, ed una chiara violazione degli obblighi inerenti alle cariche ricoperte. Sempre in materia di negligente manutenzione di opere comunali, quanto al tema della delega di funzioni da parte del Sindaco sono emersi indirizzi contrastanti nella giurisprudenza di legittimità320. Infatti, secondo una tesi seguita dalla Suprema Corte, qualora il legale rappresentante del Comune abbia realizzato una valida delega dì funzioni, dovrebbe essere esclusa una responsabilità colposa in capo allo stesso, poiché la delega di poteri pubblici trasferisce al delegatario tutti i poteri con i connessi obblighi riguardanti il ramo dell’amministrazione che viene delegato 321. In senso contrario, invece, altra corrente interna alla Suprema Corte afferma il permanere in capo al Sindaco di una responsabilità per culpa in eligendo o in vigilando (c.d. residuo non delegabile). Al riguardo, ad esempio, è stata ritenuta sussistente la responsabilità di un Sindaco che - tempestivamente informato sulla situazione di pericolo esistente in una piscina comunale, in conseguenza dell’accertato danneggiamento della recinzione, con la possibilità che estranei e specialmente bambini vi entrino facilmente - si sia limito a dare al tecnico comunale un impersonale e indiretto incarico a provvedere alle opere necessarie per eliminarla, omettendo di vigilare in prima persona perché le opere delegate fossero effettivamente eseguite322. Tanto premesso sulle tesi emerse in giurisprudenza, pare di dover ritenere che l’individuazione del garante, nell’ambito dell’organizzazione complessa costituita dall’ente territoriale, risenta delle riforme intervenute nell’assetto organizzativo della stessa a decorrere dalla legge n. 142 del 1990 e, in particolare, del progressivo affermarsi del principio di separazione tra politica e amministrazione. Ne consegue che il problema penalistico, consistente nella ricerca del soggetto effettivamente munito di un potere impeditivo rispetto al verificarsi di eventi pregiudizievoli per i beni esposti a fonti di pericolo, non è suscettibile di essere risolto in termini generali, 320 DI LANDRO, op. cit., p. 2. Cass., 29 settembre 1989, Auricchio, in Riv. pen., 1990, p. 777. 322 Cass., 5 novembre 1985, Strizzi, in Riv. pen. 1987, p. 182. 321 142 ma dovrà tener conto dei vari distinguo già analizzati nella parte seconda di questo studio. Più nel dettaglio, in primo luogo occorre chiedersi se l’impedimento dell’evento imponga l’esercizio di poteri rientranti nell’attività di gestione amministrativa o se invece sia necessario l’intervento dell’organo d’indirizzo politico, ad esempio al fine di dotare le strutture burocratiche delle risorse finanziarie necessarie a fronteggiare la situazione di pericolo. In secondo luogo, qualora si ritenga che l’impedimento dell’evento richieda la spendita di poteri gestionali, bisognerà comunque domandarsi, in base alla disciplina amministrativa, se la situazione concreta rientri nella regola della separazione tra indirizzo politico e gestione burocratica, con la conseguenza che il garante dovrebbe essere individuato nel dirigente competente, o se invece si ricada in una delle eccezioni al principio della distinzione delle funzioni323, onde il soggetto gravato dall’obbligo di impedire l’evento dovrebbe essere un esponente politico. Ad esempio, nel cui in cui si sia verificato un evento lesivo dovuto a disfunzioni gestionali, di regola, la responsabilità omissiva impropria dovrebbe ricadere sul funzionario preposto all’ufficio competente, ma, qualora si tratti di un Comune di piccole dimensioni, è ben possibile che il Regolamento locale, ai sensi dell’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), abbia attribuito ai componenti degli organi politici poteri di natura amministrativa, sicché il garante dovrebbe essere individuato non già in un burocrate, ma in un esponente del ceto elettivo. In terzo luogo, infine, occorre verificare, come del resto accade in tutte le organizzazioni complesse, se vi siano 323 Ad esempio: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4 d.lgs. 267/2000). Forse, più che una eccezione alla regola è una conferma della regola generale, posto che in tal caso il Sindaco non viene in rilievo quale organo politico che “eccezionalmente” esercita poteri gestori, ma come organo gestionale dello Stato, che “normalmente” esercita poteri amministrativi; b) enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L’art. 53, c. 23 della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (legge finanziaria 2001), così come modificata dall’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), prevede la possibilità per gli enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti di adottare disposizioni regolamentari con le quali si attribuiscano ai componenti degli organi di indirizzo politico poteri di natura gestionale; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000. Il t.u. sugli enti locali, infatti, attribuisce al Consiglio Comunale poteri gestionali in materia di: organizzazione dei servizi pubblici locali e relative concessioni; contrazioni di mutui e aperture di credito ed emissione di prestiti obbligazionari; acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del Segretario o di altri funzionari. 143 state deleghe di funzioni e, in caso positivo, se sussista comunque una responsabilità per culpa in eligendo o in vigilando da parte del delegante324. Ciò posto, la dottrina325 ha individuato tre possibili ipotesi. In primo luogo, può verificarsi il caso che l’evento lesivo derivi dalla mancata assegnazione di risorse, ovvero degli strumenti necessari alla struttura amministrativa competente. In questi casi, sembra che il garante vada rinvenuto nel pertinente organo politico, posto che la normativa di riferimento attribuisce allo stesso i compiti di organizzazione e predisposizione dei mezzi necessari per il corretto funzionamento dei singoli settori di attività dell’ente pubblico. In secondo luogo, l’evento lesivo può derivare dal mancato utilizzo, da parte dell’organo di gestione, delle risorse messe a disposizione dai rappresentanti politici nel corso dell’attività di indirizzo e programmazione. In queste situazioni l’eventuale responsabile del reato omissivo improprio, sempre che sussista anche l’elemento soggettivo, dovrebbe essere il dirigente competente, atteso che l’obbligo d’impedimento dell’evento grava esclusivamente sullo stesso e considerato che l’organo politico ha correttamente esercitato i poteri di propria spettanza. Infine, può ipotizzarsi che l’evento lesivo derivi da una situazione di emergenza non imputabile ad una deficienza programmatoria, da fronteggiare mediante il ricorso a risorse aggiuntive. In tali casi può accadere che l’organo politico, debitamente informato dalla dirigenza circa l’esigenza di fondi straordinari, ometta di provvedere. Al riguardo, la dottrina326 ritiene che la responsabilità dell’organo politico possa derivare solo dall’espressa incriminazione della violazione di un obbligo di attivarsi, secondo lo schema del reato omissivo proprio (ad es. omissione di atti d’ufficio), non essendo ravvisabile nella specie una posizione di garanzia, a causa della mancanza, in capo all’organo politico, di preesistenti poteri impeditivi dell’evento. Infatti, come si è già visto nella prima parte di questo studio, nell’ambito della posizione di garanzia il potere impeditivo deve preesistere al presupposto di fatto (la situazione di pericolo) 324 GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 911. MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 271 e ss.; GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 911. 326 MARCONI, op. cit., p. 273; GAROFOLI, op. cit., p. 912. 325 144 che lo attualizza. Poiché nel caso in esame non sussiste un potere impeditivo preesistente alla situazione di emergenza - atteso che la stessa in ipotesi non è dovuta a carenze programmatorie - si dovrebbe concludere che non sia ravvisabile una posizione di garanzia, ma, al più, un mero obbligo di attivarsi che, appunto, sorge solo al verificarsi del presupposto di fatto (ad. es. omissione di atti d’ufficio). In senso contrario si potrebbe ritenere che l’organo politico, una volta informato della situazione di emergenza, abbia l’obbligo giuridico di impedire che l’evento prodottosi si aggravi, onde potrebbe rispondere di omissione impropria per non aver impedito l’aggravamento della situazione di pericolo. Tale soluzione, tuttavia, finirebbe per disattendere la ricostruzione della posizione di garanzia che si è visto essere preferibile e che si fonda appunto sulla preesistenza di poteri impeditivi della insorgenza della situazione di pericolo. Pare dunque opportuno aderire alla tesi prevalente ed escludere che nella specie sia ravvisabile un obbligo d’impedimento dell’evento, con la conseguenza che potrebbe ipotizzarsi solo una responsabilità dell’organo elettivo per reato omissivo proprio (ove sia previsto e ne siano integrati gli elementi costitutivi). Con particolare riferimento al tema degli eventi lesivi derivanti da uso delle strade, occorre evidenziare che, di regola e salvo l’eccezione dei Comuni di minori dimensioni, la competenza in materia e la relativa posizione di garanzia dovrebbero essere attribuite ai soggetti preposti all’ufficio tecnico comunale, a meno che non si ritenga che l’evento lesivo sia dovuto a carenze programmatorie imputabili all’organo di indirizzo politico, come ad esempio il caso della mancata assegnazione di adeguate risorse all’ufficio competente. Nondimeno, bisogna segnalare che in materia può comunque residuare una competenza del Sindaco quale Ufficiale di Governo, il quale, ai sensi dell’art. 54 c. 4 del d.lgs. n. 267 del 2000, deve adottare con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Pertanto, non sembrano condivisibili quelle pronunce che, in tema di eventi lesivi da uso delle strade, ravvisano una 145 responsabilità omissiva impropria del Sindaco in quanto organo di vertice del Comune che, ai sensi dell’art. 28 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, è l’ente tenuto alla manutenzione delle stesse. Infatti, alla luce del principio di separazione delle funzioni tra organi burocratici e organi politici, la competenza in materia di gestione delle strade dovrebbe, di regola, essere assegnata agli uffici tecnici, mentre nessun rilievo potrebbe assumere il fatto che il Sindaco sia il legale rappresentante del Comune-proprietario. Semmai, una responsabilità del Sindaco per omissione impropria potrebbe essere ravvisata nei casi di mancata emanazione delle ordinanze contingibili ed urgenti di cui al citato art. 54 c. 4 del tuel, che, come si è visto, prevede una eccezionale competenza gestoria in capo ad un organo elettivo. Quanto al tema delle deleghe di funzioni, sembra preferibile l’orientamento che riconosce in capo al delegante una residua responsabilità per culpa in eligendo e in vigilando, atteso che lo stesso risulta maggiormente in linea con il principio di non derogabilità delle posizioni di garanzia, che invece verrebbe seriamente compromesso dalla tesi che vede il delegato quale nuovo ed esclusivo titolare dell’obbligo di impedimento dell’evento. Al contrario, l’impostazione più condivisibile ritiene che la delega di funzioni comporti solo il sorgere di una posizione di garanzia derivata in capo al delegato, senza peraltro che vengano meno gli obblighi originariamente incombenti sul delegante, i quali, al più, possono mutare natura, trasformandosi in obblighi di controllo, ma mai estinguersi del tutto. La tesi tradizionale, muovendo dalle teorie emerse in passato nella giurisprudenza civile, ritiene decisiva, ai fini della responsabilità penale per eventi lesivi derivanti da difettosa manutenzione delle strade, l’oggettiva sussistenza di un’insidia. In particolare, la citata sentenza del 16 febbraio 2011 ha ritenuto che costituisse un’insidia il rigonfiamento dell’asfalto non percepibile se non ad un occhio particolarmente attento, poiché esso rappresentava un pericolo non riconoscibile ed eliminabile solo attraverso un adeguato controllo da parte degli addetti al sistema di manutenzione. Secondo la giurisprudenza prevalente, infatti, è insidia una fonte di pericolo inevitabile con l’uso della normale diligenza, sicché, ad esempio, sorge 146 l’obbligo di eliminare la fonte di pericolo su una pubblica via o di apprestare adeguate protezioni, ripari, cautele od opportune segnalazioni327. Diversamente, qualora adottando la normale diligenza che si richiede a chi usi una strada pubblica, la situazione di pericolo sia conoscibile e superabile, la causazione di un eventuale infortunio non può che far capo esclusivamente e direttamente a chi non abbia adottato la diligenza dovuta328. Quanto agli esempi di insidia ravvisati dalla Corte di Cassazione, si segnala che la stessa è stata riconosciuta nella presenza di uno scavo non protetto da barriere all’interno di un anello rotatorio aperto al traffico nonostante il mancato completamento dei lavori di realizzazione, in assenza di adeguata segnalazione ed illuminazione329; oppure, in una interruzione o una soluzione di continuità del piano stradale caratterizzata dall’elemento obiettivo della non visibilità del pericolo e dall’elemento soggettivo dell’imprevedibilità, costituita dall’impossibilità di avvistare in tempo utile il medesimo pericolo 330. L’insidia è stata, invece, esclusa in un caso di un bambino di sette anni che, circolando a bordo di una bicicletta su di una via pubblica, era uscito, per cause sconosciute, di strada ed era precipitato nell’adiacente ripida scarpata, priva di segnalazione e separata dalla sede stradale solo da uno stretto ciglio erboso, riportando, per l’urto contro una sottostante recinzione metallica di aree lottizzate, lesioni mortali331; oppure nel caso in cui lo stato di dissesto della strada, oltre a costituire una condizione dell’incidente, fosse percepibile con sufficiente anticipo, con conseguente responsabilità colposa in capo soltanto al conducente del veicolo332. In senso diametralmente opposto va segnalata una recente pronuncia della Suprema Corte333, secondo la quale l’accertamento della colpa dei dirigenti comunali per difettosa manutenzione delle strade pubbliche dovrebbe prescindere dall’oggettiva sussistenza di un’insidia odi un trabocchetto, poiché trova il suo limite solo nella 327 Cass., sez. IV, 18 maggio 2005, Ducci, in Arch. Nuova proc. pen., 2006, p. 76; Trib. Pescara, 9 marzo 2008, in P.Q.M., 2008, fasc. 1, p. 94. 328 Cass., sez. IV, 18 maggio 2005, cit. 329 Cass., sez. IV, 27 aprile 2006, Frappi, in Arch. Circolaz., 2007, p. 119: nella specie l’automobilista, immessosi nella rotatoria e perduto il controllo del veicolo, era finito nello scavo, così riportando lesioni di esito mortale. 330 DI LANDRO, op. cit., p. 3. 331 Cass., sez. IV; 23 giugno 2004, Santilli, in Arch. circolaz., 2005, p. 23 e 504. 332 Cass., 22 dicembre 1987, Caloni, in Arch. circolaz., 1988, p. 833. 333 Cass., sez. IV, 1 aprile 2008, Cerri, in Arch. circolaz., 2008, p. 942. 147 condotta abnorme della persona offesa, rilevante al fine della interruzione del nesso di causalità334. In tale occasione, infatti, la Suprema Corte ha sostenuto che la responsabilità penale del soggetto preposto alla manutenzione di una via pubblica per eventi lesivi dei quali taluno sia rimasto vittima a causa di irregolarità riconducibili a difetto manutenzione, non può essere esclusa – ferma restando la possibilità del concorso di colpa da parte della persona offesa – per il solo fatto che si tratti di irregolarità non aventi il carattere dell’insidia o del trabocchetto, ma solo quando l’evento, per le sue connotazioni di abnormità ed eccezionalità, sia riconducibile a caso fortuito, con esclusione, quindi, del nesso di causalità tra esso e la condotta omissiva posta in essere dall’imputato. Nella specie, in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale il giudice di merito aveva assolto dal reato di lesioni colpose il responsabile del servizio di manutenzioni esterne e di polizia municipale di un Comune, cui detto reato era stato addebitato in relazione alle lesioni che un ciclista aveva riportato a seguito di una caduta a terra dovuta alla presenza di una buca al centro della carreggiata da lui percorsa. L’orientamento seguito dalla citata pronuncia del 2008, pur essendo suscettibile di estendere l’area di responsabilità, appare maggiormente in linea con i recenti approdi delle sezioni civili della Suprema Corte, i quali, infatti, escludono che l’insidia sia presupposto di applicazione dell’art. 2051 c.c.335, considerata l’insussistenza di un fondamento normativo di siffatto requisito, argomento questo spendibile, mutatis mutandis, anche sul crinale penalistico. Secondo tale sentenza, quindi, può ben accadere che una situazione non abbia i caratteri oggettivi dell’insidia (ad es. una buca visibile), e tuttavia il soggetto passivo incorra in incidente, ponendo in essere una condotta con ogni probabilità disattenta, ma non qualificabile perciò stesso come abnorme o eccezionale, onde la colpa dei dirigenti degli enti pubblici territoriali non sarebbe in radice esclusa336. Ne consegue Sulla rilevanza del comportamento della persona offesa ai fini dell’interruzione del nesso di causalità: Cass., 4 maggio 1990, in Riv. pen., 1991, p. 325; Cass., 30 maggio 1991, n. 5835, in Riv. pen., 1991, p. 910; Cass., 13 febbraio 1991, in Mass. Cass. pen., 1991, fasc. 7, 10; Cass., sez. IV, 29 novembre 2005, n. 14180, in C.E.D. Cass. n. 233953; Cass., sez. IV, 5 giugno 2007, n. 37589 in C.E.D. Cass. n. 237772. 335 Cass., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, cit. 336 DI LANDRO, op. cit., p. 4. 334 148 che siffatta tesi, nell’ampliare i confini dell’illecito colposo includendo nella responsabilità anche situazioni non aventi il carattere dell’insidia o del trabocchetto, si risolve in una maggiore difesa degli interessi degli utenti della strada e in una minore valorizzazione del principio di auto-responsabilità della vittima. III.3 La responsabilità del Sindaco quale autorità locale di protezione civile. Con la sentenza n. 16761 dell’11 marzo 2010, la quarta sezione della Corte di Cassazione si è occupata della nota alluvione di Sarno del 5 maggio 1998, annullando con rinvio la pronuncia della Corte d’Appello di Salerno che aveva assolto l’ex Sindaco del paese, accusato di omicidio colposo plurimo per la morte di 137 persone, per non aver allertato la popolazione e non aver disposto l’evacuazione delle zone a rischio337. Al riguardo la sentenza d’appello aveva ritenuto che, nel caso di calamità naturali e catastrofi interessanti aree più vaste di quelle comunali, il Prefetto fosse titolare di una posizione di garanzia, mentre ai Sindaci fosse riservato il compito di assistenza e soccorso delle popolazioni. La Corte d’Appello di Salerno aveva, quindi, assolto l’ex Sindaco di Sarno per difetto nella specie di una posizione di garanzia in capo allo stesso, attesa la mancanza di competenza dell’autorità comunale in situazioni di tale gravità e ampiezza. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione se il Sindaco fosse titolare di una posizione di garanzia che lo obbligava ad attivarsi per impedire l’evento dannoso, ha ripercorso le teorie formali e sostanziali sulla garantestellung, soffermandosi in seguito sulla normativa di riferimento nel caso in esame, rappresentata dalla legge 24 febbraio 1992 n. 225338. Tale disciplina individua i soggetti ai quali sono attribuite competenze in tema di protezione civile. Più nel 337 TORDELLI, Giurisprudenza penale 2010, Milano, 2010, p. 79 e ss. In tema di ordinanze extra ordinem ai sensi della legge 24 febbraio 1992 n. 225 si veda BONCOMPAGNI, Ordinanze extra ordinem e regime della nullità provvedimentale, in La Rivista Neldiritto, 11/11, p. 1680 e ss. 338 149 dettaglio, la citata legge, introducendo un’ulteriore deroga al principio di separazione tra politica e amministrazione, prevede che il Sindaco, qualora ricorrano eventi calamitosi, assume, in qualità di “autorità comunale per la protezione civile”, la direzione ed il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza, provvedendo agli interventi necessari e dandone immediata comunicazione al Prefetto e al Presidente della Giunta Regionale (art. 15 c. 3 della legge n. 225 del 1992)339. Inoltre, la legge n. 225 del 1992 stabilisce che “quando la calamità naturale o l’evento non possono essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del Comune, il Sindaco chiede l’intervento di altre forze e strutture al Prefetto, che adotta i provvedimenti di competenza, coordinando i propri interventi con quelli dell’autorità comunale di protezione civile” (art. 15 c. 4). Tali disposizioni hanno poi trovato conferma nel d.lgs. n. 112 del 1998, il cui art. 108 c. 1 lett. c) ha attribuito ai Comuni le funzioni riguardanti “l’adozione di tutti i provvedimenti, compresi quelli relativi alla preparazione dell’emergenza, necessari ad assicurare i primi soccorsi in caso di eventi calamitosi in ambito comunale”. A ciò si aggiunga che la c.d. Direttiva Barberi, emanata nel 1996 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della protezione civile, qualifica il Sindaco come l’autorità responsabile, in caso di emergenza, della gestione dei soccorsi sul territorio di propria competenza, in raccordo con il Prefetto340. Dal complesso di tali disposizioni si evince, secondo la Suprema Corte341, che il Sindaco sia titolare di una posizione di garanzia, avendo competenza nella gestione dell’emergenza provocata da eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo, di calamità o catastrofi. Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Salerno, con la quale era stata esclusa una responsabilità del Sindaco di Sarno per difetto di competenza dello stesso nella gestione dell’alluvione del 5 maggio 1998. In particolare, i Giudici di legittimità hanno evidenziato che, benché la normativa preveda che, se gli eventi non possono 339 TORDELLI, op. cit., p. 80. TORDELLI, op. loc. ult. cit. 341 Cass., sez. IV, 11 marzo 2010, n. 16761 in Giurisprudenza penale 2010, Milano, 2010, p. 82 e ss. 340 150 essere fronteggiati con i mezzi a disposizione del Comune, il Sindaco debba chiedere l’intervento del Prefetto, ciò non significa che vengano meno i poteri del Sindaco né i suoi obblighi di gestione dell’emergenza. Pertanto, finché il Prefetto non abbia assunto, anche di fatto, la direzione delle operazioni, il Sindaco, nell’ambito del pertinente territorio comunale, conserva tutti i poteri e gli obblighi derivanti dalla qualità di autorità locale di protezione civile. Peraltro, se il Prefetto adotta i provvedimenti di sua competenza deve coordinarsi con l’autorità comunale di protezione civile, il che conferma che il Sindaco non fosse privo nella caso di specie di una posizione di garanzia. Il principio espresso dalla Suprema Corte appare, quindi, condivisibile e destinato a trovare conferma nella successiva giurisprudenza di merito e di legittimità. III.4 Responsabilità plurisoggettiva per omesso impedimento del reato altrui da parte dell’organo di indirizzo politico: a) nei casi eccezionali in cui l’organo politico abbia poteri gestori Come si è già visto nella prima parte del presente studio342, all’interno della nozione di posizione di garanzia, secondo una tesi autorevole343, è possibile assegnare un ruolo autonomo agli obblighi d’impedimento di reati commessi da soggetti sottoposti ai poteri giuridici impeditivi del garante, che, ove ne sussistano i requisiti, risponde di concorso omissivo nel reato non impedito. Ciò posto, occorre ora domandarsi se l’organo d’indirizzo politico assuma una posizione di garanzia di tale natura nell’ambito della propria attività istituzionale. Al riguardo occorre precisare che il problema si potrebbe porre non solo per i reati commessi da parte dei comuni cittadini, ma anche per quelli realizzati dai funzionari pubblici nel dispiegamento delle loro mansioni. 342 343 Retro pr. I.5. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 519; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 292 e ss. 151 Nel primo caso (reati comuni posti in essere da soggetti esterni all’apparato amministrativo) bisogna verificare se sussista in capo agli organi politici un obbligo giuridico d’impedimento degli illeciti penali consumabili in taluni ambiti di pertinenza dell’ente cui sono preposti. In base a quanto si è visto nella premessa di diritto amministrativo, a seguito delle riforme intervenute negli ultimi anni si è affermato il principio di separazione tra funzioni amministrative, riservate alle strutture burocratiche, e compiti d’indirizzo e programmazione, attribuiti agli organi politici. Ne consegue che, salvo eccezioni344, questi ultimi non sono forniti di competenze gestionali, con la conseguenza che non hanno né l’obbligo giuridico d’impedimento né i poteri impeditivi dei reati altrui realizzabili, ad esempio, in materia urbanistica e paesaggistica. Al riguardo, una recente pronuncia della Suprema Corte345 ha affermato che: “Non è configurabile a carico del Sindaco alcuna responsabilità penale per non aver impedito lo svolgimento di attività abusive incidenti sull’assetto urbanistico e paesaggistico del territorio comunale, non sussistendo in capo al medesimo un generale dovere di vigilanza sulle attività in questione”. In motivazione la Corte ha precisato che l’esclusione della “culpa in vigilando” del Sindaco discende dall’art. 107, comma terzo, lett. g) del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che attribuisce tale vigilanza al dirigente di settore. Più complesso, invece, è il problema della sussistenza in capo agli organi politici di un obbligo di impedire i reati commessi dai burocrati. A tal fine pare opportuno distinguere tra: a) casi in cui l’organo di indirizzo politico abbia eccezionalmente poteri di gestione amministrativa; b) casi in cui si versi nella regola della separazione tra politica e amministrazione. 344 Si è già visto nella premessa di diritto amministrativo, che permangono tuttora delle deroghe al principio di separazione tra politica e amministrazione. Tra di esse si segnalano: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4 d.lgs. 267/2000); b) Enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti (art. 53, c. 23, della legge 23 dicembre 2000 n. 388 [legge finanziaria 2001], così come modificata dall’art. 29, c. 4, della legge 28 dicembre 2001 n. 448 [legge finanziaria 2002]; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000. 345 Cass., sez. III, 21 giugno 2011, n. 36446, in C.E.D. Cass., n. 251242. 152 Quanto alla prima ipotesi, giova segnalare che essa si verifica allorché ricorra una delle eccezioni al principio di separazione tra politica e amministrazione, analizzate nella parte secondo di questo lavoro346. Al riguardo si potrebbe sostenere che sussista una posizione di garanzia dell’organo politico per i reati commessi nella gestione amministrativa da altri politici o da dirigenti. In tal caso, infatti, le competenze gestionali dell’organo politico potrebbero lasciare intravedere dei poteri impeditivi per i reati commessi da altri, onde una possibile responsabilità per concorso omissivo nell’altrui reato commissivo. Bisogna però precisare che tale posizione di garanzia, ove esistente, riguarderebbe comunque solo i reati commessi nell’ambito delle competenze di cui l’organo politico sia eccezionalmente munito e non anche quelli realizzati in altri contesti. Così, ad esempio, l’assessore di un Comune con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, al quale siano assegnati, dal regolamento dell’ente locale, poteri gestionali in materia di lavori pubblici, non potrebbe certo rispondere per l’omesso impedimento di reati commessi nel diverso settore dell’urbanistica, considerato che lo stesso non possiede competenze in tale sfera amministrativa. Il fondamento giuridico di tale posizione di garanzia potrebbe essere rinvenuto nell’art. 13 del D.P.R. n. 3 del 1957, il quale fa obbligo agli impiegati civili dello Stato di prestare tutta la loro opera nel disimpegno delle mansioni che sono loro affidate, curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l’interesse dell’amministrazione per il pubblico bene. Tale norma è applicabile, in 346 Ad esempio: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4 d.lgs. 267/2000). Forse, più che una eccezione alla regola è una conferma della regola generale, posto che in tal caso il Sindaco non viene in rilievo quale organo politico che “eccezionalmente” esercita poteri gestori, ma come organo gestionale dello Stato, che “normalmente” esercita poteri amministrativi; b) enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L’art. 53, c. 23 della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (legge finanziaria 2001), così come modificata dall’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), prevede la possibilità per gli enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti di adottare disposizioni regolamentari con le quali si attribuiscano ai componenti degli organi di indirizzo politico poteri di natura gestionale; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000. Il t.u. sugli enti locali, infatti, attribuisce al Consiglio Comunale poteri gestionali in materia di: organizzazione dei servizi pubblici locali e relative concessioni; contrazioni di mutui e aperture di credito ed emissione di prestiti obbligazionari; acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del Segretario o di altri funzionari. 153 forza del rinvio ex art. 88 del d.lgs. n. 267 del 2000, anche ai dipendenti degli enti locali ed assurge, quindi, a principio generale in materia di impiego pubblico. Inoltre, in ambito societario la giurisprudenza e la dottrina dominanti hanno riconosciuto che l’impedimento dei reati rientri nel contenuto dei doveri degli amministratori, i quali, in virtù del disposto degli artt. 2392 e 2394 c.c., hanno l’obbligo giuridico di impedire atti pregiudizievoli in danno della società o di attenuarne le conseguenze, nonché l’obbligo di provvedere alla conservazione dell’integrità del capitale sociale347. Resta aperto, invece, il problema inteso ad appurare quali attività siano richieste all’amministratore ai fini specifici dell’esonero da responsabilità penali. Al riguardo, una pronuncia di merito348 ha indicato a tal fine la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione; in dottrina, invece, è stata prospettata l’impugnazione della delibera, il che però potrebbe avere rilievo solo quando l’iter criminis sia destinato a perfezionarsi in un momento successivo alla delibera349, non anche qualora il reato si consumi con l’approvazione della stessa, posto che, in tal caso, la proposizione dell’impugnazione non sarebbe idonea ad impedire un evento già realizzatosi. In ogni caso, lo stesso ragionamento seguito in materia societaria si potrebbe applicare agli organi politici muniti di competenze gestionali ed ipotizzare così in capo agli stessi una posizione di garanzia sub specie di obbligo di impedimento dei reati altrui. Quanto all’elemento soggettivo, tale responsabilità dell’organo politico per i reati altrui potrebbe astrattamente configurarsi o come concorso doloso o come concorso colposo. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, non è ritenuta ammissibile, con riguardo ai 347 Cass., sez. V, 7 luglio 1992, n.9536, in Giust. pen., 1993, II, p. 404; Cass., sez. V, 28 giugno 1993, n. 8419, in Cass. pen., 1995, p. 1630; Cass., sez. V, 20 ottobre 1994, n. 11654, in Cass. pen., 1996, p. 1976; Cass., sez. V, 27 maggio 1996, n. 580, in Cass. pen., 1997, p. 2232; Cass., sez. V, 25 marzo 1997, n. 4892, in C.E.D. Cass., n. 207895; Cass., sez. V, 26 novembre 1999, n. 14745, in C.E.D. Cass., n. 215199; Cass., sez. V, 4 maggio 2007, n. 23838, in C.E.D. Cass., n. 237251; Cass., sez. V, 28 aprile 2009, n. 21581, in C.E.D. Cass., n. 243889. Nello stesso senso anche la dottrina prevalente: PEDRAZZI, Riv. soc. 1962, p. 284 e ss.; CRESPI, Riv. it. d. proc. pen., 1957, p. 542; GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 338 e ss. Sulla responsabilità degli amministratori non delegati: Cass., sez. V, 9 dicembre 2008, n. 45513, in La Rivista Nel diritto, n. 1 del 2009, con nota di CANTAGALLI, La responsabilità dell’amministratore di società per omesso impedimento del reato commesso da altro amministratore, p. 80 e ss. 348 Trib. Milano, 21 settembre 1981, in Giur. mer., 1982, p. 330. 349 GRASSO, Il reato omissivo improprio, cit., p. 351; CRESPI- FORTI- ZUCCALA’, Commentario breve al codice penale, Padova, 2008, p. 143. 154 delitti dolosi, dalla dottrina prevalente e perfino da quegli Autori350 che si schierano a favore del superamento del principio dell’unicità del titolo di responsabilità dei concorrenti. Infatti, si è notato in primo luogo che l’art. 113 c.p., facendo riferimento solo alla “cooperazione nel delitto colposo” e non alla “cooperazione colposa nel delitto”, costituisce una vera e propria “norma di sbarramento” alla configurabilità di un “concorso colposo in delitto doloso”351. In secondo luogo, si è sottolineato che, secondo l’art. 42 c. 2 c.p., i casi di delitto colposo debbano essere espressamente previsti dalla legge, con la conseguenza che, anche nell’ambito di una fattispecie concorsuale, è necessaria un’apposita disposizione per punire condotte di concorso colposo a delitto doloso. Infine, si è rilevato che il legislatore ha espressamente previsto ipotesi nominate di agevolazione colposa di un altrui fatto doloso (art. 254, 259, 350 c.p.), onde negli altri casi tali fattispecie non dovrebbero essere configurabili, pena, altrimenti, l’inutilità di tali previsioni. Al riguardo, comunque, giova segnalare che parte della dottrina reputa ammissibile il concorso colposo nelle contravvenzioni, poiché sostiene che l’art. 113 c.p. non sia norma di sbarramento, ma disposizione che soddisfa l’esigenza ex art. 42 c. 2 c.p. della espressa previsione della punibilità colposa nei delitti, sicché, per le contravvenzioni, dovrebbe essere sufficiente l’art. 110 c.p., che, facendo riferimento al “reato”, riguarda anche le contravvenzioni, le quali, ex art. 42 c. 4 c.p., sono punibili di regola352 anche a titolo di colpa353. Ne consegue che, aderendo alla tesi che considera superato il dogma della necessaria unicità del titolo di responsabilità dei concorrenti, nell’ambito delle fattispecie contravvenzionali devono di regola ritenersi configurabili, ai sensi dell’art. 110 c.p., sia il concorso doloso in reato doloso, sia il 350 PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, p. 82; GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957, p. 95; SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988, p. 229 e ss.; ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, p. 200; BERSANI, Riv. pen., 1995, p. 999. 351 Cass., sez. IV, 11 ottobre 1996, n. 9542, in Cass. pen., 1997, p. 3401; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 531; GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 924. 352 E’ noto che le contravvenzioni sono, di regola, punite indifferentemente a titolo di dolo o di colpa. Occorre però segnalare che esistono fattispecie contravvenzionali che, per la loro intrinseca natura o per la tecnica di formulazione legislativa, possono essere soltanto dolose (es. abuso della credulità popolare: art. 661 c.p.; molestia o disturbo alle persone: art. 660 c.p.) oppure soltanto colpose (es. rovine di edificio: art. 676 c.p., perché, se ricorresse il dolo, si avrebbe un delitto; incauto acquisto in caso di provenienza delittuosa della cosa: art. 712 c.p., perché, in caso di dolo, si avrebbe il delitto di cui all’art. 648 c.p.). MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 357. 353 MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 531. 155 concorso colposo in reato doloso, sia il concorso colposo in reato colposo, sia, infine, il concorso doloso in reato colposo. Per quanto concerne il concorso omissivo doloso nel reato doloso, occorre precisare la necessità della prova della conoscenza del reato in itinere da parte del garante; inoltre, bisogna considerare che il dolo del soggetto rimasto inerte può assumere anche la forma del dolo eventuale. Infine, la Corte di Cassazione ha notato – in materia di concorso omissivo degli amministrazioni di s.p.a, ma con considerazioni estensibili anche al caso qui in esame - che possono essere considerati elementi significativi, ai fini della prova della sussistenza del dolo eventuale, i cosiddetti “indici d’allarme”, dei quali deve essere dimostrata l’avvenuta percezione da parte del soggetto rimasto inerte354. In senso radicalmente opposto, invece, si potrebbe escludere che sussista una posizione di garanzia, sub specie di obbligo d’impedimento di reati altrui, in capo agli organi politici che eccezionalmente siano investiti di funzioni gestorie. Al riguardo, si potrebbe sostenere che siffatto obbligo impeditivo difetterebbe di un fondamento normativo, mancando una norma giuridica, analoga agli artt. 2392 e 2394 c.c., che imponga a tali organi l’impedimento di eventi pregiudizievoli per l’ente pubblico. Si potrebbe poi aggiungere che non assuma rilievo a questo scopo la generica previsione di cui all’art. 13 del D.P.R. n. 3 del 1957, attesa la necessità che l’obbligo di garanzia soddisfi il requisito della specificità, in ossequio al principio costituzionale di legalità-tassatività355. Infine, si potrebbe affermare che, aderendo a questa ricostruzione, non sia chiaro quali siano gli effettivi poteri d’impedimento del reato altrui attribuiti ai politici che eccezionalmente dispongano di competenze amministrative. Non pare, ad esempio, che a tal fine possa assumere rilievo il potere/dovere di denuncia di cui all’art. 331 c.p.p., posto che, come evidenziato dalla Suprema Corte, l’obbligo di denuncia sorge in seguito alla commissione del reato, sicché non rappresenta un potere impeditivo preesistente, ma un dovere successivo 354 Retro pr. I.7. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 158; GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 331 355 156 alla realizzazione dell’illecito356. In quest’ottica i giudici di legittimità hanno tracciato la differenza tra omessa denuncia di reato e concorso omissivo nel reato altrui, evidenziando che, nel primo caso, il pubblico ufficiale omette o ritarda di denunciare un reato di cui sia venuto a conoscenza, mentre nell’altro caso egli non omette la semplice notizia, ma il doveroso comportamento positivo (impedimento del reato) che poteva materialmente attuare e che invece non ha attuato, concorrendo così al compimento del reato stesso357. III.5 Segue: b) nei casi regolari di separazione tra politica e amministrazione Nella parte seconda del presente studio si è visto che, a seguito delle riforme succedutesi dalla legge 8 giugno 1990 n. 142, l’attuale assetto della Pubblica Amministrazione è improntato ad una netta separazione delle competenze tra organi di indirizzo politico e organi di gestione amministrativa. Ciò premesso, occorre ora domandarsi se gli organi politici assumano una posizione di garanzia sub specie di obbligo d’impedimento dei reati commessi nel corso della gestione amministrativa. Al riguardo, sembrano prospettabili due tesi contrapposte. Secondo una prima ipotesi ricostruttiva, l’organo d’indirizzo politico dovrebbe essere gravato dall’obbligo di impedire i reati che possano essere commessi dai burocrati nell’esercizio della funzione pubblica. Tale tesi è supportata da diversi argomenti. In primo luogo si potrebbe far leva sul potere di revoca dei dirigenti che la disciplina amministrativa attribuisce agli organi politici. Infatti, si potrebbe sostenere che il potere di revoca possa essere speso anche per impedire che il reato in itinere, di cui l’organo politico abbia avuto conoscenza, possa essere portato a compimento. Ad esempio, il Sindaco di un Comune potrebbe revocare il dirigente qualora venga a sapere che quest’ultimo si stia lasciando corrompere nell’ambito di una procedura di appalto prima che il delitto giunga a consumazione; oppure si pensi al Sindaco che 356 357 Cass., sez. II, 8 maggio 1984, Calvaruso, in Cass. pen., 1985, p. 1830 Cass., 8 maggio 1984, cit. 157 sia stato informato del proposito di un funzionario di favorire un conoscente con il rilascio di un provvedimento favorevole. Del resto, ai sensi dell’art. 109 del d.lgs. 267 del 2000, gli incarichi dirigenziali possono essere revocati per responsabilità particolarmente grave, fattispecie nella quale potrebbe rientrare anche la realizzazione di un reato. In secondo luogo, si potrebbe ritenere che l’obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p. rilevi quale mancata attivazione di un potere teso ad impedire che il reato giunga a conseguenze ulteriori, quanto meno nei casi in cui sia ipotizzabile una scissione tra perfezione e consumazione. A titolo esemplificativo, il Presidente della Provincia, che sia stato informato di un accordo corruttivo tra un privato e un dirigente dell’ente locale, potrebbe denunciare il fatto per impedire che la somma sia riscossa e che il delitto, già perfetto con la promissio, raggiunga la massima lesività con l’effettiva datio. L’obbligo di denuncia, quindi, potrebbe essere visto anche quale potere impeditivo ai sensi del combinato disposto degli artt. 40 c. 2 e 110 c.p. In terzo luogo, si potrebbe far leva sulla già citata giurisprudenza in materia di reati societari358, la quale spesso ravvisa una posizione di garanzia, sub specie di obbligo d’impedimento dei reati altrui, in capo ai membri del collegio sindacale, adducendo, tra i vari argomenti, anche il potere di denuncia, ex art. 2409 c.c., in caso di gravi irregolarità nella gestione sociale. Pertanto, è possibile immaginare che la giurisprudenza segua un’analoga linea di rigore anche con riferimento agli organi d’indirizzo politico, che, come i membri del collegio sindacale delle s.p.a., non hanno, di regola, poteri gestori, ma sono gravati da un obbligo di controllo sulla gestione. L’analogia della situazione potrebbe, perciò, indurre ad estendere il ragionamento condotto in materia societaria anche al diverso tema che qui più interessa. 358 Cass., sez. V, 26 giugno 1990, n. 15850, in Cass. pen., 1991, p. 828; Cass., sez. V, 22 aprile 1998, n. 8327, in Cass. pen., 1999, p. 651; Cass., sez. V, 13 dicembre 2006, n. 17393, in C.E.D. Cass., n. 236630; Cass., sez. V, 4 novembre 2009, n. 10186, in C.E.D. Cass., n. 246911; Cass., sez. V, 1 luglio 2011, n. 31163, in C.E.D. Cass., n. 250555. In dottrina: PISANI, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni, Milano, 2003, p. 185 e ss.; CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009, p. 227 e ss. 158 Pur potendosi ipotizzare che la giurisprudenza accolga tale orientamento - soprattutto alla lue delle pronunce rese in materia societaria - ad ogni modo non va trascurato che esso si espone a diversi rilievi critici. Infatti, in primo luogo, non pare che nella specie sia soddisfatto il requisito della giuridicità dell’obbligo d’impedimento, che, come si è visto nella prima parte di questo lavoro, è un elemento indispensabile ai fini della responsabilità penale per omissione impropria. Non pare, per vero, che sussista una norma giuridica che espressamente imponga un obbligo di tal tipo. In secondo luogo, non va trascurato che la ratio ispiratrice delle riforme che hanno dato luogo alla separazione tra politica e amministrazione era quella di estromettere gli organi politici da ingerenze in ambito gestorio, con la conseguenza che sarebbe assurdo ravvisare un obbligo di impedimento da parte di chi non ha un potere di intervento. In terzo luogo, si può richiamare l’art. 1 c.1-ter della legge n. 20 del 1994, il quale, in tema di responsabilità amministrativa per danno erariale, prevede che, in caso di atti che rientrino nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, la responsabilità non si estenda ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione. Tale disposizione è interpretata dalla dottrina amministrativistica come elemento per ritenere che la responsabilità per danno erariale sia di tipo gestionale, nel senso cioè che gravi sugli organi burocratici e non anche su quelli di indirizzo politico. Ne consegue che sarebbe davvero singolare, alla luce del principio penalistico di extrema ratio, se fosse ravvisata una responsabilità penale per omesso impedimento del reato altrui in capo a chi non è soggetto alla responsabilità amministrativa. In quarto luogo, non sembra che gli organi politici abbiano idonei poteri d’impedimento preesistenti alla commissione del reato, considerato che gli stessi possono solo fissare l’indirizzo programmatico, ma non anche ingerirsi nella gestione amministrativa che, invece, è riservata esclusivamente agli organi burocratici. Né pare che a tal fine possa assumere rilievo il potere di revoca degli incarichi 159 dirigenziali attribuito agli organi politici, posto che esso va esercitato a consuntivo, cioè al termine della gestione complessiva e alla luce dei risultati raggiunti dal soggetto preposto. Vero è che il potere di revoca può essere speso anche nei casi di “responsabilità particolarmente grave” del dirigente359, ma è altresì innegabile che, in caso di illecito penale, tale potere si configura non già come preesistente alla commissione del reato, ma come successivo alla sua realizzazione, con la conseguenza che non può qualificarsi come potere preesistente di impedimento dell’evento, ai sensi dell’art. 40 c. 2 c.p. Tale conclusione non sembra possa essere modificata nelle ipotesi citate di scissione tra momento di perfezione e momento di consumazione del reato perché, anche in tali situazioni, il potere di revoca non si configura come preesistente alla perfezione del reato, ma, semmai, come successivo ad essa e può, perciò, fungere solo da strumento per evitare che il reato già perfetto giunga a conseguenze ulteriori ed arrivi allo stadio della consumazione. Come si è già visto nella premessa di diritto penale, infatti, la dottrina prevalente360 e la giurisprudenza361 escludono che sussista una posizione di garanzia qualora il soggetto non abbia poteri impeditivi preesistenti all’insorgere della situazione di pericolo, ma possa soltanto evitare che il risultato negativo già prodottosi si aggravi ulteriormente. In questi casi, per vero, egli non ha poteri-doveri di vigilanza e di intervento e, quindi, di tutela anche preventiva, del bene da proteggere362, sicché non può essere qualificato come garante, ma, eventualmente, come destinatario di obblighi di attivarsi. Pertanto, non può rispondere a titolo di omissione impropria, ma, semmai, sulla base di un reato omissivo proprio, sempre che la sua inerzia sia sanzionata da una fattispecie penale di parte speciale. Se, dunque, gli organi d’indirizzo politico sono sforniti di poteri d’impedimento del perpetrarsi di illeciti penali nell’ambito della gestione amministrativa, allora non si può ravvisare una posizione di garanzia di Si veda l’art. 109 d.lgs. n. 267 del 2000. FIORELLA, Il trasferimento di funzioni, cit. p. 202; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, cit., p. 314 e ss.; MANTOVANI, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 344; PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 52. 361 Cass., sez. IV, 19 febbraio 2008, n. 22614, in Rivista dei dottori commercialisti, 2008, p. 1266 ed in Cass. pen., 2009, p. 537. 362 MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 159. 359 360 160 tale genere in capo agli stessi, pena altrimenti la violazione del principio di responsabilità penale personale di cui all’art. 27 c. 1 Cost. Come ha evidenziato la dottrina363, infatti, la tesi che sostenesse la configurabilità di una responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in assenza di adeguati poteri giuridici impeditivi, rappresenterebbe un’ipotesi di responsabilità per fatto altrui, poiché si tradurrebbe nell’accollare la responsabilità a carico di un soggetto per il comportamento illecito tenuto da un’altra persona pienamente capace di autodeterminarsi e quindi autoresponsabile. Analogamente, non appare appropriato il richiamo all’obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p., posto che, come evidenziato dalla Suprema Corte in altro ambito, l’obbligo di denuncia sorge in seguito alla commissione del reato, sicché non rappresenta un potere impeditivo preesistente, ma un dovere successivo alla realizzazione dell’illecito364. In quest’ottica i giudici di legittimità hanno tracciato la differenza tra omessa denuncia di reato e concorso omissivo nel reato altrui, evidenziando che, nel primo caso, il pubblico ufficiale omette o ritarda di denunciare un reato di cui sia venuto a conoscenza, mentre nell’altro caso egli non omette la semplice notizia, ma il doveroso comportamento positivo (impedimento del reato) che poteva materialmente attuare e che invece non ha attuato, concorrendo così al compimento del reato stesso. Quanto all’argomento della tesi opposta che fa leva sulla giurisprudenza in materia di reati societari, occorre segnalare che parte della dottrina365 si esprime al riguardo in chiave critica, sostenendo che i sindaci delle società siano titolari di un mero obbligo di sorveglianza e non già di una posizione di garanzia, attesa l’assenza di poteri giuridici impeditivi in capo agli stessi. Inoltre, anche ad accogliere la tesi giurisprudenziale emersa con riferimento ai reati societari, ad ogni modo la conclusione raggiunta per i sindaci delle società non pare estensibile al tema della responsabilità degli organi politici per i reati commessi 363 PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 61; MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 240. 364 Cass., sez. II, 8 maggio 1984, Calvaruso, in Cass. pen., 1985, p. 1830. 365 PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. società, 1962, p. 285; MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 160; LEONCINI, Obbligo di attivarsi, cit., p. 412; PISANI, Controlli sindacali, cit., p. 231; CENTONZE, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009, p. 288 e ss. 161 nell’attività di gestione amministrativa. Infatti, si può notare che per i sindaci delle società l’art. 2403 c.c. pone un obbligo di controllo sull’amministrazione della società, mentre analoga previsione non pare rinvenibile con riguardo agli organi d’indirizzo politico. Si può, quindi, fondatamente ritenere che questi ultimi non siano titolari di una posizione di garanzia in relazione all’impedimento di reati commessi nel corso della gestione amministrativa. Residua, invece, il dubbio se sugli stessi incomba un obbligo di sorveglianza o un mero dovere di attivarsi. Infatti, nessuna norma giuridica impone agli organi politici un’attività di controllo sui singoli atti amministrativi, ma solo sulla gestione complessiva, al fine di verificare la corretta attuazione del proprio indirizzo programmatico ed allo scopo di esercitare adeguatamente i poteri di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali. Pertanto, si potrebbe forse ipotizzare che gli organi de quibus non siano gravati nemmeno da un obbligo di sorveglianza, diversamente dai sindaci di società. In ogni caso, anche a sostenere che sussista in capo agli stessi tale ultima tipologia di obbligo, comunque ciò non sarebbe sufficiente per ravvisare una posizione di garanzia, con conseguente obbligo di impedimento dell’evento sanzionato ex art. 40 c. 2 c.p., secondo gli approdi della dottrina366 preferibile in materia di reati societari. A ciò si aggiunga che una recente pronuncia della Suprema Corte367 ha ritenuto che in capo al Sindaco di un Comune non sussista un generale obbligo di vigilanza sulle attività che incidano sull’assetto urbanistico e paesaggistico del territorio. Infatti, l’art. 107, comma 3, lettera g), del d.lgs. n. 267 del 2000, dispone testualmente che sono attribuiti ai dirigenti (e non al Sindaco) “tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell’abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale”. Da ciò discende, secondo i 366 Si veda la nota precedente. Cass., sez. III, 11 ottobre 2011, n. 36571, in C.E.D. Cass. n. 251242, inedita. Nello stesso senso Cass., sez. III, 17 gennaio 2008, n. 2478, in C.E.D. Cass. n. 238593; Cass., sez. III, 11 maggio 2009, n. 19882, in C.E.D. Cass. n. 243717; Cass., sez. VI, 11marzo 2010, n. 10009, in C.E.D. Cass. n. 246482; Cass., sez. IV, 6 giugno 2011, n. 22341, in C.E.D. Cass. n. 250720. 367 162 giudici di legittimità, che il Sindaco non possa essere chiamato a rispondere del mancato impedimento dei reati urbanistici e paesaggistici nella specie contestati ad altri soggetti. E’ evidente, pertanto, che in tale occasione la Suprema Corte abbia fatto una rigorosa applicazione dei riflessi penalistici del principio di separazione tra politica e amministrazione, escludendo che di regola sussista una posizione di garanzia, sub specie di obbligo d’impedimento dei reati altrui, in capo agli organi d’indirizzo e programmazione. Tanto premesso, quindi, sembra che ci siano valide ragioni per aderire alla tesi che esclude una posizione di garanzia, sub specie di obbligo d’impedimento dei reati altrui, in capo agli organi d’indirizzo politico, con la conseguenza che l’inerzia degli stessi, a fronte dell’iter di svolgimento di un illecito penale da parte dei dirigenti, dovrebbe essere qualificata come connivenza penalmente irrilevante. Rimane, tuttavia, da domandarsi se, esclusa una responsabilità penale per concorso omissivo nel reato commissivo, sia comunque ipotizzabile un obbligo risarcitorio in capo agli organi politici che abbiano omesso di attivarsi pur essendo stati informati che era in corso di realizzazione un illecito penale nell’ambito dell’amministrazione dell’ente pubblico. In altri termini, occorre ora chiedersi se quella che si è vista essere una connivenza penalmente irrilevante possa assumere un significato sul piano della responsabilità civile. Più nel dettaglio, il problema va analizzato sia con riferimento alla responsabilità per danno erariale dell’organo politico inerte, sia in relazione alla responsabilità aquiliana dello stesso verso i terzi. Con riguardo al primo aspetto, si è già notato che, secondo il disposto dell’art. l’art. 1 c.1-ter della legge n. 20 del 1994, la responsabilità erariale è di tipo gestionale368, onde dovrebbe escludersi che i politici possano essere chiamati a rispondere davanti alla magistratura contabile per il mancato impedimento del reato dei dirigenti. Ciò posto, analoga soluzione dovrebbe essere seguita anche con riguardo alla responsabilità civile verso terzi, appunto perché pare che il principio desumibile dall’art. 1 c.1- ter della legge n. 20 del 1994 debba acquisire portata generale. Del 368 CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale breve di diritto amministrativo, cit., p. 631. 163 resto, il fatto che gli organi d’indirizzo politico non assumano una posizione di garanzia, né ai fini della responsabilità penale, né con riguardo a quella amministrativa e civile, sembra in linea con la ratio ispiratrice del principio di separazione tra politica e amministrazione, che mira proprio ad estromettere i primi dall’ambito della gestione degli enti pubblici. Quanto fin qui esposto concerne esclusivamente i casi di condotta omissiva degli organi d’indirizzo politico; diverso ragionamento deve invece essere condotto qualora gli stessi abbiano partecipato attivamente al reato con un contributo morale o materiale, nel qual caso essi risponderanno secondo le regole generali sul concorso di persone nel reato e prescindendo da una verifica in merito alla sussistenza di una posizione di garanzia, che è requisito imprescindibile solo del reato omissivo improprio (monosoggettivo o plurisoggettivo). Nella stessa ottica, un concorso attivo degli organi politici li esporrebbe anche a conseguenze risarcitorie sul piano della responsabilità amministrativa e di quella civilistica, in base alla disciplina normalmente applicabile. Al riguardo, si è già notato nella prima parte della ricerca369 che la differenza tra concorso attivo materiale e mera connivenza non dovrebbe creare notevoli problemi, in quanto il primo consiste in una collaborazione nella concreta esecuzione del reato; sorgono, invece, grandi difficoltà nel distinguere in concreto tra concorso attivo morale (penalmente rilevante) e mera connivenza (penalmente irrilevante). Come noto, il concorso attivo morale si manifesta o come determinazione in altri del proposito criminoso o come rafforzamento di un proposito già esistente. Orbene, giova ricordare che, in tema di responsabilità del proprietario dell’area per l’opera abusiva da altri realizzata, la giurisprudenza tradizionale370, seguendo la tesi funzionale circa l’obbligo di impedimento dell’evento, ravvisava una posizione di garanzia in capo al titolare del diritto di proprietà sul terreno, considerata la disponibilità giuridica e di fatto dell’area allo stesso spettante. In seguito, la Suprema 369 Retro pr. I.6. Cass., sez. III, 14 ottobre 1999, n. 859, in C.E.D. Cass. n. 215598 e in Guida al diritto, 2000, n. 8, p. 90; Cass., sez. III, 24 agosto 1988, in Riv. giur. edil., 1990, I, p. 315; Cass., sez. III, 8 luglio 1983, in Cass. pen., 1984, p. 2263. 370 164 Corte ha mutato orientamento e la tesi oggi prevalente371 esclude che in tal caso sussista un obbligo di impedire l’abuso edilizio altrui. Ne consegue che, in base a tale esegesi, una responsabilità del proprietario possa configurarsi solo in caso di concorso attivo materiale o morale. Tuttavia, occorre segnalare che la stessa giurisprudenza tende ad interpretare in senso lato il concetto di concorso attivo morale, poiché presume una istigazione del coniuge proprietario nella semplice circostanza che il manufatto abusivo, realizzato dal coniuge non proprietario, sia destinato alla vita in comune della famiglia372. Ciò posto, occorre notare che sussiste la possibilità che analogo orientamento venga seguito dalla Suprema Corte anche nel caso in esame, ossia nell’ambito dei reati commessi dai funzionari pubblici nel corso della gestione amministrativa, con la conseguente eventualità che si ravvisi un concorso attivo morale dell’organo politico che abbia in qualche modo tratto beneficio dalle condotte illecite poste in essere dai burocrati. III.6 Prospettive di riforma La soluzione in base alla quale gli organi d’indirizzo politico non assumono un obbligo d’impedimento dei reati commessi nel corso della gestione amministrativa, pur essendo preferibile in base alla vigente normativa, si espone tuttavia a rilievi critici in una prospettiva de iure condendo. Essa, infatti, conferma le ambiguità dell’attuale assetto normativo che, da un lato, sancisce solennemente il principio di separazione tra politica e amministrazione, sottraendo, salvo casi eccezionali373, 371 Cass., sez. III, 3 ottobre 2002, n. 38193, in C.E.D. Cass. n.222658; Cass., sez. III, 1 ottobre 2003, n. 44160, in C.E.D. Cass. n. 226589; Cass., sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, in C.E.D. Cass. n. 231645; Cass., sez. III, 12 aprile 2005, n. 26121, in C.E.D. Cass. n. 231954. 372 Cass., sez. III, 15 marzo 2005, n. 21966, cit. 373 Ad esempio: a) Sindaco come ufficiale di governo (art. 54 c. 4 d.lgs. 267/2000). Forse, più che un’eccezione alla regola è una conferma della regola generale, posto che in tal caso il Sindaco non viene in rilievo quale organo politico che “eccezionalmente” esercita poteri gestori, ma come organo gestionale dello Stato, che “normalmente” esercita poteri amministrativi; b) enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L’art. 53 c. 23 della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (legge finanziaria 2001), così come modificata dall’art. 29 c. 4 della legge 28 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), prevede la possibilità per gli enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti 165 competenze gestorie agli organi d’indirizzo e programmazione, mentre, dall’altro lato, attribuisce ai medesimi i poteri di nomina e revoca concernenti gli incarichi dirigenziali, così nei fatti vanificando l’indipendenza della dirigenza pubblica rispetto agli organi politici. Le recenti riforme della pubblica amministrazione, dunque, più che realizzare un disegno di valorizzazione dell’autonomia degli organi di gestione amministrativa, hanno condotto ad un’irresponsabilità della classe politica cui non fa da contraltare, tuttavia, un’effettiva rimozione della possibilità da parte della stessa di esercitare un’influenza sulla burocrazia. Infatti, il permanere del potere di nomina e revoca degli incarichi dirigenziali in capo gli organi politici non può non determinare in concreto uno stato di soggezione dei dirigenti verso coloro da cui dipendono le sorti delle loro carriere, con apprezzabili riflessi anche economici nella vita di ciascun destinatario dei provvedimenti in esame. Non è quindi inverosimile ipotizzare che, nei casi patologici, gli organi politici possano esercitare pressioni sui dirigenti in merito all’esercizio del potere loro riservato, soprattutto quando esigenze elettorali inducano a piegare la funzione pubblica a logiche clientelari. Come del resto conferma la prassi, può quindi accadere che l’incompleta realizzazione di un’effettiva separazione tra politica e amministrazione agevoli fenomeni d’induzione da parte degli organi politici nei confronti dei dirigenti affinché questi adottino provvedimenti amministrativi tesi a favorire o sfavorire taluni soggetti nell’interesse del partito o della persona fisica appartenente al ceto d’indirizzo e programmazione. Certamente, tali situazioni danno luogo a comportamenti attivi punibili o in base al concorso di persone nel reato o ai sensi dell’art. 317 c.p.374, ma è evidente che si tratta condotte di adottare disposizioni regolamentari con le quali si attribuiscano ai componenti degli organi di indirizzo politico poteri di natura gestionale; c) art. 42 c.2 lett. e, h, l del d.lgs. 267/2000. Il t.u. sugli enti locali, infatti, attribuisce al Consiglio Comunale poteri gestionali in materia di: organizzazione dei servizi pubblici locali e relative concessioni; contrazioni di mutui e aperture di credito ed emissione di prestiti obbligazionari; acquisti e alienazioni immobiliari, relative permute, appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del Segretario o di altri funzionari. Come chiarito dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, destinatario della condotta abusiva, ai sensi dell’art. 317 c.p., può essere anche un pubblico ufficiale, il quale - specie in presenza di un rapporto di soggezione – si venga a trovare in una situazione di inferiorità psichica rispetto all’agente che persegue scopi di carattere personale. In tema: 374 166 difficilmente provabili (soprattutto quando assumono le forme implicite della concussione ambientale375), con il rischio, perciò, che rimangano esenti da sanzione e che gli unici a dover rispondere siano i burocrati che abbiano dato seguito alle richieste degli organi politici. Appare, quindi, auspicabile una riforma dell’attuale assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione che elimini le ambiguità esistenti, foriere di soluzioni insoddisfacenti sotto i numerosi profili evidenziati. III.7 L’atto di nomina del dirigente da parte dell’organo d’indirizzo politico configura una delega di funzioni? Il conferimento degli incarichi dirigenziali compete, nell’ambito degli enti locali, al Sindaco e al Presidente della Provincia, mentre nelle strutture ministeriali occorre fare una distinzione. Infatti, gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale sono attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente; gli altri incarichi dirigenziali, invece, sono assegnati dal dirigente preposto all’ufficio di livello dirigenziale generale. Pertanto, salva quest’ultima ipotesi, il potere di nomina dei dirigenti pubblici spetta, di regola, agli organi politici, che svolgono funzioni d’indirizzo e programmazione. Si pone, quindi, il problema di stabilire se tale atto di conferimento dell’incarico dirigenziale costituisca o meno una delega di funzioni. Come noto, nell’ambito delle strutture organizzative complesse accade spesso che i garanti pongano in essere deleghe di funzioni ad altri soggetti, poiché i formali destinatari del precetto non possono provvedere personalmente a tutti gli adempimenti inerenti alla loro qualifica né CONTENTO, La concussione, Bari, 1970, p. 120; Cass., sez. VI, 6 novembre 1997, n. 1306, in C.E.D. Cass. n. 210842 ed in Giust. pen., 1999, II, p. 208; Cass., sez. VI, 9 gennaio 1997, n. 1894, in C.E.D. Cass. n. 207522 ed in Archivio della nuova procedura penale, 1997, p. 660. 375 Nel senso della configurazione del reato di concussione in presenza di una “convenzione tacitamente riconosciuta”, fatta valere dal pubblico ufficiale e subita dalla vittima, Cass., sez. VI, 21 gennaio 2005, n. 12175, in Foro Italiano 2006, II, p. 23; Cass., sez. VI, 24 maggio 2006, n. 23776, in Riv. pen., 2007, p. 37; Cass., sez. VI, 13 luglio 1998, n. 13395, in Foro Italiano 1999, II, p. 645, con nota di MANES, La “concussione ambientale” da fenomenologia a fattispecie “extra legem”. 167 possiedono tutte le capacità tecniche richieste376. L’istituto ha quindi la funzione di evitare sia la concentrazione verso l’alto della responsabilità, sia la concentrazione verso il basso, ossia il trasferimento sul dipendente delle responsabilità del superiore, sia il verificarsi di un’”irresponsabilità organizzata”.377 Al riguardo giova segnalare che la giurisprudenza378 ha fissato la distinzione tra delega di esecuzione e delega di funzioni. Con la prima il titolare dell’obbligo giuridico si limita ad affidare ad un dipendente compiti meramente attuativi delle proprie decisioni, conservando pienamente la propria posizione di garante. La seconda, invece, si caratterizza per l’attribuzione di autonomi poteri deliberativi ad un soggetto che non ne sia originariamente titolare379. Circa gli effetti della delega di funzioni, un orientamento380 ritiene che, in ossequio al principio di legalità, il titolare degli obblighi non li possa dismettere attraverso il loro trasferimento ad altro soggetto con un atto di autonomia privata. Secondo altra tesi381, invece, la delega, oltre ad essere ammessa, avrebbe l’effetto di creare un nuovo titolare della posizione di garanzia. Il delegante, pertanto, sarebbe liberato da qualsiasi responsabilità nel periodo di vigenza della delega. In senso critico, però, si è notato che tale ricostruzione finisce col contrastare con il principio di non derogabilità delle posizioni di garanzia. GRASSO, Organizzazione aziendale e resp. pen. per omesso impedimento dell’evento, in Arch. pen., 1982, p. 744; PULITANÒ, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel dir. pen. del lavoro, in Riv. giur. lav., 1982, p.181; FIORELLA, Il trasferimento di funzioni nel dir. pen. dell’impresa, Firenze, 1984; TRUCCO, Resp. pen. dell’impresa: problemi di personalizzazione e delega, in Riv. it., 1985, p. 763;PAGLIARO, Problemi generali del diritto penale dell’impresa, in Indice pen., 1985, p. 17; PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale dell’impresa, in Riv. dir. pen. ec., 1988, p. 125; PALOMBI, La delega di funzioni, in Trattato di diritto penale dell’impresa, I, Padova, 1990, p. 267; FLORA, I soggetti penalmente responsabili nell’impresa societaria, in Studi Nuvolone, II, Milano, 1991, p. 543; PATRONO, Diritto penale dell’impresa e interessi umani fondamentali, Padova, 1993, p. 126; PADOVANI, Dir. pen. del lavoro. Profili generali, Milano, 1994, p. 26; BELLAGAMBA, Sulla responsabilità penale nella delega di funzioni, in Cass. pen., 1996, p. 1272; MANTOVANI, Il principio dell’affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 245; GARGANI, La successione nella posizione giuridica di garanzia, St. iur., 2004, p. 909; CINGARI, Tipizzazione e individuazione del soggetto attivo nei reati propri, in Indice pen., 2006, p. 275. 377 MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2009, p. 116. 378 Cass. pen., sez. III, 3 maggio 1996, in Cass. pen., 1999, p. 2653. 379 GAROFOLI, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 292. 380 Cass., sez. IV, 5 dicembre 2003, n. 4981, in C.E.D. Cass. n. 229672. Si veda anche l’analisi di GULLO, La delega di funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 1508 e ss.; MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p.116; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 292. 381 Si veda l’analisi di MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 116; GAROFOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 292. 376 168 Per questo motivo è emersa una tesi mista382 secondo la quale la delega di funzioni rappresenta un mezzo per il garante per adempiere i propri obblighi. Il delegato, quindi, assumerebbe una posizione di garanzia derivata, senza che il delegante sia liberato dagli obblighi a lui facenti carico. Essi, quindi, non vengono meno, ma si trasformano in doveri di vigilanza e d’intervento su situazioni conosciute o comunque conoscibili. Al riguardo si parla di “residuo non delegabile”, evidenziando plasticamente l’efficacia non pienamente liberatoria della delega di funzioni. Quanto ai requisiti della delega di funzioni, la giurisprudenza ormai dominante ne ha fornito un elenco dettagliato. Essi sono rappresentati, in primo luogo, dalle dimensioni notevoli della struttura organizzativa; al riguardo, però, giova segnalare che parte della dottrina383 si è espressa in senso critico perché la specificità e la complessità dei compiti da svolgere nell’ambito delle strutture organizzative spesso prescindono dalle dimensioni delle stesse. In secondo luogo, la giurisprudenza indica come requisiti l’idoneità tecnica del delegato ed il conferimento effettivo dei poteri al medesimo. Un’isolata pronuncia della Suprema Corte384, tuttavia, ha escluso la necessità di tale requisito sulla base di due argomenti. In primis, si è evidenziato che l’idoneità tecnica non è richiesta in capo al delegante, con la conseguenza che sarebbe assurdo pretendere dal delegato abilità non richieste al titolare della posizione di garanzia. In secundis, si è notato che, altrimenti opinando, ne risulterebbe minato il principio d’insindacabilità delle scelte di merito del delegante. In terzo luogo, si ravvisano come requisiti la forma, l’accettazione e la corrispondenza ai regolamenti interni dell’organizzazione. Sulla necessità della forma scritta, però, si contrappongono due orientamenti giurisprudenziali. Il primo di essi reputa che si possa fare a meno del requisito della forma scritta quando il trasferimento di funzioni sia ricavabile dalla concreta ripartizione di compiti e poteri 382 PULITANÒ, Igiene e sicurezza del lavoro(tutela penale), in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1992, p. 107 e ss.; GRASSO, Organizzazione e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Arch. pen., 1982, p. 753; Cass. pen. n. 41943 del 2007 e Cass. pen., sez. IV, 12 ottobre 2007, n. 37610, in www.diritto-in-rete.com. 383 MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 117. 384 Cass., 3 agosto 2000, Biadene, in Foro it., 2001, II, p. 357 e ss. 169 nelle imprese di grandi dimensioni385. Il secondo, invece, ritiene necessaria sia la forma scritta della delega, sia un’opportuna pubblicità della stessa, sia all’interno sia all’esterno della struttura organizzativa386. Ciò posto, occorre domandarsi se il conferimento degli incarichi dirigenziali configuri una delega di funzioni, con tutte le conseguenze penalistiche del caso. Al riguardo, occorre notare che negli enti pubblici i compiti dei dirigenti sono fissati direttamente dalla legge, senza necessità di altri atti di natura attuativa. Inoltre, nell’attuale assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, il criterio di riparto delle competenze tra organi politici e amministrativi è improntato, almeno di regola, ad una netta distinzione delle funzioni. Ne consegue il divieto d’ingerenza reciproca tra i due attori istituzionali, posto che, altrimenti, la rigida divisione delle competenze sarebbe sostanzialmente vanificata. Pertanto, le riforme che hanno condotto alla graduale introduzione del principio di separazione tra politica e amministrazione hanno, nello stesso tempo, segnato il passaggio, sul piano dei rapporti organizzativi tra organi politici e amministrativi, da una relazione interorganica di tipo gerarchico, ad una meno intensa, qualificabile come direzione387. I dirigenti pubblici, pertanto, non sono più collaboratori dell’organo politico, ma assumono uno spazio decisionale pienamente autonomo 388. Più precisamente, essi sono ormai assimilabili ai manager d’impresa, poiché sono titolari di poteri di gestione, di amministrazione attiva, di direzione, di organizzazione e di spesa, ai quali corrisponde una responsabilità connessa alla verifica dei risultati conseguiti389. Ai dirigenti spetta il compito di adottare gli atti e i provvedimenti idonei a realizzare i programmi fissati dagli organi politici; in questo ambito i loro poteri sono pressoché completi e autonomi, mentre a bilanciamento di essi sussiste una responsabilità esclusiva per l’attività amministrativa, per la gestione e per i relativi risultati390. 385 Cass., sez. IV, 24 giugno 2000, n. 7402, in Cass. pen., 2001, p. 1321 e ss.; Cass., sez. IV, 24 marzo 2000, Bonomi. Ad es. Cass., sez. IV, 9 gennaio 2001, Colombo, in Dir. pen e proc., 2001, p. 335. 387 MARCONI, Rappresentanza politica, cit., p. 197. 388 D’ALESSIO, La nuova dirigenza pubblica, Roma, 1999, p. 36. 389 D’ALESSIO, op. cit., p. 54 390 FORLENZA – TERRACCIANO – VOLPE, La riforma del pubblico impiego, Milano, 1999, p. 36. 386 170 Da quanto esposto consegue che tra le strutture amministrative pubbliche e le imprese private emergono ormai evidenti similitudini, soprattutto dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione391. Tuttavia, il sistema di nomina dei dirigenti pubblici risponde a logiche nettamente diverse rispetto alle dinamiche proprie delle imprese private. Infatti, l’assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione si caratterizza per una marcata rigidità nella distribuzione delle funzioni, per il penetrante meccanismo dei controlli interni ed esterni e per l’individuazione ex lege degli ambiti di competenza assegnati ai pubblici amministratori. Per questi motivi, non pare configurabile quale delega di funzioni il provvedimento di preposizione del dirigente pubblico. Invero, la delega di funzioni costituisce un atto d’autonomia privata destinato a trasferire una posizione di garanzia in capo al delegato, mentre sul delegante residuano solo doveri di vigilanza e d’intervento. Essa rappresenta uno strumento per sollevare il delegante, nell’ambito di strutture di notevoli dimensioni, da incombenze cui sarebbe tenuto in prima persona, mentre tale finalismo appare assolutamente estraneo alla nomina dei dirigenti pubblici. Quest’ultima, infatti, ha semplicemente lo scopo di costituire il nesso d’immedesimazione organica tra ente e titolare dell’ufficio, in modo che gli atti realizzati dal funzionario siano imputati direttamente alla struttura pubblica nella quale egli è incardinato. La divisione delle competenze tra organi d’indirizzo politico e burocrati, inoltre, fa sì che a questi ultimi siano riservati compiti di gestione sottratti agli organi politici, con la conseguenza che l’atto di preposizione del dirigente rappresenta uno strumento imprescindibile di qualsiasi ente pubblico, indipendentemente dalle dimensioni della pertinente struttura. Si può quindi ritenere che la nomina dirigenziale debba essere qualificata non già quale delega di funzioni, ma come manifestazione della funzione d’indirizzo propria degli organi politici392. Essa, infatti, ha lo scopo di selezionare il soggetto ritenuto maggiormente idoneo a realizzare i fini stabiliti dalla legge e dagli organi d’indirizzo e programmazione. Ne consegue che nel momento in cui l’organo politico conferisce 391 392 Iniziata con il d.lgs. n. 29 del 1993 e poi confermata dal d.lgs. n. 80 del 1998 e dal d.lgs. n. 165 del 2001. MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 200. 171 l’incarico al dirigente pubblico non gli delega dei poteri, ma gli stessi sono attribuiti al nominato direttamente dalla legge393. In questo senso del resto si è espressa anche la Suprema Corte la quale ha affermato che: “l’esigenza della delega è superata ed assorbita dalla predeterminata suddivisione dei servizi, delle attribuzioni e dei compiti, e, per altro verso, resa superflua dall’investimento della funzione tipica, nonché dal suo concreto esercizio secondo la disciplina prestabilita dalle norme legislative e regolamentari sulla ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze dell’ente”.394 Nella delega di funzioni, infatti, si trasferisce solo l’esercizio di una competenza di cui resta pur sempre titolare il delegante, mentre nell’atto di nomina del dirigente si seleziona solo il titolare di funzioni assegnate dalla legge in modo esclusivo. 393 Cass., sez. III, 27 marzo 1998, n. 5889, in C.E.D. Cass. n. 210946 ed in Riv. pen., 1998, p. 776. Cass., sez. III, 27 marzo 1998, n. 5889, cit.; MARCONI, Rappresentanza politica e responsabilità per omissione impropria, cit., p. 203. 394 172 BIBLIOGRAFIA Parte prima: premessa di diritto penale ALBEGGIANI, Imputazione dell’evento e struttura obiettiva della partecipazione criminosa, in Indice pen., 1977, p. 412 e ss.; ALESSANDRI, sub art. 27, c.1 Cost., in Commentario della Costituzione, curato da G. 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