Il lavoro di comunità, centro del nuovo welfare Dispositivi per

58 | Animazione Sociale ottobre | 2013 inserto
Inserto del mese I Farsi città nel farsi prossimi agli anziani invisibili fragili
Gino Mazzoli
Il lavoro
di comunità, centro
del nuovo welfare
Dispositivi
per generare
legami sociali
Alcuni problemi, come
quello degli anziani
fragili, richiedono la
mobilitazione delle
comunità locali e delle
reti di prossimità. E,
tuttavia, il rischio per
quanti operano nel
sociale è limitarsi
all’enfasi, all’appello
morale, senza
prendere atto che le
persone disponibili
alla solidarietà
sperimentano una
vulnerabilità che
immobilizza. Cura dei
legami e cura delle
disponibilità implicano
un intenso lavoro di
comunità, all’incrocio
tra politica locale che
investe sul generare
risorse nel territorio,
servizi competenti
nell’accompagnare
l’evolversi della
comunità, reti sociali
interessate a misurarsi
sui problemi uscendo
dai propri confini.
Nelle pagine di questo inserto si descrive la più rilevante esperienza di lavoro di comunità che mi è capitato
di incontrare nella mia attività professionale.
Perché la più rilevante?
Innanzitutto per alcune caratteristiche quantitative:
• la durata (sette anni non sono pochi, e soprattutto la
vicenda non accenna a concludersi);
• le ricadute sull’organizzazione dei servizi: l’esperienza dei tavoli di quartiere e delle numerose attività
a favore degli anziani fragili ha contribuito in modo
determinante all’investimento del welfare reggiano
verso il lavoro di comunità, un operatore dedicato a
questa funzione in ogni Polo (cfr. intervento di Germana Corradini, pp. 36-46);
• la produzione di un numero molto consistente di
nuovi servizi (57 attivati, altri 50 progettati) con costi
tendenti allo zero;
• un massiccio investimento sull’allestimento di dispositivi di governance di questi processi: otto tavoli
di quartiere (poi diventati cinque con l’accorpamento
dei quartieri avvenuto in città) a composizione mista
(operatori del servizio sociale e di quello sanitario, di
un’Asp che gestisce i servizi per anziani, consiglieri
di quartiere, cittadini, volontari di associazioni, parrocchiani) e fluida (durante un lungo percorso c’è chi
entra, chi esce, chi rientra), con consistenti autonomie
progettuali e rilevante costanza di appuntamenti (almeno un incontro al mese);
• il coinvolgimento di un numero ragguardevole di attori sociali: attualmente sono
circa 100 le persone che presidiano in modo stabile la governance nei cinque tavoli
di quartiere; 150 persone che ruotano in modo saltuario; oltre 300 quelle che sono
state coinvolte, durante i sei anni di vita di questa esperienza, in questi dispositivi
di progettazione, monitoraggio e indirizzo;
• l’attivazione di un alone ancora più consistente sul piano numerico, di volontari
nella realizzazione di questi servizi (non esiste un censimento, ma è sufficiente
pensare ad alcune delle iniziative per rendersi conto del numero di persone mobilitate nell’implementazione queste attività: artigiani in pensione che vanno a fare
piccole manutenzioni allo scopo di monitorare la situazione della persona anziana;
infermieri in pensione che riprendono a esercitare la professione per fare iniezioni
e piccole medicazioni a domicilio; volontari che consegnano pasti, spesa e farmaci a
domicilio; altri che si occupano di piccole commissioni; altri ancora che organizzano
momenti di ginnastica nelle sale condominiali);
• l’intercettazione di un numero impressionante di anziani che non rientrano
strettamente nel mandato dei servizi, ma possono venire ricompresi all’interno di
un’opera complessiva di prevenzione: a fronte di 1500 anziani che a Reggio Emilia
fruiscono dei prodotti erogati dal welfare pubblico e privato sociale (case protette,
centri diurni, assistenza domiciliare) e di 3500 badanti (stima al ribasso) che assistono anziani non autosufficienti, il sistema dei servizi allestiti attraverso il tavoli di
quartiere intercetta 1200 anziani fragili della cosiddetta «area grigia» (mentalmente
ancora lucidi, ma con alcune prime difficoltà sul piano fisico e soprattutto senza
reti familiari e di vicinato);
• la gemmazione di modalità di intervento analoghe in altre aree (famiglie e minori,
disabili; cfr. intervento di Daniela Scrittore, pp. 47-57).
Una vision innovativa
dentro i cambiamenti in atto
Questi imponenti dati quantitativi sono il frutto della vision generale con cui si
sono mossi i servizi di Reggio Emilia in questa esperienza: considerare il lavoro di
comunità come nuovo core del welfare che negli ultimi 15 anni ha visto trasformare
profondamente il proprio oggetto di lavoro (ossia la società).
Due sono i cambiamenti principali della società: l’evaporazione dei legami sociali
(familiari e di vicinato) e la diffusione endemica della vulnerabilità nel ceto medio
(nel 70% della popolazione italiana), cui di recente si è aggiunto il crollo delle risorse
monetarie a disposizione della Pubblica amministrazione a fronte dell’aumento
esponenziale del numero e della complessità dei problemi delle famiglie.
Avendo già scritto di tali trasformazioni su questa rivista (1), mi è sufficiente richiamare l’essenza del ragionamento.
1 | Mazzoli G., Articolare la partecipazione in tempi di
esodo dalla cittadinanza, in «Animazione Sociale»,
245, 2010, pp. 38-64; Idem, Un anno di «Spazio co-
mune», in Laboratori di Spazio comune, Costruire
partecipazione nel tempo della vulnerabilità, Suppl.
di «Animazione Sociale», 259, 2012, pp. 48-63.
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Intercettare i vulnerabili
Da un lato c’è un esodo silente verso la povertà cui si aggiunge un ri-sentimento
verso le istituzioni (che, investite di attese illimitate come si conviene alla cultura
dominante, diventano per definizione inadeguate) e un «auto-esodamento» dalla
cittadinanza. È questo oggi il principale problema del welfare, ma anche della
democrazia. L’addensarsi intorno alla soglia della povertà di una massa di penultimi e terzultimi che, nel caso precipitasse verso la marginalità, costituirebbe una
quantità di nuovi ultimi ingestibile sia per i servizi pubblici sia per il volontariato,
con le conseguenze che si possono immaginare rispetto alla percezione collettiva
della povertà e al consenso verso le amministrazioni locali. Intercettare i vulnerabili
oggi, quando hanno ancora una dotazione ragguardevole di risorse per gestire i
problemi che li attraversano, significa dedicare tempo per ascoltare e ri-orientare
lo stile di vita. Intercettarli domani, quando saranno necessari soprattutto soldi,
renderà impossibile l’intervento. Questi cittadini vanno aiutati a trasformare una
posizione meramente rivendicativa in un’altra capace di co-generare, insieme a
istituzioni e terzo settore, nuove risposte (nuovi servizi) da progettare e gestire in
modo partecipato. Ciò non significa dimenticare gli ultimi, ma rappresentarsi che
lavorare per generare nuove risorse tra i vulnerabili significa creare un contesto
sociale più ospitale anche per gli ultimi.
Farsi soglia verso le aree a legami sociali evaporati
Da un altro lato lo sbriciolamento dei legami ha creato una nuova scena in cui si
sviluppano i rapporti tra istituzioni, organizzazioni di volontariato e cittadini. Se
fino a 15 anni fa Pubblica amministrazione, terzo settore, partiti politici e sindacati
operavano fruendo «naturalmente» di un fitto tessuto di relazioni, oggi quegli stessi
soggetti si trovano un «intorno» circoscritto di persone con cui sono in stretta
relazione (anche se spesso le esperienze di solidarietà promosse dalla società civile
finiscono per perimetrarsi all’interno del proprio ambito), mentre è maggioritaria
un’area di cittadini che non ha rapporti con nessuno di questi soggetti e vive relazioni sociali esigue, entro le quali sviluppa solitudine, rancore e depressione. In
questa situazione è necessario, per tutti gli attori sociali che popolavano la scena
precedente, «farsi soglia» verso queste nuove aree a legami sociali evaporati, attualizzando in senso nuovo gli articoli della Costituzione che sanciscono il principio di
sussidiarietà (artt. 2 e 118). La Costituzione è stata pensata in un momento in cui
erano forti i legami sociali e segnala l’esigenza che lo Stato non si intrometta nelle
attività che formazioni minori sono in grado di svolgere. La nuova situazione impone
però di accompagnare la generazione di nuovi legami sociali. È una scommessa su cui
istituzioni pubbliche e terzo settore sono chiamati a un impegno congiunto.
La via diversa alla costruzione
di un nuovo welfare
Mentre il confronto a livello nazionale sullo stato sociale registra oggi una polarizzazione del dibattito intorno a modelli che propongono da un lato una deregulation
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indiscriminata (con un eventuale welfare integrativo a pagamento) e dall’altro
la gestione della decadenza in salsa accreditata di servizi eccellenti, ma calibrati
sulla società di 15 anni fa (mentre intorno crescono forme di auto-organizzazione
sommersa o for profit).
Sembra maggiormente fruttuosa una via che, più che «terza» o «intermedia», è
semplicemente diversa ed è caratterizzata da alcuni obiettivi fondamentali.
• Generare nuove risorse corresponsabilizzando cittadini e forze della società civile,
con un ruolo di regia del pubblico, non come gestore o controllore ossessivo ma
come broker di territorio, capace di accompagnare la crescita di nuove risposte e
di favorirne l’autonomia all’interno di un mercato sociale co-costruito e co-gestito
da pubblico, privato sociale, cittadini attivi e imprese.
• Cercare collaboratori (più che utenti) con cui gestire i problemi (sia nel senso che
agli utenti va chiesta collaborazione, sia nel senso che nuovi attori vanno chiamati
in causa: vicini di casa, vigili urbani, gestori di esercizi commerciali...); più che una
proliferazione infinita di operatori sociali (del resto impossibile) è importante sviluppare attenzioni psicopedagogiche fra gli attori che gestiscono quotidianamente
grandi quantità di relazioni con i cittadini.
• Andare verso i nuovi vulnerabili che hanno vergogna a mostrare le loro fragilità,
anziché attenderli in qualche servizio.
• Far transitare le istanze dei singoli dall’ «io» al «noi», favorendo la costruzione di
contesti in cui sia possibile un’elaborazione collettiva dei disagi individuali, spesso
ancora non consapevolmente formulati come richieste o problemi, generando
risposte a quegli stessi problemi; il passaggio dall’io al noi non è una questione
moralistica, ma di visione strategica: la comunità viene vista come un centro di
risorse, non come l’insieme dei destinatari (utenti).
• Individuare oggetti di intervento utili, circoscritti e non stigmatizzanti (le nuove
vulnerabilità sono timorose di mostrarsi).
• Dare nomi nuovi a problemi nuovi e dunque andare oltre le categorie tradizionali
di utenti stratificatesi nel tempo all’interno della Pubblica amministrazione per
evitare di ridursi a erogare un welfare di nicchia, in grado di intercettare solo chi
è individuato dal mandato istituzionale o chi – per abitudine, disperazione o scaltrezza – è in grado di chiedere/accedere ai servizi.
Se queste sono le indicazioni generali per il nuovo welfare da costruire, tutte sono
riscontrabili nell’esperienza dei tavoli di quartiere. La loro presenza non dipende
dall’applicazione deduttiva di alcune regole, ma da una pratica che ha preceduto la consapevolezza riflessa, avvenuta successivamente attraverso una rilettura collettiva.
Il lavoro di comunità come nuovo centro del welfare
I sei orientamenti ora elencati segnalano come la via diversa del welfare qui delineata
chieda che il lavoro di comunità diventi il nucleo centrale (il core) dell’attività dei
servizi. Non è un’evoluzione culturale semplice. D’altra parte, quando un’organizzazione vede il proprio oggetto di lavoro trasformarsi profondamente, è chiamata
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Sei obiettivi fondamentali
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a una profonda modificazione del modo di operare. Ma quello che è richiesto non
è più il lavoro di comunità degli anni ’80-’90, volto a includere una minoranza di
persone marginali all’interno di una società coesa; oggi si tratta di re-includere
una maggioranza di cittadini in esodo dalla cittadinanza e di connettere le isole di
solidarietà perimetrate. Un lavoro enorme che riguarda tutta la società e che non
può essere portato avanti senza la collaborazione di tutta la società (non è insomma
solo un problema dei servizi sociali).
Si tratta pertanto di fare i conti con alcuni luoghi comuni intorno alla locuzione
«lavoro di comunità» all’interno della quale si trovano spesso ipotesi, strategie e metodologie molto differenti. Per questo mi sembra importante delineare con nettezza
(pur con tutta la provvisorietà che questa situazione di work in progress richiede) le
caratteristiche salienti del nuovo lavoro di comunità. Caratteristiche che si possono
riscontrare in maniera eminente nell’esperienza reggiana; si potrebbe anzi dire che
i servizi per gli anziani fragili costruiti con la cittadinanza a Reggio Emilia hanno
definito, attraverso il loro fare, molte di queste concettualizzazioni.
Le tre fasi del lavoro di comunità
Nel nuovo lavoro di comunità mi sembra si possano individuare tre fasi (2): aggancio dei cittadini; attivazione di propensioni ad assumere una posizione attiva e
collaborante all’interno di laboratori progettuali; manutenzione del gruppo e del
processo costruito.
La fase di aggancio
Persone infragilite e vergognose di mostrare la propria vulnerabilità, in un contesto
dove i legami evaporano e crescono le perimetrazioni autoreferenziali, richiedono
nuove strategie di aggancio. Non è più sufficiente inviare una lettera a tutti gli
abitanti del quartiere e sollecitare tutte le associazioni, perché si rischia di trovarsi
in pochi e tra soliti noti. A Reggio Emilia si è investito su interviste a care giver e ad
anziani fragili come modalità di coinvolgimento in un percorso in cui queste persone sono state valorizzate come portatrici di conoscenze e, di conseguenza, come
possibili collaboratrici dei servizi. Altri contatti con cittadini che sono diventati
volontari di queste nuove attività sono stati costruiti con un passaparola allestito
tramite attori noti nel territorio (in particolare consiglieri di quartiere).
Agganciare persone timorose di non essere più all’altezza di quanto la società
richiede esige la scelta di oggetti circoscritti, utili e non stigmatizzanti: nell’esperienza dei tavoli di quartiere si è avuta molta cura nel seguire questa strada. Basta
pensare all’infermiere di comunità che per due anni ha perlustrato una zona di un
quartiere (munito di una mappa predefinita col gruppo di lavoro), andando a far
visita alle persone anziane e sole per verificare le loro condizioni con la scusa di
«essere passato di là per provare la pressione» (il camice bianco dell’infermiere non
stigmatizza, l’arrivo dell’assistente domiciliare sì, perché segnala l’avvento – o per
2 | Mazzoli G., Come cambia il lavoro di comunità,
in «Welfare oggi», 3, 2013.
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La fase di attivazione
L’aggancio delle persone non garantisce che si produca in esse una posizione attiva
e collaborante rispetto ai problemi che le attraversano. È necessario, innanzitutto,
costruire un clima di fiducia (cfr. l’intervento di Donelli A., Incerti S., Oleari A.,
pp. 70-79 e quello di Scrittore D., pp. 47-57). È un fare comunemente riconosciuto
come utile, che produce una discussione su questioni che hanno un senso; ed è
questo discutere mentre si fanno cose con-senso che genera fiducia.
La riflessività come chiave dell’attivazione La riflessività (mi vedo mentre faccio e
ne capisco il motivo; e ciò avviene in un contesto di rielaborazione collettiva) è
la chiave dell’attivazione: vedere cose nuove per desiderare di fare cose nuove. I
tavoli di quartiere rappresentano l’allestimento di laboratori partecipativi volti a
generare risposte rispetto ai problemi che attraversano le persone che compongono
il gruppo, anche valorizzando la convivialità (lo stare e il mangiare insieme senza
porsi nell’immediato obiettivi produttivi), non smistando la persona con il proprio
problema all’«ufficio competente» (nel lavoro di comunità la presa in carico non
può essere che di comunità), ma utilizzando il gruppo come risorsa per elaborare
quella criticità in termini di progettazione sociale.
Si è sempre avuto cura di avviare la riflessione sul fare ogniqualvolta si sono presentati problemi operativi. La gente comune è ben disposta a discutere i motivi
delle azioni che sta intraprendendo se si tratta di affrontare un impasse; lo è molto
meno in fase di progettazione iniziale, dove l’impazienza di buttarsi nel fare concreto regna sovrana. Meglio allora attendere il momento opportuno per aprire il
confronto sul senso di ciò che si sta facendo, anziché allestire improbabili tirocini
pedagogici iniziali sulla progettazione sociale.
La scelta degli oggetti, dei soggetti e dei ritmi I diversi oggetti di lavoro (le decine di
progetti allestiti sulla domiciliare leggera e dintorni) sono i mediatori del complesso
insieme di questioni cui si è accennato. È nella cura della costruzione di questi
progetti che vengono dosati e miscelati empiricamente i vari elementi in gioco (valorizzazione del servizio offerto dai centri diurni, apertura al territorio, attivazione
di nuove risorse volontarie, coinvolgimento del quartiere, regia dei Poli...) e di conseguenza i vari soggetti. Come per gli inserimenti lavorativi di persone svantaggiate
non basta trovare un’azienda o un’associazione disponibile, ma diventa cruciale
la mansione che viene assegnata alla persona, così in questo percorso ciò che ha
consentito all’innovazione di non fermarsi a indicazioni di massima, ma di radicarsi
e di durare nel tempo è stata la cura concertata e lenta del dettaglio. Andare avanti,
magari poco e adagio, ma insieme, tenendo presente l’estrema articolazione degli
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lo meno il rischio – della non autosufficienza). Potremmo continuare coi già citati
piccoli lavori di manutenzione svolti da artigiani in pensione, iniezioni e spesa a
domicilio, ecc. Ogni oggetto, ogni luogo, ogni persona in grado di intercettare in
modo discreto queste persone è una «scusa», una «porta» per incontrare questi
nuovi disagi silenti e assai diffusi.
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attori in gioco e le loro opinioni (care giver, anziani, volontari, operatori dell’Asp,
dell’Ausl, dei Poli, consiglieri di quartiere). Anziché proporre sorti magnifiche e
progressive, si è cercato di regolare il passo e la vision con la velocità e la capacità di
immaginario che i vari soggetti della comunità erano in grado di sostenere; questo
ha consentito di far emergere le risorse proprie del contesto reggiano: una sapienza
pratica che, pur faticando a produrre coscienza riflessa di sé, è in grado di mettere
a punto risposte intelligenti e innovative nei fatti.
La fase di manutenzione
Se aggancio e attivazione sono le fasi più urgenti nel lavoro di comunità richiesto
dalle mutate condizioni sociali (perché è come se si fossero disimparate le modalità
di costruzione del legame sociale), la fase di manutenzione è quella più complessa.
Si tratta infatti di accompagnare, con determinazione e delicatezza, la nascita e la
crescita di nuove forme di vita sociale (i laboratori partecipati e le loro forme di
governance, in questo caso i tavoli di quartiere), favorendo l’emersione di nuovi
protagonismi, ma allo stesso tempo contenendo le spinte distruttive e autodistruttive volte a privatizzare questi beni pubblici («abbiamo dato alle istituzioni il nostro
tempo gratis, dunque questo progetto è nostro»).
Si tratta di dinamiche che in tempi di narcisismo dilagante sono diffuse anche all’interno di percorsi partecipati caratterizzati da consistenti slanci di abnegazione; in
queste situazioni occorre presidiare lo spazio costruito, che è uno spazio pubblico
non perché appartenga alle istituzioni, ma perché è un bene comune investito
simbolicamente da diverse soggettività.
A questo scopo è cruciale avere cura dell’organizzazione temporanea (3) , che accompagna il lavoro di questi gruppi, che è in grado di favorire la riflessività, costruire
indirizzi comuni e monitorare i processi che si sviluppano.
Dispositivi di governance simbolicamente pregnanti La longevità, la performatività e
la partecipazione che caratterizzano i tavoli di quartiere reggiani fanno sì che questi
dispositivi possano essere considerati dei veri e propri modelli per la governance
del nuovo welfare locale. Si tratta infatti di tavoli a composizione mista (cittadini,
operatori pubblici e privati – sociali e sanitari –, volontari) e a «porte girevoli», cioè
con partecipanti variabili a seconda dei nuovi soggetti che il percorso aggancia e di
quelli che l’abbandonano. La porosità dei confini è una caratteristica essenziale di
questi gruppi in un tempo dove straripa la frammentazione sociale.
Allestire dispositivi di questo tipo presenta alcune caratteristiche ricorrenti che a
Reggio Emilia si sono manifestate in modo eminente:
• la periodica modifica della configurazione organizzativa e di alcune funzioni (ad
esempio: inizialmente due gruppi sperimentali di progettazione e realizzazione
in due Poli – che comprendevano tre quartieri –, successivamente otto gruppi di
quartiere e alcuni contesti di monitoraggio cittadino, formali e informali); il lavo3 | Giovan Francesco Lanzara nel suo testo Capacità negativa (il Mulino, Bologna 1993) ha mo-
strato la rilevanza e la complessità di questo tipo
di organizzazioni.
ro di comunità oggi richiede la competenza di ridefinire più volte l’architettura
dell’organizzazione allestita lungo l’arco di vita di un singolo progetto;
• il presentarsi come luoghi generativi di risorse perché in grado di connettere differenze; veri e propri convertitori di motivazioni dall’utilitarismo o dalla semplice
curiosità all’oblatività;
• la capacità di diventare nel tempo dispositivi di monitoraggio del territorio ben al
di là dell’oggetto di lavoro in funzione del quale sono nati (ad esempio, estensione
dell’esperienza dei tavoli anche alle aree disabili e famiglie con minori);
• l’investimento simbolico che le persone rivolgono verso questi luoghi li fa apparire
spesso come sostitutivi di altre organizzazioni sociali verso le quali non si è più in
grado di (o si fatica a) investire («partecipare al tavolo di quartiere ha cambiato
profondamente il modo con cui svolgo il mio lavoro e sto nella mia organizzazione»);
ciò li rende de facto nuovi corpi intermedi, oltre – non contro – le organizzazioni
del terzo settore già esistenti, soggetti collettivi nel tempo dell’ipertrofia dell’io, in
grado di generare nuovo immaginario progettuale (parole incardinate su fatti che
fanno parlare i fatti);
• i progetti si attivano perché si è concessa fiducia alle competenze progettuali
dei cittadini, perché la produzione di pensiero collettivo risponde a un bisogno
profondo della persona, quello della socialità, della costruzione relazionale della
fiducia, della necessità di conoscere un pezzo cruciale della natura del singolo
che può manifestarsi soltanto all’interno dei gruppi; nel commercio dei legami si
sdoganano nuove energie bloccate o comunque sottoutilizzate («stavo entrando
in depressione, quando mi è stato chiesto se volevo dare una mano nel condurre
gruppi di ginnastica per gli anziani; sentirmi utile a queste persone, incontrare gente
di tutte le età che chiedevano di partecipare, sentire insomma che stavo costruendo
nuova cittadinanza ha cambiato il mio atteggiamento verso il mondo»).
Durata e innovazione Le attenzioni segnalate rispetto alle tre fasi del lavoro di co-
munità (in particolare quelle relative alla riflessività e all’allestimento di dispositivi
di governance) sarebbero poca cosa se non durassero nel tempo. È la durata accompagnata che consente la produzione. È questa sorta di «bagnomaria operativoriflessivo», che a me piace formulare nell’espressione matematica «(fare + pensare)
x durare», che garantisce (utilizzo questa parola con tutte le virgolette, gli asterischi
e le note a margine del caso, ma anche con tutto il corredo di esperienze che mostra
delle costanti innegabili) la generazione di progettualità innovative.
Così un’altra condizione cruciale per la possibilità di produzione progettuale da parte
dei laboratori di comunità è la loro durata: facendo scattare l’orologio nella fase di
aggancio, il passaggio all’attivazione, alla composizione delle diverse opinioni, all’individuazione di piste di lavoro, fino alle prime prove di realizzazioni pratiche, non
richiede meno di 12 mesi (più spesso 16 o 18). Non è un tempo smisurato se si valuta la
durata media della gestazione dei progetti sociali all’interno delle istituzioni. Tuttavia
spesso si produce un’evidente impazienza da parte di dirigenti, operatori e politici
verso queste nuove forme di coinvolgimento della cittadinanza, come se dovessero
mostrare rapidamente la loro performatività per essere sostenute nel tempo.
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È il dazio che di ogni scommessa innovativa deve pagare: sopportare marginalità
e svalorizzazione, a volte per lungo tempo. Ogni processo innovativo deve essere protetto dall’aggressività che si produce nell’ambiente circostante: innovare
significa modificare le routine con cui guardiamo le cose. Non è un’operazione
piacevole; può disturbare o, più spesso, spaventare; ciò che tende a generarsi è una
reductio ad notum («già visto», «già fatto», «tanto rumore per nulla», ecc.) quando
non un’aperta svalutazione. Inoltre il sapere sociale non avendo (a differenza del
sapere sanitario, economico e tecnologico) un’elevata capacità predittiva (e quindi
un appeal nell’immaginario collettivo) è chiamato continuamente a rendere ragione
degli esiti del proprio lavoro.
Elementi trasversali
alle tre fasi del lavoro di comunità
Quelle descritte finora sono tre fasi distinguibili come successive sul piano temporale. Vi sono altri tre elementi che si possono definire trasversali, perché accompagnano tutto lo svolgimento del lavoro di comunità.
Sono temi afferenti ai nuovi criteri necessari per valutare un nuovo lavoro sociale,
al problema della visibilizzazione del prodotto sociale e al valore aggiunto prodotto
dai legami sociali.
Un nuovo lavoro sociale
esige nuovi criteri di valutazione
Il nuovo approccio al lavoro sociale che qui si propone richiede la costruzione di
nuovi criteri per valutare questi nuovi percorsi.
Se il tema centrale è generare risorse, non sarà più sufficiente resocontare se sono
stati raggiunti i risultati che quel numero di operatori e di soldi a disposizione
avrebbero dovuto garantire; si tratterà di valutare se sono state coinvolte nel percorso persone che all’inizio non facevano parte dei promotori o degli utenti, quante
ne sono state coinvolte, se appartengono alla cerchia delle persone già impegnate
nell’associazionismo, se hanno assunto ruoli attivi (collaborazione, coordinamento),
se grazie al loro apporto il servizio che doveva attivarsi si è ampliato-articolato e
in che direzione, se le risposte erogate sono rivolte a singoli o tendono a costruire
collaborazione tra chi è in difficoltà, e così via.
O si introducono nuovi criteri di valutazione oppure la svolta del lavoro sociale
delineata in queste pagine (e che è molto misurabile nell’esperienza reggiana) resterà
un racconto suggestivo. Beninteso: non ho nulla contro i resoconti di tipo narrativo,
ma, per rendersi comprensibili verso altri codici (amministrativo, sanitario, economico) cui occorre cercare di visualizzare il valore del lavoro sociale, gli operatori
sono chiamati a utilizzare anche altri linguaggi. Del resto credo che gli indicatori
qui abbozzati siano un ottimo test di realtà anche tra quanti si occupano di sociale
per misurare qualità e direzione praticate nel coinvolgimento dei cittadini (spesso
confinati al ruolo di emettitori di pareri) e per verificare quanto la partecipazione
è un mezzo per produrre fatti nuovi o è fine a se stessa.
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Visualizzare il lavoro sociale verso altri codici culturali richiede un investimento
specifico, un’attenzione costante lungo tutto il percorso.
A Reggio Emilia si è avuta cura di allestire momenti di visibilizzazione reciproca tra
le attività degli otto tavoli che hanno consentito ai diversi soggetti operanti di sentirsi
parte di un’unica scommessa. Sul fronte però dei cittadini non è ancora percepibile il
menu dei tanti servizi oggi offerti agli anziani della cosiddetta «area grigia».
I tavoli di quartiere e il sistema di progetti da essi attivato si configurano come una
tipica organizzazione a legami deboli (4); questa organizzazione che ha prodotto
il vantaggio di attivare collaborazioni spontanee dal basso tra esperienze nate nei
diversi quartieri e al contempo lo svantaggio di essere poco visibile alla cittadinanza
come sistema complessivo. C’è a mio avviso un nodo irrisolto all’interno di questa
esperienza che forse la pubblicazione di questo inserto può sciogliere: si opta per i
legami deboli per timore di essere intercettati dallo sguardo perlustrante istituzionale o per scelta strategica volta a generare connessioni più produttive attraverso
contatti informali? L’assenza di un menu cittadino pubblico di servizi a costo zero
è la sottrazione a tanti cittadini di un’informazione cruciale o l’esito della consapevolezza che le informazioni efficaci viaggiano per vie informali (passaparola)
anche nell’epoca di internet?
Come i legami sociali producono valore aggiunto
Sempre nell’ottica della visualizzazione verso altri codici culturali, è molto parlante
il tema del valore aggiunto prodotto dall’allestimento di legami sociali attraverso il
lavoro di comunità. Questo si verifica in due direzioni, entrambe importanti.
La capacità di reggere la crisi di fiducia Far transitare istanze e situazioni dall’io al
noi significa costruire contesti dove è meno difficile reggere la crisi di fiducia e la
depressione che conseguono alla perdita del lavoro, a una separazione coniugale,
all’indebitamento. Rispetto alla frequente obiezione: «Perché investire tempo per
fare incontrare un po’ di gente? Abbiamo problemi più gravi e urgenti, ad esempio
il lavoro», si può replicare che:
• le fragilità che si vergognano a manifestarsi sono molto più diffuse di quanto non
si creda, rappresentando un problema endemico, dunque urgente;
• i laboratori cui qui si fa riferimento sono centrati sulla progettazione di risposte a
problemi che attraversano le persone e, mentre progettano, allestiscono convivialità
che favorisce la fiducia reciproca, la capacità delle persone di generare risposte e,
di conseguenza, la produttività del gruppo;
• non è difficile rappresentarsi che, se diminuisce il tasso di sofferenza psichica
delle persone, è probabile che si riducano gli episodi di cronaca nera e gli accessi ai
servizi psichiatrici generati da queste sofferenze e si producano modificazioni nello
4 | Weick K. E., Le organizzazioni scolastiche come
sistemi a legame debole, in Zan S., Logiche di azio-
ne organizzativa, il Mulino, Bologna 1982.
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Ambivalenze
nella visualizzazione del prodotto sociale
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stile di vita delle famiglie. In tempi di povertà poco diffuse, di vulnerabilità non
vissute come una vergogna, di legami sociali non evaporati, ci si poteva permettere
di definire queste azioni «prevenzione» o «interventi sull’agio». Oggi diventano
una priorità, poiché il panorama sociale è radicalmente mutato;
• la costituzione di un «tavolo per il lavoro» non garantisce l’arrivo del lavoro che
dipende ormai molto da dinamiche internazionali; spesso i nomi di questi tavoli e
la posizione apicale dei convenuti hanno una mera funzione di rassicurazione circa
il fatto che ci si sta occupando di cose importanti.
La possibilità di giungere a risparmi concreti C’è poi una seconda direzione nella
quale questi contesti generano valore aggiunto. Una direzione più economica, poco
considerata quando si valuta l’efficacia dei progetti sociali. Mi riferisco alla capacità
dei legami sociali di costruire risparmi concreti nelle tasche dei cittadini. Lascio in
proposito la parola a un volontario che a Reggio Emilia conduce incontri di ginnastica nelle sale condominiali per anziani fragili e altri abitanti: «Vengono persone
diverse per età, nazionalità, ceto sociale; mi è capitato che una signora straniera si
offrisse di dare un’occhiata a un anziano fragile, chiedendo contemporaneamente
un aiuto per il proprio figlio nel fare i compiti e trovando una risposta immediata
tra i presenti». In questo caso, da un lato si risparmiano i soldi per una badante (o si
procrastina il ricorso a una figura simile o a una casa protetta o a un centro diurno);
dall’altro si risparmiano i soldi per delle ripetizioni rivolte a uno studente.
Oltre una certa soglia di massa critica e di fiducia, le reti producono esiti economici
reali che impreziosiscono il territorio anche dal punto di vista dell’interesse per
un imprenditore di investirvi. In quest’ottica il welfare dovrebbe venire visto non
come una pietra al collo dello sviluppo economico, bensì come un fattore cruciale
di sviluppo del territorio. Nelle variabili da tenere in considerazione quando si parla
di benchmarking territoriale, vale la pena di considerare adeguatamente la coesione
sociale (5), la natura delle reti e il tipo di prodotti che generano.
Anche in una terra fertile non è facile lavorare
Le innovazioni non nascono come i funghi. Sbaglierebbe chi, guardando l’esperienza descritta in questo inserto, la ritenesse il frutto «naturale» di un territorio
ricco di esperienze significative sul piano dei servizi alla persona e della società civile
e dunque confinata in un paradiso irraggiungibile. In realtà, in questa vicenda si
condensa una storia complessa, non priva di travagli, di oltre un decennio, in cui
un piccolo gruppo di dirigenti, con grande capacità di vision e di tenuta, ha modificato le modalità di lavoro del servizio sociale, innestando su un impianto già molto
significativo alcune ipotesi innovative proposte da consulenti esterni (6).
5 | Cfr. Cciaa Reggio Emilia, Rapporto sulla coesione
sociale 2012, http://osservatorioeconomico.
re.it/4922/rapporto-sulla-coesione-sociale-in-provincia-di-reggio-emilia-anno-2012/
6 | Cfr. Anghinolfi F., Bonazzi C., Corradini G.,
Orlandini E., Scrittore D., Una scommessa sul welfare di prossimità. La costruzione dei Poli di servizi
sociali territoriali del Comune di Reggio Emilia, in
«Animazione Sociale», 8/9, 2006, pp. 61-73.
Intraprendere iniziative innovative a Reggio Emilia non è semplice perché l’immaginario diffuso su questa città (che corrisponde alla percezione che i vari attori
sociali hanno di se stessi) è quello di un luogo di eccellenza quanto a qualità dei
servizi, partecipazione dei cittadini alla gestione dei medesimi e soddisfazione della
gente rispetto all’operato delle istituzioni. Accade così che operatori e dirigenti
del pubblico e del privato sociale fatichino a pensare che possa esistere qualcosa
di meglio rispetto a ciò che già fanno.
Va dato atto perciò al sistema di welfare reggiano di avere utilizzato una strategia di
innovazione accorta. Le persone non possono essere costrette a cambiare modo di
pensare, tantomeno a diventare imprenditive. A Reggio Emilia si è saputo investire
su un segmento dell’organizzazione, allestendo intorno una massa critica di prassi
innovative tale da potervi costruire intorno nuove routine (i tavoli di quartiere
esistono ormai da sette anni). È come se si fosse implicitamente detto: «So bene
che per te è troppo oneroso buttarti su questa innovazione e che le attuali routine ti
rassicurano; costruirò dei nuovi corrimani in grado di sorreggerti». Le difese sono
aspetti importanti nella vita delle persone e delle organizzazioni. Tra scardinarle e
ossequiarle c’è anche la possibilità di articolarle in modo più aperto. Si potrebbe
obiettare che tutti gli operatori dovrebbero lavorare con la comunità, e anzi che non
solo il sociale, ma anche urbanistica, ambiente, cultura, scuola dovrebbero farlo.
Certamente. È importante, però, che obiezioni di questo tipo non rappresentino
scuse per dilazionare indefinitamente l’avvio dell’innovazione.
Investire politicamente
sulla rigenerazione dei legami sociali
Un antico proverbio invita ad avere fiducia nel fatto che i momenti di ristrettezze
economiche costringono le persone a dare il meglio di sé. In realtà sappiamo tutti che
non è sempre così. Non sempre, però, «la miseria aguzza l’ingegno». Soprattutto in
un tempo di sbriciolamento dei legami sociali che hanno da sempre rappresentato
quel brodo culturale decisivo per costruire fiducia e sinergie virtuose (ovvero la scintilla per aguzzare l’ingegno). A fronte delle nuove vulnerabilità e della diminuzione
di risorse finanziarie a disposizione delle istituzioni, c’è chi rivendica e si indigna,
ma non ritiene di dover giocare un ruolo attivo; chi pensa che gli mancano pochi
anni alla pensione; chi si preoccupa di accaparrarsi le ultime risorse disponibili; chi
sta sul mandato antico perché «i servizi non si possono far carico di tutto», perché
modificare le routine lo inquieta.
La temperie che stiamo attraversando ha pesanti rifrazioni economiche, ma riguarda
soprattutto il senso della convivenza. Poiché non è facile assumere la gravità di questa situazione, è urgente che le persone e le organizzazioni in grado di comprenderla,
compiano un investimento politico sulla rigenerazione dei legami sociali come
premessa indispensabile non solo per resistere, ma anche per sviluppare nuovo
welfare e nuova democrazia. Il lavoro di comunità come centro del welfare non è
una moda o una trovata stravagante, ma un’urgenza indifferibile. L’esperienza dei
tavoli di quartiere di Reggio Emilia ci aiuta a pensare che sia possibile.
Inserto del mese I Farsi città nel farsi prossimi agli anziani invisibili fragili
Animazione Sociale ottobre | 2013 inserto | 69