4 FRONTIERA DEUROPA - STUDI E TESTI I S T I T U T O I TA L I A N O P E R G L I S T U D I F I L O S O F I C I LA FRANCIA E LE SICILIE STATO E DISGREGAZIONE SOCIALE NEL MEZZOGIORNO DITALIA DA LUIGI XIV ALLA RIVOLUZIONE R. TUFANO LA FRANCIA E LE SICILIE ROBERTO TUFANO NELLA SEDE DELLISTITUTO Esemplare fuori commercio 2015 NAPOLI 2015 F R O N T I E R A D ’ E U R O PA STUDI E TESTI Nuova Serie Collana diretta da Raffaele Ajello 4 Frontiera d’Europa - Studi e Testi Il Mezzogiorno ha costituito, rispetto all’espandersi dell’Islam, il piú tormentato confine tra due mondi, l’avamposto d’Europa, un argine a difesa della civiltà occidentale. E tuttavia le popolazioni meridionali, finite ai margini dell’orbita spagnola, furono disarmate dal governo centrale, che della nobiltà di spada non poteva fidarsi, avendone sperimentato l’indipendenza. Infatti la sanguinosa rivoluzione che scoppiò a Napoli nel 1547 contro la violenta autocrazia del viceré Pedro de Toledo indusse la corte spagnola ad adottare verso i benestanti una mediazione politica fondata sull’incremento del debito pubblico, la cui amministrazione e tutela fu affidata alle magistrature di toga e ai Seggi nobiliari di Napoli. Ne nacque un modello di sviluppo ‘coloniale’, che esaltò la burocrazia, mortificando, con la gente d’armi, la tecnologia, la difesa dei mercati e lo spirito imprenditoriale. Inoltre impedí che si superasse l’ambigua conciliazione medievale tra formalismo idealistico assoluto e dominio pratico dell’egoismo e del cinismo. Il Sud d’Italia, pertanto, si ridusse, durante altri tre secoli, ad oggetto passivo della produzione e del commercio altrui. Il naturale processo d’introversione dei condizionamenti esterni ha favorito caratteri culturali riflessivi, inclini all’umanitarismo, alle esperienze giuridiche, letterarie, religiose, estetiche, e non al rigore sociale, che è fonte della coesione e del benessere collettivo. Una fase reattiva ebbe impulso dall’empirismo illuministico. Ma l’immagine disegnata nel secolo scorso dalla prevalente storiografia meridionale è ancora del tutto interna alle ormai anacronistiche visioni soltanto ideali: perciò ne è necessaria una profonda revisione. Da queste esigenze scientifiche, politiche e culturali nacque nel 1995 la rivista semestrale «Frontiera d’Europa. Società, economia, istituzioni, diritto del Mezzogiorno d’Italia». Dieci anni dopo, in base ad una comune progettazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, parve utile affiancare al periodico una collana di studi e testi, espressione degli stessi orientamenti storiografici e metodologici. Dal 2014 ha avuto inizio una nuova serie di questa collana, che mette gratuitamente a disposizione i volumi on line, sul sito “www.frontieradeuropa.it”, e ne pubblica a stampa soltanto le copie destinate alle biblioteche ed agli omaggi. ROBERTO TUFANO LA FRANCIA E LE SICILIE STATO E DISGREGAZIONE SOCIALE NEL MEZZOGIORNO D'ITALIA DA LUIGI XIV ALLA RIVOLUZIONE NELLA SEDE DELL’ISTITUTO NAPOLI 2015 La collana «Frontiera d’Europa - Studi e Testi» fa parte delle attività editoriali e scientifiche dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Direttore: Raffaele Ajello Condirettore: Francesco Di Donato Vicedirettore: Raffaele Iovine Comitato scientifico: Orazio Abbamonte, Giorgia Alessi, Andrea Amatucci, Imma Ascione, Gianfranco Borrelli, Nicola D'Antuono, Ileana Del Bagno, Robert Descimon, Vanda Fiorillo, José Maria Garcia Marín, Jacques Krynen, Dario Luongo, Aldo Mazzacane, Renata Pilati, Albert Rigaudière, Andrea Romano, Mario Tedeschi, Roberto Tufano, Dale K. Van Kley, Ortensio Zecchino, Silvio Zotta Comitato redazionale: Giuseppe F. de Tiberiis, Saverio Di Franco, Rocco Giurato, Maria Luisa Pisacane, Gerardo Ruggiero, Sonia Scognamiglio, Massimo Tita 56'"/0, RPCFSUP7FSTPMBHJVTUJ[JBQSPEVUUJWB6OhFTQFSJFO[BEJSJGPSNBOFMMFEVF4JDJMJF Collana: Frontiera d’Europa - Studi e Testi, Nuova Serie, Napoli: Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 20 56'"/0 , RPCFSUP pp. 9**+26; 24 cm. -B'SBODJBFMF4JDJMJF4UBUPFEJTHSFHB[JPOFTPDJBMFOFM.F[[PHJPSOPEh*UBMJB ISBN 978-88-89946-- EB-VJHJ9*7BMMB3JWPMV[JPOF Edizione riveduta e corretta © 2015 Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Collana: Frontiera d’Europa - Studi e Testi, Nuova Serie, 4 Napoli: Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2015 pp. 9X+38; 24 cm. Questo libro è scaricabile gratuitamente dal sito “www.frontieradeuropa.it”. Ne sono state ISBN 978-88-89946-1-1 stampate copie recanti la scritta “Fuori commercio”, destinate agliPNBHHJ © 2015 Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Questo libro è scaricabile gratuitamente dal sito “www.frontieradeuropa.it”. Ne sono state stampate copie recanti la scritta “Fuori commercio”, destinate agliPNBHHJ a Saverio, ingegnere ``inglese'', ad Emanuele, adolescente svagato e calciatore ``cosmopolita'', al piuÁ piccolo Tufano, ad oggi bimbo ``siciliano'' senza ancora un nome: per un avvenire di cittadini della ``globalitaÁ''. SOMMARIO Introduzione Raffaele Ajello, Per una storia globale delle mentalitaÁ, contro il pulviscolo dei meri fatti e degli astratti ideali xi Nota dell'autore xvii Abbreviazioni xix I - La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 1. Il superamento di ogni approccio nazionalistico 2. Il primato dello scontro tra `modelli' istituzionali, culturali, sociali 3. Nuovi significati complessivi della politica francese 4. Parametri storici e storiografici per la Successione in Italia 5. Il Re Sole: abuso ideologico della sua personalitaÁ 6. Nuovi punti di vista ed una storia inedita 1 5 12 17 23 30 II - La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso Prostrazione della nobiltaÁ e parassitismo ministeriale a Napoli 1. Guerra di successione spagnola: modelli costituzionali a confronto 2. Profonde finalitaÁ politiche di Luigi XIV 3. I precedenti sociali ed istituzionali 4. La crisi della societaÁ meridionale nella sua fase estrema 5. La politica sociale del Re Sole: ostacoli esterni ed interni 6. Luigi XIV alla ricerca della (incerta) fedeltaÁ napoletana (1701) 7. La congiura contro i «gallispani» (1701) 8. «Non possono stare insieme Francesi - LibertaÁ - Repubblica» 9. Napoli, la repubblica togata si fonda sul debito pubblico 10. Rilancio del commercio e rinuncia alla difesa statica 11. Il disarmo mentale preclude la nascita dello Stato moderno 12. Un nobile descrive il quadro politico-cetuale napoletano 37 40 46 50 55 60 68 76 83 89 93 99 viii sommario 13. Una nobiltaÁ incapace d'essere «ordine» 14. Conclusioni: dall'anomalia al collasso 108 118 III - La politica di Luigi XIV: rilancio delle province e controllo della capitale 1. Inconfidenti della Spagna e cugini di Luigi XIV 2. Santo Buono indica i «rimedi»: giustizia e decentramento 3. Il tentativo di ridimensionare il Collaterale: l'azione di La TreÂmoõÈlle 4. Lo scontro con la chiesa romana e la censura francese 5. Propaganda ed opinione francofoba (1704) 6. FedeltaÁ politica e «raggioni economiche» 7. Conclusioni 121 131 136 143 150 159 163 IV - Tendenze di metaÁ secolo: tentativi di adottare l'economicismo francese 1. Le difficili letture della politica tardomercantilista 2. Nuove prospettive di ricerca sul commercio settecentesco 3. Influenza commerciale francese in Spagna alla fine del Seicento 4. Il tardo colbertismo in Sicilia: Los BalbaseÁs (1707-1713) 5. Nuovo interesse per il commercio a Napoli in epoca austriaca 6. I problemi interni ed internazionali del nuovo Regno indipendente 7. Il breve governo degli afrancesados sulle Sicilie 8. Giunta di Commercio borbonica e scontro con la Francia (1735-56) 9. Conclusioni 165 168 173 179 189 194 199 204 211 V - Oltre la metaÁ del secolo: la Francia dal dominio all'influenza politico-culturale 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. Fallimento dell'unione di fatto tra le due corone borboniche (1715) «InveÂteÂre antipathie» spagnola contro la Francia: cause profonde Disprezzo delle ambiguitaÁ e falsificazioni togate SocietaÁ francese: sintesi collaborativa, non esclusivismo sacerdotale La ratio della Francia, come l'olio, sta sempre «en cima» I `partiti' francesi: opposte valutazioni di politica estera Il problema dell'influenza austriaca sulla Sicilia borbonica Galiani e Tanucci: la Francia blocca l'economia delle Sicilie Alle Sicilie era consentita soltanto la navigazione piu leggera L'enorme dislivello tra le parti impedisce un equo commercio 217 221 225 234 237 241 245 249 253 261 sommario 11. 12. 13. 15. Il contrabbando: punto critico del contrasto ed affare di Stato Vergennes contro la giurisdizione napoletana di commercio Il minuetto diplomatico dei francesi Conclusioni: obbligati a non uscire dal medio evo ix 265 271 279 283 VI - La corte di Napoli Problemi e protagonisti degli anni Settanta 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Breteuil a Napoli: l'inizio della diplomazia «libertina» Due protagonisti, tra libertinismo e politica: Breteuil contro Tanucci I pertinenti giudizi di Breteuil Ferdinando secondo Breteuil: un'educazione mostruosa Origini della crisi etica: l'influenza dei Castropignano (1746-1766) Guerra dei sessi e potere nella cour de Naples: Maria Carolina Tanucci: limiti dello statista e della corte, secondo Breteuil 287 295 301 306 310 315 323 VII - La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? Dalla rivolta di Palermo all'intrigo 1. 2. 3. 4. 5. La «fiera guerra» siciliana diventa guerriglia urbana Tanucci golpista? Il disagio del sistema: segni di distacco di Tanucci dal `suo' Re Il significato della caduta di Tanucci fu anche epocale? Conclusioni: la Francia dominava sia nella tesi sia nell'antitesi Indice dei nomi 333 337 342 346 352 361 xi INTRODUZIONE PER UNA STORIA GLOBALE DELLE MENTALITAÁ CONTRO IL PULVISCOLO DEI MERI FATTI E DEGLI ASTRATTI IDEALI La storia e la storiografia delle Sicilie sono state a lungo sotto l'influenza di un sistema d'idee previe che fu tipico degli uomini di toga: era una mentalitaÁ caratterizzata da una forte, ma falsa proiezione idealistica, da un apparente anelito verso valori etici superiori, universali, non mondani che, all'atto pratico, fungevano da copertura nel rendere piu facile l'esercizio del dominio di quel ceto. Le strutture mentali di ogni specie vivente sono formate dal sedimentarsi delle esperienze vissute. PercioÁ eÁ credibile la tesi che nelle societaÁ subalpine la tendenza a nascondere gli interessi reali dietro idealitaÁ fittizie sia la conseguenza di uno squilibrato andamento storico dell'esperienza giuridica; eppure la forza della toga fu uno dei pochi fattori comuni alle popolazioni italiane. Certo eÁ che esse, a differenza di altre, solo molto tardi, dal Risorgimento in poi, hanno potuto iniziare a correggere quella distorta formazione del super-io sociale. Gli storici di antico regime, Pietro Giannone compreso, e poi quelli dei secoli seguenti, sono stati quasi sempre condizionati, in modo inavvertito ed intimo, da quella tendenza del pensiero. Era una formula che si eÁ radicata a fondo nella memoria storica degli intellettuali di cultura umanistica, ed ha riprodotto i caratteri essenziali delle societaÁ d'antico regime, rispecchiando l'assetto sociale, cetuale e culturale in cui si riconosceva la vita pubblica. Gli studiosi che ancor oggi sono (piu o meno coscientemente) legati alle vecchie tradizioni nazionali cercano di oggettivare e di esorcizzare quelle formae mentis; infatti essi sanno che il pensiero eÁ da secoli indirizzato in una ben diversa direzione, ossia tende al realismo, alla critica razionale, a xii introduzione dare spazio prevalente ai dati empirici, esistenziali, economici, ideologici. Ma l'operazione diretta ad immunizzare le menti da quel circuito vizioso non eÁ facile. Si perviene, percioÁ, ad involuzioni, complicazioni e contorcimenti quasi incredibili, eppur palesi, di cui un lungo elenco si potrebbe esporre, e riguarderebbe molti ricercatori ancor oggi in attivitaÁ; ma qui non eÁ possibile allargare troppo il discorso. Basti un solo esempio, notevole perche relativo al piu illustre e piu valido di quegli studiosi: Benedetto Croce. Egli sentõ il bisogno di premettere alla sua Storia del regno di Napoli una lunga Introduzione (circa quaranta pagine) interamente diretta a sviluppare un'esplicita polemica con le manifestazioni, ancora molto attive ai tempi suoi, di quel falso idealismo giuridico super partes. Lo storico-filosofo abruzzese vi racconta di essere stato portato nelle «latebre della storia dell'Italia meridionale», quasi per mano, egli, novello Dante, da un meno antico ed assai piu modesto Virgilio, il buon giurista Enrico Cenni. A farla breve, Croce tenne a mettere in mostra che presto si era sottratto alle forti suggestioni del suo Mentore. I misteri da lui esaltati, le segrete profonditaÁ da lui idolatrate gli apparvero meri strumenti del potere esercitato da un ceto professionale che faceva i propri sacrosanti interessi, rivestendoli di finalitaÁ etiche universali. Cenni aveva scritto che quella grande «nostra robusta e nazionale scienza» giuridica «domandava solo di essere rammodernata»; e che fu invece, nel secolo XIX, scalzata e «sostituita» da un'altra «scienza superficiale e leggiera, importata da fuori»; in conseguenza noi meridionali diventammo «miserabili e servili copisti di Francia». Non a torto Croce si domandoÁ: «Come mai tutta questa sublime storia napoletana [...] non eÁ generalmente conosciuta, anzi eÁ generalmente disconosciuta o negata?». Tuttavia la sua Storia eÁ anch'essa una vicenda che si libra a mezz'aria, intessuta di astratte visioni ideali, anche piu vaghe della Jurisprudentia come scientia divinarum atque humanarum rerum. Poiche Croce avvertõ che a quelle res era indispensabile attribuire un profilo corporeo, descrisse cosõ il protagonista della sua sintesi: «il partito degli intellettuali». Non meglio identificato. Ma in questo modo, egli continuoÁ a porsi fuori dal livello esistenziale, che si ma- introduzione xiii nifesta sempre nello scontro effettivo, nella dialettica tra ben concrete pulsioni ed idee, fra corposi interessi. Nell'antico regime di regola vinceva il partito della rinuncia e dell'acquiescenza, che Genovesi indicoÁ come obbediente alla logica «del non si puoÁ», secondo cui nulla va cambiato; ma, tra mille difficoltaÁ, alcuni ardimentosi fecero sentire la loro voce sostenendo la necessitaÁ di puntare con coraggio sulla produttivitaÁ materiale. Bisognava fare chiarezza, essere sinceri, superare la rassegnazione e difendere coraggiosamente l'economia. Notarono che era inutile costruire, intorno a Napoli, in un crescendo parossistico, dopo il primo palazzo reale, giaÁ enorme, un secondo, poi un terzo, infine un quarto, immenso; bisognava rafforzare la flotta, proiettarsi sul mare, imparare a difendersi, e cosõ progredire anche mentalmente. Questo pensavano gli uomini ``del dissenso'', ancor oggi trascurati dagli storici. Prima Biscardi, poi Intieri e Montealegre, infine Genovesi e la sua scuola imboccarono questa via. La reazione contro lo status quo seguõ una linea critica che era nata da Francesco D'Andrea. Intanto Vico si adoperava a teorizzare la ciclicitaÁ perenne. Fraggianni assunse una posizione moderata, ma attiva. Tanucci, animato da eccessi di rivalitaÁ personale e di moralismo, non seppe far altro che criticare. Tardi si rese conto che il suo atteggiamento di iper-realismo machiavelliano significava abbandonare ogni spazio della vita civile al potere (internazionale) della Francia e (interno) della toga. EÁ un caso che la vecchia storiografia, da Schipa a Marongiu, non ha saputo apprezzare l'audacia di Montealegre, e che ancor oggi si preferisca Vico e G. P. Cirillo alla cultura del dissenso? Per esorcizzare gli idealismi spettrali, rivestiti allora di toghe nere o rosse, e poi tradotti nelle sintesi hegeliane che adottarono quegli stessi colori, l'uno contro l'altro, non basta negare la loro realtaÁ, o emettere un verdetto di condanna. Croce adoperoÁ a questo proposito uno strumento di demolizione tipicamente idealistico: scrisse che quelle idealitaÁ, non essendo vere, non esistevano. La sua fu una dichiarazione di fede: secondo lui, solo il Vero avrebbe Ragione di essere, e percioÁ vincerebbe sempre. PuoÁ darsi. EÁ confortante sperarlo. Sul piano dei fatti, eÁ vero che molti di quei fantasmi si sono dissolti; xiv introduzione ma eÁ necessario valutarli quali furono per capire il passato. Di quegli abbagli restano ancora, non solo nel subcosciente, forti tracce: conoscerle ci aiuta a giudicare il presente. Questo eÁ lo scopo della storiografia. La mente non cura i suoi malanni per decreto, ne grazie all'efficacia salvifica del pensiero di Croce o con l'esposizione liturgica dell'omonimo simbolo; si libera solo se riesce a scire per causas l'origine dei suoi errori, ragionando e sperimentando. Di questo tipo eÁ l'operazione realizzata nel libro presente: il metodo adottato sviluppa la dialettica su molti piani, indicando aspetti del tutto nuovi, mediante una mole amplissima di documenti inediti e mai prima utilizzati, redatti dai diplomatici francesi durante l'intero XVIII secolo. Quei tecnici avevano il pregio di vedere la dialettica degli interessi e dei pensieri dall'alto di strutture mentali pubbliche e ``civili'' incomparabilmente piu mature di quelle che condizionavano le diagnosi subalpine. Lungo il fiume della storia la pecora italiana stava molto piu in basso, ma era accusata dai lupi parigini d'inquinare l'acqua che essi, opportunamente, bevevano dalle sorgenti. La vita eÁ fatta cosõÂ, chi eÁ martello colpisce e chi eÁ incudine subisce. Ma in questi casi eÁ importante non dichiararsi a priori debole o forte; la pecora puoÁ vincere se capisce la logica delle due immagini qui adoperate, lupo e martello, e se non cade nell'illusione che facilmente si possa indurre chi batte a trasformarsi in incudine. Per rilanciare l'economia e per vendere a giusto prezzo i prodotti dell'agricoltura bisognava spingersi sul mare, esperienza che eÁ stata sempre scuola empirica di calcolato coraggio; ma ogni robusto tirocinio pratico sembra mancare nella storiografia idealistica, che (seguendo Hegel) diffida della sperimentazione. L'orgoglio di Tanucci era tormentato dal fatto di dover incassare passivamente i colpi, e pagare per i danni subõÂti dal martello. I Francesi e gli inglesi «peccano contro tutto il genere umano nella loro crudele intrapresa di farsi dispoticamente padroni [...] di tutto il commercio del mondo» (Epistolario, X, p. 501). Sono «falsi fratelli, che profittano» della nostra debolezza sul mare (ivi, IX, p. 591); lo dominano, e «commercio senza mare non si puoÁ avere». Nei circa quindici mesi successivi alla partenza del re Carlo per la Spagna «10 sono stati li bastimenti» introduzione xv delle Sicilie «presi dai corsari» provenienti dal Nordafrica (ivi, p. 480). La politica parigina «deve preferir l'amicizia degli algerini a quella della Spagna e delle Sicilie», perche l'azione di quei corsari «giova al commercio francese» piu che la fratellanza borbonica (ivi, XIII, p. 41). Inglesi e francesi sono «li fomentatori di quei barbari e forse li principali interessati di quegli armamenti» (ivi, X, p. 398). «Quei bastimenti corsari» si riforniscono a Marsiglia e Tolone di tutto il necessario per la (non dichiarata e continua) guerra sul mare: eÁ ovvio che il commerciante protegga i suoi clienti, ma eÁ troppo che le navi dei ``fratelli'' borbonici facciano le spie a favore di quei predoni, o che, addirittura li «scortino» (ivi XIII, p. 44). Quel sistema di segrete alleanze era il maggiore strumento di dominio delle economie forti sui mercati delle Sicilie. Esse erano costrette a servirsi di legni molto leggeri, che navigavano lungo le coste con equipaggi abbondanti, per potersi salvare dalle tartane piratesche remando di forza contro vento. I limiti che bloccavano l'economia delle Sicilie erano questi: spese di manodopera e di assicurazioni molto alte, basso prezzo delle merci. Ma ne era nato un danno ancora piu grave: la psicologia dei meridionali era passiva, vincevano la rinuncia ed il disarmo, si eternavano le mentalitaÁ astratte ereditate dal medio evo. Qui interviene un altro aspetto illuminante della ricerca di Tufano. Le carte estere del governo di Luigi XIV dimostrano ch'egli, governando di fatto sul Mezzogiorno almeno dalla morte di Carlo II fino all'arrivo a Napoli degli Austriaci, speroÁ di trasformare le strutture del ceto politico meridionale assimilandole a quelle francesi. Oltralpe i togati erano diventati un ceto dominante giaÁ nel Trecento, dopo le riforme di Filippo il Bello; ma la loro espansione era stata contenuta dalla monarchia. A Napoli i nobili avevano subõÂto ripetute sconfitte e prostrazioni; gli ecclesiastici resistevano, ma come nemici della respublica. Bisognava restaurare un ordine costituzionale equilibrato e coeso. Le mire politiche di Luigi XIV misero, infatti, in luce il contrasto tra due modelli di cultura: uno Stato moderno, basato su una societaÁ tendente all'armonia e fiera di averla (in qualche modo) raggiunta, si contrappose alla tirannia di un ceto che, per dominare, si serviva dei fantasmi giuridici medievali. Serafino Biscardi si mostroÁ xvi introduzione incerto tra le due soluzioni. Aperto verso la cultura del dissenso, egli pensoÁ che il suo decisionismo personale avrebbe potuto riformare lo status quo ministeriale di vecchio stampo; ma, nel 1711, la sua morte decretoÁ, ancora una volta, la vittoria di quell'irrazionale coacervo. SembroÁ che un certo dinamismo mentale potesse essere riavviato tredici anni piu tardi, con l'arrivo a Napoli di un allievo di PatignÄo, Jose de Montealegre. Egli subito protesse Grimaldi e si procuroÁ la collaborazione degli intellettuali critici: Ventura, Contegna, Celestino Galiani, Intieri, Genovesi, Gennaro Parrino, e molti altri che meriterebbero di essere meglio conosciuti. Ma non eÁ facile invertire un trend piu che bisecolare. Il re non era in grado di percepire, e quindi di valutare, un problema culturale cosõ complesso. Tanucci, che era stato fino ad allora un campione del «non si puoÁ», incomincioÁ troppo tardi a rinsavire. EÁ illuminante il fatto che, anche a distanza di tre decenni dalla creazione delle magistrature di commercio nelle Sicilie, la diplomazia francese continuava a considerare i ruderi di quell'istituzione come una diga posta allo straripare del suo dominio economico. La conferma della linea politica suggerita da Giannone, Ventura, Contegna, venne, e contrario, dagli implacabili nemici esteri delle Sicilie. Insomma, eÁ dall'alto dell'esperienza parigina che le vicende storiche italiane si possono capire: i francesi ne indicarono i punti d'intelligenza e di forza, oppure d'inerzia e di abiezione. Dalla rivolta di Masaniello alla sconclusionata sovranitaÁ personale di Maria Carolina, nessuna diagnosi sulla storia meridionale delle Sicilie fu sbagliata da quegli osservatori. Il nazionalismo eÁ un sentimento, la storiografia, invece, eÁ un esercizio della ragione. Forse, se ne puoÁ trarre una morale: l'intelligenza non eÁ fatta di scaltrezza truffaldina, ma richiede di poggiare su una solida base di onestaÁ sostanziale, ossia di disinteresse problematico, ma rigoroso e sincero. Sono queste le doti su cui si eÁ basato il forte e lungo lavoro di ricerca, i cui frutti sono trasfusi nelle pagine seguenti. E sono indicazioni che possono aiutare i giovani a compiere un esercizio contrastato e difficile: a non coltivare pensieri di dettaglio e di parte, ma ad incrementare l'ampiezza e la profonditaÁ delle loro intelligenze. Raffaele Ajello xvii NOTA DELL'AUTORE I debiti contratti con il presente lavoro sono tanti, distribuiti su di un'area geografica vasta quanto l'Europa meridionale. Mi eÁ grato ricordare e ringraziare tutti coloro che ho avuto modo d'incrociare durante questo scorcio della nostra esistenza: ad ognuno di loro sono debitore di qualcosa, e, com'eÁ ovvio, mi dichiaro unico responsabile dell'elaborazione personale che ho fatto dei loro contributi. Nato a Napoli, cresciuto tra Parigi, Madrid e Simancas, questo libro ha infine trovato forma matura sotto un pino puteolano di casa Ajello nell'estate del 2009. Le idee qui espresse sono il frutto di un dialogo iniziato in anni lontani con il professor Raffaele Ajello e con il gruppo di ricerca creato e diretto da lui. Della cui infaticabile attivitaÁ non trovo di meglio che citare cioÁ che di lui ha scritto Robert Descimon: il comune Maestro eÁ «un des penseurs du droit les plus remarquables de notre sieÁcle». Ma anche un «professeur magicien», la cui magia, a mio modo di vedere, consiste nel connubio armonioso tra scienza storica ed etica personale. Desidero anche esprimere il mio ringraziamento a tutti i colleghi della mia nuova FacoltaÁ di Scienze della Formazione, ed innanzi tutto alla nostra Preside, Nella Elia, per il generoso, altruistico impegno che dedica alla vita accademica, proprio in un momento in cui l'iniziativa individuale si disperde e si consuma entro un sistema universitario nazionale che s'ispira a criteri molto lontani dalla comune razionalitaÁ occidentale: in attesa della riforma a venire, e sperando che essa riesca a rianimare le energie troppo spesso prostrate dalle negative esperienze. Se la piu tradizionale cultura italiana eÁ alla bancarotta, aliena e lontana da meccanismi di potere oramai saldamente in mano ad industriali, alla cui ideologia aziendalistica il Paese si eÁ rivolto per essere guidato, sicuramente eÁ proprio questo il momento per i lette- xviii nota dell'autore rati «umanisti» di cospargersi il capo di cenere. Tuttavia, da quel che vedo e leggo, parecchi tra noi trovano il modo e la voglia di fare la ruota con abbondante piumaggio di (spesso superficiali) scritti ed atti di encomio. Quasi sempre, ed eÁ comprensibile, la politica premia chi esalta lo status quo, non chi ne denuncia i limiti; ma la cultura critica moderna, quella che eÁ nata negli ultimi tre secoli e che giaÁ si espande nel terzo millennio, guarda al futuro. L'avvenire, in Italia, dall'Illuminismo in poi, eÁ sempre appartenuto a quanti hanno saputo adottare comportamenti di dissenso, ed hanno pagato il prezzo del loro coraggio. La stessa orgogliosa indipendenza dimostrano i «precari» italiani, generazioni private d'identitaÁ professionali, ma non di dignitaÁ. Per queste ragioni, oltre che per l'aiuto che ricevo quotidianamente da loro, ringrazio i miei piu giovani amici: Nino Di Giovanni, Dario Maccarronello, Cinzia Recca, Francesco Scuderi. A Valeria, il cui ventre lievita come una buona forma di pane di casa, per l'amore che mi dona: eÁ questa la fetta piu importante del mio esistere. Pozzuoli, 30 agosto 2009 ABBREVIAZIONI A.A.Eè. = A.G.S. = A.N. = A.S.N. = A.S.P. = A.S.T. = B.N.N. = B.C.P. = S.N.S.P. = Archives du Ministe©re des Affaires Eètrange© res Archivo General de Simancas Archives Nationales-Paris Archivio di Stato di Napoli Archivio di Stato di Palermo Archivio di Stato di Torino Biblioteca Nazionale di Napoli Biblioteca Comunale di Palermo Societa© napoletana di Storia patria. La parte finale di questa opera ha conosciuto una precedente versione, qui ampiamente integrata, dal titolo «Le renversement des alliances» europee e l'espulsione di Bernardo Tanucci dal governo delle Sicilie (1774-1776), in «Frontiera d'Europa», a. 2003, n. 2, pp. 87-178. 1 I LA NUOVA STORIOGRAFIA «AÁ PART ENTIEÁRE» 1. Il superamento di ogni approccio nazionalistico Nell'era contemporanea, caratterizzata dal mito e dalla realtaÁ della globalizzazione, l'approccio storiografico di tipo «nazionalistico» non sembra piu sufficiente a comprendere appieno la realtaÁ politica dell'Antico Regime 1. Soprattutto nell'ultima decade, la comunitaÁ degli storici ha manifestato un sempre piu diffuso scetticismo nei confronti della storia nazionale 2. Parecchi critici notano tra l'altro, e spesso a ragion veduta, che le entitaÁ regionali, locali e periferiche dell'Evo Moderno non possono essere ignorate dallo storico, perche cioÁ limiterebbe la possibilitaÁ di un'efficace analisi della reale dialettica socio-politica in atto. Queste osservazioni derivano direttamente dal piano della riflessione intellettuale sulla specificitaÁ del «locale», che ha notevolmente contribuito ad affinare le conoscenze sul funzionamento differenziato delle societaÁ e delle culture 3. Si potrebbero ancora elencare parecchie altre opinioni negative su una storia centrata esclusivamente sul binomio Stato-Nazione, ma eÁ certo che usare questa coppia come punto focale di una ricerca storica, mentre inevitabilmente restringe la visuale, crea equivoci ed imprecisioni. Ad esempio, sarebbe incongruo usare queste ed altre `categorie' concettuali in riferimento a soggetti e ad epoche storiche in cui esse non avevano avuto ancora realizzazione, erano prive di uso specifico 1 La letteratura sull'argomento eÁ vasta. Per una messa a fuoco dei problemi, cfr. il dossier dal titolo Une histoire aÁ l'eÂchelle globale della rivista «Annales HSS», 56-1, 2001, pp. 3-123. 2 Per un'efficace sintesi di questi nuovi punti di vista storiografici, cfr. gli interventi contenuti nel volume Comparaison and History. Europe in Cross-National Perspective, ed. by Deborah Cohen and Maura O'Connor, Routledge, New York 2004. 3 Una buona premessa al problema, a partire da problematiche di ricerca tedesche, eÁ offerta da U. Daniel, Kompendium Kulturgeschichte. Theorien, Praxis, SchluÈsselwoÈrter, Suhrkamp, Francfort 2001. 2 R. Tufano, La Francia e le Sicilie e quindi di realtaÁ giuridico-istituzionale. Qualificare come `italiano' un suddito di Federico II di Svevia eÁ una forzatura non ammissibile senza, almeno, corredarla di varie precisazioni. E se si opta per il primato delle componenti linguistiche e culturali, bisogna riconoscere che Tommaso fu aquinate, ma fu anche francese, tanto quanto lo fu piu tardi Marsilio da Padova, e forse anche di piuÂ: qualificarli entrambi come `italiani', eÁ (come si suol dire) ``attaccare il carro innanzi ai buoi''. Come vedremo, il sesto principe di Feroleto, Tommaso d'Aquino, discendente del filosofo, fu nominato da Carlo II nel 1699 Grande di Spagna, ma Luigi XIV tenne a precisare che il principe discendeva da «aÃncetres» partigiani dei re Cristianissimi, certo non dei «Roys Catholiques», che nel secolo XIII erano ancora in mente Dei. Del resto la migliore storiografia internazionale (e, tanto per fare due nomi, Cassirer e Senellart) colloca ben dentro lo svolgimento del pensiero istituzionale francese, in una posizione di estrema importanza, sia l'Aquinate sia il Padovano 4. D'altra parte, a fronte dei cambiamenti politici intervenuti dopo il 1989, che hanno segnato una svolta epocale, contraddistinta dalla crescita dell'arbitrato internazionale, della interdipendenza economica e della comunicazione di massa, la comunitaÁ degli storici eÁ stata sollecitata a ripensare il passato nel rispetto di questo enorme allargamento delle prospettive umane. Per queste ragioni i dizionari storici della storiografia hanno recentemente visto crescere le proprie pagine per nuove formule e vocaboli: «cross-national history», «entagled history», «histoire croiseÂe», «new transnational history», «connected and shared history». Questi nuovi vocaboli sono ricchi di un'infinitaÁ di lemmi, tante quante sono le sfaccettature teoretiche e pratiche di tali ricerche storiche, per di piu rese 4 Come nota P. Elie, Exomorfism: Cultural Bias and the French Image of Spain From the War of Succession to the Age of Voltaire, in «Eighteenth-Century Studies», vol. 9, në 3 (spring, 1976), pp. 375-89, ancora nel XVIII secolo non esiste una linea netta di demarcazione tra entitaÁ politiche e la loro corrispondente parte linguistica e culturale: in Francia si parlava indifferentemente di Spagnoli e di una nazione catalana o basca. Sull'importanza per la storia culturale e socio-istituzionale della Francia di questi due intellettuali, pretesi italiani, cfr. ad es. M. Senellart, Les arts de gouverner. Du regimen meÂdieÂval au concept de gouvernement, eÂd. Du Seuil, Paris 1995, passim anche per i riferimenti bibliografici a Cassirer. I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 3 complicate dalla «perenne», ambigua presenza delle «nazioni», del loro incontrarsi e scontrarsi in diverse epoche della storia umana 5. Si tratta dunque di un terreno irto di molteplici difficoltaÁ metodologiche e trappole epistemologiche. Non per questo esso non merita d'essere percorso, soprattutto in considerazione dei successi mietuti, non molti anni orsono, dalla storia del colonialismo e dell'imperialismo, la cosiddetta cross-national history, che ha decisamente allargata la conoscenza sulla cruciale esperienza delle nazioni europee e dei loro Stati. E che ha, accanto a cioÁ, mostrato la fragilitaÁ della posizione dominante delle scienze sociali occidentali, accusate d'imperialismo intellettuale. Il risultato piu evidente raggiunto da queste operazioni culturali eÁ che la prospettiva nazionale o eÁ stata resa geograficamente piu limitata ad aree regionali e locali, oppure, ampliata fino a raggiungere l'estensione di una scala globale. Ad esempio, la storia dei «transfers culturels» praticata da Michel Espagne o da Michael Werner ha guardato alle inter-relazioni esistenti tra due entitaÁ diverse, Francia e Germania, finendo con lo scoprire le intime contaminazioni esogene della «cultura» francese 6. Attraverso lo strumento dello studio delle influenze reciproche tra entitaÁ nazionali (nazioni, regioni, cittaÁ od istituzioni), questo modo di ricostruire le vicende storiche tende a rimarcare come, al di laÁ delle apparenze e dei luoghi comuni, esistano tra le nazioni profonde e forti somiglianze. PercioÁ questa nuova storiografia accusa la vecchia storia «comparata», dall'antico e nobile pedigreÂe (Marc Bloch, Henri Pirenne, Otto Hintze, tra i tanti nomi illustri che l'hanno praticata), d'aver agito piuttosto sulle differenze, rimarcandole, esasperandole e finendo paradossalmente con il divenire un componente fondamentale del motore ideologico dei conflitti politici intra 5 Sulla contrapposizione tra «perennisti» e «modernisti» a proposito del concetto d'identitaÁ nazionale si vedano le considerazioni, oramai classiche, di A. Smith, The Ethnic Origins of Nations, Basil Blackwell, Oxford 1986, piu di recente affinate in The problem of national identity: ancient, medieval and modern?, in «Ethnic and Racial Studies», 17 (1994), 3, pp. 375-99. 6 M. Espagne e M. Werner, eÂds., Transfers culturels. Les relations interculturelles dans l'espace franco-allemand (XVII-XXe sieÁcles), Paris 1988 e M. Espagne, Le transfers culturels franco-allemands, Paris 1999. 4 R. Tufano, La Francia e le Sicilie nazionali ed extra-múnia 7. Piu interessante il caso dell'«histoire croiseÂe», il cui metodo, cosõ come eÁ praticato da due storici dell'EHESS, Werner e Zimmermann, assomiglia per alcuni aspetti a quello cui si rifaÁ il presente volume. Per i due storici tale approccio, piu della comparazione, degli studi di transfert e della storia connected o shared, interroga i legami reali o semplicemente ideali tra differenti formazioni sociali determinatesi storicamente. Trattando di oggetti e di problematiche specifiche, che generalmente sfuggono ai comparatisti ed agli studiosi di transferts, la storia «incrociata» permetterebbe di scoprire nuovi, inediti fenomeni all'interno di un quadro analitico rinnovato 8. Dentro questo nuovo, complicato ed ambizioso clima culturale, il presente volume si limita ad analizzare, in maniera (si spera) piu puntuale di quanto finora sia avvenuto, i rapporti politici tra la Francia e le Sicilie durante il Settecento, allargando percioÁ il fuoco dell'attenzione dalla Spagna alla sorella d'Oltralpe ed inquadrando le loro azioni entro proposte istituzionali e sociali molto diverse. Come vedremo, l'indirizzo generale di quelle relazioni prese corpo durante la guerra di successione spagnola e fu reso concreto dalla presenza molto forte di Luigi XIV. PercioÁ, nella formula adottata come sottotitolo di questo libro, quando ci si riferisce allo Stato, si distingue tra il significato che il concetto aveva in quegli anni a Madrid, a Parigi ed a Vienna. Proprio a causa delle nette differenze, la terza soluzione (vicende militari a parte) finõ per prevalere, poiche rinviava a conte7 Sulle accuse rivolte ai «comparatisti», cfr. H. G. Haupt- J. Kocka, Comparative History: Methods, Aims, Problems, nel volume citato alla nt. 2, pp. 23-40. Sulle «connected histories» e sulla loro maggior valenza euristica rispetto alla storia comparata, cfr. S. Subrahmanyam, Connected Histories: Notes Towards a reconfiguration of Early Modern Eurasia, in Beyond Binary Histories. Re-imagining Eurasia to C. 1830, ed. Victor Lieberman, The University of Michigan Press, Ann Arbor, 1999, pp. 289-315. Ma histoire compareÂe ed histoire croiseÂe possono risultare non solo compatibili ma persino integrabili secondo J. Kocka, Comparison and Beyond, in «History and Theory», 42 (February 2003), pp. 39-44, numero dedicato interamente al tema qui in discussione. 8 M. Werner-B. Zimmermann, Penser l'histoire croiseÂe: entre empirie et reÂflexiviteÂ, in «Annales HSS», 2003-1 (58e anneÂe), pp. 7-36. Ma per una presentazione di quest'atteggiamento storiografico piu mirata ai problemi della storia transnazionale, cfr. dei due autori, Vergleich, Transfer, Verflechtung. Der Ansatz der `Histoire croiseÂe' un die Herausforderung des Transationalen, in «Geschichte und Gesellschaft», 28, 2002, pp. 607-36. I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 5 nuti moderni, che tuttavia non erano legati ai pessimi precedenti spagnoli, ne a quelli francesi, troppo impegnativi, e troppo sgraditi alle forze del dominante sistema parassitario locale. 2. Il primato dello scontro tra `modelli' istituzionali, culturali, sociali Naturalmente la specificitaÁ dell'oggetto qui studiato si lega ad un'idea di globalitaÁ dei fenomeni naturali e dei nessi storici, la cui coscienza eÁ tipica dell'attuale sensibilitaÁ. La prospettiva aperta si snoda lungo sette capitoli, che intendono mettere in rilievo l'importanza delle «connessioni» multiple tra le storie di questi antichi Stati europei. Partendo da un episodio «rimosso» dalla storiografia sul Mezzogiorno d'Italia, relativo al breve governo di Luigi XIV sulle Sicilie durante i primi anni della guerra di successione spagnola, si perviene alla conclusione secondo cui durante tutto il secolo XVIII i percorsi delle due nazioni non seguirono strade diverse, ma s'incrociarono a piu riprese, tanto da apparire alla fine fortemente intrecciati. Si trattava, nella sostanza, di approfondire alcuni peculiari aspetti di un indirizzo di ricerca su cui Raffaele Ajello ed il gruppo di lavoro creatosi attorno a lui (tra cui lo scrivente) avevano lavorato a lungo, fin da tempi abbastanza lontani, e con risultati solo in parte noti alla cultura storica 9. Lo storico deve elaborare un certo numero di essenziali semplificazioni dell'oggetto sia per comprendere meglio la dialettica degli interessi sia per renderne fruibile l'interpretazione. EÁ necessario superare il caleidoscopio dei fatti che si susseguono e che si annullano senza rivelare la logica di quei movimenti, ed eÁ sommamente incongruo cercare di riprodurre parte di quella fantasmagoria di eventi senza chiarire a se stessi ed ai lettori perche nella narrazione eÁ stata scelta una sequenza e non mille altre. A questa soluzione si perviene quando l'interesse prevalente non eÁ di capire, ma di riempire le pagine, possibilmente da numerare a migliaia, al 9 I frutti di questo lungo percorso, ideato e diretto da Ajello, sono costituiti da circa cento volumi, editi per le collane «Storia e Diritto», «Fridericiana Historia» e «Frontiera d'Europa», oltre che dalla rivista, che dal 1995 eÁ edita semestralmente con questo ultimo titolo, ora in collaborazione con l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. 6 R. Tufano, La Francia e le Sicilie fine di mettere in mostra una quasi sovrumana competenza. Il dinamismo da mettere in luce non eÁ quello di fatti singoli e casuali, ma di correnti agglomerate e significative, che siano diventate modelli interni ed internazionali di scelte teoretiche e di comportamenti politici, ossia di azioni rilevanti per l'intera umanitaÁ, e memorabili. Operano in questa direzione, a proposito del nostro tema, il generale insegnamento di un illustre patriarca degli studi sulle vicende meridionali, Benedetto Croce, e le indicazioni fornite in base alle sue splendide ricerche in La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza. EÁ del tutto chiaro in quelle pagine che la forte e congiunta presenza spagnola e francese nel governo delle Sicilie fu un fenomeno strutturale, riguardante l'intera etaÁ moderna; e che il significato dell'impulso parigino fu progressivo, mentre l'abbraccio italo-spagnolo fu di due corpi in decadenza, vicini alla catalessi 10. Quel rapporto, uno e trino, assunse durante il secolo XVIII, anzi a partire dagli ultimi decenni del Seicento, significati ancor piu caratterizzati nei contenuti in gran parte diversi, ossia di radicale rinnovamento: moto che fu diretto a rivoluzionare dopo pochi decenni l'idea di societaÁ e le sue regole in tutt'Europa, ed oltre (si pensi alla rivoluzione americana). Ed eÁ ben noto che la stessa cultura spagnola piu dinamica manifestava segni d'indirizzi afrancesados, anche se costantemente e con molta forza contrastati. Intanto (volendo procedere per gradi), nella triade dei pretendenti alle Sicilie, la politica parigina, letta attraverso le carte interne e segrete dell'Archivio parigino degli affari esteri, presenta un carattere singolare e specifico che merita una certa enfasi. L'azione di governo, diretta fortemente e personalmente dal Re Sole, obbediva ad una logica tradizionale ed antica in quella sovranitaÁ: ossia era intesa come manifestazione di una grande impresa, caratterizzata dalla sua serietaÁ, attendibilitaÁ e religiositaÁ civile. Chi comanda obbedisce agli interessi dei tre ceti che operano, per antica consuetudine e norma `religiosa', concordemente nella stessa direzione. Questa logica ebbe il merito, come vedremo, d'ispirare una serie di proposte di sovranitaÁ 10 Laterza, Bari 1917. I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 7 `costituzionale' dirette ad estendere il metodo francese del governo e della sovranitaÁ anche al Mezzogiorno, inteso non come una realtaÁ estranea da sfruttare: tale, in effetti, era considerato prima di entrare nell'orbita del re cristianissimo. In quella condizione, come vedremo, ricadde presto. La ratio di tutto questo era stata elaborata nell'ultimo millennio, le linee programmatiche erano nate da una storia piu che millenaria e garantite ab inizio dalle glorie delle tre dinastie. Queste doti sostanziali andavano oltre il dato di fatto del potere e del dominio militare, un fattore brutale che appare connesso ad altri valori, assai pregnanti. In particolare, nel Mezzogiorno continentale, dopo l'esito della rivoluzione del 1647-1648, l'assetto istituzionale aveva recuperato (come vedremo nel secondo capitolo) i suoi caratteri di ``anomalia'', ossia di forte primato delle strutture giudiziarie ed amministrative; ma la vittoria dei togati aveva ulteriormente attenuato e snervato l'influenza esterna, e poi la patologica debolezza della Spagna durante il regno di Carlo II mise in luce che proprio il dominio della toga frustrava la produttivitaÁ e finiva per dissolvere la consistenza sociale del regno di Napoli. La formula di una comunitaÁ governata da un ceto culturale che eÁ in primo luogo portatore d'interessi basati sull'intermediazione giuridica aveva reso dilagante, caratterizzante ed irreversibile il blocco dell'economia, aveva radicato nel profondo il parassitismo ed aveva generato (come fu da molti osservatori di varia provenienza analiticamente descritto e come vedremo) una quasi incredibile disgregazione sociale. In effetti, la popolazione era incapace di badare a se stessa. PercioÁ ogni pressione esterna, ogni slittamento verso la precarietaÁ del quadro internazionale, portava al collasso gli equilibri interni, metteva in mostra le linee di una societaÁ frantumata ed inconsistente, ne demoliva interamente l'immagine esterna. CioÁ avveniva perche da troppi decenni essa era sotto una tutela patriarcale che, sia pure con le migliori intenzioni, soffocava tutte le iniziative imprenditoriali, tutte le energie economiche realmente produttive. Un finto e fallace benessere proveniva ai benestanti dalle rendite pubbliche, ossia dai proventi di uno Stato paralitico e, dal punto di vista internazionale, inesistente: forte contro i deboli, privo di vita 8 R. Tufano, La Francia e le Sicilie contro i forti. Le comunitaÁ meridionali avevano perduto percioÁ ogni credibilitaÁ, tanto da divenire oggetto e non soggetto di storia, e da dare di seÂ, ai numerosi e concordi osservatori, quadri drammatici e sorprendenti di caos asociale. A questi caratteri, tipici della popolazione napoletana, numerosa e forte quanto anarchica, e le cui straripanti energie erano state abbandonate a se stesse senza essere minimamente indirizzate a mete comuni, si accompagnava un fatto internazionale nuovo: la crisi radicale e generalizzata dei vecchi assetti istituzionali e dei governi. Dopo l'esito della rivoluzione inglese si era aperto in Europa la fase dell'insegnamento lockiano. La coscienza di dover cambiare quasi tutto divenne generale. Si pensi, come fenomeno indicativo, alla crisi della polisinodia, ossia del governo mediante Consejos: organismi lenti, pletorici, schiavi delle tradizioni, e per definizione privi di responsabilitaÁ, insomma incapaci di assumere decisioni rapide e nuove. Quelle strutture erano tipiche dell'impero iberico, rappresentavano in parte un residuo del passato visigotopattizio, e furono riesumate e studiate dall'abbe di Saint-Pierre, il prototipo degli idealisti utopisti. Ma i (fittizi) caratteri rappresentativi della polisinodia erano storicamente datati, si presentavano oltremodo arretrati, giaÁ largamente fuori tempo massimo. La loro esaltazione e riapparizione letteraria ebbe, peroÁ, un grande merito: servõ a Rousseau per capire che quei residui archeologici nascondevano il problema di una legittimazione giuridica profondamente invecchiata, perche diretta a tutelare un potere legale ispirato ad ideali statici, deduttivi, patriarcali. La sovranitaÁ doveva esser posta in termini totalmente diversi, sociali e non solo astrattamente ideali. Bisognava rimuovere quei vecchi arnesi, fantocci rivestiti di mera forma e privi di doti sostanziali. Non a caso, tra il 1707 ed il 1709, Serafino Biscardi elaboroÁ una proposta orientata in una direzione che oggi diremmo `decisionista' oltre che produttivistica e realistica, l'Idea del governo politico ed economico del regno di Napoli. In base a quella visione nuova egli ebbe a Barcellona carta bianca da Carlo III d'Asburgo ± in procinto di diventare (a distanza di qualche anno) VI ed imperatore ±, e venne I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 9 a Napoli a trasformare il Consiglio Collaterale, fingendo di correggerlo marginalmente e di svecchiarlo. Questa vicenda porta a formulare una considerazione generale di cui bisogna tener conto in seguito. La cultura giuridica napoletana, agli inizi del Settecento, cosõ come poi nei cinque lustri austriaci, fece sentire la sua presenza a largo raggio, e costituõ a Parigi, a Madrid come a Barcellona, un fattore di rilevante influenza: si puoÁ dire che ebbe forte credito (si pensi alla scuola di D'Andrea, a Biscardi, a Gravina, a Giannone) in misura inversa rispetto all'inconsistenza delle popolazioni meridionali. Il punto terminale della dialettica franco-spagnola e del controllo sulle Sicilie riporteraÁ alle soglie della Rivoluzione. Il punto di vista parigino eÁ qui raccontato nei capitoli quinto, sesto e settimo ± i cui contenuti erano giaÁ apparsi, in forma ridotta, in un saggio pubblicato nella nostra rivista «Frontiera d'Europa» (2003, n. 2)±, dedicati all'estromissione di Bernardo Tanucci dal governo delle Sicilie. Una lettura intrecciata della politica «ufficiale» francese, dei comportamenti devianti della stessa diplomazia e degli avvenimenti in corso, dimostra che la caduta di Tanucci s'iscrisse in un trend di lunga durata, iniziato nel 1739, quando si tentoÁ di avviare per le Sicilie un'azione di recupero dell'imprenditoria commerciale, politica affidata alle cure del Supremo Magistrato del Commercio, istituzione che si era esplicitamente ispirata a modelli francesi e che si avvalse anche di personale giaÁ addestrato Oltralpe. Contro questa magistratura le forze a difesa dello status quo operarono fino a ridimensionarla, e (non a caso) questo risultato fu raggiunto nel 1746 grazie anche ad un voto del Parlamento di Palermo, secondo una linea di opposizione che poi il «partito» siciliano esercitoÁ anche contro Tanucci e che prevalse alla fine del 1776. Tutto questo dimostra che il riferimento alla Francia ebbe ben precisi, ma molto vari, contenuti culturali, istituzionali, sociali, programmatici. Diversificati nel tempo, spesso contraddittori, furono i significati di volta in volta assunti dal `partito' spagnolo, che fu presenza di corte ben piu che di societaÁ e di cultura. La diplomazia internazionale, nel corso del secolo XVIII, si servõ delle fisionomie 10 R. Tufano, La Francia e le Sicilie storiche che le proposte politiche francese, spagnola ed austriaca manifestavano e propagandavano. Dal cartesianismo, all'illuminismo, al romanticismo, alla ideÂologie crebbe fortemente il sostrato socio-culturale delle scelte politiche: il carattere soltanto dinastico, espresso in misura rilevante dalla politica di Elisabetta Farnese (come rilevoÁ Meinecke), divenne uno dei segni persistenti e non piu giustificati di un passato vicino ad essere sconvolto 11. Londra dimostroÁ la validitaÁ dei nuovi interessi. Nel quadro delle potenze centrali europee, l'influenza diplomatica conseguõ nel Settecento risultati decisivi anche piu di quanto non si realizzasse con gli interventi armati. A partire dal trattato di Utrecht, il lemma «diplomazia» andraÁ assumendo un significato radicalmente diverso rispetto al passato 12. CosõÂ, durante l'etaÁ dei Lumi, l'Europa vedraÁ nascere una cultura degli affari esteri, che si distingueraÁ per un'unitaria impostazione nella condotta della politica internazionale, scaturente dall'adozione comune di un solo linguaggio, di attivitaÁ e pratiche istituzionali condivise e di un unico cerimoniale 13. Il cambiamento semantico del vocabolo avverraÁ in coincidenza con modificazioni strutturali nella condotta delle rela11 Da L'idea della ragion di Stato nella storia moderna, Vallecchi editore, Firenze 1942 (I ediz. 1924), vol. II, p. 85: «ma i motivi, che spingevano all'azione la superba e intraprendente principessa, s'ispiravano ancora interamente allo spirito politico del Rinascimento e del Barocco». Acuta intuizione confermata dalla storiografia successiva che ha meglio indagato sulle intime ragioni che portarono sul trono delle due Sicilie l'infante Carlo: R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, nella misc. Storia di Napoli, vol. VII, Di Mauro, Cava de' Tirreni 1972, e piu di recente, Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia 1734-1759, introduzione a Carlo di Borbone. Lettere ai re di spagna, Ministero dei Beni culturali, Roma 2001. Di questa volitiva governante («es una reina muy hombre» era il giudizio dei contemporanei) non esiste ancora uno studio metodico, molto probabilmente per ragioni relative all'antico disprezzo franco-ispanico nei confronti della politica «italiana» perseguita dalla Farnese e da Giulio Alberoni. Tali lacune sono colmate in parte da Pablo VaÂzquez GeÂstal nella sua tesis doctoral (director: Carlos GoÂmez-CenturioÂn JimeÂnez, Departamento de Historia moderna - Universidad Complutense de Madrid, 2008) Corte, poder y cultura polõÂtica en el reino de las dos Sicilias de Carlo de BorboÂn (1734-1759). 12 Al proposito cfr. la sintesi di H. Scott, Diplomatic culture in old regime Europe, in Culture of Power in Europe during the Long Eighteenth Century, ed. by Hamish Scott and Brendan Simms, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 58-85. 13 Cfr. le puntuali e belle osservazioni di L. BeÂly, Espions et ambassadeurs au temps de Louis XIV, Fayard, Paris 1990. I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 11 zioni tra gli Stati europei. Ogni scritto sulle relazioni internazionali durante il «lungo secolo diciottesimo» eÁ stato dominato dal tema della comparsa e della crescita di nuove entitaÁ statali. In seguito, questa lettura eÁ divenuta un paradigma della storiografia, a partire dall'apparizione, avvenuta nel 1833, del saggio di Leopold von Ranke sulle grandi potenze 14. La nascita della pentarchia, il Great Power System(composta dalle potenze Francia, Austria, Inghilterra, Prussia e Russia), e la relativa rivalitaÁ che accompagnoÁ lo svolgersi del secolo XVIII, aveva favorito la creazione di una nuova forma di cultura politica 15. Diretti risvolti di questo corso delle relazioni internazionali si ebbero con l'azione del barone di Breteuil, ambasciatore francese a Napoli negli anni 1773-1774 16. In predicato per ricoprire l'incarico di ministro degli affari esteri, ogni sua azione presso la corte napoletana traeva ispirazione dal progetto degli choiseulistes d'appoggiare le figlie dell'Imperatrice. Il vero obiettivo dell'azione del diplomatico era quello di eliminare il primo ministro napoletano, unico ostacolo alla presa del potere assoluto di Maria Carolina, sorella della futura regina di Francia. Nella lunga storia dei rapporti franco-austriaci, gli episodi dell'allontanamento di Giovanni Fogliani, vicere della Sicilia, e di Tanucci sono strettamente correlati proprio con le nuove prospettive politiche offerte dalla contemporanea presenza di due donne della famiglia degli Asburgo-Lorena sui troni di Versailles e di Napoli. L'una, Maria Antonietta, la «petite dauphine», appoggiata dalla fazione di corte degli Choiseul, da sempre filo-austriaci; l'altra, Maria Carolina, sostenuta dal ``partito'' dei siciliani, che mirava a svin14 Una traduzione inglese del saggio di Leopold von Ranke si trova in The Theory and Practice of History: Leopold von Ranke, eds. Georg G. Iggers and Konrad von Moltke, Bobbs-Merril, Indianapolis-New York 1973, pp. 65-101. 15 Sull'argomento due recenti volumi di Scott, The Emergence of the Eastern Powers, 1756-1775, Cambridge University Press, Cambridge 2001 e The Birth of a Great Power System, 1740-1815, Longman, London 2006. 16 Sulla figura e sulla centralitaÁ dell'azione politica di Breteuil nella Francia pre e postrivoluzionaria disponiamo di due belle monografie di Munro Price, The Comte de Vergennes and the Baron de Breteuil: French politics and reform in the reign of Louis XVI, Cambridge University Press, Cambridge 1989 e piu di recente The Fall of French Monarchy: Louis XVI, Marie-Antoinette and the Baron de Breteuil, Macmillan, New York 2002. 12 R. Tufano, La Francia e le Sicilie colarsi dalla tutela spagnola, rappresentata a Napoli da Tanucci e a Palermo da Fogliani. Fu proprio la rivolta palermitana del 1773, con l'episodio della cacciata del vicereÂ, ad aprire una stagione di grave emergenza, che impegneraÁ l'intera vita politica siciliana per tutto il 1774, e che chiuderaÁ il proprio ciclo solamente il 25 ottobre del 1776. D'altronde, anche la diplomazia piemontese, molto attenta ai contesti internazionali, nella rovina di Tanucci aveva intravisto precise responsabilitaÁ francesi. E Incisa di Camerana aveva laconicamente commentato che «nella presente circostanza la Spagna nulla sa ricusare alla Francia». La «douce domination» della Francia sulla Spagna eÁ un criterio generale che vale a spiegare molti degli avvenimenti politici settecenteschi. 3. Nuovi significati complessivi della politica francese Partiti da questo episodio che chiuse una fase importante dei rapporti tra i regni borbonici d'Europa, si eÁ posto il problema di andare a ritroso per meglio capire cosa fosse accaduto prima di quella svolta tardo-settecentesca, dei Patti di Famiglia e del rovesciamento delle alleanze franco-austriache. Il laboratorio piu influente fu quello della guerra di successione spagnola, periodo che segnoÁ gli sviluppi futuri dell'intero Continente. Quegli assetti aiutano a meglio comprendere mutamenti e permanenze nella cultura politica del «lungo» e vario Settecento europeo. La documentazione diplomatica specialmente parigina indica subito un dato di fatto: Luigi XIV tentoÁ d'esercitare il suo governo direttamente sulle Sicilie, oltre che sulla Spagna. L'idea era stata giaÁ suggerita da Alfred Baudrillart, che resta il maggiore storico della svolta successiva alla morte di Carlo II, ed i documenti studiati a Parigi e a Simancas hanno convalidato l'ipotesi. Come aveva notato un critico spagnolo, Antonio Ballesteros y Beretta, nei volumi dello storico francese «el interlocutor franceÂs habla mucho y con detalle, el espanÄol apena si contesta con monosõÂlabos». Ma cioÁ era pressocche inevitabile nel clima nazionalistico dell'epoca in cui erano stati pubblicati i volumi del francese. Per fortuna nuove e diverse sensibilitaÁ I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 13 contemporanee vanno modificando il quadro complessivo delle relazioni franco-spagnole e, con esse, tra le nazioni d'Europa. Se si vuol comprendere il ruolo delle Sicilie (che per Broglie e Favier erano ancora Appendici della Spagna negli anni Settanta) a queste aperture eÁ necessario fare riferimento, ed in particolare alle opere di M. Zylbergberg, J.-F. Schaub e R. GarcõÂa CaÂrcel. La presenza francese nel Mezzogiorno d'Italia durante il governo diretto e personale di Luigi XIV rivela una situazione nuova qualitativamente (ossia nella sua logica e nella sua incidenza sostanziale) rispetto al trend abituale dei rapporti economici e commerciali tra la Francia e le regioni meridionali. La congiuntura internazionale attribuõ alla corte parigina un volto nuovo, molto diverso dal cliche di autoritaria forza di pressione sul napoletano ai fini della difesa degli interessi francesi. Si trattoÁ questa volta di un perfetto incrocio tra la storia dei due regni, giacche il Re Sole governoÁ le Sicilie per qualche anno, scoprendo e scontrandosi con una realtaÁ socio-politica dalle dinamiche molto differenti da quelle francesi: in questo modo esse vennero in luce secondo un'ottica esperta e diretta di cui non avevano mai potuto avvalersi prima. La ricetta del governo di Parigi funzionoÁ in Spagna, ma altrettanto successo non ebbe nell'Italia meridionale: eÁ vero il contrario. Tuttavia, durante gli anni della guerra di successione spagnola, l'emergenza di una densa fase fiscale per esigenze militari, la diretta ingerenza francese negli affari politici piu delicati, il sottile gioco diplomatico, le interazioni istituzionali tra Francia, Spagna e Sicilie, modificarono largamente i rapporti tra lo Stato spagnolo e le istituzioni isolane. Ma non allontanarono la presenza iberica, che divenne pressante negli anni di Elisabetta Farnese, finche la regina riuscõ a riunire le due Sicilie in un unico, nuovo Regno, finalmente nazionale. Come si eÁ accennato, non esiste alcun riscontro storiografico delle dirette ingerenze francesi nella vita politica delle Sicilie durante la guerra di successione: percioÁ occorreva comprendere i motivi di questo lungo silenzio degli storici. Si eÁ cercato d'indicare qui i motivi di questo lungo oblõÂo. La soluzione eÁ stata suggerita dalla storiografia che ha meglio indagato sui rapporti tra Francia e Italia nel periodo 14 R. Tufano, La Francia e le Sicilie successivo alla Grande Rivoluzione 17. EÁ abbastanza noto che, giaÁ a partire dal momento dell'unificazione della Penisola, si era imposta una produzione storiografica sulla Rivoluzione francese dai tratti marcatamente «gallofobici», che avrebbe a lungo dominato il quadro culturale italiano e indelebilmente segnato sul versante delle prospettive politiche il percorso nazionale inaugurato dal Risorgimento. Di questo complicato processo Antonio De Francesco coglie alcuni momenti fondamentali e, muovendosi tra testi storiografici e contesti ideologici e politici, giunge a sfatare alcuni miti, a smentire non poche banalitaÁ e a correggere macroscopici errori d'impostazione storiografica. EÁ una soluzione che vale anche per i motivi indicati all'inizio di questo capitolo e che coinvolge direttamente il giudizio sulla fortuna di Luigi XIV nella cultura italiana: la mistura di nazionalismo e d'idealismo (non importa che fosse di destra o di sinistra), ha reso «oggettivi» alcuni punti di vista, impedendo di valutarne altri. La storia ad «incroci» fa, invece, emergere nuove prospettive ed inedite vicende, come quella che raccontiamo nel capitolo secondo. CosõÂ, al contrario di cioÁ che una parte della storiografia meridionale ritiene, la guerra di successione spagnola non rappresentoÁ l'epilogo dei rapporti tra Spagna e Sicilie, il «congedo dalla Spagna». Per questa ragione non riteniamo che sia esistito un momento «aurorale» di una nuova e diversa classe dirigente siciliana avvenuto per l'impulso del riformismo austriaco 18. Pensiamo piuttosto che gli anni del 17 A. De Francesco, Mito e storiografia della ``Grande rivoluzione''. La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del '900, Guida, Napoli 2006. 18 Á E una tesi tranchant alla quale non diamo molto credito sulla base di quanto ci accingiamo a descrivere nelle pagine seguenti. Questo topos eÁ presente, ad esempio, nello studio di F. Gallo, L'alba dei gattopardi. La formazione della classe dirigente nella Sicilia austriaca (1719-1734), Meridiana, Catanzaro 1996. Il lavoro eÁ un'ottima ricostruzione di quella vicenda, basata su una solida base documentaria. Tuttavia, non condividiamo una delle tesi dell'autrice, relativa alla «formazione» ab imis fundamentis di una nuova classe dirigente per contatto con il cameralismo austriaco. I personaggi principali degli anni austriaci (Longo, Perlongo, Frangipane, cioeÁ i leaders del ministero togato isolano) attorno i quali ruota la tesi della Gallo, avevano giaÁ fatto la loro apparizione, si erano formati, ed avevano svolto il loro apprendistato sulla scena politica della Sicilia ben prima della dominazione austriaca, cioeÁ durante il periodo della successione di Spagna. Nelle pagine seguenti tenteremo di dimostrare che per l'intero ceto togato delle due Sicilie l'opzione austriaca rispetto a quella francese e piemontese rappresentoÁ la scelta migliore per il ristabilimento del I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 15 regno di Carlo II d'Austrias abbiano giaÁ rappresentato un discrimen importante per la maturazione di una diversa mentalitaÁ, avvenuta sostanzialmente per una radicale modificazione dei paradigmi culturali che condizionavano la vita politica europea. Prove in tal senso sono state costruite con abbondanza dalla storiografia internazionale che ha studiato il fenomeno del ricambio delle classi dirigenti in diverse regioni dell'ex impero spagnolo. Piuttosto, tale trauma avvenne in corrispondenza di due precisi fenomeni, che agirono radicalmente sulle istituzioni europee e sulle mentalitaÁ sociali, modificando drasticamente i termini della secolare vicenda della dialettica tra status: il rafforzamento della costruzione statale nei regni piu nuovi ed una modifica sostanziale nei paradigmi culturali dei governi europei, di cui l'emersione della diplomazia rappresenta un fenomeno significativo. Fu sicuramente una modifica a tappe, di cui le rivoluzioni atlantiche, che provocarono il crollo definitivo dell'Antico Regime, rappresentano la cuspide del fenomeno. Per completare il quadro settecentesco dei rapporti tra i due regni, rimaneva inesplorata tutta la parte relativa al periodo compreso tra il 1734, anno di fondazione del nuovo regno meridionale, e la metaÁ degli anni cinquanta, quando con il rovesciamento delle alleanze franco-austriache e con il passaggio di Carlo al trono spagnolo mutoÁ radicalmente la politica internazionale su scala planetaria. L'occasione di riflettere su questi temi ci eÁ stata offerta da Biagio Salvemini, impegnato a coordinare un gruppo di ricerca internazionale sul tema dei rapporti commerciali tra Italia meridionale e Francia nell'etaÁ della «grande trasformazione» dell'economia mondiale. La sua richiesta di collaborazione per la parte del contesto politico settecenpotere negoziale e di governo del ceto ministeriale. Inequivocabili segni di questo atteggiamento sono i comportamenti assunti da Serafino Biscardi e dai togati della Sicilia citra, che racconteremo qui di seguito. Ricordiamo inoltre che il governo viennese viveva in una contraddizione insanabile tra le idee mercantilistiche e produttivistiche e la visione politica legata al vecchio costituzionalismo giuridico, dalla Catalogna trasferito a Vienna. Il giudizio di Pietro Giannone su quel sistema, espresso dall'idea di trapiantare nella capitale austriaca i vecchi Consigli spagnoli, fu particolarmente duro, giacche egli giustamente intuõ che quella logica della continuitaÁ era irrazionale ed avrebbe bloccato ogni recupero della produttivitaÁ: cfr. infra, p. 204 e nt. 56. 16 R. Tufano, La Francia e le Sicilie tesco, ci ha dato modo di pensare organicamente alle pratiche tardomercantilistiche dei due regni, che ci sono sembrate fortemente caratterizzanti di quegli anni, piu di qualunque altra forma di relazione politica. I risultati, giaÁ in parte editi nel volume diretto da Salvemini, sono qui presenti nel quarto capitolo 19. Resta il rammarico di non aver trovato adeguate risposte ad alcune molto pertinenti ed ineludibili domande che ci poneva l'amico barese. Il suo intento era infatti quello di valutare il ruolo dei flussi commerciali a lunga distanza sulla crescita complessiva dei soggetti economici meno progrediti e piu deboli, nel quadro di una profonda riconsiderazione delle linee di sviluppo dell'economia meridionale tra XVIII e XIX secolo. Per la nostra parte ci siamo limitati a ricavare notizie piu o meno dirette sulle macropolitiche da fonti poco esplorate, quelle della politica internazionale, al fine di verificare i «gradi di libertaÁ nella determinazione dei propri percorsi evolutivi e le opportunitaÁ che le compagini sociali si danno», al fine di associarle al «restringimento speculare che esse riescono ad indurre nelle opportunitaÁ di altre compagini» 20. La navigazione, il trasporto ed il commercio di generi di scarso valore intrinseco sono attivitaÁ normalmente estranee alle `cure' dei governi centrali, che da problemi ben piu gravi e consistenti sono `requisiti'. Contro questo disinteresse, che da fenomeno storico diventa fatto storiografico, eÁ giusto illuminare i settori del piccolo cabotaggio politico, ma di notevole consistenza sul piano economico. EÁ bene fornire i segni di vita di un corpo che trae dalla sua nativa e materiale energia le forze e le attivitaÁ per sottrarsi alla catalessi e per adattarsi ai parametri violenti di un quadro pubblico alienante. Ma, com'eÁ ovvio, eÁ assai stretta la connessione tra le relazioni internazionali da un lato e la libertaÁ dei mercati dall'altro, cosõ come la dialettica dei modelli di governo e di vita da un lato e la fenomenologia politica ed esistenziale dall'altro. 19 Lo spazio tirrenico nella `grande trasformazione'. Merci, uomini e istituzioni nel Settecento e nel primo Ottocento, Edipuglia, Bari 2009. 20 B. Salvemini-M. A. Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi commerciali e complementaritaÁ economiche. Prima parte, in MeÂlanges de l'EÂcole FrancËaise de Rome. Italie et MeÂditerraneÂe, t. 103, a. 1991, 1, pp. 104. I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 17 La creazione di strumenti e di fonti di guadagno ed il trasferimento delle ricchezze sono attivitaÁ sempre fortemente condizionate da quadri sociali piu ampi, ideativi e culturali, che, oltretutto, caratterizzano il tono delle civiltaÁ, ed il loro evolversi. 4. Parametri storici e storiografici per la successione in Italia Luigi XIV agõ in maniera diretta sulla vita politica delle Sicilie giaÁ qualche anno prima che entrasse in vigore il testamento di Carlo II d'Austrias, atto per il quale il giovane duca di AngioÁ divenne re di Spagna con il nome di Filippo V. Nel 1707, con l'arrivo degli Austriaci nel regno continentale, l'intromissione francese ebbe termine; mentre nell'isola l'azione del Re Sole si concluse due anni piu tardi. Tuttavia l'ascendenza francese sulla vita politica isolana continuoÁ ancora, seppur in maniera indiretta, sotto il governo del vicere afrancesado Los BalbaseÁs, fino alla cessione di quel regno ai Piemontesi, avvenuta nel 1714 21. Per la Francia si trattoÁ di un grande salto di qualitaÁ nei suoi rapporti con l'Italia meridionale rispetto al passato: questa volta non si trattava di agire nell'ambiguitaÁ e di violare un diritto delle genti, ostile, ma solo in linea di principio, alla collaborazione tra soggetti rivoltoÂsi ed il monarca di un'altra potenza, com'era spesso avvenuto per tutto il XVII secolo, tra il governo di Richelieu e quello del Re Sole 22. PuoÁ apparire paradossale che i due belligeranti, Francia e Spagna, durante il secolo dell'assolutismo monarchico utilizzassero l'aiuto inaspettato che veniva offerto da gruppi sociali, da cittaÁ e province o da interi paesi contro il proprio legittimo sovrano. Tuttavia, proprio allora i fatti avevano rotto gli argini delle 21 CioÁ risulta in maniera molto evidente e limpida nei documenti di parte francese: A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, voll. 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21 e 22, e MeÂmoires et documents, vol. 3, che citeremo in dettaglio assieme ad altre fonti di varia provenienza nazionale nel corso della narrazione che segue. 22 Per J. BeÂrenger, Relations internationales et subversion: essai de typologie, in L'Europe, l'Alsace et la France, Strasbourg 1986, pp. 245-55 nel Seicento il diritto delle genti non fu del tutto contrario a priori al fatto che un sovrano potesse allearsi con dei rivoltosi di altro paese. Per una tipologia di queste rivolte, cfr. la sintesi di J. Cornette, Le roi de guerre. Essai sur la souverainete dans la France du Grand SieÁcle, Payot, Paris 1993, pp. 146-9. 18 R. Tufano, La Francia e le Sicilie vecchie teorie giuridico-politiche. Questo era avvenuto con il processo d'indipendenza delle Province-Unite, dove in un primo momento i rivoltoÂsi tentarono la carta di ottenere un principe straniero ± francese o inglese poco importava ± per mettere la loro piccola repubblica sotto la tutela d'una superpotenza. Estremi furono il caso della Catalogna, con il trattato franco-catalano del gennaio 1641 che vide Luigi XIII come conte di Barcellona, e quello di Messina, in aperta rivolta filo-francese contro la Spagna dal 1674 al 1678. Eccezionale fu in ultimo l'esempio inglese, quando i rivoluzionari offrirono il trono a Guglielmo d'Orange, che da Statoldo delle Province-Unite divenne Guglielmo III, re d'Inghilterra. Ma insieme a molte novitaÁ agirono pure antiche permanenze. EÁ un dato elementare per la storiografia il fatto che la civiltaÁ francese, nei suoi molteplici aspetti, ha avuto un'enorme influenza sulla storia italiana, ed in particolare sul Mezzogiorno. Questa presenza costante va ben al di laÁ sia dei prolungati domini politici angioino e napoleonico, sia delle brevi escursioni durante la spedizione di Carlo VIII (1494-95) e nel corso della tumultuosa guerra franco-spagnola combattuta per la conquista del Mezzogiorno durante i primi tre decenni del Cinquecento. Anzi, se il quadro storico eÁ ampliato e se si guarda alle connessioni inter-etniche che hanno caratterizzato l'evolversi della civiltaÁ europea durante l'etaÁ medievale e moderna (tema qui sommariamente giaÁ enunciato), il modello organizzativo espresso dalla sintesi francese di Stato e SocietaÁ agõ sulla cultura e sulle realtaÁ sociali ed istituzionali subalpine ben oltre il diretto dominio politico e militare. L'influenza gallicofranca aveva operato nella Penisola subalpina in modo costante almeno dall'epoca longobarda, con ripercussioni evidenti specialmente nella sfera giuridico-istituzionale: si pensi alla tutela carolingia del pontificato romano, che creoÁ i precedenti dello Stato pontificio (tema illuminato dal pathos politico di Gioacchino Volpe) 23. Dunque si puoÁ dire che mentre le due presenze, la francese e l'ispanica, furono componenti strutturali della storia subalpina nel23 Si veda di Volpe Il Medio Evo, Sansoni, Firenze 1926, spec. le pp. 97-100 (ediz. del 1958). La stesura del libro comincioÁ a partire dal 1917. I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 19 l'etaÁ moderna, la prima, la gallico-franca, aveva avuto giaÁ un significato di modello ideale, culturale, istituzionale fin dall'epoca dell'invasione longobarda. L'ovvio dato di fatto che la futura monarchia francese si formoÁ e consolidoÁ in Europa circa un millennio prima di quella ispanica, e che quest'ultima (ovviamente) non poteva agire prima di nascere, nulla toglie alla validitaÁ della differenza, anzi la giustifica e la rafforza. Infatti, eÁ calcolo elementare che il lasso di tempo intercorso tra Clodoveo e Ferdinando il Cattolico corrisponde a dieci secoli. Fu Carlomagno il primo grande mito ed eroe liberatore delle popolazioni cisalpine galliche di origine celtica quando, nel 774775, uscirono verso la luce lasciandosi alle spalle la quasi trisecolare notte longobarda. Il meccanismo istituzionale che l'imperatore creoÁ per ``cingere'' la sua testa con quella corona offre un quadro eloquente delle mentalitaÁ e finzioni medievali, che attribuivano importanza ai gesti prescindendo completamente dalla loro consistenza materiale: percioÁ il papato sommava in se un potere tanto in pratica nullo quanto idealmente immenso 24. Forse di qui eÁ nata la tendenza italiana a considerare fittizie ed a discreditare in sostanza le idealitaÁ, ma a tenerle continuamente in scena. E, volendo riprendere un filo logico piu circoscritto, non a caso, durante la seguente storia peninsulare, la stretta connessione tra avvenimenti politici locali e valori culturali ed istituzionali francesi fu del tutto evidente in particolare nei momenti di scosse, di svolte e di turbolenze sociali, proprio a conferma del carattere istituzionale e strutturale del modello transalpino: basti pensare alle rivoluzioni e sommosse del 1547, del 1647-1648, del 1674-1678, del 1701 e del 1799. Tuttavia, nonostante questi abbondanti precedenti, non esiste alcun riscontro storiografico del significato non solo potestativo, ma 24 Cfr. a tal proposito il giudizio di C. Fleury nella sua Histoire du droit francËais (1674 I ediz., 1682 presso Estienne Loyson, Paris), sprezzante per cioÁ che era avvenuto a sud delle Alpi a proposito dell'utilizzazione del Corpus Juris, distorta rispetto a quella che se ne fece in Francia, dove quel diritto e, piu in generale tutto il modello statale romano, divenne invece un elemento concreto della costruzione statuale nazionale. Su questo aspetto della critica al mondo subalpino da parte del geniale giurista francese ha opportunamente richiamato l'attenzione Ajello, EreditaÁ Medievali Paralisi Giudiziaria. Profilo storico di una patologia italiana, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2009, p. 115. 20 R. Tufano, La Francia e le Sicilie anche ideale che ebbero le dirette ingerenze francesi nella vita politica delle Sicilie durante la guerra di successione, e non eÁ facile comprendere i motivi di questo lungo silenzio degli storici. I contemporanei, invece, percepirono chiaramente il significato che avrebbe avuto il governo francese sull'Italia meridionale, come dimostra Tiberio Carafa con il suo racconto della congiura aristocratica del 1701. Questo eÁ solo uno tra i tanti esempi che mostreremo nelle pagine seguenti. Come spiegare questo appiattimento sulle mere vicende militari? Si trattoÁ forse di un'operazione coscientemente attuata dai protagonisti di quelle vicende per una damnatio memoriae di questo periodo della storia dell'Italia meridionale, e che ebbe inizio proprio a partire con il viceregno austriaco? Fu una sorta di senso di colpa e di pudor cioÁ che nascose i motivi delle riserve contro la Francia, il cui modello di vita (come Benedetto Croce in piu opere chiaramente riconobbe), diventava vincente sul piano del progresso civile e del gusto, come confermava il diffondersi del conversare, del valorizzare il bel sesso e la femminilitaÁ e del vestire ``alla francese''? In realtaÁ, se la Francia rappresentava il faro del nuovo modo di navigare verso il futuro, il passato premeva pesantemente, e del parassitismo non era possibile disfarsi senza duri sacrifici, ovviamente sgraditi ai benestanti, ossia a quegli stessi che si atteggiavano filofrancesi, e che in quel modo mostravano di voler vivere. Per alcuni dei personaggi che incontreremo nelle pagine seguenti, sembrerebbe che sia andata proprio in questa maniera. EÁ il caso, ad esempio, di Serafino Biscardi, il potente togato che alla morte di Francesco D'Andrea gli era subentrato quale leader del ceto ministeriale, e che durante il periodo del viceregno austriaco verraÁ indicato come il vero vicere di «fatto» per l'enorme potere che esercitava. Egli era, comunque, uomo di toga. Ancor prima dell'accettazione da parte francese del testamento di Carlo II, aveva intessuto con quel governo stretti rapporti, alla cui riprova esiste una buona documentazione. Poi, avendo compreso a sue spese che la volontaÁ francese era diretta a restringere notevolmente i margini di potere del suo ceto d'origine, I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 21 mutoÁ la sua fedeltaÁ al re di Spagna ed abbraccioÁ le ragioni politiche dell'Impero austriaco. Ma, per quanto importante sia l'esempio appena citato, esso non basta a spiegare i motivi del fenomeno storiografico per cui del governo di Luigi XIV sul Mezzogiorno si eÁ attenuata la memoria. Ne il caso di Biscardi, ne quello del togato siciliano Giovanni Brancaccio ± filospagnolo ma non francofilo, ed anti-asburgico al punto da emigrare in Spagna nel 1725, da dove in seguito ritornoÁ in patria come segretario d'Azienda del neonato regno borbonico napoletano ± sono sufficienti per comprendere appieno le ragioni esistenziali della loro generazione 25. E neppure a tradurre integralmente la complessitaÁ e la densitaÁ di atteggiamenti in apparenza contraddittori, ne a stabilire una perfetta tipologia delle attitudini politiche delle classi dirigenti dell'Italia meridionale, nel contesto della crisi profonda che fu aperta con la successione di Spagna e che mise in luce le conseguenze di collasso sociale, provocate da circa sedici decenni di governo togato. Anche altre ragioni, meno apparenti, storiografiche piu che storiche, furono alla base di quella situazione. Cercheremo d'indicarne alcune di carattere culturale ed ideologico che ci sembrano rilevanti ai fini di una decifrazione del fenomeno. Compiremo in sintesi questo chiarimento sviluppando alcune linee generali d'interpretazione che seguono il modello dell'opera di Antonino De Francesco, cosõ come eÁ stato qui giaÁ anticipato 26. Tre risultati di quella operazione interessano le presenti pagine. EÁ da tener conto di un dato di fatto: il rigetto della stagione rivoluzionaria ha dominato gran parte della storiografia europea dell'Ottocento, e su di esso alcuni storici italiani collocarono le fondamenta peculiari della `nuova' nazione italiana. La «gallofobia» divenne cosõ una prova degli «irreversibili destini» autoritari dell'Italia fascista. Ovviamente il carattere sociale rifiutato aveva origini ben piu lontane, da 25 R. Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla memoria del giurista all'esperienza di governo (1673-1720), in «Frontiera d'Europa», a. XII (2006), në 1, pp. 6-144. 26 De Francesco, op. cit. (nt. 17). 22 R. Tufano, La Francia e le Sicilie indagare a ritroso nel tempo, scavando in profonditaÁ nella storia delle mentalitaÁ sociali europee. La generale incomprensione verso il 1789 nasceva dalla tentazione di uniformare la fervida stagione rivoluzionaria all'esito napoleonico, che fu di estensione enorme ma di significato ideale deludente. Il punto di vista storiografico italiano si legoÁ alla critica delle tendenze egemoniche francesi, che erano atte a nascondere pregi di socialitaÁ e di costituzionalismo da non mettere in luce nel clima della Restaurazione. D'altra parte, la gallofobia liberale e conservatrice veniva cosõ a saldarsi con un altro e differente rifiuto, di ascendenza democratica, che, pur ritenendo ferme le conquiste della Rivoluzione, tuttavia temeva che il modello del governo francese facesse perdere ad esse parte del carattere rivoluzionario 27. EÁ forse utile, a questo punto, ribadire l'orientamento storiografico generale adottato in questo libro. Esso chiede che si ponga in luce, quale oggetto di critica, la tendenza a ridurre nei termini di mera conquista e di dominio militare la presenza e l'influenza della grande tradizione francese, trascurando sul piano della sovranitaÁ il significato sociale che il governo parigino portava con seÂ. La volontaÁ di ridimensionare a problema di potere l'espressione di un progetto sociale chiaramente legato ad una religiositaÁ non confessionale e non romana eÁ una deformazione rovinosa sul piano storiografico ed ideale. In questo modo il modello anglo-francese, sia tardo-medievale sia 27 Come spiega Antonio De Francesco (ivi, pp. 34-5), «il rifiuto a livello europeo del 1789 nasce dalla tendenza ad uniformare l'intiera stagione rivoluzionaria sotto l'egida della conclusione napoleonica ed eÁ pertanto l'Impero dei francesi ± sgraziato e violento imitatore d'altra idea di potere universale ± il bersaglio polemico della storiografia europea sopra ricordata, che v'intravvede la prova provata della volontaÁ egemonica di Francia e dunque un monstrum politico al quale ostinatamente contrapporre ragioni e identitaÁ nazionali. Sotto questo specifico profilo, diviene impossibile comprendere perche alla gallofobia di parte liberale e conservatrice, che attraversa larga parte dell'Europa di secolo XIX, venga in soccorso anche l'altra, d'ascendenza democratica, che sull'endiadi rivoluzionaria di Francia ± libertaÁ ed eguaglianza ± sempre, nella pratica politica, tenne invece fermo. E diviene plausibile leggere le tante critiche alla Rivoluzione nell'Europa di secolo XIX sotto il segno della preoccupazione che il modello di Francia ± declinato nei termini autoritari del II Impero ± potesse travolgere, come a Parigi, quanto il 1848, non solo in chiave liberale ma pure sotto il segno democratico, in tutta Europa aveva invece dischiuso». I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 23 moderno, viene ad essere depotenziato a vantaggio di uno spiritualismo `verticale', antistorico, piu o meno «puro», che si ricopre di vesti o pontificie o dell'idealismo tedesco. Quest'ultimo, antiplutocratico ed antiebraico, moralistico al di laÁ delle apparenze, piu machiavellico che intimamente machiavelliano, incline a sbocchi escatologici e messianici, eÁ la variante di origine luterana di uno spiritualismo ``assoluto'' che ha costituito, con i disastri prodotti nell'alto medio evo, il problema centrale della civiltaÁ europea ed occidentale durante l'intero ultimo millennio. 5. Il Re Sole: abuso ideologico della sua personalitaÁ Per tornare al nostro caso, occorre rimarcare che se la fortuna del modello statale francese nella cultura italiana ha origini piu lontane del 1789, tuttavia in seguito essa verraÁ inevitabilmente condizionata proprio dall'evento rivoluzionario e dai suoi sviluppi, che s'incarneranno essenzialmente nei due Napoleone. E di cioÁ si deve tenere debito conto, giaccheÂ, dall'Otto al Novecento, l'immagine del regno di Luigi XIV subiva in Italia, per alcuni ma notevoli tratti, la sovrapposizione delle figure dei due Imperatori. Di suo, come un Giano bifronte, egli sembrava diabolicamente esprimere due posizioni psicologiche e politiche antitetiche ed inconciliabili, che avrebbero inevitabilmente resi scontenti in Italia sia l'eterogeneo mondo liberale, che rifiutava l'accentramento amministrativo e l'autoritarismo di governo, sia quello radicale-democratico, cui repelleva l'idea di un re della guerra, per di piu con la fissazione d'instaurare una monarchia universale e cattolica. Esemplare di ambedue le posizioni la sintesi del regno di Luigi XIV proposta nel 1939 da Ettore Rota, in un profilo in cui i due torbidi aspetti del Re Sole venivano ``sapientemente'' fusi. Egli era descritto simile ad un «avvoltoio» che «contemplava d'alto» l'Italia dopo averne tradito nel 1678 i propositi indipendentistici e pre-risorgimentali a Messina, in attesa di rendere reale il «sogno che si era infranto sugli scogli di Scilla e Cariddi, di fronte all'isola sempre 24 R. Tufano, La Francia e le Sicilie infedele», attraverso la successione di Spagna (avvenimento che, peroÁ, Rota non nomina neppure) 28. Quale era per Rota il modello di riferimento della politica «capricciosa, violenta e superba» del re di Francia? La risposta ch'egli offre eÁ scontata e tradisce l'origine ideologica della sua tesi: «Roma, i Romani antichi, l'universalitaÁ della Chiesa cattolica, ossia l'Italia, centro dell'Impero e del Papato» 29. In sintesi, Rota attribuisce a Luigi fantasticherie tipicamente italiane: ed eÁ ``normale'' che sia cosõÂ, poicheÂ, essendo esse ``universali``, non potevano che albergare anche nella mente del Re Sole, e nessuna prova in contrario puoÁ valere, documentarsi eÁ pleonastico. E quando, durante la successione di Spagna, il re francese ambiraÁ a fare del Piemonte una «preda», saranno i prodromi del Risorgimento in Piemonte 30. Com'eÁ facile notare, Luigi XIV, Napoleone I ed il III nella ricostruzione di Rota sono immagini sovrapponibili che delineano i contorni di una nazione nata «sorella» e tuttavia cresciuta ostile, e che, per uno dei tanti paradossi della storia, avrebbe innescato il processo di una via nazionale al rinnovamento politico dell'Italia. Non eÁ difficile riconoscere nel veloce profilo del re di Francia alcune delle idee di Jules Michelet, da dove poi nasceraÁ l'impietosa analisi di 28 E. Rota, Italia e Francia davanti alla storia. Il mito della sorella latina, Istituto per gli studi di politica internazionale, Industrie grafiche A. Nicola & C., Milano 1939, pp. 179-81. «Senza l'opera prudente e duratura di Mazarino, Luigi XIV non avrebbe aspirato ad un'egemonia incontestabile, ne avrebbe resistito lungamente in una politica capricciosa, violenta, superba, quale fece per tutti gli anni del suo regno. [...] Luigi XIV era convinto di avere diritto al primato e poteva anche osare. Ma se tiroÁ colpi all'impazzata di qua e di laÁ, contro tutti, da tutte le finestre di Versailles, provocando una coalizione europea, senza incorrere nel pericolo di rimanere schiacciato sotto un cumulo di macerie, cioÁ gli fu possibile per la salda costruzione su cui poggioÁ la sua politica di avventure: e tale fu sempre la politica del Re Sole, specie in relazione con l'Italia. Il cambiamento nella natura dei poteri, fu sensibile fin dal primo giorno in cui la macchina dello Stato passoÁ nelle sue mani, appena scomparve il Mazarino. Ai segretari di Stato annuncioÁ in termini precisi quale era il nuovo carattere del governo: ``Io saroÁ d'ora innanzi il mio primo ministro; voi mi verrete incontro coi vostri consigli quando ve li chiederoÁ''. Per un cinquantennio di regno, dal 1661 al 1713, il pensiero fisso fu il dominio in Italia. Nessun'altra ambizione avrebbe soddisfatto piu profondamente il suo mistico orgoglio di vicario di Dio, e di capo naturale di tutto il popolo cristiano, unico ed indivisibile come il punto geometrico [...]». 29 Ivi, p. 180. 30 Ivi, p. 181. I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 25 Ernest Lavisse: Luigi XIV non eÁ un politico, ma un devoto, dunque un pessimo francese. «Dieu-donne naquit pour cela, pour la croisade protestante de l'Hollande (et d'Angleterre), et pour la croisade inteÂrieure contre nos protestants de France. Sauf le court moment du Tartuffe [...], ou le parti deÂvot s'attaque aux múurs du roi, il fut toujours docile aÁ ce parti» 31. Sull'idea di crociata del re si sofferma anche Rota, che spiega come un bisogno di esercitare un «protettorato quasi universale», per apparire come il «supremo difensore della CristianitaÁ» 32. Che tutto questo potesse nascondere un'abile strategia, tipica dell'astuto e non bigotto uomo di governo, non eÁ contemplato. Ma il repubblicano Michelet non eÁ il solo riferimento dello storico italiano, che guarda, seppure in piccola parte, alla tradizione storiografica liberale, che tendeva ad isolare l'opera politica ed amministrativa del re e mirava a scongiurare il pericolo che il XVII secolo, con il suo razionalismo e con il suo empirismo, fosse posto in collegamento con Montaigne e con l'esperienza delle guerre di Religione 33. Ovviamente, nel duro clima presente alla vigilia del secondo conflitto mondiale, dei due volti di Luigi lo storico italiano esaltava solo il primo. Il discredito della storia francese e del suo significato ideale aveva avuto inizio con le critiche a Carlo Magno, accuse che sono presenti nella storiografia tedesca del Settecento da MoÈser, attraverso Herder fino a Fichte, nel quadro della Lotta contro la ragione (Carlo Antoni) 34. Questo fu un precedente che divenne un topos culturale cui bisogna guardare per sciogliere il groviglio cui la storiografia ha ridotto le vicende europee, volendo obbedire alle esperienze ideologiche della Restaurazione. In questa fase la Francia, 31 J. Michelet, Histoire de France, t. XIII, Louis XIV et la reÂvocation de l'eÂdit de Nantes, 1661-1685, Lacroix et Cie, Paris 1860, p. 127. 32 Rota, Italia e Francia, cit. (nt. 28), p. 180. 33 La bibliografia sull'argomento eÁ vasta, sebbene ruoti sempre attorno a due assi: la lettura a forte connotazione neo-cattolica e quella liberale. Nel caso delle fonti di Rota conviene qui citare, come esempio della seconda interpretazione del regno del Re Sole (quella liberale), un autore di grande successo, J.-B. Capefigue, che diffuse la doxa di Voltaire e gettoÁ un solido ponte tra il SieÁcle de Louis XIV e il Tocqueville dell'Ancien ReÂgime et la ReÂvolution, cfr. Richelieu, Mazarin, la Fronde et le reÁgne de Louis XIV, Louis Hauman et Cie, Bruxelles 1835-1836, voll. 5. 34 La lotta contro la ragione, Sansoni, Firenze 1942. 26 R. Tufano, La Francia e le Sicilie con la sua tradizione di governo costituzionale fondato sulla sovranitaÁ popolare (sacrale e religiosa) venne a costituire per la cultura italiana un problema quasi insuperabile. Di qui la tendenza a svalutare l'opera di Napoleone e di ridurla a mera espressione di aggressivitaÁ; di qui le proiezioni del giudizio negativo verso il passato ed a vedere in Luigi XIV un precursore di una serie di fenomeni ottocenteschi deteriori. E in questo florilegio di amenitaÁ non manca chi, piu di recente, ha voluto vedere nel volontarismo legislativo di Napoleone la conseguenza diretta di una colpa indelebile, che, secondo una logica imitativa creata dal ``peccato originale'', eÁ da attribuire al pater, al filosofo piu amato dai francesi: a Montaigne 35. 35 L'idea di un Montaigne ispiratore del volontarismo giuridico e ``prepositivista'' puoÁ venire in mente a chi abbia poggiato lo sguardo solo sulla copertina degli Essais. Se cosõ non fosse, dovremmo piuttosto pensare che questa critica alla modernitaÁ (di cui lo scettico francese fu uno dei patriarchi e Napoleone uno dei suoi criminali esecutori), tragga fondamento, non giaÁ da una visione razionale e scientifica del dato storico, ma che piuttosto si nutra di gravi preconcetti verso la cultura occidentale, in particolare quella che si sviluppoÁ dopo l'anno Mille. Pregiudizi dietro i quali si nasconde certamente un atteggiamento pre-moderno (e non post, come si vuol far credere per graziosa e scaltra concessione alla moda culturale: ma su di cioÁ cfr. una nostra piu articolata discussione in Illuminismo tradito o traditore. Il Settecento nella storiografia italiana del diritto e delle istituzioni, in «Frontiera d'Europa», a. XI, 2005, n. 1, pp. 212-34) che con ogni evidenza trae la sua intima ragione d'essere da una religiositaÁ integralista, della quale il talebanismo rappresenta la faccia «orientale» del nostro pianeta. Discutiamo qui delle tesi di Paolo Grossi, eminente accademico del diritto, e per questa ragione insignito di alte onoreficenze dal mondo universitario e politico: cursus honorum giunto al punto ch'egli oggi ricopre uno dei ruoli piu delicati dell'assetto repubblicano italiano, quello cioeÁ di giudice costituzionale. Per documentare le nostre affermazioni relative alle tesi storiche di costui citiamo a caso da una sua opera (Mitologie giuridiche della modernitaÁ, GiuffreÁ Editore, Milano 2001) quello che appare come il leit-motiv che attraversa l'intera sua produzione letteraria: «la visione pessimistica ± che Montaigne, esperto di diritto, contempla con i suoi occhi venati di un corrosivo scetticismo ± si traduce in una diagnosi puntuale di che cosa sia diventata la loy in Francia nella seconda metaÁ del Cinquecento: una norma che si autolegittima come legge, cioeÁ come volizione di un soggetto sovrano. L'organismo politico, ormai assestatosi in una robusta ± sempre piu robusta ± struttura autenticamente statuale, ha necessitaÁ di uno strumento normativo capace di contenere il fenomeno giuridico e di vincolarlo strettamente al detentore del potere, strumento indiscutibile e incontrollabile, che permetta di sbarazzarsi finalmente delle vecchie salvaguardie che parlavano, con un linguaggio sempre piu irricevibile dalla Monarchia, di accettazione da parte del popolo o di organismi giudiziarii e corporativi. La legge diventa una pura forma, cioeÁ un atto senza contenuto, cioeÁ ± per spiegarci meglio ± un atto cui non saraÁ mai un determinato contenuto a conferire il crisma della legalitaÁ, ma sempre e soltanto la provenienza dall'unico soggetto sovrano. Il quale si identifica sempre piu in un legislatore, in un legislatore ingombrante, congiungendo strettis- I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 27 In seguito, in un Italia oramai repubblicana, a testimoniare la durevole fortuna della doppiezza enigmatica del re di Francia (da una parte, il devoto, pio, timorato all'eccesso di Dio e preoccupato della vita Eterna; dall'altra il libertino, l'autoritario ma fortemente innovativo uomo di governo) penseranno gli altoparlanti delle radio. Negli anni '50 del Novecento, in una trasmissione radiofonica di successo, uno scrittore d'eccezione, Carlo Emilio Gadda, racconteraÁ di simamente la propria persona e la sua supremazia alla qualitaÁ della sua creatura normativa. E nasce quella pesante ipoteca della civiltaÁ giuridica moderna che eÁ la mistica della legge, la mistica della legge in quanto legge, una ereditaÁ dell'assolutismo regio che la Rivoluzione di fine Settecento accoglieraÁ senza battere ciglio, intensificandola e irrigidendola rispetto alle sussistenti aperture dell'antico regime sotto l'ammantamento di simulacri democratici. E, in un clima di conquistata e ostentata secolarizzazione, sacra saraÁ la legge intrinsecamente ingiusta, e sacra saraÁ la legge redatta e promulgata da un sovrano sciocco, per far nostro l'esempio offerto dallo stesso Montaigne» (p. 32-3). L'autore considera dunque una disgrazia la codificazione (p. 37) e, collegandola direttamente allo scetticismo di Montaigne, dimostra di credere nella possibilitaÁ che il diritto esprima senza dubbi e senza oscillazioni una veritaÁ ontologica, che soltanto i giuristi come casta (e non il legislatore, espressione della volontaÁ generale) sarebbero in grado di far emergere. Dunque nessuna sensibilitaÁ per la certezza giuridica, quale condizione esistenziale che richiede libertaÁ e dialettica delle idee. Si puoÁ dire ancora che il primato del Medioevo cui Grossi fa riferimento esclude tutto il filone eminente del pensiero logico parigino da Abelardo a Tommaso d'Aquino e Giovanni da Parigi, ed immagina al centro di quel sistema il mos italicus (nella sostanza giustificazione del particolarismo e dell'arbitrio), che fu presto rimosso dal mos gallicus e rifiutato dallo stesso Alciato. E, per portarci ai giorni nostri, valga un'ultima osservazione: la nostra Costituzione nacque, come sappiamo, dalla dialettica delle idee e della politica frutto della lotta al nazi-fascismo, sconfitto dall'unione di tutte le forze democratiche dei popoli del mondo civile. Tutte queste componenti politiche si ispiravano, e continuano a farlo, in egual misura (ovviamente con diverse declinazioni politiche ed ideologiche) ai risultati culturali ed ideologici del millenario percorso compiuto dalla civiltaÁ europea: la piu evoluta dell'intera storia dell'umanitaÁ. La genesi della modernitaÁ occidentale ± ed anche questo eÁ un dato di fatto arcinoto molto difficilmente contestabile (e nessuno si sogna di farlo, ad eccezione dei terroristi e dei papi, che seppure in tempi molto recenti hanno ``riabilitato`` l'eterodosso Galileo, continuano a boicottare i tanti, copiosi frutti di quella eresia, tra cui l'uso delle cellule staminali per la cura dei tumori e l'utilizzo di preservativi per la lotta all'AIDS) ± affonda le sue radici nella critica ai ``fantasmi'' ed alle ``fantasmagorie'' del mondo medievale-antico: stadio della nostra civiltaÁ superato abbondamente grazie ai risultati della critica alla legge della predestinazione. Alla luce di tutto cioÁ, mi sia concesso ancora di esprimere un personale dubbio: ma non vi pare esservi una forte, inequivocabile contraddizione, insomma un'insanabile dissidio tra lo storico Grossi, che si professa nemico delle leggi parlamentari, ed il Grossi giudice costituzionale, che ne dovrebbe essere invece garante dentro il quadro costituzionale? Il suo «dire» del diritto italiano in sede costituzionale riusciraÁ a neutralizzare il suo scrivere ed insegnare ex-cathedra contro l'intero diritto positivo, si tradurraÁ a vantaggio e nell'interesse della nostra Repubblica, che fortunatamente non s'ispira piu al quasi magico spiritualismo medievale? 28 R. Tufano, La Francia e le Sicilie un re giovane, vittima dell'oggetto del suo libertinaggio, e poi di un Luigi maturo, sempre piu azzannato nella coscienza dalla paura di cioÁ che lo avrebbe atteso dopo il momento del Santissimo Sacramento. Ma pur sempre un re lucido statista, che, ventitreenne al momento della morte di Mazzarino (per i francesi Mazarin), rispose ai suoi alti funzionari d'inviare a lui tutti i loro rapporti, e ancor piu dio della guerra: «tre piu sette piu otto piu dodici, complessivamente, trenta annetti di guerra su quarantaquattro di regno. Guerre per vero dire non tutte imputabili alla Francia: ma Luigi e la Francia e la diplomazia francese per qualche verso c'entrarono pure» 36. I due piani diversi della presenza francese, uno di dominio e l'altro di progetto sociale ed istituzionale, divennero particolarmente evidenti durante la guerra di successione spagnola, perche entrambi i contendenti si posero in netto contrasto con gli assetti tradizionali, nobiliari e feudali sia iberici sia del Mezzogiorno italiano. Infatti, l'intero contesto occidentale, in cui si collocava la scena siciliana che descriveremo nelle pagine seguenti, registroÁ proprio in quegli anni grandi rivolgimenti: i decenni a cavallo tra XVII e XVIII secolo furono talmente cruciali per lo svolgimento della storia dell'Europa e del mondo intero che Paul Hazard li individuoÁ ed indicoÁ come gli anni della «crisi della coscienza europea». Prese forma allora, dopo la fine della rivoluzione inglese ed in un clima giaÁ lockiano, il tentativo d'imporre ad una materia sociale e culturale estremamente fluida una nuova «civilizzazione», fatta di ordine e d'intellegibilitaÁ 37. A prescindere dai rilievi critici che sono stati mossi alla periodizzazione usata in quell'opera magistrale, tuttavia essa spiega bene e con dovizia di dettagli come dentro quella temperie di straordinaria intensitaÁ venne a costruirsi un'idea del vecchio Continente quale spazio circonscritto di un specifico patrimonio di conoscenze e di una 36 C. E. Gadda, I Luigi di Francia, Garzanti, Milano 1964, pp. 55-92. Le trasmissioni andarono in onda sul Terzo programma della RAI, nella serie Serate a soggetto ed il 21 ed il 23 di luglio del 1952 fu la volta del Luigi XIV: cfr. L'ingegnere e la Rai 1950-1955, a cura di Giulio Ungarelli, Nuova Eri, 1993 e S. Casini, I Luigi di Francia, in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies», 2002, n. 2. 37 P. Hazard, La crise de la conscience europeÂenne, Fayard, Paris 1961 (I ed. 1935). I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 29 peculiare mentalitaÁ 38. Per Hazard l'idea di Europa si costruõ come somma di un complesso di nazioni e di culture che, seppur possedevano dei tratti distintivi straordinariamente comuni, tuttavia si collocavano dentro la cornice di una struttura fortemente gerarchizzata. Come Marcello Verga spiega, in questo nuovo luogo identitario ± e come tale alla ricerca di cioÁ che si poteva riconoscere come «altro» da se ± il motivo della «decadenza» dell'Italia (e della Spagna) non rappresentava altro che la ricerca di un «confine» tra due aree differenti: una sviluppata, l'altra meno dello stesso Continente 39. E non fu facile per gli italiani del Settecento accettare un ruolo marginale nella gerarchia socio-politico-economica e nella scala di valori culturali che, a partire dalla «querelle des anciens et des modernes», gli altri popoli d'Europa elaboravano intorno ai concetti di politesse e civilisation 40. Il fatto rilevante emerso da quell'esperienza fu che la nuova idea d'Europa avrebbe inevitabilmente subõÂto forti condizionamenti etnocentrici: essi si celavano tra le pieghe delle diverse tradizioni sto38 Sulla validitaÁ della periodizzazione creata da Hazard, cfr. ad es. le notazioni di P. VernieÁre, Peut on parler d'une crise de la conscience europeÂenne, in Aa.Vv., L'etaÁ dei Lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, vol. I, Jovene, Napoli 1985, pp. 57-78. Su cioÁ, cfr. S. Zoli, Dall'Europa libertina all'Europa Illuminista. Alle origini del laicismo e dell'illuminismo, Nardini, Firenze 1997, pp. 18-20. 39 M. Verga, La Spagna e il paradigma della decadenza italiana tra Seicento e Settecento, in Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identitaÁ nazionale, a cura di Aurelio Musi, Guerini, Milano 2002: «un confine che per i francesi o per gli svizzeri segna la linea sottile dell'esprit e della politesse, quel confine che Muratori tradurraÁ nella formula del ``buon gusto''; e che per gli olandesi e gli inglesi segue invece la linea piu marcata e decisa dell'appartenza confessionale [...]. E sono questi i confini ± linee nette di inclusione-esclusione ± sui quali si va costruendo tra Seicento e Settecento ± in Inghilterra come in Francia, in Olanda, in Svizzera o nella stessa Italia ± l'idea di Europa: di uno spazio cioeÁ che in pieno Settecento eÁ diviso tra un'Europa del nord e un'Europa mediterranea, ed insieme tra un'Europa vera e propria ed un'Europa meno Europa, per indicare la quale s'``inventoÁ'' la definizione d'Europa orientale» (p. 51). Alle pp. di Verga rimandiamo per una chiara sintesi del problema accennato e per la bibliografia. Ancora: Id., Decadenza italiana e idea d'Europa (XVII-XVIII secc.), in «Storica», 2001, n. 22. 40 Un chiaro esempio di reazione italiana alle gerarchie delle nazioni europee che si erano consolidate nel corso del XVIII eÁ quello dello Sbozzo politico d'Europa (1771) dell'illuminista napoletano Michele Torcia, studiato da chi scrive (Michele Torcia. Cultura e politica nel secondo Settecento napoletano, Jovene, Napoli 2000) e da Anna Maria Rao, Un letterato faticatore nell'Europa del Settecento: Michele Torcia (1736-1808), in «Rivista Storica Italiana», CVII (1995), pp. 647-726. 30 R. Tufano, La Francia e le Sicilie riografiche nazionali in corso di rievocazione 41. In effetti, l'impegno diretto a delineare i complessi processi culturali che in quei decenni ridisegnarono i «caratteri nazionali» dell'uomo europeo portoÁ ad elaborare un'idea di nazione che fosse coerente con i valori «moderni». Tuttavia la nuova nazionalitaÁ subalpina rappresentava uno scarto rispetto alla lunga tradizione culturale che aveva invece lavorato intorno ai caratteri e costumi dei vari popoli europei 42. Infatti, giaÁ nell'ereditaÁ trasmessa dal Sette e dall'Ottocento al secolo successivo erano presenti alcuni impedimenti alla corretta valutazione dei «nessi», degli «incroci» e degli «intrecci» tra la storia d'Italia e quelle di altre nazioni europee. Come si sa, l'influenza del punto di vista nella selezione dei fatti eÁ determinante per ricostruire e descrivere una vicenda: ma essa, con il passare da storico in storico, da opera in opera, finisce per perdere la sua natura squisitamente «soggettiva» e acquisisce valenza «oggettiva», spesso acriticamente accettata dai paradigmi storiografici successivi. 6. Nuovi punti di vista ed una storia inedita Come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, la storiografia italiana del secondo Ottocento sottostimoÁ volutamente la condizione di fragilitaÁ e di debolezza dei principati italiani ed indulse ad accuse moralistiche contro le potenze che seppero approfittarne. Altre incertezze di giudizio nacquero dalla recezione dell'hegelismo di destra e di sinistra e da una tendenza allo spiritualismo che ostacolava le diagnosi sulle ragioni politiche ed economiche del ritardo e del sottosviluppo italiano. Di fatto l'analisi severa dell'inferioritaÁ La bibliografia sul rapporto tra etnõÁa e nazione eÁ cresciuta vistosamente negli ultimi decenni, per cui ci limitiano a citare due letture classiche nel settore delle scienze sociali: E. Gellner, Nations and Nationalism, Basil Blackwell, Oxford 1983; A. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Il Mulino, Bologna 1992 (I ed. inglese 1986 cit., nt. 5). Un buon esempio storiografico di come furono «inventate» due diversamente declinate tradizioni europee, una interamente civilizzata, l'altra half-barbarian e half-civilized eÁ offerto da L. Wolff, Inventing Eastern Europe. The Map of Civilization on the Mind of the Enlightenment, Stanford University Press, Stanford 1994. 42 Su questo aspetto richiama l'attenzione la citata (nt. 39) penetrante analisi di Marcello Verga. 41 I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 31 subalpina, sviluppata e documentata dalla letteratura illuministica, fu sostituita dalla condanna della superioritaÁ transalpina. Sulle conseguenze italiane di questo fenomeno culturale, nato dalla persistenza di metafisiche medievali ridotte a mera apparenza ed a sterile copertura del particolarismo, da sempre insiste Raffaele Ajello, del quale ricordiamo due recenti contributi di storia della storiografia giuridica e delle mentalitaÁ italiane 43. Occorre sottolineare a tal proposito che lo scontro ideologico e politico tra Illuminismo ed anti-Illuminismo non eÁ affatto una peculiaritaÁ italiana. Recentemente un importante studioso del pensiero politico moderno, l'ebreo Zeev Sternhell, eÁ tornato in uno scritto divulgativo ± sicuramente non privo di forzature polemiche, che tuttavia si giustificano per la serietaÁ e gravitaÁ dell'argomento ± sulle tracce di chi ha rifiutato i valori guida dell'Illuminismo, costruendo un percorso opposto ed antitetico; si produce cosõ una serie di errori prospettici, causa di disastri per l'intera umanitaÁ. Nelle pagine dedicate alla cultura italiana del Novecento, con molta chiarezza Sternhell sostiene che occorrerebbe sgomberare il campo da giustificazioni tortuose ed attribuire al maggiore filosofo idealista del Novecento, Benedetto Croce, la pesante accusa di «aver contribuito all'ascesa al potere di Mussolini». Questa durezza poggia su un'altra valutazione della personalitaÁ di Croce. Egli fu «una figura emblematica dell'Europa del Novecento e, se si vogliono capire le grandi ambiguitaÁ del liberalismo antilluminista, bisogna rivolgere lo sguardo a lui [...]. Sotto molti aspetti Croce interpreta in Italia il ruolo di Renan e di Taine nella Francia dell'ultimo terzo dell'Ottocento e quello di Meinecke nella Germania weimeriana» 44. EÁ certo che, per quanto si possa sfumare il tono della polemica e scegliere un approccio analitico e piu sereno, la linea di demarcazione tra Lumi ed anti-Lumi eÁ stata nel passato, e continua ad essere nel 43 Il collasso di Astrea. AmbiguitaÁ della storiografia giuridica italiana moderna e medievale, Jovene, Napoli 2002, ed in ultimo EreditaÁ Medievale Paralisi giudiziaria. Profilo storico di una patologia italiana, cit. (nt. 24). 44 Zeev Sternhell, Contro l'Illuminismo. Dal XVIII secolo alla Guerra fredda, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007, pp. 495-507. 32 R. Tufano, La Francia e le Sicilie presente, un problema eminentemente concreto e non un mero gioco intellettuale privo di conseguenze sostanziali. Anche se si adottano i toni pacati di uno storico valente come Jonathan I. Israel, la sostanza non cambia: le sue motivate accuse a Gertrude Himmelfarb (contro l'appiattire il fenomeno dei Lumi dentro la cornice accomodante, antiegualitaria, non repubblicana ed antidemocratica dell'Illuminismo inglese, negando l'importanza radicale dell'alto illuminismo francese e la sua fondazione epistemologica in gran misura non newtoniana), a John Gray, ad Alasdair MacIntyre e Charles Taylor (per i quali «i fondamenti dell'umanesimo cristiano ed illuministico sono ora del tutto erosi») sono qui accomunate a quelle di Ajello e di Sternhell: poiche le basi della novecentesca Encyclopedia and Unified Science (sperimentali), da Dewey a Bohr, Neurath, Russell, Carnap eÁ coerente con la loro esigenza di rivendicare ai Lumi il carattere critico, quale conseguenza dello scetticismo montaignano, secondo cui nessun ordine stabilito puoÁ trarre legittimazione per il solo fatto di esistere 45. A causa di questo potente influsso idealistico, la storiografia italiana meno recente ha spesso trascurato di porre a fuoco le cause strutturali delle difficoltaÁ subalpine, offrendo nuovi alibi alle giustificazioni nazionalistiche. Eppure, le fonti d'archivio francesi, spagnole, napoletane, palermitane, e le testimonianze dei contemporanei ci offrono dati sconcertanti sulle condizioni dell'inferioritaÁ italiana. Il fallimento ed il ritardo dello sviluppo peninsulare non possono essere colti e studiati con serietaÁ, se non ci si sforza di riannodare i fili sparsi delle varie storie nazionali, sistema che costituisce una trama condizionata dalle economie piu forti 46. 45 V. la recente voce di Jonathan I. Israel, Radicalismo e conservazione da lui scritta per il volume curato da Gianni Paganini ed Edoardo Tortarolo, Illuminismo. Un vademecum, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 196-208. Per il rinvio alla Encyclopedia cfr. Neopositivismo e unitaÁ della scienza, Valentino Bompiani, Milano 1973, spec. le pp. 7, 16, 27 (di Otto Neurath sull'alto valore per la costruzione delle scienze contemporanee dell'Illuminismo, sulle barriere antiscientifiche poste da Kant e dall'idealismo e sul modello scettico ed antimetafisico, integratore delle diversitaÁ rappresentato dal progetto dell'EncyclopeÂdie), p. 171 ss. (di J. Jùergensen sulla verificabilitaÁ) e pp. 177-9 (sul fisicalismo del Circolo di Vienna). 46 Sulle «connected histories» e sulla loro maggior valenza euristica rispetto alla storia comparata, cfr. Subrahmanyam, Connected Histories, cit. (nt. 7). I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 33 Com'eÁ stato giaÁ accennato, in tempi recenti in Europa si eÁ imposta una nuova sensibilitaÁ storiografica, che ha fatto passi notevoli per l'abbattimento delle frontiere culturali nazionalistiche. CosõÂ, solo per citare qualche esempio che si confaÁ al presente lavoro, due recenti letture dei rapporti tra due grandi potenze dell'Europa meridionale, la Francia e la Spagna, hanno dimostrato che, nei secoli del loro passaggio da monarchie a Stati nazionali, esse si presentavano come organismi politici aperti alle reciproche influenze, oltre che legate da una miriade di reti finanziarie e commerciali, il cui forte ascendente sui quadri generali lo storico non puoÁ sottovalutare. Un libro in particolare ha rivelato come l'influsso reciproco dei due regni avesse origini molto piu antiche della fine del Seicento e che esso fosse continuo e di tipo osmotico. CosõÂ, dismesse le lenti ideologiche interposte dalla storiografia francese dell'Otto e del Novecento, oggi eÁ possibile affermare che com'eÁ esistita una Spagna francese (a partire dall'accesso al trono di Filippo V per giungere a Napoleone), ancor prima, cioeÁ nei secoli XVI-XVII secolo, era apparsa una Francia spagnola 47. Per quanto concerne i rapporti italiani con l'Oltrealpe, eÁ da segnalare un recente contributo di De Francesco sul significato da attribuire alla breve, ma fondamentale, esperienza napoletana delle repubbliche «sorelle» 48. In dura polemica contro la vulgata che aveva creato «una dimensione civile italiana tutta declinata sul versante culturale e niente affatto su quello politico», lo storico respinge l'interpretazione moderata ± anche questa derivata direttamente da Croce ± dell'esperimento napoletano come rivelazione di una nuova identitaÁ italiana fondata sulla contrapposizione giacobinismo/sanfedismo. Anche qui, una volta tolte le lenti ideologiche della storiografia precedente, gli eventi assumono nel loro concatenarsi un nuovo aspetto. Trovano cosõ spazio centrale l'influenza dei servizi di spionaggio ± carsica eppure possente nella sua capacitaÁ di destabilizzare il terreno politico ±, la circolazione delle idee in quanto strumento di 47 Cfr., per il primo esempio, M. Zylbergberg, Une si douce domination. Les milieux d'affaires francËais et l'Espagne vers 1780-1808, Paris 1993, mentre per il secondo, J.-F. Schaub, La France espagnole. Les racines hispaniques de l'absolutisme francËais, Paris 2003. 48 A. De Francesco, 1799. Una storia d'Italia, Guerini e Associati, Milano 2004. 34 R. Tufano, La Francia e le Sicilie propaganda, la cultura non solamente come dinamismo di meri pensieri ma come espressione di una dialettica di strutture mentali profonde, che si manifesta in molte forme ed a vari livelli, fortemente interdipendenti. La storia politica riassume in se il primato di ampi e molteplici interessi teoretici, religiosi, ideologici, economici, individuali e sociali, ora convergenti ora contrastanti. Questa nuova ricostruzione svela gli arcana sottesi alla durevole persistenza di un paradigma interpretativo che aveva a lungo letto il repubblicanesimo meridionale con qualche compiacimento per le versioni letterarie e libresche, e mostra l'intrinseca fragilitaÁ di questo modo di vedere, aprendo la porta ad interpretazioni orientate a studiare la societaÁ meridionale nei suoi, che sono ben piu complessi, modi materiali di essere. Insomma, si eÁ in presenza dello spostarsi del punto di vista dalla centralitaÁ delle impalpabili e spesso retoriche idealitaÁ, fortemente caratterizzate dallo spiritualismo astratto di ascendenza hegeliana, alla valutazione concreta di ben piu corposi fenomeni globali, ricostruiti e valutati sperimentalmente. Lo stesso metodo eÁ qui usato per analizzare i grandi cambiamenti in corso nei decenni di transizione tra Sei e Settecento. L'azione di Luigi XIV sulle Sicilie procedette parallelamente alle dirette interferenze sul governo spagnolo e sulla corte di Filippo V, vicenda quest'ultima conosciuta e ben studiata da tempo 49. Alfred Baudrillart, il 49 Sulle difficilmente comprensibili logiche intime che spinsero il Re Sole a scatenare un conflitto europeo per la successione di Spagna si sofferma R. Mandrou, Louis XIV en son temps. 1661-1715, Presses Universitaires de France, Paris 1973, pp. 506-7: «les historiens apreÂs lui cherchent les raisons de l'acharnement mis en 1700 aÁ braver l'Europe, aÁ choisir encore la voie la plus difficile, comme si aÁ ses yeux la premieÂre place en Europe lui appartenait toujours; d'aucuns ont preÂtendu que toute la diplomatie du reÁgne avait eÂte axeÂe sur cette heÂritage espagnol, dont il entend s'emparer, par l'intermeÂdiaire du duc d'Anjou en 1700. Vue abusive, sans doute, mais qu'il faut seulement tempeÂrer [...]». Tuttavia la risposta piu soddisfacente va cercata dentro il complesso sistema di relazioni politiche nella corte, nel paese e in Spagna ai primi del Settecento, delle quali ci ha lasciato un'eccezionale testimonianza il duca di Saint-Simon nelle sue memorie, sulle quali cfr. ora la fine analisi di E. Le Roy Ladurie, Saint-Simon, ou le systeÁme de la Cour, avec la collaboration de Jean-FrancËois Fitou, Fayard, Paris 1997. L'approccio di questo lavoro rivitalizza le «cabale» all'interno del dominante partito di Versailles: ciascuno degli abitanti di Versailles non solamente organizza la propria esistenza secondo il rapporto amico-nemico, ma anche in accordo con il lealismo parentale, le predilezioni religiose, lo status sociale e professionale, l'amicizia ed il I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre» 35 maggiore storico di queste vicende, aveva giaÁ notato che il re di Francia conosceva tutto il personale amministrativo spagnolo, sicche nessun trasferimento, promozione o nomina all'interno dei vasti domini spagnoli poteva avvenire senza il volere regale del giglio di Francia. Lo storico francese costruisce la sua trama narrativa su questi continui e fluenti dialoghi politici tra i gabinetti parigino e madrileno. E per quanto ci concerne, egli cita, tra l'altro, una lettera del re Cristianissimo al nipote, documento riguardante due personaggi che incontreremo piu avanti come vicere di Sicilia: «laissez le marquis de Bedmar en Flandre, et choisissez, s'il est possible, un bon sujet pour la Sicile. Le cardinal del Judice ne peut y demeurer. Il vous servira bien, mais je le crois neÂcessaire aÁ Rome» 50. Le consulte del Consejo de Estado erano comunicate a Luigi XIV per essere da lui esaminate o trasmesse al ministro Torci e al duca d'Harcourt. A sua volta, le risposte francesi sugli argomenti e gli ordini sulle materie che vi erano trattate venivano poi lette nel Despacho. CosõÂ, anche l'attivitaÁ dei Consejos provinciali veniva attentamente seguita e coordinata in Francia, al punto che il conte Marcin dalla Spagna riferiva che «nous attendons sur toutes choses la deÂcision du Roy, qui est regardeÂe ici comme un ordre absolu aussi bien qu'en France» 51. punto di vista ideologico. Si tratta non solo di una complicazione del sistema cortuense ideato da Norbert Elias e di una sua «animazione» rispetto alla mera «meccanica» adesione alla regalitaÁ di Francia, ma anche di un notevole arricchimento del povero concetto di «cabala». Per quel che riguarda i «partiti» durante gli anni della guerra di successione, cfr. spec. le p. 181 ss. Oltre a quest'opera, a conferma della testimonianza di Saint-Simon sugli interessi «militari» dell'influentissimo clan Pontchartrain, si veda la recente monografia di S. Chapman, Private Ambition and Political Alliances: The PheÂlypeaux de Pontchartrain Family and Louis XIV's Government, 1615-1715, Rochester, NY 2004; mentre sui legami tra politica e guerra in Francia negli anni che precedono e che preparano la successione di Spagna, cfr. il lavoro di Guy Rowlands, dall'eloquente titolo: The Dynastic State and the Army under Louis XIV. Royal Service and Private Interest, 1661-1701, Cambridge University Press, Cambridge 2002, dal quale emerge finalmente una corretta visione storica del coacervo di interessi finanziari che legava una parte del ceto dirigente francese all'esercito e all'ideologia dell'espansionismo. 50 A. Baudrillart, Philippe V et la cour de France, Paris 1890, vol. I, p. 119 e ss., p. 121 per la citazione. 51 Ivi, pp. 120-1. 37 II LA SOCIETAÁ MERIDIONALE DALL'ANOMALIA AL COLLASSO Á PROSTRAZIONE DELLA NOBILTA E PARASSITISMO MINISTERIALE A NAPOLI 1. Guerra di successione spagnola: modelli costituzionali a confronto I meccanismi mediante cui Luigi XIV durante la successione di Carlo II condizionoÁ la vita politica della Spagna e delle Sicilie agivano in due modi, uno diretto, l'altro meno, ma altrettanto efficace. Il primo si esprimeva con precise pressioni sul governo centrale spagnolo, sui vicere di Napoli e di Palermo (che venivano scelti dallo stesso regnante francese) e sul ceto ministeriale delle due Sicilie; l'altro si manifestava attraverso le riforme istituzionali della Spagna, che ovviamente esercitavano la loro azione anche nelle province esterne alla penisola iberica. In queste ultime si tendeva ad un'utilizzazione massiccia delle giurisdizioni straordinarie, come il sindacato, per meglio fronteggiare le esigenze impellenti e indifferibili della finanza di guerra 1. CosõÂ, durante gli anni della guerra di successione spagnola, per far fronte alle spese militari ed agli straordinari prelievi fiscali, la diretta ingerenza francese negli affari politici piu delicati e le interazioni istituzionali tra Francia, Spagna e Sicilie, assunsero varie forme e imposero sensibili cambiamenti nei rapporti tra lo Stato spagnolo e le istituzioni dei due regni italiani. Tuttavia, al di laÁ delle prevedibili e quasi ovvie conseguenze congiunturali, eÁ da rilevare un fatto che eÁ sfuggito alla storiografia, ma che eÁ suffragato dalla documentazione parigina degli affari esteri: come vedremo, comparvero chiaramente all'orizzonte, quale meta ambita personalmente da Luigi XIV, alcune novitaÁ molto importanti, non di mera gestione, ma di notevole ampiezza e che possono dirsi di 1 Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla memoria del giurista all'esperienza di governo (1673-1720), cit. (cap. I, nt. 25), p. 115. Diverso il caso siciliano, su cui ivi, le pp. ss. 38 R. Tufano, La Francia e le Sicilie carattere strutturale, anzi costituzionale. EÁ certo che esisteva ed era ben concreto un costituzionalismo d'Antico Regime, mentre parte della storiografia recalcitra ad ammetterlo. Quelle regole non scritte e consuetudinarie erano sentite come vincoli forti, dotati di autoritaÁ e di prestigio soltanto nelle compagini statali piu adulte, piu consolidate, perche piu antiche; ma anche le comunitaÁ piu slabbrate raramente erano caratterizzate da uno sfascio completo. Nei momenti di crisi, dovuti all'impatto internazionale di un determinato assetto nei confronti di altri, una popolazione puoÁ rivelare la debolezza e l'inconsistenza delle strutture elaborate dai ceti al potere: ma questo fallimento, ossia lo sfaldarsi del contenitore al primo urto, non significa che esso non esisteva, ma che era fragile. Ad esempio, neanche il feudalesimo puoÁ essere squalificato come asistematico, poiche obbediva a statuti ben precisi. Le vicende di cui ci occuperemo in questo capitolo posero a confronto quattro assetti, due subalpini e due transalpini, e tutti e quattro possono dirsi (in senso lato) costituzionali. EÁ il caso di farne cenno, perche costituiscono strumenti indispensabili di semplificazione, ossia animano (per usare un linguaggio crociano) la dialettica dei distinti, ed aiutano a capire. Il modello napoletano era fondato sul potere e sulla cultura di un solo ceto, il togato (altrove robins, golillas), che aveva il vertice del suo potere nella Capitale, era colto, ma esclusivista e patriarcale, e dunque incapace di far crescere la base sociale, in particolare l'economia ed il benessere. Il siciliano, di carattere ancora prevalentemente feudale, percioÁ policentrico, fortemente agglomerato intorno ad alcuni centri di potere in continuo latente conflitto; ad essi si aggiungevano i vertici delle grandi magistrature, ossia i togati, che aspiravano a realizzare nell'Isola una soluzione simile alla `continentale', e vi riuscivano solo in parte, dando vita ad oscillazioni che ci capiteraÁ di documentare specialmente quando esamineremo gli sviluppi piu tardi di queste vicende. Alle incertezze ed alla complessiva immaturitaÁ della situazione isolana eÁ molto probabilmente da addebitare una semplificazione eccessiva compiuta dal governo francese, che privilegioÁ quali punti di riferimento i giuristi napoletani: percioÁ negli II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 39 archivi parigini eÁ piu abbondante la documentazione relativa al regno di Napoli, mentre scarseggia quella siciliana. L'assetto dei poteri e delle autoritaÁ in Francia era giaÁ ad un livello eccezionalmente adulto ed anzi si collocava tra i due piu maturi e razionali d'Europa: nelle pagine seguenti saraÁ tra i maggiori protagonisti, perche durante la successione spagnola, quando i quattro modelli entrarono in dialettica ed in simbiosi, esso era impersonato da un'autoritaÁ eminente e considerevole, per non dire geniale, come il Re Sole, oltre che da apparati diplomatici, militari, culturali, economici superefficienti e, in primo luogo, molto coesi. Lo spagnolo, che aveva raggiunto un notevole livello di stabilitaÁ, era peroÁ fondato su idee tradizionali ancora largamente acritiche ed era tenuto insieme da un'istituzione feroce e primitiva, come il Tribunale del Sant'Uffizio. Soluzione, quest'ultima, che era sua e specifica, mentre era inconcepibile in Francia, fortemente avversata a Napoli, ed adattata, quasi addomesticata, a Palermo, in modo da servire piu agli interessi dei ceti privilegiati e feudali, che ad una casta di sacerdotes dogmatici ed intolleranti. EÁ da notare che alla fine del Seicento e nel Settecento la compattezza e stabilitaÁ del modello spagnolo era entrato in crisi a seguito delle influenze francesi, che divennero ancora piu forti sul piano istituzionale durante il regno di Filippo V 2. A questa corrente sono ascrivibili Elisabetta Farnese, anche per la sua disinvoltura e per il suo personale temperamento volitivo, coraggioso, intraprendente, e specialmente Jose PatinÄo, per le sue idee sviluppate durante i suoi studi e la sua formazione padana 3. Questo quadro schematico e sommario giaÁ mostra una scala di valori: selezione riprovata da alcuni storici, che inclinano ad atteggiarsi come super-imparziali e non si rendono conto dell'errore in cui cadono. Il loro asettico ed insincero ``purismo'' nasconde l'obbedienza ai dettami dell'ultima moda, un velo di problematicismo e di agnosticismo che copre l'assenza delle idee o il crollo totale di posi2 Sul processo di nazionalizzazione della Spagna, cfr. l'importante contributo di Ricardo GarcõÂa CaÂrcel cit. in infra, p. 233, nt. 6. 3 I. Pulido Bueno, Jose PatinÄo: el inicio del gobierno politico-economico en EspanÄa, Huelva 1998. 40 R. Tufano, La Francia e le Sicilie zioni a lungo acriticamente accolte: si tende a dichiararle ipotetiche, ma non a condannarle, come sarebbe utile fare, mediante una sincera autocritica. Dichiarare sinceramente la propria diagnosi personale non solo eÁ necessario quale segno di libertaÁ, ma eÁ indispensabile per manifestare con i fatti un deciso rifiuto dei conformismi, che abbondano nella cultura italiana, e di cui eÁ difficile dire quali siano piu dannosi, i vecchi o i nuovi. La filosofia moderna si fonda sul dubbio e su una serie d'inflessibili autoanalisi critiche, il cui risultato eÁ la sfiducia nei confronti di ogni sicurezza apodittica, le proprie e le altrui. Il crollo della predestinazione dopo la fine del primo millennio, gli scismi, lo scetticismo cinquecentesco, le guerre di religione, ed il primato per un verso dello sperimentalismo scientifico e per un altro verso della libertaÁ di pensiero e di stampa sono fenomeni che si sono accompagnati alla constatazione di una norma quasi certa: lo scambio delle idee, anzi la loro appassionata ma pacifica contrapposizione, costituiscono l'unico metodo capace di mettere in crisi le certezze non razionali, ma interessate e pigre. Tutto questo puoÁ essere indicato con una parola e con un'idealitaÁ: la dialettica quale deontologia; il suo primato, ossia la necessitaÁ che la trasmissione del pensiero operi con la massima libertaÁ ed intensitaÁ. Dove questo risultato manca, il progresso muore. La dialettica eÁ figlia della scepsi razionale e metodologica, ed eÁ meccanismo sociale e non tecnica soltanto individuale e solipsistica della mente. EÁ la parte centrale della logica e corrisponde ad una luminosa epoca del pensiero teoretico occidentale, quella aurorale. 2. Profonde finalitaÁ politiche di Luigi XIV Durante la guerra di successione spagnola, sfortunatamente per il Mezzogiorno, la piega in parte casuale degli avvenimenti, l'andamento delle complesse strategie europee, ed infine le comprensibili resistenze del ceto politico meridionale, impedirono che si pervenisse a sostanziali riforme. EÁ constatazione di fatto che l'ambizioso e radicale progetto auspicato dal Re Sole fallõ miseramente. Per fortuna esso era stato preparato da una serie d'inchieste a largo raggio, molto II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 41 intelligenti e penetranti, sulle condizioni sociali, politiche ed istituzionali del Mezzogiorno, di cui sono rimaste tracce precise specialmente negli archivi parigini. La natura del tentativo, che illumina la ratio della politica di Luigi XIV, ed i motivi del fallimento sono il tema principale di questo capitolo. La presenza francese nel Mezzogiorno d'Italia, studiata finora come autoritaria forza di pressione sulla corte e sul governo napoletano ai fini della difesa degli interessi economici e commerciali della grande monarchia transalpina, ci mostra cosõ un volto inaspettato. Esso eÁ evidente in molti casi, ad esempio quando fu palese l'intromissione parigina nel processo portato avanti dal Collaterale contro l'ingerenza papale nel regno di Napoli, di cui diremo piu avanti 4. L'azione politica di Luigi XIV verso la Spagna e verso le sue «Appendici» mediterranee (secondo il nomignolo attribuito dagli uomini degli affari esteri francesi alle due Sicilie) obbediva ad una visione tipica della monarchia francese, radicata nel culto della sua antica origine, collaudata dalle tre dinastie: dunque una concezione ben piu pregnante ed idealmente significativa di quanto fu valutata dal giudizio posteriore, basato sui suoi effetti pratici 5. Come prima accennato tali opinioni erano state fortemente condizionate dall'irrazionalismo passionale romanico che contaminoÁ la ragione empirica e prudente: ne nacque una Estasi della ragione che molto raramente fu conforme al programma metodologico del primo Illuminismo 6. Questo fondamentale movimento, punto di arrivo del problematicismo moderno, avviato in quella direzione giaÁ nel pieno del medio evo francese ed inglese, era razionalista in senso «prudente» e «sperimentale», secondo gli insegnamenti del riconosciuto ``patriarca'' Locke. Del resto, la stessa ``morale provvisoria'' di Descartes (fondata sull'avvertimento secondo cui eÁ folle chi demolisce la propria casa, 4 Cfr. su questa importante vicenda giurisdizionalistica D. Luongo, Serafino Biscardi. Mediazione ministeriale e ideologia economica, Jovene, Napoli 1993, mentre sulle dirette ingerenze di Luigi XIV qualche cenno in Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla memoria del giurista all'esperienza di governo (1673-1720), cit. (nt. 1), passim. 5 Ivi, pp. 121-3; infra, cap. I. 6 Su questa importante fase relativa al passaggio dall'Illuminismo al Romanticismo, cfr. Ajello, L'estasi della ragione, in Formalismo medievale e moderno, Jovene, Napoli 1990. 42 R. Tufano, La Francia e le Sicilie vecchia e scomoda, prima di averne costruita un'altra, e sul famoso e largamente diffuso suo consiglio ai lettori ed ascoltatori, affinche diffidassero di tutto e di tutti, anche delle sue personali conclusioni) era segno del problematicismo scettico che lui stesso, Locke, e, prima di loro, Francis Bacon, avevano ereditato da Montaigne. Insomma, il pensiero di Descartes, anche se di necessitaÁ fu molto piu ambiguo di quello dei suoi piu fortunati e liberi seguaci, preludeva giaÁ alla linea sperimentale dell'illuminismo, come dimostrarono Fontenelle, D'Alembert, Diderot, l'EnyclopeÂdie, ed in Italia specialmente Antonio Genovesi 7. Uno dei punti centrali del progetto di re Luigi fu il tentativo di risvegliare le ambizioni dei baronaggi locali spagnoli ed italiani attraverso l'equiparazione con la nobiltaÁ di Francia e ammettendo la pari dignitaÁ tra Duchi e Grandi e quindi analoghi vantaggi 8. Non si trattoÁ, come a prima vista si puoÁ pensare, di una strategia diretta a conseguire un sostegno alla sua politica di riforme in Spagna e nei possedimenti del re cattolico: fu una prospettiva ben piu ambiziosa e di larghe vedute, anche se si riveloÁ impossibile da realizzare, sia in Spagna, sia, ancor piuÂ, nelle Sicilie. Ma eÁ da notare (ed eÁ un particolare di non lieve importanza, come ricordoÁ Voltaire nel SieÁcle de Louis XIV) la volontaÁ del grande sovrano di attribuire le Sicilie al Delfino (e quindi, in realtaÁ, a se stesso, ossia all'area metropolitana della Francia): questa fu una precisa richiesta del Re Sole, formulata tra l'ottobre 1698 ed il marzo 1700. Conseguimento cui egli mostrava di tenere 7 Questa linea interpretativa riguarda ancora l'attualitaÁ e va ribadita contro quella difesa con tenacia `metafisica' da gran parte del pensiero italiano. Per il caso dell'abate salernitano disponiamo della biografia intellettuale di E. Pii, Antonio Genovesi dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze 1984, mentre sulle attualitaÁ del pensiero genovesiano si rinvia ad Ajello, AttualitaÁ di Antonio Genovesi: sintesi globale della natura e critica della societaÁ italiana, in «Frontiera d'Europa», a. X, 2004, në 2, pp. 5-245. 8 Secondo Baudrillart, Philippe V, cit. (cap. I, nt. 50), p. 122 ss. «Louis XIV avait entrepris d'eÂtablir une union plus parfaite entre l'aristocratie des deux peuples par un eÂchange d'honneurs et de deÂcorations; c'est ainsi qu'il avait entendu que les grandes d'Espagne jouiraient en France du meÃme rang et des meÃmes distinctions que les ducs francËais, et que ceux-qui seraient en Espagne mis sur le meÃme pied que les grands». Tuttavia, le reazioni della nobiltaÁ interessata furono di segno negativo e il malumore trovoÁ espressione anche a Napoli, in coincidenza del viaggio di Filippo V; cfr. ivi, pp. 123-4. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 43 molto 9. Troppo chiara eÁ la ratio della pretesa francese, perche sia necessario insistere su questo particolare: mediante l'incorporazione delle Sicilie, le gelose comunicazioni marittime e commerciali con l'Oriente avrebbero goduto di una serie di porti e di tappe sicure e protette, d'importanza enorme, annullando il pericolo che s'interponesse ai piedi dello Stivale un ostacolo a quella necessaria circumnavigazione. Se questa fu la comprensibile, quasi ovvia meta sperata, l'operazione politica diretta a realizzarla adottoÁ metodi ed assunse caratteri e significati di eccezionale rilievo, la cui logica fu di per se una novitaÁ importante per l'intera storia italiana. In sintesi, si puoÁ dire che il re Luigi provoÁ ad estendere al Mezzogiorno la ratio del suo governo e dunque a sottoporla alle tecniche che avevano reso possibile portare, sotto di lui, la civilisation francese ad uno stadio di autoritaÁ internazionale e di successo mondiale, tanto da farne un punto di arrivo del grand sieÁcle e della grande Francia. Vero eÁ che, se quella direttiva fosse stata attuata, l'ordinamento delle Sicilie sarebbe stato trasformato, adeguandosi, almeno in parte, ai due piu alti e consolidati modelli politici, costituzionali e sociali che erano giaÁ maturi in Europa in quel momento, l'inglese ed il francese; la cui dialettica, mentre si andava verso il tramonto dell'antico regime, non si era ancora conclusa con la vittoria di uno dei due. Per queste ragioni il Re Sole aveva la sensazione esaltante di rafforzare ed esportare quel modello rappresentato ed incarnato dalla sua persona, nell'interesse non soltanto della sua patria ma del mondo civile. Fu questa aspirazione la carica ideale che i suoi nemici e detrattori hanno volgarizzato, attribuendole la veste 9 Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, con introduzione di Ernesto Sestan, Einaudi, Torino 1951, pp. 185-6. Per il philosophe (che disponeva della testimonianza diretta di uno degli attori principali di quella scena, il marchese di Torci) il tentativo di trattato di spartizione della Spagna, con la promessa firmata di pugno dal re di Francia e dal Delfino (ottobre 1698), venne vanificato dalle disposizioni testamentarie del re moribondo, che nominava unico erede il principe di Baviera (novembre 1698). L'operazione di assicurare alla propria Casa le Sicilie fu poi ritentata da Luigi XIV (con l'accordo dell'Inghilterra e dell'Olanda) nel marzo del 1700. Ma la Spagna rifiutoÁ la spartizione dei suoi territori e da cioÁ le conseguenze che ne scaturirono. 44 R. Tufano, La Francia e le Sicilie meno nobile dell'imperialismo, mentre alcuni hanno voluto vederla addirittura come effetto di pulsioni ecclesiastiche e bigotte. La struttura costituzionale della monarchia cristianissima era fondata sulla concorde collaborazione dei tre ordini (chi prega, chi combatte e chi lavora). Questa triade, studiata a fondo specialmente da tre illustri storici, due francesi (Duby e Mousnier) e piu di recente da uno tedesco (Otto Gehrard Oexle) e dalle loro scuole, era stata formulata fin dal secolo XI (Adalberone di Laon e Gerardo da Cambray), ed era pervenuta a costituire, insieme al mito dei Rois thaumaturges, la deontologia ufficiale della sovranitaÁ francese 10. EÁ da notare che essa era stata creata ad opera degli statisti piu ecclesiastici che regi, ed era ancora intesa quale espressione di una perfetta armonia sociale. Tracce di quella griglia interpretativa erano state presenti anche a Napoli per influenza angioina, com'eÁ stato documentato dai noti studi di Kantorowicz 11. Ma nel Mezzogiorno una novitaÁ socio-istituzionale era intervenuta durante il primo mezzo secolo del dominio spagnolo a contraddire e cancellare quella visione, trasformando ab imis fundamentis l'idea francese e medievale della societaÁ unita e diversificata nei tre ceti, tanto diversamente produttivi quanto fortemente collaborativi. L'immagine della triade sociale degli ordini o degli status era espressione religiosa e civile di un'armonia nello stesso tempo divina e sociale, metafisica ed empirica, e non a caso (come dimostroÁ Duby) era stata creata ed elaborata, sulla base dell'organicismo aristotelico, dagli ecclesiastici francesi giaÁ durante il primo secolo dopo il Mille. Ma per iniziativa di Pedro de Toledo, sancita da Carlo V, i residui di quella struttura orizzontale della societaÁ si trasformarono a Napoli rapidamente in uno schema verticale, per cui il compito di accertare e formulare gli interessi collettivi sociali era attribuito ai ministri di 10 Per Mousnier la bibliografia eÁ vasta, percioÁ rimandiamo all'ottima antologia dei suoi scritti finalmente in italiano, curata ed introdotta da Francesco Di Donato, La costituzione dello Stato assoluto: Diritto, societaÁ, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, ESI, Napoli 2002; G. Duby, Les trois ordres ou l'imaginaire du feÂodalisme, Gallimard, Paris 1978; O. G. Oexle, Paradigmi del sociale. Adalberone di Laon e la societaÁ tripartita del Medioevo, trad. ital., a cura e con introduzione di Roberto Delle Donne, Carlone, Salerno 2000. 11 Per le numerose ricerche di Kantorowicz, si rinvia ad Ajello, op. cit. in cap. I, nt. 24. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 45 toga, che si presentavano per un verso come tecnici del diritto e per un altro verso come sacerdotes juris 12. Essi erano capaci di ricevere, grazie alla loro scienza, ispirazioni misteriose su quanto eÁ da valutare come bene e su cioÁ che eÁ il male, sul giusto e sull'ingiusto. La logica della loro legittimazione si poneva percioÁ in parallelo a quella dei sacerdotes ecclesiae, anche se era in pratica con quest'ultima molto spesso in frontale conflitto. Il metodo sociologico della legittimazione sociale era sostituito cosõ da ragionamenti e giustificazioni di scienza e di razionalismo astratto. Dunque s'instaurava in apparenza un sistema giuridico di livello ideale nettamente superiore ad ogni infame materialitaÁ mondana. Atteggiamento giaÁ di per se equivoco, poiche disumano. In realtaÁ il carattere prettamente mentale e spirituale della legittimazione, rendendo impossibile il collaudo delle volontaÁ espresse dai togati, era anche uno strumento molto facile e molto produttivo a loro vantaggio affinche realizzassero e facessero prevalere inconfessabili interessi materiali, personali o di ceto 13. Questa riforma, che fu precedente circa un secolo e mezzo gli avvenimenti di fine Seicento, costituõ di essi una premessa logica, e richiede percioÁ accennare meno fugacemente alle sue ragioni originarie, al suo successo cinquecentesco, al tentativo di annullarla nel 1647, alla sua piena restaurazione dopo l'esito della rivolta detta di Masaniello, ed alle profonde conseguenze subõÂte dalla vita sociale del Mezzogiorno continentale. Quegli effetti vennero in piena luce nelle 12 Su questa fondamentale vicenda politica e le conseguenze che ne derivarono per il regno di Napoli, a causa degli «anomali» futuri sviluppi della societaÁ e delle istituzioni meridionali, rispetto alle altre «vie» di formazione dello Stato moderno nell'Europa occidentale, ha per primo richiamato l'attenzione R. Ajello, Una societaÁ anomala. Il programma e la sconfitta della nobiltaÁ napoletana in due memoriali cinquecenteschi, ESI, Napoli 1996, che rimane un modello insuperato di realistica interpretazione, a cui si rinvia per approfondimenti sugli aspetti qui sinteticamente richiamati. Ad esso si aggiungono recenti conferme ed ulteriori sviluppi di quelle tesi, dei quali daremo conto nei paragrafi seguenti. 13 L'analisi delle strutture fondamentali dell'ideologia giuridica dell'antico regime non costituisce piu un capitolo inedito della vicenda dello Stato moderno, giacche ai celebri, pioneristici lavori di Roland Mousnier, di Raffaele Ajello, di Denis Richet, ricchi di spunti, d'indicazioni metodologiche e di significative prove, si sono aggiunti in questi ultimi anni parecchi altri studi di varia provenienza disciplinare, dalla storia delle dottrine e delle istituzioni politiche, alla sociologia storica ed alla storia del diritto comparato europeocontinentale. 46 R. Tufano, La Francia e le Sicilie inchieste attivate dal Re Sole per accertare su quale tronco sociale si sarebbero dovute innestare le sue riforme. Infatti il dominio dei togati ed i loro metodi di governo, coerenti con gli interessi fiscali spagnoli, avevano creato connessioni e tendenze fortemente influenti sulle popolazioni meridionali, in particolare sulle condizioni materiali dell'economia e sulle strutture mentali e culturali piu diffuse. Sono realtaÁ storiche che eÁ necessario rievocare in quanto, pur essendo state individuate, abbondantemente documentate, descritte e divulgate in una serie di ricerche originali e di studi (da quelli di Renata Pilati ai contributi ed alle sintesi di Raffaele Ajello) nel decennio tra il 1986 ed il 1996, ancora stentano ad essere pienamente accolte dalla storiografia meridionale, che si dimostra ancor oggi spesso bloccata da posizioni formalistiche e neoidealistiche difficili da correggere. 3. I precedenti sociali ed istituzionali Il regno di Napoli era stato governato fin dal 1542 da un gruppo di potere che aveva origine, assetto e caratteri specifici; quella forma politico-istituzionale, voluta da Pedro de Toledo per contrastare la riottositaÁ e le pretese d'indipendenza della nobiltaÁ antica, rappresentava un'anomalia rispetto a tutte le societaÁ feudali e signorili subalpine e transalpine e recepiva le esigenze di accentramento tecnico realizzate in Francia da Filippo il Bello agli inizi del '300. Il governo dei togati era padrone della politica interna ed anche delle relazioni esterne con lo Stato pontificio, poiche il caotico regime giuridico vigente lasciava spazio ad arbõÂtrii interpretativi illimitati. I vicereÂ, stranieri impegnati ad arricchirsi, erano incompetenti dei meccanismi tecnici vigenti nel Regno, che i giuristi erano interessati a complicare e ad elevare oltre le cime dell'Olimpo. La massima eccezione alla regola dei vicere inerti fu rappresentata dal Toledo, uomo geniale ed energico, che impresse sulla struttura istituzionale napoletana il sigillo di una riforma capace di darle una nuova fisionomia. I nobili di spada e di Seggio rifuggivano per tradizione da studi severi e da assumere funzioni che non fossero marziali o di alto e prestigioso governo. Il ceto aristocratico operava a vantaggio della II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 47 feudalitaÁ, di cui era estrazione, e la sua coesione interna, radicata nelle vicende del passato medievale, tendeva a porsi come un contropotere autoritario rispetto alle esigenze della monarchia spagnola: essa aveva come sue esigenze principali il controllo totale del territorio ed un prelievo fiscale il piu alto possibile. In sintesi, per rimuovere questi ostacoli e per realizzare questi fini, il vicere Toledo nel 1542 espulse i rappresentanti dei nobili di spada dal suo Consiglio centrale ed istituzionale (il Collaterale) e si riservoÁ di convocarli per sentire il loro parere solo su questioni militari e solo in caso di necessitaÁ. In effetti, argomenti di quel genere erano trattati a Madrid, ed in modo segreto ed esclusivo dai comandi militari. PercioÁ, non a torto, la nobiltaÁ di spada si sentõ esclusa dalle decisioni politiche, amministrative, giuridiche di qualche importanza: anzi tradita. La particolaritaÁ («anomalia») del governo napoletano divenne la seguente: che ad impersonarlo rimasero i vertici di un solo ceto, quello ministeriale e togato, che era una componente sociale, ma negava di esserlo, per fingere di operare fuori da quella logica, super partes. Quei `parrucconi' ottennero nel 1542 da Toledo un potere quasi esclusivo. Dalle maggiori magistrature del Regno (il Consiglio Collaterale, il Sacro Regio Consiglio e la Regia Camera della Sommaria) la concezione preburocratica e ministeriale si diramava all'intero ceto forense, pletorico, famelico, parassitario, tendente a complicare i propri compiti di mediazione tecnico-giuridica ed a prolungarli all'infinito per incrementare proventi e poteri. Il ministero togato di estrazione non aristocratica impersonoÁ dunque la politica giudiziaria ed amministrativa (intesa in senso molto lato), quale gruppo egemone dal 1542 al 1735, ossia fino a poco dopo l'avvento del governo borbonico, che impiegoÁ circa un anno a realizzare una moderata riforma del sistema vigente ed il (molto) parziale ridimensionamento dello strapotere ministeriale e del suo arbitrio. Per comprendere il significato di quella lunga gestione e le sue conseguenze bisogna aver chiare le specifiche concezioni esistenziali, politiche e culturali dei togati. Essi erano esponenti di un personale tecnico portatore di mentalitaÁ decisamente non marziali e di visioni ideali in gran parte libresche, pregne di un giustizialismo e moralismo 48 R. Tufano, La Francia e le Sicilie apparente che serviva a coprire enormi interessi materiali. La soluzione realizzata nel 1542 influõÂ, dunque, fortemente nel caratterizzare il modo comune di pensare, le opinioni dominanti. La spiritualitaÁ dei dotti e dei semidotti, strutturata in direzione verticale, tra scienza juris, religione, magia, tutelata dal segreto e dalla chiusura verso l'esterno degli addetti ai lavori, era posta fuori ogni corrispondenza con la composizione sociale, e quindi era estranea all'idea francese dell'equilibrio e dell'armonia funzionale dei ceti. Questa fu una differenza profonda e sostanziale, che indebolõ il significato sociale e collaborativo delle regole giuridiche, ne rafforzoÁ la matrice metafisica, esaltoÁ le subtilitates juris, squalificoÁ il metodo sperimentale sul piano sia sociologico sia economico, depresse la moderna, razionale ed illuministica tendenza al pragmatismo. La mentalitaÁ dei sacerdotes juris e la logica della loro legittimazione era parallela a quella dei sacerdotes ecclesiae, anche se si poneva con questa in posizioni spesso decisamente conflittuali. La soluzione di puntare per il governo del Regno sulla toga contro la spada era stata suggerita a Carlo V dal vicere Toledo, fu dopo alcuni mesi, nel 1542, accolta dall'Imperatore, ottenne poi la piena conferma da Filippo II e si radicoÁ in un nuovo assetto istituzionale. A seguito di quella riforma il primato sacerdotale dei togati si rafforzoÁ al punto di sostituirsi all'autoritaÁ, oltre che degli apparati feudale e nobiliare di spada, anche dei vicere spagnoli: trasmise alla societaÁ concezioni parassitarie, fondate sulla gestione e sul commercio dei beni pubblici, delle rendite e degli uffici, e non sulla produttivitaÁ reale. Gli impieghi di rischio furono svalutati dalla concorrenza d'investimenti piu comodi, sicuri, mobili, vincenti: collocare capitali e risparmi nella gestione del patrimonio statale. Presto i togati si erano resi conto peroÁ che non era possibile procedere all'infinito nella vendita di beni pubblici ai capitalisti e redditieri privati (ossia spesso a loro stessi) per soddisfare le insaziabili esigenze fiscali della corte madrilena. Emerse la necessitaÁ di porre limiti alla politica di alienazione di quel patrimonio, perche i gestori privati, spogliati dalla crescente concorrenza creata da ulteriori vendite di uffici fittizi e privi di funzioni reali, si sentivano autorizzati a realizzare, mediante la prassi generalizzata delle estorsioni, il `giusto' II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 49 reddito del capitale anticipato. Di conseguenza la corruzione era diventata regola di Stato, e per le magistrature centrali era irrealizzabile conservare un qualsiasi controllo del sistema. L'alienazione dei beni pubblici avveniva in molte forme, ad esempio, con l'infeudazione delle UniversitaÁ e dei casali, oppure con la vendita delle giurisdizioni e di ogni genere di uffici, per una o per piu vite. Il loro numero fu accresciuto ben oltre le reali esigenze funzionali, soltanto per ricavarne il capitale in anticipo e non il reddito graduale. La capitalizzazione del reddito presunto di ciascuna e di tutte le rendite fiscali e la loro attribuzione ai privati, previo anticipo del gettito previsto, imponeva al governo di trovare entrate fiscali sempre nuove, il cui reddito potesse essere capitalizzato ed alienato. Gli effetti di quella politica di creazione illimitata del debito pubblico, il cui gettito era in gran parte trasferito ed esportato verso lo Stato dominante, generava effetti che erano per il ministero togato preoccupanti da due punti di vista. Quello interno, perche si dava modo al sistema feudale di estendere la sua sfera d'influenza fino a stringere d'assedio le grandi cittaÁ demaniali e persino la capitale. Inoltre, guardando alla scena internazionale, l'alienazione dei vecchi capisaldi strategici piu delicati esponeva le coste alle scorrerie nemiche e ad eventuali invasioni, previo accordo con i titolari dei diritti su quelle terre: ossia pregiudicava a priori la difesa del Regno, ed attribuiva alla grande feudalitaÁ una capacitaÁ di contrattazione internazionale, inversamente proporzionale alla loro mortificazione interna, e da quest'ultima animata per rivalsa. Quest'ultimo particolare serve anche a fornire motivi concreti ad una particolaritaÁ che fu da molti analisti notata: la popolazione del regno di Napoli era sempre alleata dei nemici dello stesso Regno, pronta a schierarsi contro chi cercava di difenderlo. Tutto questo eÁ palese nelle eloquenti trattazioni, per ovvi motivi quasi sempre anonime, richieste dal governo parigino a numerosi esperti, e ben conservate nell'archivio degli Affari esteri. L'immagine che ne ricava eÁ di una societaÁ dissennata, che non si regge in piedi, un mucchio di pietre senza architettura, che neppure crede ad un eventuale costruttore capace di metterle l'una sull'altra in modo da rappresentare qualcosa di diverso da un mero ammasso di rovine. In 50 R. Tufano, La Francia e le Sicilie realtaÁ, questa valutazione eÁ in netto contrasto con quanto qui eÁ stato anticipato sui modelli costituzionali: il collasso sociale fu il preciso risvolto del progetto togato, patriarcale, spirituale, in realtaÁ compromissorio ed insincero, ossia del tutto inaffidabile. I togati apparivano gli strumenti del potere straniero. Quello dominante era giudicato tanto rapinatore ed indifferente alle sorti del Mezzogiorno da non poter essere peggiore di qualunque altro nuovo, che quanto meno godeva di un pregio: la novitaÁ. La societaÁ era disprezzata dal togato perche incolta e superstiziosa, irrazionale: eÁ ovvio che essa reagisse odiando non solo i rappresentanti dello Stato, ma la stessa istituzione. 4. La crisi della societaÁ meridionale nella sua fase estrema Lo sfacelo ideale testimoniato in modo incontrovertibile dai documenti inviati dalle Sicilie a Parigi in vista della successione spagnola, redatti dagli osservatori francesi o da esperti di loro fiducia, dimostra che quella crisi era, rispetto all'intera Europa, anomala ben piu di quanto fosse stato giaÁ singolare ed anomalo il sistema costituzionale del Regno di Napoli, le cui linee essenziali sono state descritte all'inizio di questo capitolo. Tra le due anomalie appare chiaro un nesso logico di causa e di effetti. Vari segni mostrano che il livello di disgregazione raggiunto negli ultimi decenni, era la conseguenza di un assetto che, stabilizzato ed ulteriormente rafforzato dopo l'esito fallimentare della rivoluzione del 1647-1648, ormai non offriva ne possibilitaÁ di redenzione, ne speranza di riscatto. Di fronte al monotono ripetersi e riprodursi dell'abiezione, la societaÁ meridionale vedeva come uno sbocco ambito ogni tipo di novitaÁ: una situazione peggiore dell'attuale appariva irrealistica, e dunque era razionale e concreta la prospettiva di passare da una servitu ad un'altra, forse meno pesante, comunque nuova. Non eÁ possibile documentare largamente questa diagnosi, che comporta un confronto tra le testimonianze tardoseicentesche ed il diverso clima sociale vigente alcuni decenni prima: ma non eÁ questo il luogo per esaminare la storia della societaÁ meridionale aldilaÁ dei limiti cronologici entro cui procediamo. Valga soltanto il richiamo di alcuni episodi e segni molto chiari. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 51 Il precedente di maggior rilievo eÁ nella rivoluzione esplosa dal febbraio all'agosto del 1547 contro gli spagnoli ed in particolare contro Pedro de Toledo: per le strade si era gridato da alcuni «Francia, Francia» e da altri, piu moderati, «morte al Vicere e viva Carlo V» 14. La sommossa popolare assunse allora caratteri di estrema violenza ed energia, e fu segretamente sobillata dalla nobiltaÁ di spada che da cinque anni era stata espulsa dal Collaterale e mordeva il freno per ritornare in corsa nella gestione del potere politico. La scintilla piu folgorante nacque dall'odio degli aristocratici contro il vicere e contro il ministero togato, responsabili del nuovo corso politico che li aveva emarginati. La volontaÁ e capacitaÁ di lottare fu il segno di un carattere ben diverso rispetto all'inerzia testimoniata dal popolo napoletano nei decenni finali del Seicento ed anche nella rivolta del 1701, detta di Macchia. Gli scontri del 1547 costarono circa duemila vite ai militari spagnoli residenti a Napoli ed alle loro famiglie, ed i rivoltosi si abbandonarono ad atti di una barbarie primitiva, inconsueta in popolazioni che erano cristiane (sia pure in modo epidermico e tradizionale), ma in primo luogo fondamentalmente scettiche e profondamente disilluse. Vero eÁ che in quel caso ed in altri agõÂ, come spinta alla violenza, la superstizione pilotata dai monaci e dai preti, portatori di mentalitaÁ omogenee con i miti, le fantasie e le tendenze irrazionali della popolazione. Presso di essa quei chierici godevano di un credito illimitato e temevano l'Inquisizione spagnola come strumento diretto a sindacare le loro libertaÁ ed i loro costumi, sempre profondamente `sregolati' e spesso tutt'altro che irreprensibili. Piu tardi analoga fu la violenza EÁ da notare che nella Storia di Napoli, vol. V, 1, Napoli 1972, pp. 3-179, la narrazione della rivolta del 1547 occupa lo spazio di poche righe, dove (tra l'altro) si sostiene l'assurda ipotesi che Toledo intendesse introdurre a Napoli l'inquisizione romana, mentre il pericolo (giustamente) temuto era che quel tribunale fosse «ad uso di Spagna»: soltanto in questo caso il sistema costituzionale del Regno sarebbe stato privo di difese, mentre contro gli atti provenienti da Roma o da autoritaÁ estranee alla monarchia cattolica avrebbe sempre potuto agire il filtro dell'exequatur. L'importanza e complessitaÁ della rivolta ha raggiunto un ben altro livello di coscienza critica negli studi piu recenti, specialmente di Aurelio Cernigliaro e della Pilati, e di quest'ultima eÁ imminente la pubblicazione di un'ampia analisi sui motivi e sugli sviluppi di quell'episodio. 14 52 R. Tufano, La Francia e le Sicilie manifestata dal popolo persino contro il suo Eletto Storace: segno di una reattivitaÁ che i documenti di fine Seicento dimostrano spenta. Nel 1547 (come poi nel 1701) la cultura del governo, caratterizzata da un colorito giuridico prevalentemente tradizionale e medievale, non poteva appoggiare Toledo, contro cui era comprensibile l'ampio sospetto che volesse perfezionare il nuovo sistema costituzionale di toga, da lui ideato, assicurandosi con il Sant'Uffizio ad uso di Spagna la gestione di uno strumento di controllo terrificante, e da rivolgere (come avveniva nel sistema costituzionale della monarchia cattolica) contro tutti, compresi gli stessi magistrati del re. Uomo temerario, don Pedro commise l'errore di sottovalutare la forza dell'odio generale contro l'Inquisizione, descritta dai `santoni' e percioÁ vista dal popolo come una specie di mostro, come una magia demoniaca, piu che come un tribunale. Contro cui era ovvia l'ostilitaÁ degli intellettuali. Da parte loro, i nobili temevano che Toledo, dopo aver sottratto al loro ceto il potere, volesse appropriarsi anche dei loro beni: le accuse di eresia, segrete ed anche palesemente infondate, erano seguite dal sequestro dei beni e spesso avevano questo fine. Neppure in occasione degli avvenimenti che generarono la rivoluzione del 1647-1648 la popolazione meridionale mostroÁ tendenze alla debolezza ed alla remissivitaÁ. Essa anche allora fu usata come strumento e come massa di manovra dai leaders dei gruppi sociali egemoni, e questa volta non dalla nobiltaÁ, bensõ dai togati. Nei decenni seguenti la riforma del 1542, la Cancelleria, ossia i reggenti togati del Collaterale (che erano quasi tutti di estrazione borghese) avevano maturato un buon livello di responsabilitaÁ nel governo e si erano mostrati poco inclini ad accrescere il ritmo dello sfruttamento fiscale, ossia erano favorevoli a selezionare le partite fiscali da alienare e le gabelle da imporre e restii ad incrementare ulteriormente la svendita di quei cespiti. Ad esempio, come ha dimostrato Silvio Zotta, si erano opposti decisamente ad istituire la gabella della frutta, poiche avevano previsto quali effetti la nuova imposta avrebbe avuto 15. I 15 S. Zotta, Napoli e Venezia al tempo dell'interdetto, in «Ape ingegnosa», 2002, në 1, pp. 145-212, e në 2, pp. 143-234. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 53 nobili dei Seggi, invece, si dimostravano disposti a qualunque soluzione pur di recuperare le vecchie posizioni politiche egemoni nel governo centrale napoletano, perdute nel 1542. Cercarono percioÁ di riguadagnarsi con ogni mezzo l'appoggio della corte spagnola, che ottennero. In conseguenza della fiducia spagnola un numero crescente di giovani dottori, rampolli dell'aristocrazia di Seggio (i cosiddetti ``togati con spadino'' 16) fu gradualmente inserito nel Collaterale, al posto dei giuristi piu indipendenti e piu rigorosi. Infatti nei primi decenni del Seicento fu registrata (nei fascicoli ancor oggi conservati del Collegio dei Dottori) una maggiore percentuale di laureati di ceto aristocratico 17. Quando nel Consiglio i nuovi cancellieri di provenienza nobiliare, proni alle decisioni spagnole, raggiunsero una netta prevalenza, la gabella sulla frutta fu creata e la rivoluzione esplose. I togati di provenienza borghese, inaspriti dalla chiusura dei loro sbocchi professionali, avevano aspettato che la svolta maturasse ed avevano impresso una spinta alla protesta popolare, che comunque si dimostroÁ vigile, attiva, estremamente energica. Tuttavia nel 1648 l'esito della rivoluzione, con la cosiddetta datio in solutum delle rendite fiscali (ossia con il provvedimento che privatizzoÁ la gestione degli arrendamenti), sancõ la vittoria del parassitismo economico e statale togato. Come scrisse negli Avvertimenti ai nipoti Francesco D'Andrea, da allora in poi i dottori provenienti dalla nobiltaÁ di Seggio e ad essa obbedienti quasi scomparvero dalla composizione del Collaterale, e furono messi comunque in netta minoranza. Come ha dimostrato Imma Ascione, i reggenti borghesi in piu occasioni fecero balenare contro il governo madrileno la minaccia di scatenare una rivolta simile a quella del 1647 18. In definitiva, a pace 16 S. Di Franco, Alle origini di una rivolta. Linguaggio politico e scontro sociale a Napoli in un memoriale manoscritto del 1640, in «Frontiera d'Europa», a. VII, 2002, në 1, pp. 42114. Bibliografia sul tema, infra, nt. 151: fondamentale la sintesi di Rovito. 17 I. Del Bagno, Legum doctores. La formazione del ceto giuridico a Napoli tra Cinque e Seicento, Jovene, Napoli 1994, ed inoltre Ead., Il collegio napoletano dei dottori. Privilegi, decreti, decisioni, Jovene, Napoli 2000. 18 I. Ascione, Introduzione all'edizione degli Avvertimenti ai Nipoti di Francesco D'Andrea, Jovene, Napoli 1990, per le minacce del ceto togato al governo spagnolo. Di assoluta evidenza eÁ la descrizione del D'Andrea, per il quale dal 1648 in poi «tra lo spazio di 48 anni, 54 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ristabilita, il dominio del ministero togato si rafforzoÁ nettamente e divenne totale. Fu la vittoria del parassitismo, risultato che pesoÁ anche sulla cultura giuridica progressista. Francesco D'Andrea, nominato Avvocato Fiscale della Sommaria dal vicere Santisteban, rimase in carica ben poco: fu indotto a dimettersi avendo constatato che era impossibile riformare lo status quo parassitario, difeso dagli stessi suoi colleghi di toga 19. E poco mancoÁ che il geniale giurista non fosse coinvolto nel processo contro i cosiddetti ateisti, macchina processuale che costituõ il segno della vittoria degli ecclesiastici piu retrivi, interessati a depurare il fronte togato perseguitandone ed espungendone i giuristi critici di cultura e di vita etica sociale ``moderna''. Il risultato fu che cinque anni d'ingiusta prigione furono imposti a Giacinto De Cristofaro, un togato onesto, rigoroso, intellettuale eclettico e `moderno', d'indirizzo galileiano e cartesiano. Egli faceva l'avvocato per vivere: ma era un'autoritaÁ nelle ricerche in campo matematico 20. Il quadro che si eÁ cercato di tracciare in questo paragrafo ha l'intento di fare da sfondo alle testimonianze sull'inerzia, sull'abulia, sulla quasi incredibile indifferenza manifestata dal popolo napoletano in vista della successione (prima) spagnola (poi polacca), e degli avvenimenti tumultuosi che piu volte portarono eserciti stranieri alle porte della CittaÁ ed imposero cambiamenti di dinastie. A mostrare qualche interesse per le vicende internazionali furono i nobili di spada nel 1701, ed i togati con ripetuti interventi letterari nelle polemiche di diritto pubblico. La messe maggiore di testimonianze eÁ nelle memorie anonime che sono conservate a Parigi e di cui alcune saranno esaminate qui di seguito. GiaÁ la pubblicazione da parte di Marco Miletti, nel 1996, di una di esse, conservata in Vaticano, aveva mostrato l'importanza di questa crisi di fine Seiveggiamo non essere stati occupati piu di cinque soli [posti] da cavalieri di piazza», perche essi «si viddero chiusa quella strada per la quale stimavano li spagnoli avessero bisogno di loro»: ivi, pp. 155-6. 19 Ascione, Il governo della prassi. L'esperienza ministeriale di Francesco d'Andrea, Jovene, Napoli 1994. 20 Sui tempi qui indicati, L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti (16881697), Ediz. Storia e letteratura, Roma 1974: riguardano De Cristofaro le pp. 165-246. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 55 cento 21. Il fenomeno, tuttavia, acquista ora una consistenza diversa, perche s'inquadra nell'azione diplomatica promossa da Luigi XIV, diretta a realizzare una netta inversione nella politica dominante. La strategia cetuale francese riveloÁ l'intento di pervenire ad una revisione del dominio togato e dei suoi metodi, a demolirne il significato patriarcale ed esclusivistico. Ripristinare le rappresentanze sociali era segno della necessitaÁ di riconoscere i caratteri dialettici e complessi della societaÁ e significava dunque condannare come sostanzialmente passiva e parassitaria l'inerzia tirannica dei togati, specialmente in campo economico: a parte la loro capacitaÁ di contrastare (sul piano di una diversa, ma egualmente `deduttiva', razionalitaÁ) l'invadenza romana. Il potere del Collaterale, rafforzato e reso ancor piu sicuro di se dopo l'esito della rivoluzione del 1647-48, appariva responsabile sia della prostrazione nobiliare, sia del comportamento popolare neghittoso e passivo, inconsueto nella storia meno recente di quella comunitaÁ. 5. La politica sociale del Re Sole: ostacoli esterni ed interni Su questa condizione di difficoltaÁ e d'inerzia della parte popolare ed indirettamente dell'intera societaÁ delle Sicilie operoÁ l'impatto della politica francese, diretta a ristabilire un meno sperequato equilibrio tra i ceti e quindi ad infondere coraggio alla nobiltaÁ di spada, collegandone la dignitaÁ e le sorti ai valori espressi dall'aristocrazia francese. Come vedremo, questo carattere totalmente francese della Successione, e le conseguenze non tutte lusinghiere per la nobiltaÁ napoletana, furono ben chiare a Tiberio Carafa, uomo orientato nettamente verso la soluzione imperiale viennese. Certo, anch'egli sperava che gli avvenimenti determinati dalla morte di Carlo II avrebbero cambiato l'assetto sociale e costituzionale del potere togato nel regno di Napoli: e fu infine disilluso. EÁ facile immaginare quanto la mortificazione del potere ministeriale fosse sgradita agli 21 M.N. Miletti, «Per scuotersi il giogo ispano». La nobiltaÁ napoletana chiamata alla rivolta da un memoriale del 1688, in «Frontiera d'Europa», a. II (1996), në 2, pp. 151-243. 56 R. Tufano, La Francia e le Sicilie uomini di toga, che avevano creato quel regime sotto il governo di Pedro di Toledo nel 1542 e l'avevano restaurato con la rivoluzione del 1647-48 contro il (per altro dissennato) tentativo spagnolo di ritornare al primato della nobiltaÁ feudale. Nella parte continentale delle Sicilie, a differenza che a Parigi, la nobiltaÁ di spada, era stata fin dal 1542 espulsa dai centri decisionali politico-giuridici (in primo luogo dal Consiglio Collaterale), ed in seguito a quell'emarginazione era stata prostrata e snervata durante oltre dodici decenni, tanto da presentarsi divisa al suo interno, e da essere mero strumento della struttura giudiziaria ed amministrativa di toga, usato e messo in moto solo quando essa trovava utile servirsene 22. L'idea francese di una nobiltaÁ di spada ancora pienamente adeguata alla dignitaÁ, al prestigio ed alle funzioni militari dei milites era fumo negli occhi dei togati. Infatti, le notizie fornite dagli espions francesi nel regno meridionale continentale non assicuravano al re di Francia il successo dell'iniziativa a favore del baronaggio, di fronte al problema della capitale napoletana, dove ± affermavano tutti concordemente ± il ceto togato governava appieno. Lo strapotere dei ministeriali sulla debole nobiltaÁ feudale eÁ infatti al centro di ogni diagnosi francese ed italiana sulle condizioni del regno continentale presente nella documentazione francese 23. In questo quadro eÁ ovvio che gli interlocutori napoletani 22 Cfr. a tal proposito la testimonianza del vicere von Althann in R. Ajello, Il vicere dimezzato. Parassitismo economico e costituzionalismo d'antico regime nelle lettere di M.F. von Althann, in «Frontiera d'Europa», a. I, 1995, në 1, pp. 122-220. Da parte loro, i nobili rifiutavano persino di partecipare alla difesa costiera. 23 Temi giaÁ presenti in Tufano, Giovanni Brancaccio, cit. cap. I, nt. 25, ma qui sviluppati piu ampiamente. Tuttavia nessun cenno eÁ fatto alle condizioni dell'isola nella documentazione presente negli archivi degli esteri francesi. Questa mancanza d'interesse per la Sicilia anzi lascia intendere la diagnosi seguente: che la conquista di Napoli portasse come ricaduta inevitabile l'acquisizione della Sicilia. L'apparenza sembra dimostrare una mancanza totale di sensibilitaÁ politica riguardo la questione isolana. Sicuramente durante la guerra di successione spagnola la scelta parigina dell'interlocutore togato napoletano fece da barriera ai rapporti diretti di Luigi XIV con la Sicilia. Ma il corso del Settecento mostreraÁ alla classe politica francese una diversa realtaÁ: dietro un'apparente somiglianza delle istituzioni giuridiche centrali delle due parti del regno, parecchi decenni di governo spagnolo avevano permesso lo svilupparsi di dinamiche socio-politiche molto differenti (sulle quali la storiografia sulla Sicilia ci ha finora detto molto poco) che alla fine produrranno una situazione conflittuale tra Napoli e Sicilia, giaÁ presente in maniera notevole a partire dagli anni '30. E di questi contrasti sapraÁ fare tesoro la diplomazia francese del secondo Settecento. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 57 tendessero a conservare in modo esclusivo il loro primato nei rapporti con Parigi, ed a ridurre al minimo gli interventi della nobiltaÁ siciliana, testimone di un assetto del potere centrale che nell'isola dava spazio anche agli ecclesiastici nel Parlamento generale palermitano, che era ancora funzionante, a differenza di quello napoletano non piu convocato dopo il 1642. Per governare questi due regni il re di Francia puntava decisamente verso il rafforzamento dell'esecutivo ed alla collaborazione della feudalitaÁ, ch'egli intendeva conquistare restaurando e ridefinendo le gerarchie ed i ranghi delle nobiltaÁ franco-ispano-italiane, entro un ambito geografico vasto quanto l'intera Europa meridionale. I segni dell'integrazione delle tre nobiltaÁ venivano trasmessi nelle Sicilie con la regale corrispondenza che s'intrecciava in quegli anni tra Versailles ed il regno meridionale: mon cousin sono chiamati il principe di Santo Buono, il duca di Giovinazzo (fratello del cardinale Del Giudice), il principe di Castiglione, il principe di Bisignano, il principe di Poggioreale, il duca di Sessa, il principe di Avellino, il duca d'Atri, il principe di Piombino. Secondo le intenzioni del re di Francia, la dismissione dell'uso del titolo formale avrebbe permesso al nobile-feudatario siciliano di sentirsi parente prossimo del Re Sole, quasi membro della Maison Royale: come fosse il portatore, in partibus infidelium, del prezioso sangue dinastico della Francia 24. EÁ chiaro l'intento politico-soInfatti, proprio sulla spaccatura della classe dirigente meridionale e sulle divisioni «nazionali» tra regno continentale ed insulare, una parte dell'apparato degli affari esteri francesi lavoroÁ per destabilizzare il governo napoletano e sganciarlo dalla tutela spagnola, come abbiamo cercato di dimostrare infra, capp. IV (§ 8), VI e VII. Cfr. anche i volumi XXXII-XXXIII di B. Tanucci, Epistolario, a cura di Roberto Tufano e Valeria Sapienza, SocietaÁ napoletana di Storia Patria, in preparazione. 24 V. la corrispondenza tra il re di Francia e la nobiltaÁ siciliana in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, passim. «Un roi (ou regent) de France n'utilise, en dialoguant, les termes de treÁs proche parente (mon oncle, mon freÁre, mon neveau) que dans le cadre d'une consanguinite treÁs proche (freÁres, fils de freÁres, cousins germains); cela permet aÁ Sa Majeste de mettre aÁ part les porteurs du plus preÂcieux sang dynastique de la France (la ``Couronne''), par contraste avec les parents plus eÂloigneÂs (princes du sang), auxquels le roi s'adresse en les titrant, et qui font seulement partie de la ``maison reÂgnante''. Le fin du fin du titre serait donc dans ce cas, pour personnage treÁs haut placeÂ, de n'en pas avoir, et d'eÃtre simplement, vis-aÁ-vis du roi, mon oncle ou ma cousine»: Le Roy Ladurie, Saint-Simon, cit. cap. I, nt. 49, p. 86. La nobiltaÁ francese, come nota G. Chaussinand-Nogaret, La noblesse 58 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ciale di Luigi XIV: reso esperto dai brucianti avvenimenti della Fronda, quando i togati avevano «oltrepassato il segno» delle loro funzioni e dei loro poteri «fino a straordinari eccessi», il Re Sole indicoÁ «pour l'instruction du Dauphin» il criterio che il re «appartiene al popolo», ossia ai tre ceti senza esclusioni, come «il popolo appartiene al re» 25. EÁ difficile immaginare il regno di Luigi XIV senza la presenza di un'ideologia delle divisioni sociali che ponesse in maniera enfatica il problema del rango, considerato un elemento fondamentale nella ricerca di stabilitaÁ sociale 26. L'ideologia nobiliare delle gerarchie e ranghi giocava anche un ruolo fondamentale nella creazione delle cabale: cioÁ avrebbe potuto comportare di ricomporre e ridistribuire su un territorio geografico piu ampio il significato sociale e rappresentativo sia della monarchia francese sia dei gruppi d'interesse che la impersonavano e rendevano vincente. Era tale, per il Re Sole, l'antico ideale franco e francese espresso dalla costituzione parigina, certo non la sua esigenza di estendere il dominio personale. Versailles sarebbe allora divenuta la vera holding di tutta la serie di cabale delle corti dominanti sulle regioni acquisite con la Successione e la centrale ideologica della nobiltaÁ dell'Europa meridionale. Per il Re Sole si trattava nella pratica di allargare su una scala geografica piu vasta, che comprendeva la Spagna ed i suoi domini, la politica di «nazionalizzazione» delle gerarchie, giaÁ sperimentata con molto successo dall'avo Luigi XIII, aggiungendo ad essa la consolidata pratica politica spagnola verso il feudaleau XVIIIe sieÁcle, EÂdition Complexe, Bruxelles 2000, p. 11, era innanzi tutto nazionalista anche se non chiusa: tendeva a riconoscere quella delle province annesse (Corsica e Lorena), assimilava anche elementi stranieri (Svedesi, Tedeschi, Polacchi, Svizzeri e gli emigrati giacobiti), ma per fare di tutti dei regnicoli. 25 Cfr. i MeÂmoires de Louis XIV pour l'instruction du Dauphin (1661-1668), disponibili in varie edizioni (ad es. Jean Longnon, Paris 1927), dove queste idee sono espresse nel lib. II, anno 1661, sez. 2. 26 Cfr., oltre gli autori citati nella nota sub 24, le acute osservazioni sull'argomento di D. Parker, Class and State in Ancien ReÂgime France. The road of modernity?, Routledge, London-New York 1996, passim, ma spec. le pp. 136-73. Sull'enfasi posta dal Re Sole al riguardo delle distinzioni di rango, cfr. anche R. A. Jackson, Peers of France and princes of the blood, in «French Historical Studies», vol. 7 (1971), pp. 43-44, J.-P. Labatut, Les ducs et pairs de France au dix-septieÁme sieÁcle: eÁtude sociale, PUF, Paris 1972 e H. A. Ellis, Boulainvilliers and the French Monarchy: Aristocratic Politics in Early Eighteenth-Century France, Cornell University Press, Ithaca 1988. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 59 simo, il cui ordinamento «s'inseriva in uno Stato patrimoniale e prebendale, come forma strutturale di una parte di amministrazione» 27. Il re di Francia mostroÁ una notevole presunzione di fronte alla natura complessa delle identitaÁ nobiliari ed alla forza del ceto togato napoletano, e cioÁ determinoÁ in parte il fallimento del suo progetto nell'Italia del sud. A tal riguardo eÁ significativa la posizione di Saint-Simon che si mostroÁ in netto disaccordo con il proprio signore. Nell'affermare la superioritaÁ della corte di Versailles sulla madrilena, il duca rifiutava l'idea di una contaminazione di sangue: i rozzi nobili spagnoli, differentemente dai francesi, ad esempio, «n'observent entre eux aucun rang d'anciennete ni de classe [...] ainsi ils se rangent les uns apreÁs les autres comme le hasard les fait se rencontrer» 28. Dietro le insolenze del prolifico memorialista alla nobiltaÁ estera stava una visione del secondo ordine come universo fluido che contemplava un'infinita varietaÁ di distinzioni interne di livello e grado, tutto il contrario di cioÁ che invece pensava il teorico progressista Boulainvilliers, per il quale la nobiltaÁ francese era invece un blocco unico, cioeÁ una sostanza, ragione per la quale egli arrivava a proporre la perfetta eguaglianza dei nobili tra di loro 29. Il fallimento della politica di Luigi XIV volta a favorire le aperture internazionali dei reseaux aristocratici francesi sembra smentire la 27 La citazione eÁ di M. Weber, Economia e societaÁ, IV, Sociologia politica, Milano 1980, p. 175, cui fa riferimento A. Musi, Il feudalismo nell'Europa moderna, Il Mulino, Bologna 2007, p. 65 e ss., che spiega bene il ruolo giocato dal feudo come collante del complesso reticolo di relazioni fra realtaÁ statuali entro il sistema imperiale spagnolo tra XVI e XVII sec. Sulle origini spagnole del difficile rapporto instauratosi nel regno di Napoli tra la feudalitaÁ e l'apparato statuale capitolino, alla cui base stava il fenomeno politico della mediazione ministeriale, cfr. A. Cernigliaro, SovranitaÁ e feudo nel Regno di Napoli (15051557), Napoli 1983, Ajello, Una societaÁ anomala, cit. (nt. 12) e i suoi numerosi lavori successivi diretti a ricostruire anche le ripercussioni di quella novitaÁ cetuale nei secoli seguenti. Un buon esempio di «nazionalizzazione» delle gerarchie ci eÁ offerto dalle nomine a vescovo fatte da questo regnante, su di cui v. M. PeÂronnet, Les EÃveques de l'ancienne France, EÂditions de l'Universite de Lille-III, Lille 1977, vol. I, p. 513, il quale ha notato che «Louis XIII vise aÁ briser les solidariteÂs geÂographique, et cela aboutit aÁ faire de l'eÂpiscopat un corps national, aÁ l'aire de recrutement nationale». 28 Cfr. MeÂmoires, cit. infra, nt. 35, t. II, p. 124 ss.. 29 Cfr. su costui i primi capitoli del volume di G. Chaussinand-Nogaret, Le Citoyen des LumieÁres, Complexe, Bruxelles 1994, e F. Furet, L'Atelier de l'histoire, Paris 1982, p. 175. 60 R. Tufano, La Francia e le Sicilie possibilitaÁ di pensare le relazioni internazionali d'antico regime sul modello d'una teoria generale dell'economia. In effetti, come abbiamo notato dalla reazione di Saint-Simon (e come c'insegnano, tra gli altri, Max Weber e Raymond Aron) il collocarsi dell'osservatore dentro i limiti della ZweckrationalitaÈt non deve comportare la negazione del ruolo delle passioni e delle condotte apparentemente non razionali. Tuttavia, la politica internazionale d'Antico Regime dovrebbe essere considerata in termini meno di «valori» e piu di «funzioni», giacche prima della nascita e dello sviluppo della societaÁ industriali, la guerra era considerata come il solo mezzo di crescita della ricchezza nazionale, attraverso la rapina armata dello spazio, degli uomini e delle risorse. Solo con il secolo dei Lumi l'idea di progresso venne a legarsi a quella di produttivitaÁ, di sfruttamento intensivo delle risorse, di organizzazione razionale del sistema delle decisioni, dell'amministrazione e del potere esecutivo. La testimonianza di Claude LeÂvi-Strauss sul tema della guerra e della pace comparate con altre civiltaÁ situate oltre i «parapetti» dell'Occidente eÁ esemplare a tal proposito 30. 6. Luigi XIV alla ricerca della (incerta) fedeltaÁ napoletana (1701) Il 1701 fu un anno intenso per l'azione politica del re Cristianissimo alla ricerca della fedeltaÁ siciliana per il nipote, oramai re di Spagna. Per il governo francese il vicere napoletano, Luis Francisco de Lacerda duca di Medina-Celi, aveva dimostrato nell'occasione del passaggio dinastico notevole sagacia politica, assieme ad «esprit et grandeur d'aÃme». In effetti, secondo la testimonianza oculare di una spia francese residente a Napoli, nobiltaÁ e popolo s'erano sottomessi «aÁ la domination d'un prince francËois, sans emotion, sans reccolte et sans aucun mouvement», sebbene per due secoli gli spagnoli avessero aspramente criticato il governo francese ed istigato odio nella popolazione verso quella nazione 31. Eppure, due anni prima, un'altra relazione anonima proveniente da Napoli aveva offerto del duca Medi30 31 G. Charbonnier, Entretiens avec LeÂvi-Strauss, Paris 1961. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 58r. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 61 na-Celi un ritratto non proprio lusinghiero. Il vicere spagnolo vi eÁ descritto come un «homme vain», «prodigue sans eÃtre vraiment genereux», dedito esclusivamente alla soddisfazione del proprio piacere ed assolutamente soggiogato dalla sua amante, una cantante svedese di nome Georgine. Per queste sue caratteristiche psicologiche egli sembrava piu spinto alla difesa d'interessi personali che a quelli generali della politica nazionale spagnola, per cui, «on le doit regarder comme un bon espagnol qui ne fera rien pour la France», almeno fino a quando egli fosse riuscito a coniugare gli affari della «patria» spagnola con i suoi privati 32. Il connubio tra il vicere e la Francia nacque puntuale con la successione al trono di Spagna: a partire dall'11 gennaio del 1701 Medina-Celi inizioÁ un carteggio riservato su materie di Stato con Luigi XIV, che lo fece riconfermare a Napoli per altri tre anni, nonostante lo spagnolo aspirasse alla carica di presidente del Consiglio d'Italia 33. Malgrado lo zelo mostrato dal Medina-Celi nel concordare con il governo francese tutte le iniziative politiche da prendere a Napoli, quell'idillio non fu duraturo, anzi dopo l'evento della congiura di Macchia egli venne rimosso e sostituito con il duca di Escalona, in quel momento vicere di Sicilia 34. La Corte parigina applicoÁ per la sua carriera la logica del promoveatur ut amoveatur, offrendogli la «place treÁs lucrative» del Consiglio delle Indie, anzicche la presidenza del Consiglio d'Italia, carica alla quale il duca aspirava da lungo tempo, avendola richiesta a piu riprese direttamente a Luigi XIV. Sulla via del ritorno in patria, Medina-Celi passoÁ da Parigi «pour faire la reÂveÂrence au Roi», incontroÁ Torci e fece tutti i nomi degli aristocratici coinvolti nella congiura 35. Il solito agente segreto della capitale (dal nome in codice 214.19 e la cui identitaÁ non ci eÁ riuscito di svelare) aveva a piu 32 Ivi, ff. 189-201. Su questa relazione torneremo piu avanti. Ivi, ff. 4r-5v e lettera di Medina-Celi a Luigi XIV del 2 agosto 1701, cfr anche voll. 13, 14 passim. 34 Ivi, ff. 179r-85v. 35 Saint-Simon, MeÂmoires (1701-1707), vol. II, eÂdition eÂtablie par Yves Coirault, Gallimard, Paris 1983, p. 227, che racconta dell'arresto di parecchi esponenti della nobiltaÁ napoletana anche a seguito del racconto che Medina-Celi fece a Torci: obiettivo dei rivoltosi era innanzitutto la presa del bastione del Carmine, avvenimenti su cui cfr. infra, p. 63. 33 62 R. Tufano, La Francia e le Sicilie riprese avvertito il proprio governo dell'incapacitaÁ politica del Medina-Celi e della sua mancanza di consensi tra le fila della nobiltaÁ napoletana, chiedendone la rimozione; tali accuse venivano rincarate dall'espion cavaliere di Graville, in missione tra la Sicilia ed il regno continentale per ottenere informazioni sui vari baroni di quelle province 36. Finalmente, il 21 dicembre di quell'anno egli poteva esprimere al proprio monarca soddisfazione per l'allontanamento dello spagnolo, complimentarsi per la scelta del nuovo vicere e, considerata l'affidabilitaÁ del duca Escalona, chiedere il permesso di allontanarsi dalla capitale per continuare le sue missioni nelle province feudali 37. Questi giudizi sull'inaffidabilitaÁ politica del duca saranno ribaditi nel 1705 dall'ambasciatore francese a Madrid, Antoine Charles duca di Gramont, in un ironico profilo di poche righe, talmente efficace da sembrare un cammeo: «Medina-Celi a la gloire de Lucifer, la teÃte pleine de vent et d'ideÂes chimeÂriques. De son merite, je n'en parle pas, j'en laisse le soin aux historiens de Naples. Il se dit attache au Roi et aÁ la France; mais sa conduite tous les jours le deÂment» 38. Ma i noti vizi privati e pubblici del vicere non tolgono che anche i suoi piu accaniti nemici, tra cui Tiberio Carafa, avevano notato la sua astuta regia nel traghettamento del Regnum da una dinastia all'altra 39. ProQuella fortificazione, in quanto nodo centrale del controllo urbano anti-sommossa, viene spesso evocata nelle relazioni che provengono da Napoli. 36 Ivi, f. 287r-v (il nome in codice di Graville era invece 118.127.239.204). I codici degli agenti ivi, vol. 15, rispettivamente ai ff. 7r (lettera del 1 gennaio del 1702, ma l'agente era stato inviato a Napoli con ordine di Torci del 6 ottobre dell'anno precedente) e 19v (lettera di Graville sullo stato delle truppe e delle galere napoletane del 3 gennaio 1702). 37 Ivi, passim. Si tratta di lettere tutte in cifra. Del cavaliere di Graville non abbiamo trovato negli archivi francesi alcun dossier relativo alla missione in Italia, ma dalle sue lettere si evince ch'egli arrivoÁ nelle Sicilie dopo il giugno del 1701. Con ogni probabilitaÁ si tratta di Jean-Baptiste de Poussemothe de l'Estoile, chevalier de Graville, indicato da L. BeÂly, Espions et ambassadeurs au temps de Louis XIV, cit. cap. I, nt. 13, ad indicem, anche se, come avverte lo storico francese, «la nature du document et le secret rendent compte de l'identite incertaine des corrispondants, qui, dans la plupart des cas, changent de nom dans la vie de tous les jours et surtout dans leurs lettres [...] l'espion est par nature ambigu, eÂquivoque, et volontiers ubiquiste: il est ici et ailleurs» (p. 96). 38 A.A.EÂ., Correspondance politique, Espagne, vol. 146, f. 235r. 39 Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, riproduzione in fac-simile, con decorazioni e vedute dei luoghi, a cura di Antonietta Pizzo, Napoli 2005, pp. 207-22. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 63 viamo a seguire piu da vicino il filo della narrazione degli avvenimenti, incrociando alcune testimonianze dirette. Il 19 novembre del 1700, era giunto nella cittaÁ partenopea un corriere straordinario del duca di Uceda, l'ambasciatore spagnolo presso la S. Sede, con la notizia clamorosa ± trasmessa rapidamente dalla Francia per la via di Firenze e Roma ± della morte del re Carlo II, ultimo erede della sua famiglia 40. In una cittaÁ come Napoli il mantenimento dell'ordine pubblico era la principale preoccupazione di quel momento. Dietro suggerimento di due fedelissimi, il principe di Ottajano ed il duca di Popoli, Medina-Celi convocoÁ dapprima i reggenti del Collaterale ed i principali magistrati dei tribunali e con loro preparoÁ saggiamente i ceti della cittaÁ prima della divulgazione della notizia 41. Cosõ diede incarico a Pietro Paolo Mastellone, l'Eletto del popolo, di contattare i capi delle ottine per fare in modo che la plebe venisse predisposta al cambio di dinastia con rassicurazioni precise relativamente all'abbondanza dell'annona ed al mantenimento del solito regime fiscale indiretto. Non mancoÁ la raccomandazione ± racconta Carafa ± di ammonire la plebe napoletana che «in caso di renitenza e disordine dall'alta formidabil potenza del Re di Francia e dalla vendicatrice pronta ed armata sua mano il bombardamento della CittaÁ, la perdita dei Privileggii, e il guasto e depredamento universale in sollecita risposta attendessero» 42. Inoltre, venne preparato e subito emanato un editto per evitare che i banchi napoletani fossero presi d'assalto dai creditori in preda al panico 43. Notevoli misure di polizia furono nel frattempo prese con il rafforzamento delle guarnigioni e la 40 Ivi, p. 206-7. Il vicere di Napoli chiuse il circuito d'informazioni, trasmettendo la notizia a quello di Sicilia. 41 Ivi, pp. 207-8. 42 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 61r, dove si elogiano con Mastellone, il principe di Ottajano ed il Console dei mercanti per essere riusciti a mantenere l'ordine pubblico in quel frangente. Al vicere va attribuito inoltre il merito di aver amministrato saggiamente l'annona napoletana. Su Mastellone, cfr. anche Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, op. cit. (nt. 39), pp. 209-10, per il quale l'Eletto ammonõ la plebe della punizione francese. 43 Sulle provvidenze prese per i Banchi, «ad impedir poi dei pubblici banchi il natural fallimento, qualora ciascun de' creditori con frettolosa inopportuna esazzione avesse voluto riscuotere prontamente tutto il suo credito», cfr. ivi, pp. 210-1. 64 R. Tufano, La Francia e le Sicilie fornitura di bastevoli munizioni alle fortezze della cittaÁ, soprattutto per il famoso Torrione del Carmine che dominava la popolosa e plebea piazza del Mercato, tradizionale punto di partenza di ogni ribellione sociale. Preparata cosõ la capitale, senza particolari clamori e con fare sommesso, la mattina del giorno seguente nella sede del governo furono «convocati gli Eletti della CittaÁ e tutti i Baroni parteggiani [sic] et aderenti, ed ancora tutti quelli che di costoro erano amici o congionti [sic]»: lõ il vicere riveloÁ la notizia della morte dell'ultimo erede della dinastia spagnola e le disposizioni testamentarie del defunto. Queste ultime egli «esagerava magnificandole come legittime, come pietose e come a' Popoli sommamente confacevoli» 44. Quando, alcune ore dopo, arrivarono gli ordini regi francesi susseguenti l'accettazione del testamento con la conferma della fiducia a Medina-Celi quale vicere di Napoli, i membri del «partito patrizio» filo-austriaco, una delle fazioni che divideva l'incerta aristocrazia napoletana, rimasero «storditi». I rivoltosi decisero allora di aspettare l'evolvere del quadro internazionale, poiche «fu giudicato convenevole e necessario di attendere dal tempo e da movimenti degli altri Principi d'Europa l'occasione a' loro disegni favorevole, sicuri che l'Imperatore, l'Inghilterra e l'Olanda troppo interessati e troppo offesi non lascierebbero [sic] lungo tempo la Francia godere in pace di quella mal rapita e giaÁ tracannata preda e ben soverchia al potersi senza danno diggerire [sic] da un solo» 45. In effetti la congiura antifrancese venne a maturazione dopo circa un anno rispetto al passaggio dei poteri ed il fronte della nobiltaÁ napoletana appariva tutt'altro che compatto nella scelta della fedeltaÁ. Una spiegazione di questo ritardo nelle scelte di campo della nobiltaÁ partenopea eÁ stata offerta da Giuseppe Ricuperati, che utilizza le testimonianze di alcuni intellettuali vicini all'ambiente della corte viceregia: Paolo Mattia Doria, Pietro Giannone e Giambattista Vico 46. Lo storico torinese cita una lettera indirizzata allo zio Carlo Sa44 45 46 Ivi, pp. 211-3. Ivi, p. 214. Ricuperati, L'immagine di Napoli, cit., cap. I, nt. 39, pp. 83-111. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 65 batelli dal giovanissimo Pietro Giannone, che abitava nella capitale per compiere il suo corso di studi e che era solito frequentare l'Accademia del Vicere 47. Nell'esporre le opinioni prevalenti tra gli aristocratici, Giannone sosteneva che essi in un primo momento temevano fortemente un rifiuto del re di Francia ad accettare il testamento di Carlo II, allo scopo e con la conseguenza di voler «incorporare alla monarchia di Francia li regni di Napoli, Sicilia e Sardegna», poiche «il far monarcha di Spagna il duca di AngioÁ non importa niente alla Francia, perche questo arrivato in Spagna non saraÁ piu francese, ma spagnolo; e s'havraÁ come se Carlo II havesse fatto un figlio». Ma questo timore della nobiltaÁ napoletana ebbe termine nel volgere di tre giorni, non appena giunse la notizia dell'accettazione del testamento. La testimonianza di Giannone lascia intendere che, almeno in un primo momento, nobiltaÁ e societaÁ civile si erano strette attorno al vicereÂ, nella speranza che questa fedeltaÁ fosse ricompensata. Per Ricuperati «la scelta del Giannone eÁ per molti versi simile a quella di Vico e dello stesso Doria: la Spagna assicurava una concordia ordinum che era pericoloso toccare. I mutamenti possibili dovevano venire da una monarchia riformatrice e legata ad un modello di continuitaÁ e non dall'esterno» 48. I mesi seguenti avrebbero peroÁ modificato il quadro, innanzitutto con la congiura di Macchia, che «rimetteva bruscamente in discussione quella conclamata fedeltaÁ della nobiltaÁ e del popolo al regime [...] in questo senso si tratta di un episodio significativo, anche se delimitato nella storia dell'antispagnolismo, perche vede emergere un programma politico, alcuni tratti del quale diventeranno ipotesi per il futuro» 49. La scelta di fedeltaÁ del primo momento avvenne comunque attraverso lo sforzo del governo francese di creare un «double» legame di attaccamento alle «deux courones» di Francia e di Spagna, come testimonia la corrispondenza di Luigi XIV con i grandati napoletani. Di cioÁ si aveva contezza nella capitale e vari memoriali gli venivano 47 P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervini, Fasano di Puglia 1984, pp. 31-4, lettera del 27 novembre 1700 allo zio Carlo Sabatelli. 48 Ricuperati, op. cit. (nt. 46), p. 91. 49 Ibidem. 66 R. Tufano, La Francia e le Sicilie indirizzati, qualcuno recante nel mittente la dicitura «a sua MaestaÁ Reale di Francia e di Spagna» 50. Anche secondo un espion residente nella capitale la nobiltaÁ confidava nell'intercessione di Luigi XIV per ottenere riconoscimenti e favori dal re di Spagna. Per l'anonima spia una buona mossa sarebbe stata quella di legare quella nobiltaÁ con una doppia fedeltaÁ alla monarchia di Francia ed a quella di Spagna. Ed in effetti, ad iniziare dai primi di gennaio, una parte dell'aristocrazia napoletana intreccioÁ una corrispondenza con il monarca di Francia, avente ad oggetto questo legame doppio con lui e con la Corona spagnola, oramai borbonica: il principe di Castiglione 51, il duca di Calabria, il principe d'Avellino 52, il principe di Ottajano 53, il duca di A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, cfr. ad esempio la lettera del 5 gennaio del 1701, ff. 5r-7v. 51 Ivi, 7 gennaio 1701, il principe di Castiglione a Luigi XIV (f. 4r) e minuta della relativa risposta s.d. (f. 9); altra lettera del 1 aprile del principe al re con dichiarazione di fedeltaÁ esclusiva alla casa dei Borbone, e relativa risposta in minuta del 21 aprile, dove si riscontra un curioso lapsus calami subito corretto nella frase: «Mon cousin, je ne doute pas que vos aÃncetres ont toujours temoigne pour les Roys Catholiques (...)» dove l'aggettivo dei reali di Spagna viene sostituito con quello dei re di Francia. Per Saint-Simon, MeÂmoires (1721-1723), vol. VIII, eÂdition eÂtablie par Yves Coirault, Gallimard, Paris 1988, p. 137, Tommaso d'Aquino, sesto principe di Castiglione, di Feroleto e di San Mango, duca di Nicastro e conte di Martirano, fu nominato da Carlo II Grande di Spagna nel 1699. Il suo nome ricorre nella Lista de' Grandati di Spagna nel Regno di Napoli datata 1703 in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 117r. 52 Marino III, Francesco Marino, principe di Avellino, nato il 16 luglio 1668, aveva sposato una sorella di Filippo Antonio Spinola, marchese di Los BalbaseÁs, uno degli uomini piu importanti del governo spagnolo (fu capitano generale, ambasciatore, vicere di Sicilia e nel 1715 consigliere di Stato). Nella relazione anonima pubblicata da Miletti (op. cit. (nt. 21), pp. 210-212) eÁ scritto: «(...) ostenta una sopraffina spagnolagine, anche perche la duchessa di Terranova gli eÁ nonna (...) Possiede in perpetuo uno delli sette ufficij, ch'eÁ il Gran Cammerlangato del Regno, e teme, che da un nuovo dominio gli possa essere levato. Tolti simiglianti rispetti siegue col genio la rettitudine del governo di Francia, et ha detto piu volte, che se Napoli havesse un re, che vi risiedesse, non vi sarebbe ne regno, ne vassallaggio piu felice. (...) Conosce che il Regno non puol durare in mano de' Spagnoli, e supponendo che il marchese de los Valuases troppo interessato nella Spagna e come genovese potesse restar privo del ducato del Sesto et altre terre, che nell'istesso Regno possiede, onde si daÁ a credere, che la Francia potesse investirne i suoi figli a causa della moglie figlia del marchese Spinola». La sua famiglia aspirava al Grandato, che peroÁ ottenne solo nel 1707 con l'arrivo degli Austriaci. Il principe Marino III s'era infatti messo alla testa del partito imperiale, per vendicarsi dell'ingratitudine degli Spagnoli, «al fianco dei quali si era schierato nella congiura di Macchia ed aveva combattuto in Lombardia»: Miletti, ivi, p. 211, nt. 59. 53 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, 29 marzo 1701, il principe di 50 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 67 Giovinazzo 54, il principe di Bisignano 55, la famiglia Montesarchio 56, il principe di Poggioreale, il duca di Sessa 57, la duchessa di Monteleone 58, il duca d'Atri, il principe di Piombino, il principe di Santo Ottajano a Luigi XIV (f. 19). Si tratta di Giuseppe de' Medici, la cui famiglia era stata aggregata al seggio di Capuana nel 1686: D. Confuorto, Giornali di Napoli dal 1679 al 1699, a cura di Nicola Nicolini, vol. I, presso Luigi Lubrano, Napoli 1930, p. 166. Nella relazione anonima pubblicata da Miletti di lui eÁ scritto: «il prencipe [...] disgustato dalli Spagnoli in piu guise, et ultimamente per li denari, che gli levoÁ il marchese del Carpio, a causa di haver maltrattato un dipendente del duca di Madalone [sull'episodio v. la ricostruzione di Miletti, op. cit. (nt. 21), p. 213, nt. 72], nudrisce nel seno non troppo sinceri talenti, pure come quello che fa del parente al Gran duca di Toscana si regolarebbe secondo che le cose d'Italia vedesse regolare quella potenza. Egli non eÁ grandemente ricco, ma eÁ splendido et eÁ considerabile per qualche buona sequela di nobiltaÁ e per havere il vassallaggio prossimo alla marina di Napoli». Contrariamente a quanto affermato da G. Galasso, Napoli Spagnola dopo Masaniello. Politica Cultura SocietaÁ, Sansoni, Firenze 1982, pp. 595 e 630 e da Miletti, op. cit. (nt. 21), p. 214, nt. 73, che lo vogliono fedele alla monarchia di Spagna, almeno in questa fase il principe si dimostra filo-francese ed il suo atteggiamento ambiguo denunciato dall'anonimo trova anche riscontro diretto nei documenti di parte francese (cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 60) ed indiretto nelle feroci critiche del Carafa nelle sue Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, op. cit. (nt. 39), pp. 209-10. 54 10 marzo 1701, Luigi XIV al duca di Giovinazzo a proposito dell'intercessione a suo favore del cardinale del Giudice, suo fratello (f. 17). 55 Carlo Maria Sanseverino (1644-1704), ottavo principe di Bisignano, del Seggio di Nido (A.S.N., Manoscritti genealogici Livio Serra di Gerace, vol. I, f. 1218) viene ricordato da Francesco D'Andrea (Avvertimenti ai nipoti, a cura di Imma Ascione, Jovene, Napoli 1990, p. 277) come valente avvocato, benche «primo barone del regno e grande di Spagna». Nella relazione anonima pubblicata da Miletti di lui eÁ scritto: «inimico giurato delli Spagnoli sin da Carlo V, che gli diede sõ gran persecutioni, e che tolse alla sua casa il prencipato di Salerno essendo stato ridotto al verde di tempo in tempo desidera novitaÁ ansiosamente con sicura speranza di riassumere l'antico splendore, o almeno di godersi in pace quello che gl'eÁ restato» (p. 233). Sui feudi calabresi dei principi di Bisignano, cfr. G. Galasso, Economia e societaÁ nella Calabria del Cinquecento, L'Arte Tipografica, Napoli 1967, pp. 7-11. 56 Il principe di Montesarchio era stato protagonista di una congiura che mirava a rendere il regno autonomo con don Giovanni d'Austria come re. Con lui furono arrestati l'Avalos, il fratello, principe di Troia, Gregorio Carafa, priore della Roccella: cfr. M. Schipa, La congiura del principe di Montesarchio, in «Archivio storico per le province napoletane», III-IV, 1918, pp. 271-96, V, 1919, pp. 191-226; VI, 1920, pp. 251-79. 57 Per Gramont (supra, nt. 38, f. 235v) «le duc de Sessa est un bon homme treÂs eloigne de deÂchiffrer l'Apocalypse, mais rempli de bonnes intentions pour la France et deÂsiderant la meÃme chose que Villafranca pour la conservation de cette monarchie; du reste il est propre aÁ eÃtre capitaine des gardes du corps comme je le suis aÁ faire la fonction de moufti». 58 Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 59. Giovanna Pignatelli (1648-1723), figlia del defunto duca di Monteleone, Andrea Fabrizio Pignatelli, sposoÁ in seconde nozze il prozio NiccoloÁ Pignatelli (A.S.N., Manoscritti genealogici Livio Serra di Gerace, vol. I, f. 235. 68 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Buono 59. Luigi XIV aveva giaÁ nel 1697 ricevuto molte lettere in cifra dal principe d'Acquaviva. Questi si dichiarava disposto alla morte del re di Spagna ad assumere l'incarico di guidare il partito filofrancese per occupare il Regno. L'attacco sarebbe avvenuto attraverso le Puglie e, come fu suggerito anche in altri casi, la conquista manu militari del regno di Napoli poteva avvenire esclusivamente attraverso uno sbarco sulle coste adriatiche. Il nobile mostrava un grande odio verso l'«onnipotenza» dei genovesi, padroni del Regnum grazie alle notevoli vendite del patrimonio demaniale 60. Dopo la congiura di Macchia il punto di vista francese sulla Successione di Spagna ± o almeno quello che il governo d'Oltrealpe voleva far credere alla classe dirigente spagnola ± appare con chiarezza in una lunga lettera datata 1702 del ministro Torci al vicere di Napoli, il duca di Medina-Celi, che era apparso subito come il maggior garante dell'obbedienza del Regno. Nello spiegare le «veÂritables intentions du roi aÁ l'eÂgard de l'Espagne» al governante napoletano, Torci insisteva sul vero problema politico che occorreva affrontare, cioeÁ riuscire a congiungere il bene della monarchia spagnola senza ledere gli interessi francesi 61. 7. La congiura contro i «gallispani» (1701) Nel 1701, mentre la guerra di successione spagnola iniziava ad incendiare l'intero continente europeo, nella capitale del regno di Napoli, una congiura aristocratica filo-austriaca, che prese il nome dal principe di Macchia, colonnello di un reggimento napoletano di stanza a Barcellona, veniva ordita contro il nuovo re di sangue borbonico, Filippo V. Tiberio Carafa, principe di Chiusano, che di quella vicenda rivoltosa fu, oltre che uno dei protagonisti, un preciso e 59 Ivi, vol. 15, dove si trova un interessante memoriale sul regno di Napoli del principe alla corte di Francia ai ff. 117r-34r, sul quale torneremo piu avanti. 60 Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 132 e ss. tutti cifrati dal titolo Eclairessement sur les familles du Royaume de Naples. 61 Torci aÁ Medina-Celi, 18 luglio 1702, in A.A.EÂ., Correspondance politique, Espagne, vol. 106, f. 6. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 69 fine cronista, definõ il nuovo ordine politico della monarchia di Spagna con il neologismo di «gallispanico» 62. Per il Carafa, con il duca di AngioÁ sul trono di Madrid, «Galli» ed «Ispani» avevano infatti incrociato, non giaÁ il ferro delle armi come era stato fino a quel tempo, ma i destini dei due regni, rimettendo drammaticamente in discussione il lealismo dei ceti sociali napoletani al regime spagnolo: a Napoli, infatti, «tutti vedevano chiaro che dalla Francia gli ordini per allora dovevano gli Spagnoli ricevere» 63. Quest'ultima osservazione desta un particolare interesse, perche descrive la molla che azionoÁ il meccanismo rivoltoso degli aristocratici napoletani capitanati dal Macchia: era il controllo francese che li preoccupava e che risvegliava in loro i mai sopiti odii contro gli «angioini». Il tema dello sfruttamento del Mezzogiorno d'Italia ad opera degli Spagnoli costituiva un solido topos nella pubblicistica del secondo Seicento e numerose testimonianze attestano la diffusa insoddisfazione verso il «giogo ispano» 64. Ma se essa era generale e dominava trasversalmente la nobiltaÁ napoletana, purtuttavia l'aristocrazia era divisa nella scelta del miglior «medico straniero» chiamato a fungere da «ristoro della patria» 65. Cosõ sentimenti ed atteggiamenti lealisti, «gallispanici» o «austriacanti» si confondevano tra le fila della scontenta nobiltaÁ sul terreno dei comportamenti concreti e della singola storia dei suoi esponenti. Emblematica di queste oscillazioni politiche eÁ la biografia di Restaino Cantelmo. Nel novembre 1700 il duca fu inviato a Madrid per porgere gli omaggi ufficiali del Regno al nuovo monarca, nonostante la forte contestazione di buona parte della nobiltaÁ per tale scelta, scatenata dai noti sentimenti filofrancesi della 62 Ora edite mediante riproduzione in fac-simile dello splendido esemplare manoscritto conservato presso la Biblioteca dell'Archivio di Stato di Napoli: Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, riproduzione a cura di Antonietta Pizzo, cit. supra nt. 39. Sul Carafa, cfr. l'omonima voce curata da C. Russo nel Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana, XIX, 1976, pp. 607-611. 63 Ivi, p. 223. 64 Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica Cultura SocietaÁ, Sansoni, Firenze 1982, p. 207. 65 La metafora medica eÁ usata nell'anonima relazione, conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana e pubblicata con ampio ed accurato commento da Miletti, op. cit. (supra nt. 21), pp. 151-243. 70 R. Tufano, La Francia e le Sicilie famiglia e per via della posizione del fratello, il cardinale Giacomo, che da tempo perseguiva l'obiettivo del controllo inquisitoriale romano sulla vita politica del Regno, alleandosi coi gesuiti nella lotta contro i «filosofi moderni». Durante la congiura di Macchia, i due fratelli assunsero poi una posizione lealista e filospagnola, al punto che Restaino guidoÁ la repressione militare contro i ribelli, peraltro tenendo un comportamento abbastanza mite. Ma subito dopo, nel 1703, il duca venne accusato di tessere le fila di un complotto a favore della Francia: fu costretto ad espatriare e morõ esule a Barcellona 66. Testimonianze seicentesche sono concordi nell'individuare nella societaÁ napoletana una forte riluttanza nei confronti di Luigi XIV, per la preoccupazione che la superpotenza transalpina cancellasse ogni margine d'autonomia e comprimesse ogni residuo della sovranitaÁ limitata che derivava dalla composita struttura imperiale spagnola su cui si reggevano gli equilibri istituzionali del Mezzogiorno d'Italia. Tra i tanti possibili esempi ne citiamo due abbastanza noti. La formula adottata dalla propaganda filo-spagnola subito dopo la rivolta di Masaniello, «non possono stare insieme nel Regno di Napoli Francesi e LibertaÁ, Francesi e Repubblica», trovava ancora eco un trentennio dopo in un pamphlet scritto da Francesco D'Andrea, il piu autorevole esponente del ceto ministeriale napoletano in quegli anni. Egli dimostroÁ la pericolositaÁ della politica accentratrice di Luigi XIV per gli equilibri sociali su cui si fondava il regno meridionale: «come il desiderio di libertaÁ possa invitare i siciliani a levarsi dal dominio degli spagnuoli, per darsi a quello de' francesi? LibertaÁ e dominio non possono stare insieme. E si eÁ stimata asserzione troppo ridicola chiamar libertaÁ il dominio de' francesi e giogo quello degli spagnoli» 67. 66 Ivi, pp. 190-1. Sul duca cfr. A. Musi, Cantelmo Restaino, voce del Dizionario biografico degli Italiani, Fondazione Giovanni Treccani, Istituto dell'Enciclopedia italiana, XVIII, 1975. Sul cardinale cfr. V. I. Comparato, Cantelmo Giacomo, in ivi, p. 266 e S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metaÁ del Seicento, D'Anna, Messina 1965, pp. 144-5. 67 La formula in Larcando Laco, Risposta al manifesto del Christianissimo Re di Francia, nel quale espone le raggioni delle sue armi incaminate al Regno di Napoli, impresso in Parigi a 26 d'Aprile 1648, per Domenico Maccarano, Napoli 1648, p. 69. L'opericciola di D'Andrea eÁ la Copia di una lettera scritta da Roma ad un Amico in Napoli, nella quale si daÁ giudizio della II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 71 L'immagine della Francia si era ulteriormente incupita dopo il marzo del 1678 a seguito della drammatica conclusione dell'assedio di Messina, quando, dopo la stipula del trattato di Nimega, i sessantamila esuli della cittaÁ dello Stretto, in preda alla disperazione per essere stati abbandonati dal re Cristianissimo, arrivarono a pensare che sarebbe stato meglio consegnarsi ai Turchi che subire le ritorsioni del governo spagnolo 68. Non mancano tuttavia alcune testimonianze di carattere opposto che provano l'esistenza di un partito filo-francese. A Napoli, ancora durante la rivolta di Masaniello, come Pietro Giannone spiegoÁ nella Istoria civile, «[essendosi] alternato piu volte il dominio tra le due case d'Aragona e d'AngioÁ, restavano ancora le reliquie delle antiche fazioni per cioÁ vacillanti, onde avveniva che la Francia nutrisse sempre l'intelligenza con alcuni Baroni» 69. Nel 1688, secondo un memoriale anonimo, una parte dell'aristocrazia napoletana, nel caso non fosse stato possibile ottenere un re «residente a Napoli», avrebbe di buon grado «rassegnato» se stessa al re Cristianissimo: «per la facilitaÁ di essere ammessi a' suoi reali piedi senza annui retardi in ogni loro congiontura, per la sicurezza che quel monarca fa de' i ministri ubedire gl'ordini suoi a differenza del re di Spagna, per il saggio che hanno della rettissima giustizia di Sua MaestaÁ, per il rispetto che conseguirebbero i napoletani sotto ogni clima ove gli occorresse di negoziare come vassalli di un re cosõ glorioso e temuto» 70. In questa citazione possiamo facilmente individuare quelli che dichiarazione pubblicata in nome de Re Cristianissimo di voler dare un Principe del suo sangue per ReÁ alla Sicilia, in B.N.N., ms. XI.C.25, f. 164r-7v. Sull'attribuzione al D'Andrea di questo scritto v. S. Mastellone, Francesco D'Andrea politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Olschki, Firenze 1969, p. 62. 68 Cfr. J. Reinach, Du role politique de la France dans l'Histoire d'Italie nell'introduzione a Recueil des instructions donneÂes aux ambassadeurs et ministres de France depuis les traiteÂs de Westphalie jusqu' a la ReÂvolution FrancËaise. Naples et Parme, FeÂlix Alcan Editeur, Paris 1893, p. CLI. Sulla rivolta di Messina e per un'ampia bibliografia si rimanda a L.A. Ribot GarcõÂa, La revuelta antiespanÄola de Mesina. Causa y antecedentes (1591-1674), Valladolid 1982 e MonarquõÂa de EspanÄa y la guerra de Mesina (1674-1678), Actas Historia, Madrid 2002. 69 P. Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, presso NiccoloÁ Naso, Napoli 1723, voll. 4, IV, p. 375. 70 Cosõ l'anonimo cit. da Miletti, op. cit. (nt. 21), p. 153. 72 R. Tufano, La Francia e le Sicilie per il memorialista erano i punti di forza del sistema politico francese. Tuttavia essi ci appaiono molto confusi dentro una singolare ed anacronistica mescolanza di temi vecchi e cari all'ideologia di una riscossa baronale e nuove sensibilitaÁ che maturavano nella comparazione con un mondo che mutava profondamente sotto il profilo economico e commerciale. In effetti, l'autore sperava innanzitutto di trovare nel monarca francese un interlocutore privilegiato, al fine di riscattare la perduta possibilitaÁ di «capitular» (Benedetto Croce ha tradotto questo vocabolo in «firmare patti da potenza a potenza», insomma di trattare con il monarca da pari a pari), negata definitivamente da Carlo V a Ferrante Sanseverino d'Aragona, primo barone del regno di Napoli e ultimo principe di Salerno 71. Viene subito dopo il riconoscimento dell'alto livello di governabilitaÁ della Francia, affrancata dalle potenti interferenze del ministero togato e della Chiesa. Il tema di una giustizia regale piu certa, «incorrotibile e soda», si lega direttamente alla possibilitaÁ d'intraprendere una politica mercantilistica di potenza sotto la protezione della bandiera francese. Insomma qui troviamo confusi l'esaltazione della piu dirigistica ed accentrata monarchia europea assieme al desiderio di ritornare ad un nostalgico, «baldanzoso» Medioevo, tempo in cui i baroni godevano di un potere politico in grado di patteggiare con il monarca. Atteggiamenti di questo genere sono anche rivelatori della composizione sociale altamente eterogeÂnea dei «partiti» napoletani tra Sei e Settecento. La fusione di tutti questi elementi spiega bene l'incoerenza della classe politica napoletana negli ultimi decenni del secolo barocco: l'assenza di scelte univoche andava al passo con l'incerta rotta tracciata dal governo spagnolo e con le indeterminatezze del sistema politico internazionale. Questa irresolutezza precipitava nei momenti di peggior crisi e se ne possono trovare esempi poco edificanti nel racconto di Carafa della congiura. Per esempio, quando scoppioÁ il tumulto, si raccolsero attorno al vicere «gallispani», «molti de' togati ministri» e «molti del popolo civile», ma accanto a costoro 71 B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano 1992, p. 141. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 73 si scorgono anche alcuni grandi nobili, da tempo compromessi e clienti della casa d'Austria 72. Sebbene da un'altra prospettiva e con una sensibilitaÁ diversa, le cause di questa confusione pressocche generale erano state descritte e spiegate al re Luigi XIV da Serafino Biscardi, in una relazione del 1700. Il togato, che subentreraÁ ben presto a Francesco D'Andrea quale leader del ceto ministeriale e che nel 1709 fu indicato come il vero vicere di «fatto», con molto acume segnalava che l'infedeltaÁ era la radice politica comune ai tre ordini della societaÁ napoletana, dove il numero dei mauvais austriacanti era superiore a quello dei bons borbonici. Per non dire della stragrande maggioranza degli indiferens, che dimoravano in uno stato di sorniona irrisolutezza, piu che per imbecilliteÂ, «pour se reserver le droit d'embrasser l'un des deux partis suivant les occasions » 73. In una capitale, dove era permesso parlare con una «liberte treÂs prejudiciable» della nuova dinastia e dove l'intero ceto ministeriale era diviso «sur le point de la fidelite aÁ leur Roy», la rivalitaÁ tra gruppi opposti era ancor piu fomentata dalle antiche memorie delle divisioni tra i partigiani della casa di Svevia e degli Angioini, degli Angioini e degli Aragonesi, dei Francesi e degli Spagnoli 74. Fu proprio il togato a condurre le indagini sulla congiura antifrancese del 1701, presenziando all'interrogatorio di tale Francesco Chassignet, indicato in un verbale come «consigliere della Camera Aulica Imperiale». In quell'interrogatorio, la cui relazione fu inviata da Biscardi in Francia il 19 maggio 1702, lo Chassignet svelava le intenzioni dell'imperatore austriaco, che, per il tramite del suo ambasciatore a Roma ed il cardinale Grimani, gli aveva fornito le credenziali per Eugenio di Savoia e lettere di cambio per quindicimila scudi romani. I nomi dei congiurati erano: Tiberio Carafa, il duca della Castellaccia, Carlo di Sangro e Giuseppe Capece 75. Nel caso di Tiberio Carafa, la gallofobia stimolava il risveglio del 72 Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 318-22. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 232r-61r, spec. i ff. 232r-4v. Torneremo poco piu avanti su questa inedita ed interessante relazione di Biscardi. 74 Ivi, f. 233r. 75 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, ff. 163r-7v. 73 74 R. Tufano, La Francia e le Sicilie sopito antispagnolismo: i due fenomeni, peroÁ, non si sommavano semplicemente, piuttosto producevano una moltiplicazione indefinita delle ansie nobiliari. Un episodio autobiografico c'indica chiaramente l'evoluzione futura del suo percorso esistenziale, ideologico e politico, da lealista conformista ad «austriacante». Anni prima, regnante ancora Carlo II, Fabrizio Carafa, padre di Tiberio, aveva implorato il figlio di non prestare servizio militare per la Spagna, anzi di fuggire dalla morsa della fedeltaÁ a quel regno. «Pazzo, pazzo se il credi», lo rimbrottoÁ il principe Fabrizio: gli «Spagnoli per natura e per interesse sono e saranno sempre nostri nemici». E gli elencoÁ una lunga serie di famiglie napoletane rovinate dal servizio per la monarchia cattolica: i marchesi di Torrecuso, i duchi di Popoli, i marchesi di Montenero, i duchi di Nocera, i principi di San Giorgio, la casa Brancaccio, i duchi d'Arigliano, i principi di Montesarchio 76. Meglio un'occupazione negli eserciti austriaci, carriera che gli sarebbe stata enormemente facilitata dal conveniente matrimonio con la duchessa di Campolieto, cugina del maresciallo Antonio Carafa, comandante delle truppe dell'imperatore in Italia 77. Di lõ a qualche anno l'antispagnolismo ereditato dal padre troveraÁ nella successione del monarca l'occasione propizia per lo strappo irrimediabile con la Spagna e per l'adesione del principe di Chiusano al «partito patriottico». Scopo dei «patrioti» doveva essere di «assumere con la forza e con la persuasione, e poi trasferire nel corpo della CittaÁ, il Governo del Regno o, almeno, la libertaÁ di eliggersi un Re giusto e legittimo, prima, che lor malgrado fossero obbligati a riceverlo» 78. Se l'obiettivo massimo dei rivoltosi era di trasformare il regno di Napoli in una repubblica oligarchica, il minimo era di avere un re «elettivo» e residente. Purtuttavia, almeno Carafa risolveva in modo chiaro l'ambiguitaÁ tra l'ipotesi di un «regno nazionale» ed il destino non facilmente mutabile della dimensione di provincia dell'Italia meridionale: incer76 77 78 Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), p. 59. Ivi, p. 57. Ivi, pp. 184-5. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 75 tezza che invece contraddistingueva la riflessione e la prassi politica di quegli anni 79. La risposta al perche egli avesse scelto in misura estrema la strada della resistenza al nuovo governo «gallispano» dev'essere cercata dentro le complesse e varie dinamiche che regolavano il rapporto dialettico tra lo Stato ed i ceti in etaÁ moderna. Carafa eÁ un esempio limite delle notevoli difficoltaÁ di scelta che dovevano essere maturate dal ceto nobiliare napoletano a fronte dell'opzione di un proprio travaso dall'identitaÁ sociale e condizione politico-economica di «vassallo» del re Cattolico a quella di «suddito» della casa dei Borbone. Si trattava di un passaggio molto ambiguo, reso ancora piu difficile dalla contemporanea presenza nelle mentalitaÁ sociali dell'idea di una dipendenza naturale che discendeva necessariamente dalla mera condizione di appartenenza al Regnum 80. A differenza del re Cristianissimo, l'imperatore Leopoldo aveva scelto come «sua favorita massima» che «il separare gl'interessi del Principe da quei degli Stati» era come promuovere la rovina di entrambi, venendo meno lo stesso legame di dipendenza, uguale per tutti i sudditi, a cui si daÁ il nome di naturalitaÁ. Fin qui siamo di fronte ad un ideale di coesione intorno ad una causa comune, fattore basilare di ogni impresa statale, coefficiente la cui mancanza ha reso per secoli fallimentari gran parte delle energie e delle imprese subalpine. Ma, a differenza che per il Re Sole, per Leopoldo la forza unitaria della causa statale passava non attraverso la partecipazione dei ceti e dei singoli, ma attraverso la sintesi di altre strutture statali di minor consistenza, e dunque l'unione era interpretabile come un'evoluzione del sistema 79 Ricuperati, L'immagine di Napoli, cit., cap. I, nt. 46, p. 100. Il riferimento eÁ a J. A. Maravall, Stato moderno e mentalitaÁ sociale, Il Mulino, Bologna 1991, p. 490: «di fronte al carattere individuale e personale del contratto vassallatico di tipo feudale, secondo il quale ognuno era legato al suo signore direttamente nei termini del contratto stipulato singolarmente, si riconosce nella mera condizione di appartenenza ad un regno uno stesso legame di dipendenza, uguale per tutti, a cui si daÁ il nome di naturalitaÁ». Importanti le considerazioni di Musi sul valore di questo storico spagnolo che, con Roland Mousnier, ha affrontato sistematicamente lo spinoso tema del passaggio dalla «misura» sociale feudale a quella della sovranitaÁ assoluta. Cfr., sul tema, Musi, Il feudalesimo nell'Europa moderna, cit., nt. 27, passim. 80 76 R. Tufano, La Francia e le Sicilie feudale. Infatti l'imperatore aveva assecondato il «giusto accrescimento» delle «potenze private» dei suoi vassalli. Legiferando in tal senso Leopoldo aveva gettato le fondamenta per «quel gran equilibrio che nel tempo del suo regnare s'era imposto tra il potere di tutto il corpo dell'Imperio e tra quello degli Stati ereditari della sua Casa» 81. Carafa mostra una mentalitaÁ in bilico tra vecchi e nuovi modelli di organizzazione sociale ed un atteggiamento politico alla ricerca di un difficile equilibrio (il vocabolo eÁ a tal proposito utilizzato da Carafa) tra patrimonialismo, feudalesimo e sovranitaÁ imperiale. Il ricordo della sua dura opposizione al tentativo del tribunale regio di sottrarre un reo di fraticidio alla giurisdizione del feudo di Campolieto eÁ esemplare a tal proposito. In quell'occasione gli «fu d'uopo [far uso] di tutto il suo valore ed applicazione e di piu anco di tutta la sua larghezza per corroborare con la forza dell'oro e col coraggio l'inefficacia in quei tempi della sola ragione e della giustizia, le quali chi le possedeva sole, possedeva spesso poca cosa». Considerare insufficiente il binomio ragione-giustizia era tutto un programma: l'una e l'altra sono vuote senza il potere che le tenga in piedi. Proprio perche fingevano di voler rispettare soltanto la sintesi di quei due valori, i ministri dei tribunali regi spregiavano la giurisdizione baronale e quando trovano feudatari «deboli» riuscivano facilmente a «distornare con artificio per attirare ai loro tribunali i giudizi», al fine di «isnervare per quanto possono» la nobiltaÁ del Regno 82. E le richieste all'Imperatore che il partito austriaco aveva affidate a Giuseppe Capece, fratello del marchese di Rofrano ed ambasciatore presso la corte di Vienna, si concentrarono tutte sul tema di un re, di una costituzione, di un Parlamento e di uffici tutti «naturali», cioeÁ «napoletani o regnicoli». 8. «Non possono stare insieme Francesi - LibertaÁ - Repubblica» In effetti Tiberio ed i suoi compagni non sbagliavano al riguardo delle interferenze francesi nella vita politica napoletana. E se essi le 81 82 Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 34-5. Ivi, pp. 75-6. Corsivo aggiunto. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 77 avevano intercettate molto precocemente, tuttavia avevano agito troppo prematuramente, dacche nel 1701 gli altri ceti sociali, tra cui i potenti togati (come testimonia la posizione di Biscardi), non avevano ancora maturato una scelta di campo precisa. Tantomeno sul fronte internazionale l'Austria era pronta ad un intervento diretto manu militari nel Mezzogiorno. Anzi (com'eÁ stato giaÁ accennato), nel novembre dell'anno precedente, a sentire ancora il giovanissimo Giannone, la preoccupazione maggiore a Napoli sembrava essere quella che il re di Francia non accettasse il testamento a favore del nipote, «ma che volesse stare alla divisione e volesse incorporare alla monarchia di Francia li regni di Napoli, Sicilia e Sardegna» 83. Giannone scriveva allo zio che era contento dello scampato pericolo: la minaccia di «mutazioni, turbolenze, sedizioni, guerre e ruine» che avrebbe colpito il mondo cattolico pareva svanire con l'accettazione da parte francese del testamento del defunto Carlo II. Filippo V sarebbe divenuto ben presto spagnolo, come un figlio naturale di quella monarchia, e l'Imperatore, troppo debole militarmente, si sarebbe guardato bene di attaccare briga con il gigante francese. La sua testimonianza lascia intendere che, almeno in un primo momento, nobiltaÁ e societaÁ civile si fossero strette attorno al vicereÂ, il duca di Medina-Celi, nella speranza che questa fedeltaÁ fosse ricompensata. Per Giuseppe Ricuperati la scelta del Giannone era per molti versi simile a quella di Vico e dello stesso Doria: la Spagna assicurava una concordia ordinum che era pericoloso toccare e i mutamenti possibili dovevano venire da una monarchia riformatrice legata ad un modello di continuitaÁ e non dall'esterno 84. EÁ da ricordare che Giannone frequentava l'ambiente dell'accademia del duca Luis de la Cerda, la cui composizione sociale mette in rilievo due fatti molto importanti: i partecipanti erano gli eredi diretti dell'accademia degli Investiganti, dunque di una cultura influenzata profondamente dal pensiero francese; di essi alcuni erano membri dell'alta aristocrazia napoletana, e formeranno i quadri sta83 84 Giannone, Epistolario, cit. (nt. 47), p. 33. Ricuperati, L'immagine di Napoli, cit. (nt. 46), p. 91. 78 R. Tufano, La Francia e le Sicilie tali della nuova monarchia spagnola, mentre altri diverranno i futuri componenti del ceto togato asburgico 85. Come aveva notato Tiberio Carafa, Luigi XIV aveva iniziato ad intervenire direttamente sulla vita politica delle Sicilie anche prima dell'accettazione del testamento di Carlo II d'Austrias. E dalle ricostruzioni di quelle reazioni nobiliari emergono progetti politici che fondano le proprie ragioni su un patriottismo napoletano, tendente alla costruzione di un «regno nazionale» armato in proprio. Come abbiamo prima segnalato, questo patriottismo strideva notevolmente con una delle coordinate politiche centrali nel mondo e nel pensiero politico dell'Antico Regime, con un valore posto a fondamento sia del rapporto monarchia-nazione sia dello Stato moderno: la fedeltaÁ dei sudditi, cioeÁ il dovere di lealtaÁ, d'obbedienza e di sostegno nei confronti del sovrano di Spagna. Dell'aggettivo «gallispano» coniato dal Carafa non v'ha traccia alcuna nel Grande Dizionario della lingua italiana della casa editrice Utet, mentre sono invece presenti i lemmi composti «galloitalico» e «galloromano». Il primo eÁ utilizzato da Ottavio Mazzoni Toselli, autore ottocentesco di un Dizionario gallo-italico (Bologna 1831). Lo stesso filologo in un altro suo scritto, dal titolo Origine della lingua italiana, sosteneva la tesi di un'unica discendenza, la gallica, della lingua italiana 86. Sembra scontato che dietro questa sua idea fosse 85 I testi dell'accademia sono ora disponibili nell'edizione curata da Michele Rak, Lezioni dell'accademia di palazzo del duca di Medinaceli, Istituto Italiano per gli studi filosofici, Napoli 2000-2005, voll. 5. Sull'accademia, cfr. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Napoli 1970, pp. 3-78 e S. Suppa, L'accademia di Medinacoeli fra tradizione investigante e nuova scienza civile, Napoli 1971. 86 Tipografia della Volpe, Bologna 1831. La tesi di fondo dell'autore eÁ la seguente: «La lingua illustre italiana, al riferir di Dante, eÁ composta dei vari dialetti o sia delle varie antiche lingue italiane. Le principali erano la latina, l'etrusca e la gallica. Gli Etruschi non hanno parte nella formazione della nostra lingua illustre, percioccheÁ ne anche un solo vocabolo etrusco vi si conserva. Dunque la lingua illustre italiana saraÁ composta di gallico e di latino. Ma se proveremo che i Toscani sostituirono alle voci etrusche le galliche, e che la lingua latina non fu mai parlata popolarmente da quel Popolo, ne da quelli di Romagna, di Lombardia, dello Stato Veneto, dovremmo affermar che la lingua gallica molto piu che la latina si diffuse in Toscana, e che la lingua illustre italiana eÁ composta per la maggior parte di celtico o gallico. [...] EÁ incontrastabile che la lingua degli Etruschi eÁ affatto spenta; com'eÁ fuor di dubbio che la gallica si conserva in gran parte dell'Italia. Se la cagione perche si spense il II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 79 presente in maniera evidente l'opzione culturale e politica della generazione neoclassica e napoleonica che non aveva ancora maturato il passaggio del testimone a quella romantica. CosõÂ, un recensore di quei lavori, Giuseppe Ignazio Montanari, stroncava quelle fatiche sulle pagine dell'Antologia di Viesseux: tali questioni linguistiche «non offrono in fondo vera utilitaÁ nazionale», fruttando «onore» solo presso gli eruditi 87. Per l'altro aggettivo composto, «galloromano», il dizionario ritiene ch'esso «si riferisce, [a cioÁ] che eÁ proprio della Gallia o dei suoi abitanti, dalla conquista romana fino all'insediamento dei Franchi; [dunque a cioÁ] che discende da antenati galli e romani insieme; che eÁ di sangue misto gallo e romano». Il dizionario cita il solo poeta Carducci, tuttavia sarebbe interessante capire l'origine di questo aggettivo. Come il precedente, esso eÁ infatti la combinazione di due voci, di due connotazioni nazionali, un ``incrocio'' di attributi originari di ciascun popolo che moltiplica, aggiungendo nuovi a vecchi stereotipi. Sicuramente l'uso politico ed il recupero in senso positivo dell'aggettivo «galloromano» avvenne grazie al SieyeÁs dell'Essai sur les privileÁges e del Qu'est-ce que le tiers eÂtat, due pamphlets che divennero immediatamente dopo la pubblicazione, tra il novembre del 1788 ed il gennaio dell'anno seguente, formidabili macchine da guerra contro la nobiltaÁ. Le tesi dell'abate sono arcinote, ma la sua celebre tirata contro la nobiltaÁ francese va qui ricordata perche rappresenta il capovolgimento paradigmatico della pretesa superioritaÁ dell'aristocrazia franca, in ragione d'una superiore civiltaÁ rispetto alle popolazioni indigene dell'antica Gallia. I nobili si dicono discendenti dei favellare etrusco fosse stata l'intromissione della lingua latina, in pari modo si sarebbe spenta la gallica. Ma siccome ne' dialetti lombardi conosciamo le medesime lingue degli antichi Gallo-italici, tranne pochissima alterazione, e chiaramente apparisce che tutte le voci non aventi origine latina, ma bensõ gallica o celtica sono comuni in oggi ai popoli di etrusca derivazione, ne conseÁguita che la lingua gallica, o almeno i gallici vocaboli, subentrarono in luogo degli Etruschi; e se alle voci etrusche i Toscani sostituirono le galliche, eÁ da credere che in simil modo i Romani sostituissero le galliche alle latine. Si conservano forse le terminazioni latine in Roma, come si conservano le galliche in Lombardia? Laonde mi sembra di poter concludere che la nostra lingua italiana abbia origine celtica o gallica anziche latina». 87 In Antologia. Giornale di scienze, lettere e arti, vol. XVI, maggio 1832, tip. Luigi Perrati, Firenze 1832, p. 25. 80 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Franchi vincitori delle antiche popolazioni galliche e romane, percioÁ pretendono di aver ereditato i diritti dei conquistatori sui vinti. Ma l'antichitaÁ del Terzo Stato, gallo e romano, vale tanto quella dei «Sicambres, des Welches» e di altri «sauvages» usciti dai boschi e dai «marais de l'ancienne Germanie»: «Eh bien! Il faut la faire repasser de l'autre coÃte et le tiers deviendra conqueÂrant aÁ son tour» 88. Come nota Baczko, l'intento di ricacciare i nobili nei boschi della Franconia non era solamente una mera metafora ironica, perche quest'immagine possedeva in se la capacitaÁ di suscitare nel terzo stato grandi sentimenti, cioe speranza, rivalsa ed odio, che, composti tra di loro, divennero la miscela rivoluzionaria che capovolse il mondo fino ad allora conosciuto 89. Per Carafa i «gallispani» erano il frutto di un'alchimia dinastica mal riuscita, perche i due popoli mal si accoppiavano. Fatto rimarchevole: tale convinzione era condivisa sia dai napoletani sia dagli spagnoli, almeno quelli lõ residenti. «Accresceva intanto al Partito Patrizio l'ardire e la confidenza [con] l'osservare quasi universalmente cosõ negli animi de' Napoletani, come degli Spagnoli stessi che erano in Napoli, quel naturale affetto verso la casa d'Austria e quell'avversione verso i Francesi, che dall'utero delle loro madri traendoli l'avevano poscia insieme con il latte dello loro nutrici succhiati e con l'educazione stabiliti ne' loro cuori. E conciosiacheÂ, dall'odio all'amore e dall'amore all'odio in un momento difficilmente si passa. Per tanto questi due troppo imperiosi contrari affetti non si lasciarono dagli altrui cenni dar legge. La spagnuola alterigia mal s'accordava ad obedire a' Francesi. E tutti vedevano chiaro che dalla Francia gli ordini, per allora, dovevano i Francesi ricevere. Quegli Spagnoli, che erano in Napoli ne fremevano e pubblicamente e con Napoletani stessi ne mormoravano. E, quando avevano a nominar i Francesi, ben con quello sprezzevole ingiurioso nome, onde erano in prima usati, gli nominavano gauaccios, o pure boraccios, che uno ubriachi e l'altro forfanti suonavano nella nostra italiana favella» 90. 88 12-3. 89 90 Cit. da B. Baczko, Politiques de la ReÂvolution francËaise, Gallimard, Paris 2008, pp. Ivi, pp. 11-7. Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 222-3. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 81 Il neologismo volle allora definire il nuovo governo regale originato dal passaggio dinastico, ma incurante del reale e diffuso sentimento spagnolo e napoletano. La gallofobia pre-esistente e l'antispagnolismo riemergente avrebbero offerto alla nobiltaÁ napoletana la possibilitaÁ di riscattare la propria indipendenza, che dava la possibilitaÁ di scegliere tra Spagna e Francia un terza possibilitaÁ. Ricordiamo, inoltre, che la preferenza per la voce «Galli», anziche «Franchi» o «Francesi», faceva sicuramente riferimento alla teoria della nobiltaÁ ereditaria per diritto di conquista, elaborata dal pensiero giuridico francese cinquecentesco, cioeÁ da autori come EÂtienne Pasquier, FrancËois Hotman e Charles Loyseau, per citarne alcuni dei piu noti. Secondo essi «i nobili sono i discendenti dei conquistatori Franchi, mentre i non nobili [roturiers] sono i discendenti dei Galli, vinti ed assoggettati dai primi» 91. EÁ da notare che anche dalla elaborazione della dialettica tra gli status nacque in Francia, giaÁ nel '500, una forte coscienza di quanto fosse socialmente complesso il problema della sovranitaÁ (Montaigne, Hotman). Cosõ i primi tre libri dell'opera di Tiberio Carafa sono dedicati ad illustrare una scelta che rompeva un antico meccanismo di fedeltaÁ e sceglieva un nuovo sistema di riferimenti. Nel primo libro l'autore offre un eloquente esempio della corruzione cui era pervenuta la nobiltaÁ napoletana, degenerazione la cui responsabilitaÁ era del modello spagnolo, che aveva spostato l'interesse dalle armi e dalle incombenze politiche verso l'apparenza e la preminenza delle feste, sempre piu sontuose, che si celebravano a Napoli «non solo per i carnevali, ma anche per avvenimenti connessi con le vicende della corte e della capitale lontana» 92. La sensazione diffusa della profonda ed irreversibile crisi della monarchia spagnola emerge per contrappunto alle fastose feste barocche: «Nella CittaÁ le Feste doveansi celebrare con magnificenza uniforme al gran fasto spagnolo, ancorche allora inopportuno a' riguardo del compassionevole stato della Monarchia delle Spagne. Questa, ancorche 91 92 Mousnier, La costituzione nello Stato assoluto, cit. (nt. 10), p. 53. Ricuperati, L'immagine di Napoli nel primo Settecento, cit. (nt. 46), p. 94. 82 R. Tufano, La Francia e le Sicilie assai grande, purtuttavia come vecchia ed inferma e che si consumava sempre piu da giorno in giorno dall'alterazione e dissonanza de' suoi mali umori al di dentro, dimostrava al di fuori chiaramente che dal suo peso e da suoi propri interni malori, senza alcuno sforzo d'estraneo nemico ben presto al rovinare sarebbe stata costretta» 93. Ancora Carafa nota che la classe dirigente spagnola «credeva rimedio e ristori contro la vergogna ed il danno la vanitaÁ ed i fumi de' piaceri festivi, che estraeva dall'oro de' suoi vassalli di qua de' monti». Testimone egli stesso delle feste ordinate dall'allora vicereÂ, conte di Santostefano, durante le quali suo padre, per «spirito della vanagloria [che] si succhiava da Napoletani quasi insieme con il latte dello loro nutrici», aveva investito somme notevoli affinche il figlio divenisse capo di una delle quadriglie di cavalieri 94. Insomma, l'«apparenza» era lo stratagemma, l'«artificio» con cui governava la Spagna in provincia. L'immagine dominava sulla sostanza, meccanismo e primato possibile solo se l'oggetto eÁ stabile, non se eÁ dinamico. Ma quali erano le origini della decadenza spagnola e cosa aveva prodotto questo modo di reggere la provincia? Sappiamo che le rappresentazioni che furono prodotte a Napoli della Spagna, cioeÁ lo spagnolismo e l'antispagnolismo, frutto del governo imperiale su scala mondiale, cioeÁ del rapporto stabilito dalla monarchia asburgica con i suoi reinos, fanno parte della cultura politica generale e sono dei «banchi di prova su cui verificare valori e limiti delle categorie costruite dal pensiero politico nell'Europa moderna» 95. In questo caso l'analisi del Carafa si centra su tre motivi: la crisi delle finanze statali, la «memoria de' Spagnoli odiosa in tutto il resto d'Europa», ossia la «legenda negra» e, last but not least, le origini stesse dell'impero spagnolo, «quasi appena combinatosi da piu regni unitisi in uno per retaggio» 96. 93 Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), p. 25. Ivi, p. 25 ed ancora a p. 49: «era antico uso del ministro spagnolo quegli uomini e quelle case che o per l'abilitaÁ personale o per la magnificenza delle spese nelle feste reali piu si distinguessero, distinguerli ancora i vicere con le rimunerazioni o degli impieghi militari o dei politici». 95 Musi, Prefazione a Alle origini di una nazione, cit. (cap. I, nt. 39), p. 9. 96 Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 25-6. 94 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 83 L'attacco era feroce: se gli spagnoli hanno fondato la loro fortuna sull'espoliazione delle colonie, la loro crisi eÁ dovuta agli investimenti di guerra per il mantenimento di altre colonie. CioeÁ, quel che hanno rapinato dalle Americhe e dalle Sicilie hanno investito nell'Europa del nord, vuotando le casse dello Stato. Inoltre, hanno creato intorno a seÁ una cortina di diffidenza perche i loro metodi di governo avevano puntato nel Mezzogiorno d'Italia ad un processo di smilitarizzazione della nobiltaÁ feudale ed il conseguente trasferimento di quelle funzioni di difesa all'aristocrazia spagnola ed all'alleato genovese. 9. Napoli, la repubblica togata, si fonda sul debito pubblico Una testimonianza acuta delle condizioni socio-istituzionali del regno meridionale si trova in una relazione anonima, inviata da Napoli al re di Francia, che possiamo con sicurezza attribuire a Serafino Biscardi 97. Grazie alla notevole e ben documentata ricerca di Dario Luongo, ci sono note le vicende biografiche del personaggio, morto prematuramente nel 1711 98. Il giurista di Altomonte, che divenne alla morte di Francesco D'Andrea il leader del ceto ministeriale napoletano, venne indicato da piu fonti come il vero vicere di «fatto» del periodo austriaco, a dimostrazione del rilievo eminente che assunse per le sue capacitaÁ d'influenza politica. Abbiamo giaÁ notato come egli avesse segnalato ai francesi che l'infedeltaÁ era il denominatore comune ai tre ordini della societaÁ napoletana, dove il numero dei mauvais austriacanti superava quello dei bons borbonici. Accanto ai due partiti si collocava una stragrande maggioranza di indiferens, che dimoravano in uno stato di sorniona irrisolutezza, non tanto per imbecilliteÂ, ma per procurarsi una maggiore libertaÁ di scelta fino all'ultimo momento 99. Freddo nello stile e rigorosamente ragionato nei contenuti, il A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 232r-261r. La data segnata dall'archivista francese (1700) eÁ sicuramente errata, poiche parecchi elementi lasciano chiaramente intendere ch'essa fu redatta poco dopo la congiura di Macchia. 98 Luongo, op. cit. (nt. 4). 99 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), spec. i ff. 232r234v. 97 84 R. Tufano, La Francia e le Sicilie documento ci mostra una mentalitaÁ molto diversa rispetto quella del nobile Tiberio Carafa, e si presenta come una preziosa testimonianza di un altro modo di affrontare la fase del delicato passaggio dinastico. Come eÁ stato notato da Ajello e da Luongo, l'azione e le idee del togato erano caratterizzate da una mobilitaÁ, volubilitaÁ e da un tatticismo talmente estremi, che sembrano a volte sfiorare la contraddizione e l'incoerenza. Ma sono limiti solo apparenti, perche la biografia di Biscardi dimostra che gli strumenti intellettuali piu consoni alla difesa degli interessi personali e di ceto, cioeÁ il dogmatismo, il dottrinarismo, l'aspirazione aprioristica alla conoscenza scientifica e il formalismo giuridico, non furono strumenti statici, limitativi ed imbriglianti dell'azione pratica, come molto spesso si ritiene al riguardo dei giuristi di mestiere. Anzi, l'uso intelligente e disinvolto che di essi si faceva rese possibile il raggiungimento di un elevato grado di concretezza, quindi di successo politico. La condotta del giurista non rappresentava di certo un'eccezione, visto che l'intera strategia dei togati durante lo svolgersi della storia costituzionale del viceregno spagnolo fu scandita dalla continua ascesa di quel ceto e dal perfezionarsi del compromesso autonomistico tra la Corte ed i gruppi dirigenti napoletani, a partire dai primi decenni del XVI secolo. SiccheÂ, lo Stato meridionale si configuroÁ come una vera e propria «monarchia giurisprudenziale», fondata sul peso della mediazione ministeriale e regolata dal potente meccanismo del debito pubblico meridionale 100. Le posizioni tattiche dei primi anni del nuovo secolo sono la dimostrazione delle profonde ambiguitaÁ del Biscardi, che si mosse dapprima a difesa degli interessi di ceto in una prospettiva filoangioina, come dimostrano il documento citato e l'Epistola pro Augusto 100 Sul debito pubblico a Napoli in etaÁ moderna cfr. la recente sintesi di G. Sabatini, Il debito pubblico degli Stati regionali italiani in etaÁ moderna nella piu recente storiografia, in La storiografia italiana. Un bilancio degli studi piu recenti in etaÁ moderna e contemporanea, a cura di A. Moioli, F. Piola Caselli, UniversitaÁ degli Studi di Cassino, Cassino 2004, pp. 103-14, che rappresenta il punto d'arrivo di ricerche (condotte, tra gli altri, da Giovanni Muto, Roberto Mantelli, Ilaria Zilli) che prendono avvio dall'ormai classico L. De Rosa, Studi sugli arrendamenti: aspetti della distribuzione della richezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale: 16491806, L'Arte tipografica, Napoli 1958. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 85 Hispaniarum monarcha Philippo V, opera pubblicata nel 1703 101. Al di laÁ della difesa scontata del diritto alla successione del duca di AngioÁ, in quest'ultimo scritto sono presenti una serie di ambiguitaÁ formalistiche per sostenere tesi politiche marcatamente anti-assolutistiche sulle quali ritorneremo piu avanti. Biscardi percepiva che la successione di Filippo V nella Corona spagnola metteva in gioco l'esistenza stessa del vigente sistema del potere togato, in primo luogo sul piano del primato che godeva il ceto ministeriale, ma anche perche il nuovo governo madrileno avrebbe potuto non riconoscere le partite del debito pubblico prodotte dal precedente. Era prevedibile che entrambe le novitaÁ fossero coerenti con l'influenza francese. Nella relazione egli dimostra che l'interesse dei ceti privilegiati e l'equilibrio nella dialettica tra status corrispondeva in gran parte con l'assetto costituzionale del Paese. Eppure il primo argomento affrontato da Biscardi eÁ relativo al necessario riordino delle finanze statali, «sans les quelles on ne sauroit rien entreprendre del bon e de durable» 102. Egli segnalava lo svilimento del valore d'investimento dei beni demaniali, al punto che non si riusciva di trovare compratori, con grave 101 ...qua et ius ei assertum successionis universae monarchiae et omnia confutantur, quae pro investitura Regni Neapolitani et quo pro coeteris regnis a Germanis scripta sunt. 102 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 234 e ss.: [/235r] «les gens ont cruà qu'il ne fasoit pas bon acquerir ces sortes des biens, qui portent eux seuls touttes les chaÃrges de l'EÂtat, et qu'on a mieux aime emploier son argent aÁ acheter des vignes, des fermes et d'autres biens dans la campagne: les gens du Roy ont eu beau offrir aÁ bas prix les biens domaniaux, personne ne s'est presente pour les acheter, et le Roy s'est trouve dans l'impuissance d'avoir de l'argent dans un besoin pressent: on a peine aÁ comprendre les motifs qui ont fait agir les gens du Roy d'une maniere qui lui est si prejudiciable. On pourroit croire qu'ils n'ont eu en veuÈe que d'affranchir les biens qu'ils possedent, et ils n'en possedent point de domaniaux, ou treÂs peu. Mais pour ne pas leur [/236r] attribuer des veuÈes si interesseÂes et si indignes, ont peut croire que ce qui leur fait prendre ce parti, ca ete la facilite d'exiger sur les biens domaniaux les sommes dont on avoit besoin, facilite que'on n'avoit pas dans les biens de campagne, [de se] servir de l'argent et du catastre voieÂs qui ont paru trop longues et trop embarassant et c'est ce qui leur a fait preferer la toutte [sic] prejudiciables aux veritables interesses du Roy». Ci pare una testimonianza tutta tesa a dimostrare la sfiducia pressoche totale verso ulteriori investimenti nel debito pubblico, anche da parte degli uomini dell'apparato. Dunque mancava la fiducia nello Stato e nella sua capacitaÁ di mantenere gli impegni. EÁ notevole che Biscardi enfatizzi il particolare dell'alta percentuale d'intermediazione pretesa dai Seggi (10-15%, ivi, f. 236v), fattore che era chiaramente marginale rispetto all'ostacolo principale: la sfiducia nella controparte pubblica. 86 R. Tufano, La Francia e le Sicilie nocumento per il funzionamento dell'apparato statale e militare durante la delicata fase della successione. La proprietaÁ allodiale era infatti sottoposta a meccanismi giurisdizionali che ne rendevano difficili e rischiosi la conservazione ed il godimento, mentre le enormi vendite delle partite di fiscali e di arredamenti, avvenute in molti decenni di viceregno, avevano svilito il valore degli investimenti mobiliari. Secondo il giurista, cioÁ avveniva per due ordini di motivi: il «timore panico» conseguente alle incertezze del cambiamento dinastico aveva bloccato qualunque nuova politica di vendita, perche i «benestanti» ritenevano piu opportuno investire in proprietaÁ immobiliari; le Piazze (che egli non cita espressamente, preferendo parlare di «gens du Roy»), che curavano tradizionalmente la collocazione sul mercato di partite di fiscali e di arrendamenti (con la consueta possibilitaÁ di lucrare un consistente surplus di aggi e di tangenti), avevano operato in maniera incomprensibile per far fallire l'iniziativa, alzando a dismisura il livello di tassazione alla fonte, raggiungendo la percentuale del dieci/quindici per cento 103. Intento della memoria era mostrare la scarsa collaborazione dei nobili di Seggio o addirittura il loro intento ostile. Il primo ordine di motivi mostra come ci si trovasse in presenza di un momento economico in cui s'innescava un processo d'incremento degli investimenti nella proprietaÁ terriera, nonostante che le proprietaÁ immobiliari rendessero intorno al due per cento (cioeÁ un terzo dei tassi medi d'interesse del debito pubblico), e che solo il proprietario capace di un buon inserimento nell'establishment poteva contare sul potere necessario a rendere sicuri i suoi diritti. Era la feudalitaÁ provinciale il ceto in grado di trasformare in lucro e profitto la proprietaÁ immobiliare, a patto di occuparsene in loco personalmente, poiche esisteva una precisa norma di economia del feudo secondo la quale «o il barone 103 Nella Idea del governo politico ed economico del Regno di Napoli, edita in appendice al vol. cit. (nt. 4) di Luongo, sub voce «da chi si abbiano a prendere gli espedienti», Biscardi richiamava l'attenzione su a chi spettasse il diritto d'imporre nuove tasse tra VicereÂ, Piazze e Parlamento, «poiche vi sono esempij che tutti e tre l'habbiano imposte»: cosõÂ, «nell'83 cominciarono le Piazze della CittaÁ di Napoli ad estendere la sua autoritaÁ fuori la CittaÁ ed imposero tre impositioni sopra il sale per tutto il Regno per refezione della moneta». Il consiglio di Biscardi al governo austriaco eÁ che «piu sicuro partito che non s'impongano dal VicereÂ, ma che s'imponghino dall'uno o dall'altro publico» (p. 372). II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 87 eÁ tiranno dei vassalli o viceversa» (Francesco D'Andrea). Qualora la notizia fornita dal Biscardi fosse del tutto attendibile e non pretestuosamente addotta per lo sviluppo dei ragionamenti seguenti, essa conferma che, quando ci si trovava in fasi d'incertezze politiche, la nobiltaÁ napoletana preferiva cambiare investimenti e stile di vita, spostandosi in provincia. Lo stesso Tiberio Carafa, negli anni immediatamente precedenti la preparazione della congiura, scelse di abitare nei suoi feudi di Campomarino e Campolieto, in coincidenza di due avvenimenti: il matrimonio e lo stato di salute, minato probabilmente dalla tubercolosi 104. Egli ci testimonia inoltre la particolare attenzione che pose nell'esercizio del mero e misto impero ed i successi ottenuti nell'allevamento di cavalli, dove investõ tempo e notevoli somme di denaro per la creazione di nuove razze. La sua vita provinciale s'improntava anche a piacevoli momenti di socialitaÁ di ceto: Carafa «coltivoÁ la buona corrispondenza con tutti i baroni suoi vicini, e con essi i piaceri delle caccie, delle commedie e delle boscareccie danze, in quella provincia [il Molise] molto costumate» 105. A fronte della crisi delle partite di fiscali e di arrendamenti, Biscardi proponeva al re di Francia di limitare al massimo l'inflazione di quei titoli mediante due operazioni. In primo luogo, occorreva elevare il loro valore restringendone il mercato. In secondo luogo, bisognava ricomprare la maggior parte di essi, perche erano stati venduti ad un prezzo vile mentre il capitale ricavato avrebbe rappresentato un peso perpetuo per la monarchia. Su tale proposito il giurista ritorneraÁ qualche anno dopo, raccomandando alla corte di Vienna la ricompra dei fiscali al medesimo prezzo della vendita, onde «verrebbe a far acquisto d'una grandissima rendita, la quale s'esiggerebbe intieramente dalla Corte» 106. Tuttavia, Biscardi si mostra molto prudente su questo aspetto del rapporto tra fiscalitaÁ 104 passim. Sulla sua emottisi, cfr. Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), 105 Ivi, p. 69 ss.: «fra questi furono il duca e la duchessa di Castropignano, Tiberio Brancaccio con la sua moglie, e tutta la casa de' marchesi di Pietracatella; e de' piu vicini e piu frequenti, il giovane duca di Termoli, il duca di Celenza ed il principe di San Severo» (pp. 73-4). 106 Idea del governo politico ed economico del Regno di Napoli, cit. (nt. 103), p. 371. 88 R. Tufano, La Francia e le Sicilie statale e societaÁ napoletana, poiche «les possesseurs de ces sortes de biens doivent eÃtre bien regardeÂs comme des gens attacheÂs par interest propre au gouvernement present»; infatti «ce Roiaume ne scauroit changer de Maitre, sans qu'ils courrent risque de perdre ce biens». D'altronde, la storia del Regno meridionale aveva dimostrato in due precise circostanze, le «revolutions» del 1647 e le «troubles» del 1701, che «toute la bourgeosie et les honnetes gens» avevano sempre sostenuto la politica spagnola d'incremento del gettito fiscale: sulle nuove gabelle, «cette bourgeoisie fut ferme dans son devoir» di fedeltaÁ al monarca, perche proprio di lõ essa traeva le sue «principales subsistences». PercioÁ, per motivi piu politici che economici, «ces biens» dovranno essere affrancati «des charges de l'EÂtat» e non potranno essere rimessi in discussione se non quando i tempi lo permetteranno 107. Dal denunciato complesso di circostanze esterne e di condizioni sociali interne dipendeva il circolo dell'economia parassitaria meridionale, che aveva creato un ceto di redditieri, la cui propensione era rivolta ad investire i propri capitali nell'acquisto delle attivitaÁ statali, favorendo la crescita del debito pubblico. Si creava cosõ un vincolo che, sotto il profilo politico, assicurava una forma di lealismo ai poteri e che avrebbe assicurato la perpetuazione del sistema. Per questi motivi e per altri, legati alla logica di un diverso equilibrio nel rapporto capitale/province, Biscardi sosteneva la necessitaÁ d'aumentare la pressione fiscale sui «biens de campagne». In questo caso, sarebbe stata prudente una decisione regale senza mediazione dei corpi intermedi, attraverso l'utilizzazione dello jus prohibendi, cosõ 107 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 237v-238r. Qui si accenna ad una difficoltaÁ in cui si vennero a trovare gli ispiratori togati della rivolta: essi, per colpire la politica dei nuovi «togati con spadino» e per assicurarsi l'appoggio popolare, erano indotti ad utilizzare appieno la protesta contro l'incremento dei pesi fiscali, fenomeno che colpiva il popolo come soggetto passivo dell'imposta ed anche i precedenti redditieri, poiche svalutava, con la concorrenza di nuove gabelle, il reddito delle esistenti; ma, contemporaneamente, mentre il popolo pretendeva che i vecchi pesi fossero aboliti, i redditieri avevano interesse che fossero mantenuti. L'accordo dei due ceti valeva solo contro le gabelle nuove, non contro le vecchie. L'andamento della rivolta mise in luce subito questa frattura. L'eliminazione di Masaniello ebbe origine da questo contrasto. E tra le richieste provenienti dal fronte dei rivoltosi ve ne fu anche una altrimenti incomprensibile: ridateci le nostre gabelle. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 89 com'era stato praticato nel caso della gabella sull'acquavite. Tra i beni indicati dal togato come piu facilmente tassabili v'era il sale, su cui egli torneraÁ qualche tempo dopo nella Idea del governo politico ed economico del Regno di Napoli 108. 10. Rilancio del commercio e rinuncia alla difesa statica Il peso notevole esercitato sull'intera economia nazionale dal rifornimento di vettovaglie dalla campagna alla capitale rappresentava per Biscardi il nodo piu difficile da sciogliere per il raggiungimento di un minimo di efficienza commerciale del Regno. Fatta eccezione per il grano, la cui abbondanza nell'annona capitolina rappresentava una necessitaÁ legata al mantenimento dell'ordine pubblico, sarebbe stato necessario liberare dalle restrizioni all'esportazione tutti gli altri generi alimentari che largheggiavano nelle province e non erano di grande consumo a Napoli 109. Ma il tema del rilancio commerciale viene strettamente collegato da Biscardi sia alla necessaria emancipazione di energie finanziarie tradizionalmente legate al parassitismo economico, sia al delicato argomento del passaggio da una difesa militare statica ad una attiva. Il giurista offre una descrizione delle pessime condizioni della marina militare, non solamente per l'inferioritaÁ numerica delle navi, ma anche per il sistema di gestione che condizionava pesantemente la sua efficienza. I costi per il personale erano ingiustificatamente alti e l'intero apparato sembrava rispondere piu ad esigenze clientelari che a criteri di efficienza. Nella darsena era occupato un personale in gran parte «inutile»: «il y a des avantagiati, qui ne servent point les galeres et 108 «L'espediente piu giusto e meno sensibile e quello che tocca tutti i sudditi s'eÁ stimato che fosse il sale, che tocca il Regno universalmente e coglie anco gl'ecclesiastici. A questo espediente sta inclinata piu che ogn'altro la CittaÁ di Napoli, e di fatto nell'anno 1683, per la refezione della moneta, pose prima quindici grana per tomolo di sale, e perche non bastoÁ questa prima imposizione, pose altre grana quindici e poi altre grana sette e mezzo: riuscõ con quiete. Vi si puoÁ aggiungere altra somma, la quale faraÁ un gran capitale, tanto piu che in nessuna parte del mondo il sale va a minor prezzo che in questo regno»: Idea del governo politico ed economico del Regno di Napoli, cit. (nt. 103), p. 378. 109 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 239r-42v. 90 R. Tufano, La Francia e le Sicilie qui ont solde» e degli entratenidos, «qui sont des jeunes qui ont, qui cent ecus par mois et qui 200 pour ne rien faire» 110. Lo stesso discorso vale per il sistema statico della difesa, poiche esistono nel regno «nombre de chateaux inutiles», la cui conservazione «ne semble, que pour avoir occasion de placer des gouverneurs pourquoi ne pas les abandoner et epagner ce que leur entretien couÃte au Roy» 111. Qualche anno dopo, al di laÁ del Faro, un'identica preoccupazione impegnoÁ, per lungo tempo e senza successo, l'afrancesado vicere Los BalbaseÁs, che ricorse anche all'aiuto degli esperti Cavalieri di Malta per progettare una valida soluzione al sistema degli approvvigionamenti per la marina militare siciliana, fonte di sprechi per il bilancio statale, ma di lucrosi guadagni per gli appaltatori 112. La differenza con l'apparato militare francese era abissale, soprattutto sotto l'aspetto della capacitaÁ di quella nobiltaÁ di partecipare a pieno titolo anche nella gestione logistica e amministrativa della guerra, avvantaggiandosi di questa via per ulteriori conquiste di potere economico e di posizioni sociali. Inoltre (come poi notoÁ Tocqueville per la nobiltaÁ francese), il servizio militare rivestiva un ruolo gratuito ed obbligatorio, che soddisfaceva piu che l'ambizione di acquisire beni, considerazione o potere, il senso del dovere inerente allo status aristocratico della nascita, condizione che attribuiva giaÁ di per se grandi vantaggi sociali. Nella mentalitaÁ dei giovani aristocratici francesi il prestare servizio nelle armate del re aveva quindi il valore esclusivo d'impiegare in maniera onorevole gli anni della gioventuÂ, anche per beneficiare poi a lungo del piacere di possedere «souvenirs honorables de la vie militaire» 113. Al di laÁ delle Alpi l'affare della guerra eÁ sembrato alla storiografia piu recente in grado di saldare armoniosamente gli interessi privati delle classi dirigenti con quelli piu generali, o meglio «patrimoniali», della monarchia borbonica 114. Ma la pratica generalizzata di nomina di 110 Ivi, ff. 243v-4r. Ivi, ff. 245r e v. Analoga critica era stata formulata nel 1554 da Giulio Cesare Caracciolo, nel suo Discorso, su cui infra nt. 151. 112 Cfr. infra, cap. IV, par. 4. 113 A. de Tocqueville, De la deÂmocratie en AmeÂrique, Michel LeÂvy, Paris 1864, t. III, chap. 22, p. 433. 114 Cfr. Rowlands, The Dynastic State and the Army, cit. (cap. I, nt. 49). 111 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 91 intendants aux armeÂes, commissari direttamente responsabili davanti al re, faceva in modo di controllare senza intermediari il comando aristocratico e di centralizzare e rendere statale l'esercito 115. Tale connubio tra interessi divergenti avvenne soprattutto nel rispetto dell'ordine, dell'obbedienza alle gerarchie e del buon servizio al monarca, che furono le fondamenta piu solide per la costruzione dell'esercito francese, «gigante» del secolo XVII 116. Il segreto del successo di Luigi XIV non eÁ da vedere solamente nella perfetta politica di accomodamento degli interessi dei capi militari, ma anche nella tutela della piccola nobiltaÁ che militava nei ranghi piu bassi del corpo degli ufficiali. L'ordre du tableau emanato nel 1675 tentoÁ di regolare il delicato problema della promozione sociale e nobiliare attraverso il servizio militare. In effetti, come poi segnaloÁ Tocqueville, nelle armate francesi i limiti di rango erano posti non solamente al semplice soldato, ma anche alle ambizioni degli ufficiali, perche un corpo aristocratico non solo faceva parte d'una gerarchia, ma conteneva nel proprio seno un'altra sotto-gerarchia all'interno della quale i membri si disponevano per convenzione. Cosõ c'era chi dalla nascita era chiamato a divenire per meriti comandante di reggimento e chi invece poteva aspirare al massimo a governare una compagnia 117. La riprova della lungimiranza del sistema francese eÁ nella tranquillitaÁ raggiunta durante gli anni della minoritaÁ di Luigi XV: Filippo d'OrleÂans pote gestire al meglio le turbolenze di quel periodo grazie all'esercito ereditato dal secolo precedente. I riflessi della potenza di quella macchina bellica baluginavano a Napoli: se «smoderata» appariva al Carafa l'ambizione francese di una monarchia universale, tuttavia essa era commisurata alla sua «spaventevole potenza» militare, che le permetteva riporre ogni «malafede ne' trattati» interna115 Cfr. Cornette, Le roi de guerre. Essai sur la souverainete dans la France du Grand SieÁcle, cit. (cap. I, nt. 22), pp. 65-97 e per il periodo precedente D. Parrot, Strategy and Tactics in the Thirty Yars' War: The ``Military Revolution'', in «MilitaÈrgeschichtliche Mitteilungen», 38, 1985, pp. 7-25 e Richelieu's Army. War, Governement and Society in France, 1624-1642, Cambridge Univeristy Press, Cambridge 1991. 116 J. A. Lynn, Giant of the Grand SieÁcle: The French Army, 1610-1715, Cambridge University Press, Cambridge 1997. 117 Tocqueville, De la deÂmocratie en AmeÂrique, cit. (nt. 113), t. III, chap. 22, p. 432. 92 R. Tufano, La Francia e le Sicilie zionali, avendo «avilito» la monarchia spagnola con l'alimentare il «furore de' Turchi» e con «l'oppressione dell'Italia», mentre al nord d'Europa aveva «devastato» il Palatinato, «invaso» l'Olanda e favorito «la caduta del Re Giacomo dal Trono d'Inghilterra» 118. L'aspetto della debolezza militare dei due regni meridionali, fenomeno che ha esercitato un'invincibile forza coercitiva sullo sviluppo delle societaÁ ed economie dei regni ultra e citra Pharum, eÁ abbastanza noto alla storiografia sul regno di Napoli 119. Sul piano delle spese militari sostenute dal sud per i possedimenti del nord d'Italia, persino alcuni vicere spagnoli, come il marchese di Villafranca e il duca d'Alba, avevano ammonito rispettivamente Carlo V e Filippo II delle gravi conseguenze relative allo spostamento di risorse verso il ducato di Milano: fenomeno che tuttavia si riprodusse con regolaritaÁ costante dal quarto decennio del Cinquecento a tutto il Seicento, compreso il periodo della guerra di Successione. Se Siena, Genova e Milano corre118 Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 33-4. Sul complesso problema del ruolo dei domini italiani per la difesa dei territori della  lvarez, EspanÄoles y italianos en el Quinientos: el monarchia spagnola, cfr. M. FernaÂndez A gobierno del Milasenado, in Pueblos, naciones y estados en la historia ± Cuartas jornadas de Estudios HistoÂricos organizadas por el Departemento de Historia Medieval, Moderna y Contemporanea de la Universidad de Salamanca, Universidad de Salamanca, Salamanca 1994, pp. 5776. Sulla destinazione di gran parte del prelievo fiscale verso la Lombardia, cfr. R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli (1585-1647), Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 126-32 e G. Galasso, Milano spagnola nella prospettiva napoletana, in Id. Alla periferia dell'impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino 1994, pp. 157-84. Sul rapporto tra finanza ed impegno militare nel regno continentale, cfr. G. Fenicia, Il regno di Napoli e la difesa del Mediterraneo nell'etaÁ di Filippo II (1556-1598). Organizzazione e finanziamento, Cacucci, Bari 2003, mentre per la Lombardia cfr. M. Rizzo, Competizione politico-militare, geopolitica e mobilitazione delle risorse nell'Europa cinquecentesca. Lo Stato di Milano nell'etaÁ di Filippo II, in La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di Elena Brambilla e Giovanni Muto, Unicopli, Milano, 1997, pp. 371-387; Id., Milano e le forze del Principe. Agenti, relazioni e risorse per la difesa dell'impero di Filippo II, in Felipe II (1527-1598). Europa y la Monarquia CatoÂlica, Editorial Parteluz, Madrid 1998, vol. I, El gobierno de la monarquia (Corte y Reynos), a cura di M. Rivero RodrõÂguez, t. II, pp. 731-66; D. Maffi, Guerra ed economia: spese belliche e appaltatori militari nella Lombardia spagnola, «Storia economica», III (2000), n. 3, pp. 489-527; Id. Milano in guerra. La mobilitazione delle risorse in una provincia della Monarchia, in Le forze del Principe. Recursos, instrumentos y limites en la practica del poder soberano en los territorios de la Monarquia Hispanica, a cura di M. Rizzo, J.J. RuõÂz IbanÄez, G. Sabatini, ColecioÁn Cuadernos del Seminario ``Floridablanca'', n. 5, Universidad de Murcia, Murcia 2003, vol. I, pp. 345-408. 119 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 93 vano il rischio di essere facile preda delle mire espansionistiche francesi, tuttavia il loro inserimento geografico dentro l'Europa centrale e la lontananza dalle coste a rischio della pressione turca e magrebina riuscivano a garantire loro una maggiore produttivitaÁ e migliori possibilitaÁ di successo nell'adesione a resaux commerciali internazionali. CosõÂ, la condizione geografica e politica in cui era collocato il Mezzogiorno fu ritenuta concausa della politica estera spagnola. Sul piano degli equilibri internazionali tra le due superpotenze europee, Francia e Spagna, «la minaccia turca faceva il gioco del Re Cattolico: egli si poneva come difensore della CristianitaÁ anche contro il re Cristianissimo» 120. Di tutto questo si era reso conto Fernand Braudel nel giudizio espresso sulla politica spagnola nel Mediterraneo a proposito dell'apparente irrazionalitaÁ della spesa militare per la costruzione e manutenzione di strutture difensive statiche lungo le coste esposte al pericolo delle scorrerie turche e piratesche. Questi giudizi sulla Spagna imperiale, come ricordava recentemente Aurelio Musi a proposito della tesi di Gabriele Pepe sul Mezzogiorno come «provincia-frontiera», avevano un fondamento in teoria giusto, ma non in pratica. Insomma, gli Spagnoli avevano sviluppato una logica statica della difesa imperiale per la quale le coste piu esterne dovevano proteggere le province piu interne, e cosõ la Sicilia e il Napoletano difendevano se stesse e la Spagna dai Turchi 121. Ma il sostegno armato spagnolo era precario, e costituiva pretesto per il torchiamento fiscale, mentre la difesa statica, costosa e poco utile, esponeva il traffico marittimo alla pirateria nordafricana e dalmata e lo paralizzava. 11. Il disarmo mentale preclude la nascita dello Stato moderno Le crude osservazioni di Biscardi sulla disorganizzazione della macchina bellica del Mezzogiorno continentale c'impongono di appro120 Ajello, Toga e parassitismo: per un'analisi del costituzionalismo d'antico regime, presentazione a C. M. Spadaro, I conti della CittaÁ. Il Tribunale napoletano della Revisione (15421802), Jovene, Napoli 2003, p. 80. 121 Musi, Prefazione a Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identitaÁ italiana, op. cit. (cap. I, nt. 39), p. 38. 94 R. Tufano, La Francia e le Sicilie fondire proprio questo aspetto, partendo da un'anonima relazione molto ben informata sull'argomento inviata al re di Francia nel 1689. Molto tempo prima che il testamento di Carlo II d'Austrias fosse accettato, esponenti del corpo diplomatico, viaggiatori del Gran tour o de cabinet (come preferivano definirsi gli eÂspions nelle relazioni inviate al proprio governo, la cui letteratura meriterebbe maggiore attenzione), alcuni «regnicoli», la cui analisi sociologica dimostra un ventaglio ampio di appartenenze ed identitaÁ sociali, inviavano al ministero francese informazioni sul regno meridionale intorno allo «stato presente» della capacitaÁ militare, del governo e dell'economia 122. Da parte sua l'apparato degli affari esteri francesi mostrava di rifiutare ogni determinismo culturale e sembrava capace di accettare l'alteritaÁ: la veridicitaÁ dei dati forniti dall'anonimo memorialista eÁ puntualizzata dalle secche osservazioni a margine apposte dai francesi. Quelle statistiche erano corroborate da altre relazioni, soprattutto quelle degli agenti segreti francesi (tra cui alcune del mitico Poussin, la cui presenza eÁ segnalata fin dal tempo della guerra di Messina), la cui attivitaÁ nei regni meridionali si intensificoÁ a ridosso degli anni della Successione. Dall'insieme del materiale documentario, che inaugura la serie dei meÂmoires e documents degli Archives du MinisteÁre des Affaires EÂtrangeÁres, eÁ possibile trarre una serie d'informazioni preziose, soprattutto perche manifestano due distinti modi di guardare al regno meridionale: dalle Sicilie e dalla Francia. Per quanto concerne i documenti redatti dai francesi, essi testimoniano un modello interpretativo lontano dallo stile adoperato da quella diplomazia a partire dagli anni trenta del Settecento, che, come avremo modo di dimostrare piu avanti, diverraÁ meno attenta ai problemi sociali e molto piu interessata al mondo del governo e della Corte napoletana. Essa saraÁ descritta attraverso l'uso dell'histoire-cabale e dell'histoire-portrait, simile nel metodo ai diari di Louis de Rouvroy, duca di Saint-Simon. Questo mondo di osservatori che agivano tra Sei e Settecento si 122 La documentazione si trova presso l'A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, voll. 12, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20 e 21. Il primo documento della serie eÁ datato 1689, l'ultimo 1708. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 95 presenta eterogeneo e variegato, tuttavia compatto nel costruire sul sistema socio-politico-economico napoletano alcuni topoi che resisteranno a lungo negli ambienti governativi francesi. La nostra relazione, primo documento presente negli archivi del ministero degli esteri francesi, s'intitola Dello stato presente, forze e governo, e qualitaÁ del Regno di Napoli; e circa la facilitaÁ, con la quale le armi di V.M. ne farebbono l'acquisto 123. Il memoriale tendeva a dimostrare che il Regno, «governato secondo il prudentissimo e felicissimo metodo della M.V. e de' suoi savi e fedelissimi ministri», avrebbe dato «da se tutto il necessario per qualsivoglia occorso per la sua conservazione, in modo che l'erario di V.M. non sarebbe obbligato a diffondersi per mantenerlo» 124. Un invito dunque alla conquista del regno meridionale da parte della Francia, una preda «facile» in considerazione del pessimo stato della difesa militare. L'anonimo autore era un regnicolo e di sicuro apparteneva al ceto nobiliare e mostrava notevoli attitudini militari. Il memoriale eÁ accompagnato da una lettera cifrata anonima, rivolta direttamente al re di Francia: «je prins la liberte de faire ce memoire a votre Maieste sur la reponse des personnes etre alleÂes a Naples, au suiet des propositions qui m'avoient este fuiteÂs ». L'anonimo estensore del memoriale si dichiarava fedelissimo del re di Francia, «come fin da quattordici anni sono confirmai al cardinal d'Utre». Altre notizie biografiche sono sparse all'interno del memoriale: «nato sotto il dominio de' spagnoli, e perseguitato da medesimi cosõ lunghi e lunghi anni sono stato privo di quelli impieghi, spedienti e fatti che avrebbono vantaggiato la mia condizione». La relazione inizia con il titolo: Notizia Primiera. Delle forze e fortezze de' spagnoli nel regno di Napoli: «Non hanno gli Spagnoli in tutto un cosõ vasto regno, altro che seimila soldati dentro la propria cittaÁ di Napoli, e da novecento altri sparsi per il rimanente regno. Gli altri novecento sparsi per il regno, piu che non eÁ credibile sono quasi tutti o zoppi, o stroppi d'altro, e per lo piu hanno mogli e figli ne' luoghi dove sono. Fatti giaÁ quasi che paesani totalmente inabili, et affatto inconsapevoli del mestiere della guerra. Gli seimila di 123 124 Ivi, Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 34r e ss. Ibidem. 96 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Napoli, che sono tutti spagnoli, eccetto certa poca cavalleria, che costa di Borgognoni et Alemanni, quasi italianati, a pena bastano al Governo spagnolo, per far paura a quel popolo, che benche numeroso di poco meno di settecentomila anime, eÁ il piu vile che abbia il mondo verso la milizia, per l'assuefazione cosõ incredibile et incomparabile alla vita comoda, et a darsi buon tempo. Tanto che in questo non vi eÁ altri che l'avanzi» 125. In un'altra importante relazione, anch'essa anonima, sono confermati i dati contenuti nel documento fin qui esaminato relativi alla potenza militare ispanica nel Regno. Questa ulteriore testimonianza eÁ conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana ed eÁ stata pubblicata con pregevole commento da Marco Miletti. Questo ben informato anonimo segnalava in dettaglio il carattere di malversazione con il quale i vicere e l'apparato militare governavano la parte continentale del meridione d'Italia, lucrando sulle paghe dell'esercito spagnolo di cui si gonfiava la consistenza numerica di duemila unitaÁ: «nella Regia Scrivania di Ratione fanno con tutto cioÁ apparire tra i soldati spagnoli e torchini italiani con tutta la cavallaria in numero di ottomila combattenti sopra le compaghe delle duemila mancanti, si approvecciano i vicere suoi cortegiani et offitiali di guerra, et anche i ministri dell'istessa Scrivania» 126. L'esercito spagnolo inurbato («e di questi [soldati] non eÁ da farne, ne il piu minimo conto, poiche non bastano con effetto a guarnire le fortezze e castelli, che sono nella cittaÁ medesima, nonche a fornire per la difesa dell'aperto, et ampio giro della cittaÁ») svolgeva esclusivamente funzioni di ordine pubblico, perche «se mancasse in Napoli per due soli giorni il pane fresco, la neve e la verza, che diconsi foglia, succederebbe certo qualche tumulto, e lapidamento de' Spagnoli». 125 Ibidem. Nella cit. relazione anonima, pubblicata da Miletti, «Per scuotersi il giogo ispano», cit. (cap. II, nt. 21) sono confermati i dati contenuti relativi alla potenza militare ispanica nel Regno della nostra relazione. Tuttavia, l'anonimo segnala questa singolaritaÁ che sembra dimostrare il carattere di rapina con il quale i vicere governavano la parte continentale del meridione d'Italia (p. 193). Il dislivello tra il piano dei pagamenti in teoria erogati e quello delle presenze militari era ben noto. 126 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 97 All'incontro «il popolo tutto soffrisce e tolera, senza nemmeno aprir bocca, le maggiori ingiustizie, gli affronti e le crudeltaÁ piu tiranne et ingiuriose, che a pena sono imaginabili, con danni e maltrattamenti fino all'ultimo segno». I quadri dirigenti dell'esercito «sono tutti paggi e servidori delli VicereÂ, e gente di nessuna qualitaÁ». Per quel che riguarda il sistema di difesa nelle province del regno, il quadro fornito eÁ estremamente dettagliato, sia degli uomini che dei mezzi della difesa statica, di cui si quantificano in dettaglio persino le bocche da fuoco e lo stato delle fortezze: «Hanno gli spagnoli nel regno di Napoli le milizie, cosõ di fanteria, come di cavalleria de' medesimi regnicoli, che si dicono del Battaglione. Questa milizia del battaglione eÁ lo stesso che un puro niente. Prima: perche son tutti contadini villani, che in tempo di vita loro non hanno veduto ne guerra, ne armi [...]. Seconda: [...] sono tutti huomini ligati all'amore delle mogli e figlioli, et alla coltura delle loro possessioni et averi, e sono scritti in quel libro a discretione de' medesimi paesani reggenti delle medesime terre, o cittaÁ che siano» 127.[...] «Non mi nieco di dir francamente a V. M. che tal sorte di castelli e torri, tra' quali manca ogni fortificazione esteriore, ogni ben intesa struttura, ogni sorte di munizione, ogni necessaria provvisione, ne' quali non eÁ artiglieria necessaria, non chi sappia maneggiar quella che vi eÁ, non milizia e ne castellano o ufficiale che sia soldato, mi pare ragionevolmente impossibile che possa nessuno di essi castelli e fortezze far difesa alcuna» 128. Quanto alle forze marittime, «eÁ notorio che non hanno altro che quelle sette miserabili galere mal provvedute, e con soldati inabili [...]. In nessuna parte del regno vi eÁ arsenale, e quel che dicono di Napoli ha bisogno due anni di tempo per costruere una galera [...]» 129. Considerazioni molto simili verranno formulate negli anni seguenti, e non riportano discrepanze con quella analizzata le altre relazioni dedicate allo stato della difesa militare, neppure quelle scritte da autori di diversa estrazione sociale: ad esempio, tre anni 127 128 129 Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 34 e ss. Ibidem. Ibidem. 98 R. Tufano, La Francia e le Sicilie dopo, da tale Domenico Godevini, un avventuriero contattato dal cardinale de Janson, che dirigeva la politica francese nella corte papalina e che controllava tutta la corrispondenza in partenza per la Francia. Ma Godevini ± del quale non ci eÁ dato capire per quale motivo fosse stato condannato all'esilio dal regno di Napoli ± desideroso di riprendere i propri beni sequestrati dalle autoritaÁ spagnole, metteva a punto un piano di conquista dall'Adriatico e si dichiarava disponibile a guidare l'occupazione dell'Italia meridionale 130. Anche la relazione dell'anonimo contiene un minuto piano strategico per la conquista militare del Regno da parte francese, progetto che dimostra una fine cultura militare. Per le ragioni esposte, appariva sconveniente sperare alcunche dalla nobiltaÁ del Regno e infruttuoso sarebbe risultato il tentativo di unire i baroni per organizzare un fronte interno anti-spagnolo. L'unico modo di conquistare il regno sarebbe consistito nel portarvi un esercito, che neppure avrebbe avuto da combattere 131. Prima lo sbarco sulle coste pugliesi (con 11.000 fanti, 500 cavalieri, 12 cannoni etc.), poi la marcia verso Napoli; giunti a destinazione, sarebbe bastato all'esercito francese attendere la reazione popolare all'assedio, giaccheÂ, stanco ed affamato, il feroce popolo napoletano avrebbe annientato i 6000 spagnoli di stanza nella cittaÁ 132. CosõÂ, giaÁ nei primi anni Novanta del XVII secolo la consapevolezza di una successione borbonica era maturata a Napoli e sostituiva la sensazione d'inutile attesa dell'erede al trono di Spagna. Nella maggioranza dei casi gli autori dei memoriali ± membri della nobiltaÁ, del ceto ministeriale e della borghesia ± convergevano nelle critiche verso la forma di governo che gli spagnoli avevano voluto per le due Sicilie, e in primo luogo verso il sistema dei consigli: che «la multiplicidad de los Consejos fue la major y mas necesaria planta en EspanÄa». La svalutazione del sistema polisinodale e dei consejos fu accolta anche da Biscardi. Egli, dopo esser passato dal partito borbonico 130 131 132 Ivi, vol. 12, messaggio cifrato al f. 78 e ss, con data 30 dicembre 1692. Ivi, f. 56r e s. Ibidem. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 99 all'asburgico, e dopo aver dimostrato di essere il migliore esponente sia dell'uno sia dell'altro, realizzoÁ una sostanziale riforma della Cancelleria napoletana, instaurando un sistema che ruotava intorno al primato di un solo reggente: prima lui stesso, cui seguõ Gaetano Argento, ed infine Francesco Ventura. Alcune delle relazioni parigine spiccano per le lucide diagnosi dei mali che affliggevano il Regno e per l'esattezza delle cure e delle prognosi, anticipando temi che apparterranno alla matura critica illuminista della societaÁ meridionale. CosiccheÂ, attraverso di esse, eÁ possibile far qualche luce su uno dei periodi piu umbratili della storia meridionale. Una strana singolaritaÁ che emerge dalla lettura dei documenti riguardava la Sicilia, alla quale si pensava nei termini di una mera «appendice» del regno di Napoli. Questo modo di vedere il rapporto ed il peso specifico dei due regni ultra e citra Pharum nasceva dal fatto che l'apparato napoletano, essendo dotato di maggiore evidenza storica, aveva costituito il primo e privilegiato interlocutore della diplomazia francese. In conseguenza, il ceto ministeriale capitolino aveva, per ben precise ragioni, cercato di mettere in ombra l'apparato politico isolano, in cui il peso specifico dell'aristocrazia feudale era incomparabilmente maggiore. Quest'ultima condizione avrebbe potuto rivelarsi piu omogenea al programma di Luigi XIV, diretto a ristabilire l'armonia triadica dei ceti. Non c'eÁ dubbio che, fino al regno di Carlo II, la Sicilia era stata governata attraverso il controllo politico di Napoli. Il calcolo strategico-militare, secondo cui nella capitale partenopea si sarebbe arrivati piu facilmente manu militari attraverso l'Adriatico, si fondava sulla condizione di minor sorveglianza e di sostanziale abbandono di quelle coste: si pensi all'assurditaÁ di rinunziare, lasciandolo insabbiare, ad un porto naturale ampio e splendido come quello di Brindisi, tale da ospitare grandi flotte senza richiedere continua manutenzione; ma si temeva che fosse utilizzato dai nemici. Il tragitto da Trieste a Bari divenne, invece, il piu importante nel seguente periodo austriaco, mentre il Tirreno era e rimase la via obbligata del traffico francese. 100 R. Tufano, La Francia e le Sicilie 12. Un nobile descrive il quadro politico-cetuale napoletano Le considerazioni sullo stato di disordine militare e di estrema inefficienza bellica napoletana sono solo una parte delle osservazioni che l'anonimo collega all'ostracismo centenario realizzato contro l'aristocrazia di Seggio dai togati padroni della res publica, e rientrano nell'appassionato dibattito sull'incertezza del destino spagnolo a fronte delle precarie condizioni di salute del suo re ed alle prospettive incognite legate alla sua successione. Ma le puntuali e corrosive accuse alla disorganizzazione delle Sicilie e del loro governo non erano solamente le rappresentative spie dello sconforto per la sconfitta della nobiltaÁ napoletana e per il parassitismo dell'imbelle e corrotto ceto togato, ma anche il segno di prospettive ideali nuove e della cultura politica mercantilistica di una certa parte della classe dirigente meridionale. La possibilitaÁ che la morte di Carlo II apriva all'aristocrazia regnicola di rientrare nell'agone politico mutava di molto i termini dello sfruttamento di Napoli ad opera della Spagna, ossia gli argomenti che avevano contraddistinto la pubblicistica del secondo Seicento. Subito dopo la rivolta di Masaniello, la Spagna, attraverso il vicere InÄigo Velez de Guevara, conte di OnÄate, si trovoÁ nella necessitaÁ di ripristinare l'alleanza con i togati, di fingere che quel ceto dirigente fosse stato fedele a fronte delle ambiguitaÁ della vecchia aristocrazia, d'incolpare i Seggi napoletani di un'operazione di ricambio, anzi di ribaltamento filonobiliare. Azioni politiche che invece proprio Madrid aveva voluto e portato a maturazione nel 1647, sperando di avere via libera nel realizzare ritmi ancora piu intesi di sfruttamento del Regno. Il particolare dell'imposta sulla frutta eÁ la conferma lampante di questo andamento. L'istituzione di quell'imposta era stata sempre combattuta dal Collaterale togato: alla metaÁ di luglio del 1606 i Seggi erano riusciti a crearne ed ad alienarne per ottantamila ducati una prima sezione, approfittando della morte di Giovan Francesco De Ponte, della debolezza del Consiglio, da lui dominato, e di una specie d'intervallo, fino all'imporsi del reggente Fulvio di Costanzo, che ne riprese e continuoÁ la politica di rigore. Poi II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 101 il 29 agosto 1622 lo stesso Collaterale bloccoÁ «un analoga gravosa imposizione, che era stata richiesta dai seggi, sullo stesso commestibile» 133. Naturalmente, questa diga contro l'avventurismo dei Seggi crolloÁ quando, nel 1647, i «togati con spadino», nominati reggenti, presero il sopravvento nel maggior organo politico del Regno: l'imposta fu istituita, e subito esplose la reazione popolare. Essa era stata prevista dai togati «senza spadino», ossia la componente borghese del ceto ministeriale, era stata da loro a lungo scongiurata, ed infine dagli stessi auspicata e promossa, al fine di coglierne i frutti antiaristocratici ed antispagnoli. La rivoluzione era nata contro il ripristino del primato nobiliare, ottenuto dai Seggi grazie all'incremento della pressione fiscale, da loro promesso agli spagnoli in modo incauto e dissennato. La formidabile prova di forza che i rivoltosi popolari, istigati dai ministri borghesi, avevano dato, e l'eccezionale abilitaÁ di previsione e di manovra dimostrata dai togati, gente colta ed esperta, erano fenomeni eloquenti, che imponevano di ristabilire lo status quo vigente prima del tentativo di restaurare il primato della nobiltaÁ. Nel 1647, essa era ormai da oltre un secolo inesperta delle nuove tecniche gestionali, digiuna della scienza amministrativa, ignara di come pilotare il potere, il consenso ed il dinamismo sociale. Era, percioÁ, miseramente fallita l'operazione opportunistica che aveva fatto nascere due illusioni: la speranza madrilena di un ulteriore incremento del prelievo fiscale in una realtaÁ giaÁ quasi al limite del collasso, e l'illusione aristocratica di riacquistare la gestione della res publica, perduta nel 1542 e durante circa un secolo saldamente in pugno dei togati. Fu realizzata allora l'abile strategia (che oggi diremmo mediatica, molto ben descritta da Pier Luigi Rovito), secondo cui il governo spagnolo, costretto a ritornare sui suoi passi, ossia a ripristinare la 133 Le due fasi, del 1606 e del 1622, molto eloquenti, sono state sintetizzate da Saverio di Franco, giovane storico dotato di eccezionale talento, in un saggio molto efficace (cit. cap. II, nt. 16), che utilizza per il primo episodio una puntuale e (come sempre) ben documentata ricerca di Silvio Zotta (cit. cap. II, nt. 15), e per il secondo indicazioni di Michelangelo Schipa: cfr. Studi Masanielliani, a cura di Giuseppe Galasso, Soc. nap. di storia Patria, Napoli 1997, p. 327 e passim. 102 R. Tufano, La Francia e le Sicilie vecchia alleanza con i togati, incolpoÁ della rivolta l'alleato aristocratico, che aveva contribuito a realizzare quella svolta. Il governo di Madrid fu costretto a punire la nobiltaÁ, mentre, in senso inverso, fece buon viso al cattivo gioco dei vincenti avversari togati, e li premioÁ. Essi, non appena la nuova e piu disinvolta strategia ispano-nobiliare aveva avuto inizio con l'imposizione sulla frutta, dapprima avevano impedito che essa potesse prendere piede, e dopo avevano scatenato il popolo alla rivolta. Solo dopo lunghe traversie e trattative, avevano infine accettato di ripristinare il dominio spagnolo (piu blando del francese), a condizione di ritornare ad essere essi stessi l'asse portante del sistema. L'abile regia dei togati si trovoÁ, pertanto, ad essere premiata proprio dagli spagnoli che erano stati costretti, ignominiosamente, a subirla. La sostanza era tuttavia salva, perche i togati non volevano far altro che ripristinare il parassitismo di cui erano stati i sacerdotes, sia pure senza superare i limiti della decenza, e senza porsi contro l'incontenibile forza popolare. I nobili, per essere stati piu ispanizzanti degli stessi spagnoli, furono universalmente qualificati come ribelli; e per essersi sostituiti ai togati nell'alleanza con Madrid furono costretti a ritornare nell'ombra. Dopo la conclusione essi non trovarono altra ragion d'essere, che tramare per vendicarsi di un comportamento di cui loro stessi erano i responsabili. Il tentativo di aumento del gettito fiscale era stato irrazionale, incapace di prevedere il reale andamento del trend economico, e si era tradotto in un'operazione dissennata, temeraria, anche se compiuta d'accordo con il governo di Madrid in nome di un comune interesse. La rabbia per aver sbagliato quasi tutto, la disillusione ed il senso di aver subito un feroce tradimento, resero forte la tendenza nobiliare a sottrarsi comunque ai doveri della lealtaÁ verso la Corona. OnÄate procedette subito al riassetto delle contribuzioni fisse che le comunitaÁ corrispondevano al fisco sulla base della consistenza dei nuclei familiari, mentre, con la promulgazione della Prammatica XXII De vectigalibus et gabellis, puntoÁ alla riforma degli arrendamenti attraverso il principio della riscossione in solutum et pro soluto, che peroÁ concedeva agli assegnatari e consegnatari l'assoluto controllo della gestione delle dogane e delle gabelle. Il provvedimento fu dun- II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 103 que la prova della vittoria dei togati, che da allora in poi, assunsero l'aministrazione delle loro rendite, grazie ad organismi privati ma parastatali, da essi stessi diretti 134. La politica antiaristocratica che ne era scaturita aveva duramente colpito un ceto sociale verso il quale gli spagnoli incrementarono la loro diffidenza, temendolo vicino a Luigi XIV, e comunque sempre disposto a varcare, con estrema disinvoltura, i limiti posti dalla fedeltaÁ: «se sommiamo infatti ai non pochi aristocratici coinvolti nelle congiure filofrancesi degli anni quaranta e nei tentativi di Tommaso di Savoia, il ristretto numero che si schieroÁ apertamente per la rivolta, i molti che assunsero un atteggiamento di attesa e di temporeggiamento, quelli che si strinsero attorno a Filomarino, quelli che trattarono o spalleggiarono Guisa, quelli che vagheggiarono la venuta di Conde e infine i protagonisti delle congiure successive, il risultato eÁ che i sospetti spagnoli fossero fondati» 135. EÁ naturale che il crollo della trama ispano-nobiliare emersa in piena luce nel 1647 e stroncata da Masaniello, creoÁ nell'aristocrazia un clima di sbandamento. Il suo fallimento nel 1648 confermoÁ la sconfitta del 1542. Il memoriale di cui si tratta fu scritto a ridosso di tre episodi che avevano acuõÂto i timori sull'aggressivo espansionismo della monarchia del Re Sole e delle sue mire verso il Mediterraneo: il bombardamento di Genova, avvenuto nel 1684 al rifiuto della cittaÁ italiana di sospendere la costruzione di alcune galere destinate alla flotta spagnola 136; l'incidente di mare, avvenuto nel 1688, tra navi spagnole salpate da Napoli e navi transalpine; la congiura ordita nel 1688 ad Orbetello per consegnare a Luigi XIV il Presidio, considerato dagli 134 Sul governo di OnÄate a Napoli (1648-1653), cfr. G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello: politica, cultura e societaÁ, Sansoni, Firenze 1982, vol. I, pp. 17-26. Sulla politica finanziaria, cfr. L. De Rosa, Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 159 e ss., e G. Sabatini, La spesa militare nel contesto della finanza pubblica napoletana del XVII secolo, in Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), a cura di Rossella Cancila, Palermo 2007, p. 603. 135 F. Benigno, Specchi della rivoluzione. Conflitto e identitaÁ politica nell'Europa moderna, Donzelli, Roma 1999, pp. 256-7. 136 E. Lavisse, Louis XIV. Histoire d'un grand reÂgne 1634-1715, Robert Laffont, Paris 1989, p. 737. 104 R. Tufano, La Francia e le Sicilie spagnoli l'antimurale per la difesa dell'intera Italia spagnola 137. Si aggiunga a questi episodi un altro, bellico, contro Algeri, avvenuto nei primi giorni di luglio del 1688, che aveva inquietato massimamente le altre potenze marittime del Mediterraneo 138. Era evidente che in quegli anni mutavano velocemente gli scenari internazionali e l'idea della loro immobilitaÁ, due concause grazie alle quali gli spagnoli per secoli erano stati «franchi nella possessione del Regno, benche senz'armi e senza forze» 139. Per il memorialista l'equilibrio italiano dei secoli XVI e XVII si era fondato nei fatti sull'acquiescenza dell'Austria e dell'Inghilterra al dominio spagnolo nel Mezzogiorno, diretto ad arginare la «grandezza invitta» del Re Sole e la sua «potenza insuperabile», atteggiamento che si sommava alla simile politica perseguita dalle repubbliche di Genova e di Venezia, dal granducato di Toscana e, piu di chiunque altro, dalla Santa Sede 140. Il Vaticano era divenuto infatti estremamente diffidente nei confronti della Francia di Luigi XIV, di cui aveva dovuto fronteggiare il gallicanesimo ed il cesaropapismo 141. Inoltre, il Regnum era ritenuto dalla curia papale un feudo concesso ai re Cattolici a difesa temporale dell'ortodossia, un'opinione che continuava a persistere ancora nel Settecento maturo. Tuttavia, dopo gli scontri duri che avevano caratterizzato le relazioni tra Benedetto Odescalchi, papa Innocenzo XI, ed il re di Francia, nei primi dell'anno 1689 i rapporti tra i due Stati assunsero toni piu rilassati, che sarebbero migliorati dopo l'elezione di Pietro Ottoboni, papa Alessandro VIII 142. Se poi alla resa dei fatti, quest'ultimo papa non si dimostroÁ filo-francese, tuttavia la Santa Sede riuscõ ad influenzare in negativo la politica di Luigi XIV 137 G. Galasso, op. cit. (nt. 134), p. 322. Lavisse, op. cit. (nt. 136), p. 737. 139 Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 44r. La rilettura critica dei dati di bilancio del regno di Napoli in termini di spesa militare nel corso del XVII secolo proposta da Sabatini, op. cit. (nt. 134), dimostra in maniera inequivocabile che il regno mantenne durante tutto il periodo il ruolo di grande motore della spesa militare della monarchia spagnola. 140 Ibidem. 141 Cfr. L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, vol. XIV, parte II, DescleÂe & C. Editori Pontifici, Roma 1932, pp. 180-6. 142 Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), p. 186 e nt. 138 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 105 nel regno di Napoli, che si mosse a difesa del Vaticano contro l'attacco giurisdizionalistico sferrato dal Collaterale a partire dall'anno della successione al trono di Spagna 143. Questo atteggiamento alienoÁ alla Francia l'alleanza con il ministero napoletano, giaÁ resa problematica da altri seri motivi d'interesse cetuale. Per avere una precisa idea dei sentimenti nutriti dalla nobiltaÁ napoletana contro la res publica creata dal dominio spagnolo, che abbiamo visto efficacemente descritta da Serafino Biscardi come «borghese» e togata, basta seguire il filo del discorso seguito dal nostro anonimo nella seconda parte della sua relazione, intitolata Del governo e trattamento de' Spagnoli nel Regno di Napoli. D'altronde, le sue osservazioni sono talmente precise e puntuali, che sarebbe una perdita di efficacia esplicativa il volerle sostituire con un'altra narrazione: «1ë Hanno venduto [gli spagnoli] quasi tutto il patrimonio regio, per farsi tanti interessati a loro favore in tali compre. Questi interessati peroÁ sono tutti uomini di negozio e di penna, niente abili alle armi, e tutti si riducono dentro il ristretto di Napoli, in modo che il resto del Regno non ha che fare in questo interesse. 2ë Han permesso finora la tosatura e falsificazione della moneta pubblicamente. Disorte che in diece scudi d'argento di quella moneta non ve n'erano quattro di valore intrinseco e reale; e adesso presentemente, che l'hanno fatta di nuovo ci hanno posto piu liga del consueto, e cresciutala di prezzo per tenere cosõ sempre distrutto il regno. 3ë Hanno proibito, ad ultimo esterminio de regno, tutto l'uso de' navilii da quelli che servono per la pesca in poi, e per piccoli trasporti, et hanno bandito l'uso delle negotiature. In modo che essi Spagnoli non hanno da potersi valere in tutto il regno nemmeno d'un minimo legno ne' bisogni. E tutti nel regno percioÁ li hanno in odio immenso. 4ë Han fatto finta e mostra di non risentirsi de' delitti et eccessi de' nobili e titolati, ma solamente di contentarsi del denaro in pena. Con che hanno spogliato, rovinato et annichilito tutti li nobili, tutti gli titoli, fino all'ultima miseria, calamitaÁ et esterminio. 5ë Con la permissione di tanti delitti et eccessi hanno introdotto un 143 Cfr. infra, cap. III, par. 4. 106 R. Tufano, La Francia e le Sicilie odio implacabile tra la nobiltaÁ et il popolo, et un'inimicizia capitalissima tra gli vassalli e li baroni loro padroni. LoccheÂ, con effetto si vide nella sollevazione di Napoli di trent'anni sono, che fu assai piu contro la nobiltaÁ e titolati, che contro li propii spagnoli. 6ë Hanno preso a proteggere gli sudditi villani contro gli nobili titolati, padroni di quelli. Facendo ad istanza d'ogni plebeo e contadino gl'insulti piu affrontosi e le ingiustizie piu pungenti, con danni notabilissimi et incessanti alli nobili titolati. Dal che eÁ nato et eÁ presentemente in quel Regno che il vassallo non fa conto del padrone, e l'inferisce danni a suo piacere, e che il padrone attenda continuamente, o ad uccidere il suo suddito, o a scorticarlo et annientarlo; onde li Spagnoli, benche odiati dal popolo et abborriti da nobili tutti, per le riferite calamitaÁ si mantengono, cosõ come dicono dalla Cassa di Maometto. 7ë Hanno pervertito la giustizia facendo che il creditore non arrivi mai ad esser pagato dal debitore, e che qual si voglia litigio non habbia mai fine, con che tengono tutti gli titolati soggetti et avviliti. E conseguiscono che il resto del denaro si spenda nelle liti. Che un fratello sia inimico con l'altro e cosõ tutti da mano in mano, e financo il figlio inimico del padre o madre; e di tenere piu di centomila uomini della cittaÁ effettivi storditi, immersi, involti e fatui ne' Tribunali e Consigli. 8ë Oltre il fomentare la perpetua inimicizia tra il popolo e nobiltaÁ, han procurato annullare la dignitaÁ e carattere de' titoli vendendoli per poche centinaia di ducati a persone di bassissima condizione. Per lo che il baronaggio napolitano non eÁ mai unibile concordemente. 9ë Han permerso avanzarsi il pretismo a numero cosõ stravagante che eccede ogni credenza. Poiche in un villaggio, per esempio, che a pena faraÁ cinquecento anime si contano almeno cento preti e clerici. Han fatto questo supponendo di spogliare maggiormente quei popoli e di gente, perche i preti non s'accasassero, e di spirito, perche gli preti non s'applicano all'armi» 144. Questo eÁ il quadro crudo e spietato, tutto antimercantilistico, delle condizioni in cui il regno napoletano continentale si trovava, e che la Francia di Louis XIV intendeva recuperare, rigenerandolo profondamente, in base ad idee ed ideali diametralmente opposti a quelli lõ dominanti, che ci appaiono invece come impaludati e me144 Ivi, ff. 42r-5r. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 107 fitici. Nella parte analitica delle condizioni della dialettica tra status nel Regno questa relazione non differisce da tanti altri memoriali. La nobiltaÁ ± una volta, al tempo dei re di Napoli, «torbidissima» e di «molte forze», percioÁ «dedita a fazioni che tenevano la Regia autoritaÁ in continuo moto» ± era ora ridotta a misera cosa 145. La stasi si era sostituita al dinamismo del cavallo rampante: fino al punto che, il baronaggio, «non applicato alla virtu», eÁ «incapace della piu minima politica», ed eÁ arrivato al punto «che discorrerne tra di essi di politica cagionarebbe derisione» 146. Le cause del degrado nobiliare sono indicate in quattro fenomeni: 1) l'inflazione dei titoli nobiliari, causata dal fenomeno della venalitaÁ spagnola; 2) l'«altura insopportabile» dei togati, «che calpestano e disprezzano la nobiltaÁ, con una desistimazione, la piu affrontata che possa supponersi». Essi accrescono i propri patrimoni, facendo «quasi per forza li migliori matrimoni che sono nella cittaÁ»; 3) l'estrema divisione politica all'interno dello stesso ceto nobiliare, con fratture di senso sia verticale sia territoriale; 4) la forza di pressione della carica disciplinante esercitata dagli spagnoli che sono stati indotti dalle vicende di metaÁ secolo ad inimicarsi, senza speranza di recupero, la nobiltaÁ del regno 147. In questa cupa descrizione, la societaÁ meridionale eÁ solamente il brullo terreno dello scontro di ceti tra l'antica nobiltaÁ, distinta in «prima e seconda di rendita e stato», la nuova, formata dai genovesi e da gente giunta di recente, ed ancora i togati, i borghesi ed il popolo. Il risultato della dialettica sociale eÁ che solo il ceto ministeriale guadagna dall'alleanza con la Spagna posizioni di governo e di ricchezza, mentre le altre componenti pagano all'accordo tra conquistatori ed apparato giuridico l'altissimo e comune prezzo del sottosviluppo generale. In questa filiera, tutt'altro che virtuosa, la finanza pubblica eÁ presentata come l'unico settore attivo di un'economia da tempo immemorabile in declino: essa assorbe tutte le risorse dal circuito com145 146 147 Ivi, f. 45r. Ivi, f. 46v. Ivi, passim. 108 R. Tufano, La Francia e le Sicilie merciale e produttivo a vantaggio esclusivo di un sistema di potere, composto da «uomini di penna e di negozio», che approfittano delle opportunitaÁ speculative offerte dal sistema statale messo all'asta. Un vuoto assoluto aveva preso il posto della componente militare, che idealisticamente era giudicata dai sacerdotes ecclesiae et juris qualcosa di violento e di volgare, mentre altrove serviva a rinsaldare l'unitaÁ patriottica della comunitaÁ, ad indurla a coltivare i valori del coraggio, della concretezza e del rigore, ed a disprezzare le finzioni, le ipocrisie ed i formalismi. Ma la netta contrapposizione tra questi due ultimi ceti, untuosi ed in realtaÁ inclini all'affarismo parassitario, da un lato, la nobiltaÁ feudale ed il patriziato urbano, dall'altro, appare troppo schematica, perche non spiega i rapporti che legavano la finanza statale al patriziato napoletano, sprovvisto di entrate feudali e pertanto attratto ed impegnato nelle speculazioni finanziarie ruotanti intorno alla corte viceregia: le Piazze ricavavano grandi profitti dalla gestione dei donativi e dalla trasformazione delle gabelle in partite fiscali, come aveva denunciato Serafino Biscardi nella sua relazione 148. Dunque uscire dal parassitismo sarebbe stato come pretendere che una sanguisuga si trasformasse in farfalla. 13. Una nobiltaÁ incapace d'essere «ordine» L'esempio storico addotto dall'autore del memoriale per dimostrare la decadenza dell'aristocrazia eÁ quello della rivoluzione del 1647, un evento talmente traumatico per la societaÁ napoletana che l'interpretazione di quei fatti fu travisata dalla storiografia sincrona e dalla pubblicistica che seguõÂ. PercioÁ l'autore vuole smentire chiunque sostenga la tesi della lealtaÁ nobiliare verso la Corona spagnola, recando le prove della falsitaÁ di una spiegazione diffusa negli ambienti aristocratici: ossia che «nell'ultima sollevazione di Napoli il baronaggio fu quello che reprime' [represse] coll'armi il popolo e restituõ li Spagnoli nel Regno» 149. La confutazione ch'egli offre contro chi vo148 Su questo aspetto cfr. infra cap. III, § 4, pp. 146-50. Ivi, f. 45r. Sul «destino curioso» della vicenda del 1647-48 a Napoli e nel Mezzogiorno a causa del prevalere della soggettivitaÁ di chi scrisse sulla spiegazione delle cause, cfr. 149 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 109 leva sostenere il lealismo nobiliare non fornisce alcun nuovo elemento di discussione sulla rivolta, ma sembra confermare, con l'importanza esclusiva attribuita al ruolo della componente economico-sociale, la natura di conflitto di classe dell'evento, cosõ come alcune ricostruzioni storiche hanno sostenuto a partire dal tardo Ottocento, soprattutto quella di Michelangelo Schipa 150. Ma, seppure in maniera indiretta, l'anonimo fornisce alcuni elementi di valutazione che collimano coi risultati raggiunti dalla storiografia che ha collocato la rivoluzione napoletana nel contesto del costituzionalismo secentesco, ponendola percioÁ in parallelo con la rivolta catalana e con la Fronda 151. Innanzitutto il baronaggio «si mosse contro il popolo per difesa sua propria, atteso [che] per tutto il Regno il popolo si rivoltoÁ assai piu contro gli Titolati che contro gli Spagnoli». Di fronte alla rivoluzione di popolo antiaristocratica, la nobiltaÁ fu costretta ad intervenire per autodifesa, ma solo a seguito di una serie di circostanze fortuite le riuscõ di restituire il regno agli Spagnoli: come a dire che essa fece di una mera «necessitaÁ» esistenziale una falsa «virtu» di lealtaÁ, mentre risponde piuttosto al vero che «tutto il Baronaggio e A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Napoli 1989. Cfr. sulla storiografia contemporanea alla rivolta, S. D'Alessio, Ordo naturalis e infrazione. Per una metaforologia della rivolta maselliana, in «Filosofia politica», XII, 1988, fasc. 2, pp. 249-82. Una lettura critica che fa luce sui «dilemmi irrisolti di una stratificata tradizione interpretativa» che hanno finito con il rendere enigmatico quell'episodio della storia napoletana eÁ in Benigno, Specchi della rivoluzione, cit. (nt. 135), pp. 199-285. 150 Su questa linea anche Musi (op. cit., nt. 149) per il quale eÁ possibile individuare una precisa direzione antinobiliare negli obiettivi e nella prassi originaria dei rivoltosi. 151 Per l'approccio storiografico costituzionalista, si v. di P.L. Rovito, La rivoluzione costituzionale di Napoli (1647-8), in «Rivista storica Italiana», XCVIII, 1986, fasc. 2, pp. 367-462 e La rivolta dei notabili. Ordinamenti municipali e dialettica dei ceti in Calabria citra 1647-1650, Jovene, Napoli 1989, le cui tesi s'inseriscono nei quadri piu generali della storia di Napoli costruiti da Raffaele Ajello e dalla sua eÂquipe. Il punto di partenza di questa ricostruzione eÁ determinato dalla perdita del potere politico della nobiltaÁ napoletana, a partire dal viceregno di don Pedro de Toledo con la espulsione dei membri laici dalla Cancelleria (1542): cfr. R. Pilati, Officia Principis. Politica e amministrazione a Napoli nel Cinquecento, Jovene, Napoli 1994, spec. le pp. 243-4, mentre sull'importanza costituzionale della Cancelleria nella prima metaÁ del Cinquecento, v. Cernigliaro, SovranitaÁ, cit. in nt. 27, p. 99. Una sintesi organica di queste vicende in Ajello, Una societaÁ, cit. (nt. 12): vi eÁ pubblicato in Appendice il Discorso sopra il regno di Napoli, 1554-1558, pp. 261-381, che eÁ il programma politico, militare ed economico della napoletana nobiltaÁ di spada. Per una bibliografia ragionata sull'argomento si rimanda a Benigno, op. cit. (nt. 135), pp. 199-285. 110 R. Tufano, La Francia e le Sicilie NobiltaÁ conservano odio ben inimico verso gli Spagnoli» 152. In realtaÁ il popolo ed i togati si rivolsero contro la nobiltaÁ di Seggio perche fu evidente, documentata e particolarmente oscena la sua intenzione di svendere ulteriormente e senza freni il Regno agli spagnoli, pur di recuperare il potere assegnato da Pedro de Toledo agli uomini di toga. Lo scrivente, difensore dell'aristocrazia di spada, non poteva di certo rievocare quella bassezza. Infatti la evita accuratamente. A questo scopo la sua analisi rifugge da riferimenti espliciti alle situazioni che innescarono la miccia rivoluzionaria, ossia al problema delle imposte indirette ed alla loro escalation, che fu massima negli anni 1642-47, a seguito dell'accordo tra l'aristocrazia delle Piazze e i magistrati regi (ma, ben intesi, ormai in gran maggioranza «con spadino») per creare nuove gabelle e per venderne ai privati la rendita futura, fenomeno molto evidente e giaÁ denunciato dal vicere Ossuna a Filippo III fin dal settembre del 1619 153. Ma eÁ presente solo un'affermazione generica, tuttavia sufficiente ad indicare, oltre che l'esistenza di una frattura al vertice della classe dirigente, sulla quale l'autore insiste a piu riprese, uno scontro di classe in atto nel Seicento napoletano: «detti Titolati per non essere impiegati da' Spagnoli ne nel Politico, ne nel Militare [...], non attendono ad altro che a strapazzare gli loro vassalli, torgli la robba e molte volte la vita: perlocheÂ, essi hanno acquistato l'odio irreconciliabile de' 152 Ivi, f. 45r. e ss.: «che il baronaggio e nobiltaÁ si moverono contro il popolo, per difesa loro propria. Atteso per tutto il regno il popolo si rivoltoÁ assai piu contro gli titolati, che contro gli spagnoli: conche quei pochi sforzi de' titolati furono allora come per causa propria. Averono che fare gli titolati con un popolo vile, e cosõ non eÁ molto, che tra due quasi ciechi, vinca chi ci vede qualche piccolo tantinuccio. Oltre che erano agli nobili uniti li spagnoli, che allora erano con poco soldati, come adesso non ci sono niente, ne sono per esserci. Perche il baronaggio in detta occasione, con tanto stimolo che aveva, non arrivoÁ mai ad unire nelle vicinanze di Napoli il numero di tremila uomini, e stiede sempre sulla fuga, com'eÁ noto. E poi la cosa si accomodoÁ per accordo». A f. 48r la citazione riportata nel testo. 153 Cfr. su questo aspetto le tesi di R. Colapietra, Il governo spagnolo nell'Italia meridionale (Napoli dal 1580 al 1648), in Storia di Napoli, vol. V, t. I, Napoli 1972, pp. 163-278, che ritiene importante, ai fini della spiegazione della rivolta del 1647-48, la frattura creatasi tra l'oligarchia affaristica della Capitale ed il baronaggio, oltre al contrasto tra il «partito genovese» (che tendeva ad aumentare la pressione fiscale sulla borghesia provinciale ed urbana) e l'aristocrazia finanziaria di Seggio, timorosa di perdere il controllo del sistema fiscale-finanziario. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 111 Vassalli» 154. Dunque gli spagnoli, riducendo il peso pubblico dell'aristocrazia, le fecero perdere esperienza e senso del concreto, ma per di piu crearono le condizioni che la snervarono, immiserirono e traviarono intimamente. Ma l'anonimo non fa riferimento a forme di rendita nobiliare diverse da quella ricavata unicamente dallo sfruttamento della proprietaÁ terriera, «perche stante la probizione d'ogni negoziatura e trafico, tutte le rendite de' Titolati del Regno consistono in terre seminatorie, industrie di animali commestibili e di cavalli e di altre simili cose di campagna: di sorte che se perdessero queste entrade e tali sorte di rendita resterebbero di colpo privi affatto dal modo di potersi mantenere». La conseguenza era che il sistema fiscale, voluto dalla Corona spagnola ed ampiamente sfruttato dagli uomini «di penna e di negozio», riusciva a saldare gli interessi di tutti i «benestanti» a danno del popolo, perche gravava esclusivamente e in misura sempre piu crescente sulla ricchezza mobiliare, sui trasferimenti e sui consumi. I nobili erano infatti esenti dal pagamento delle gabelle e, per usare le parole di Camillo Tutini e di Marino Verde, «con la loro potenza» potevano introdurre nella cittaÁ «oglio, seta, farina, sale, carne salata, cascio, vino e mill'altre cose senza pagar datio, et ne empivano le loro case sembrando tanti fondachi e magazzini, vendendogli poi a prezzi esorbitanti» 155. Dopo aver indicato questo grave problema in poche righe, l'anonimo poneva al lettore una domanda retorica: cosa sarebbe stato del dominio spagnolo nel Regno qualora il baronaggio fosse stato guidato da un vero spirito di rivalsa e d'indipendenza e avesse posseduta una vera forza militare, anziche i tre mila soldati «villici», e si fosse con cosciente spirito strategico «riunito» al popolo? Invece, gli avvenimenti conclusivi della rivolta si volsero casualmente verso la 154 Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 48r. Tutini e Verde, Racconto della sollevazione di Napoli accaduta nell'anno MDCXLVII, a cura di Pietro Messina, Istituto Storico Italiano per l'EtaÁ Moderna e Contemporanea, Roma 1997, p. 8. Il manoscritto, coevo ai fatti rivoluzionari, eÁ conservato nella biblioteca della SocietaÁ napoletana di Storia Patria e fu utilizzato da Michelangelo Schipa nella sua indagine sulle radici storiche del conflitto sociale nei termini di scontro di classe: cfr. la penetrante analisi di Benigno, op. cit. (nt. 135), pp. 211-14 anche per la bibliografia. 155 112 R. Tufano, La Francia e le Sicilie fine dello scontro, soprattutto a seguito di un accidente che servõ a chiudere la rivoluzione napoletana: «Se la incostanza del popolo, guidato da uomini di bassa condizione, non avesse operato la casual prigionia del fu duca di Ghisa, fra pochi altri giorni, la nobiltaÁ, giaÁ stracca, e senza mai essere venuta a combattimento e fatto d'armi alcuno, si sarebbe unita al popolo, e discacciati gli spagnoli» 156. La spontanea rivolta fu un'occasione perduta per un radicale mutamento del sistema di governo. Il popolo «incostante», «guidato da uomini di bassa condizione», e la nobiltaÁ inconfidente, ma priva di una vera coscienza cetuale e quindi incapace di esprimere un progetto politico alternativo, inducevano l'autore ad una diagnosi significativa: la cittaÁ ed il regno di Napoli vivono sotto un regime repubblicano (la vera «Real Repubblica Napolitana»), fondato sul forte accordo tra Spagna e ceto togato che, emissione della «borgeoisie», assicura la stabilitaÁ di quel patto, garantendo l'interesse di entrambe le parti mediante i vincoli creati dal debito pubblico. Tre decenni piu tardi il vicere von Althann noteraÁ anch'egli che all'assetto politico del Regno mancava soltanto il nome di repubblica, mentre quelle condizioni di fatto esistevano giaÁ 157. Come abbiamo avuto modo di notare, anche per il ministeriale Biscardi la storia del Regno meridionale aveva dimostrato durante la «reÂvolution» del 1647 e poi nelle «troubles» del 1701, che «toute la bourgeosie et les honneÁtes gens» furono «ferme dans ses devoir» di fedeltaÁ al re Cattolico, mantenendo il regno alla Spagna, perche proprio da quell'accordo essi traevano le loro «principales subsistences». PercioÁ «ces biens» non dovranno mai essere esatti ed affrancati «des charges de l'EÂtat» e non potranno essere rimessi in discussione se non quando i tempi lo permetteranno 158. Ma, mentre nel documento piu antico nessun cenno diretto era fatto alla possibilitaÁ che la protagonista della sommossa, la plebe, 156 157 158 Ivi, f. 45v. Lettere di Althann a Rialp, in Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (nt. 22), passim. Cfr. infra, cap. III, § 4, pp. 146-50. II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 113 potesse essere strumentalizzata da altri gruppi sociali, piu esplicita fu la ricostruzione del giurista d'Altomonte, per il quale l'unico ceto sociale del regno in grado d'essere classe dirigente era quello cui egli stesso apparteneva, anche se «on se plaint aussi beaucoup des magistrats, et peut eÃtre a bon raison sur quelques uns; mais on leur doit la justice d'advouÈer, qu'il n'y a parmi eux aucune marque de venalite sensible et apparente» 159. E rivelava la ratio togata delle sue idee mediante due proposte molto coerenti: per un verso chiedeva maggior rigore nello studio del diritto, onde evitare l'ascesa tra i ministeriali di gente dalla preparazione dubbia (forse un'allusione ad ``dottori con spadino?''), e di rendere «plus difficile le doctorat», con l'obbligare gli studenti alla frequenza universitaria, con il «prevenir les fraudes qui peuvent se commetre pour le tems destine aux eÂtudes», e con il «faire subir des examens rigoreux aux pretendans», per un altro verso il magistrato suggeriva al re di Francia di rivedere ogni titolo di concessione della patente di nobiltaÁ, limitandola ai casi sicuri non solo di «naissance», ma anche di «meÂrite» 160. Prima di analizzare la sua proposta di riforma della nobiltaÁ feudale in nobiltaÁ di servizio, secondo criteri squisitamente meritocratici, ritorniamo al documento del 1689 per continuare ad illustrare i motivi endogeni ed esogeni che l'anonimo riteneva fossero alla base della profonda crisi nobiliare che aveva colpito il Mezzogiorno d'Italia. Vi sono riconoscibili alcuni aspetti delle dinamiche complesse che regolavano il rapporto tra la monarchia di Spagna ed i ceti napoletani durante l'etaÁ moderna, oggetto di lungo e vario dibattito storiografico di recente concentratosi attorno alle funzioni di integrazione, rappresentanza e resistenza tra Stato ed ordini, per il quale rimandiano alle puntuali osservazioni di Aurelio Musi 161. I punti salienti indicati dall'anonimo insistevano sul tema di una 159 Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 252v-3r. Ivi, f. 259r-60r per la riforma degli studi universitari di diritto, f. 260r e v per la medicina; 250r-3v per la riforma delle patenti di nobiltaÁ. 161 Cfr. A. Musi, L'Italia dei vicereÂ. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de' Tirreni 2000; Id., L'impero spagnolo, in «Filosofia politica», XVI, 2002, pp. 37 ss.; Id., L'Europa moderna fra imperi e stati, Milano 2006. 160 114 R. Tufano, La Francia e le Sicilie nobiltaÁ non integrata nelle logiche del potere centrale, senza alcuna capacitaÁ di esprimere una forza economica e sociale e soprattutto lontana dall'aver preso parte a quel processo di trasformazione in classe dirigente attraverso i servizi nell'esercito, nella burocrazia e nella diplomazia, ma capace solamente di una resistenza passiva del tutto priva di una progettualitaÁ: 1) «perche tutti i Titolati e NobiltaÁ sono spogliati affatto d'ogni studio, esercizio e prattica militare, eccetto che quattro o cinque di essi, li quali si sono aspagnolati e fatti inesperti nell'ozio, benche havessero qualche piccola habilitaÁ»; 2) «perche eÁ un baronaggio non applicato alle virtuÂ, incapace della piu minima politica, a segno che discorrerne tra' di essi cagionerebbe derisione»; 3) «perche la gente del regno eÁ affatto lontana e remotissima del mestiero militare col genio, con l'animo e fin'anco co' ricordi: in modo che, benche gli Titoli potessero armare gli loro sudditi, questi non gli seguirebbono certamente; e quando volessero seguitarli, per due anni al meno non servirebbono fazione alcuna»; 4) «perche stanno tutti senza denari, scorticati e rovinati da' Spagnoli, privi di negoziatura e d'ogni altro lucro». A questi motivi si aggiungono le resistenze mentali (acquisite per abitudine e non per natura) e l'incapacitaÁ di riuscire ad essere un blocco compatto, un «ordine» fondato sul primato sociale riconosciuto al mestiere delle armi e caratterizzato da ranghi fissi, da gerarchie costanti, da privilegi e da segni distintivi della dignitaÁ e dell'onore. Alla base del processo dell'estrema frammentazione dell'«ordine» avevano contribuito alcune cause esogene di origine spagnola, innanzitutto il sovvertimento della logica degli status con l'anteporre nel regimen i togati alla nobiltaÁ di spada, ed endogene, come quelle relative alla pretesa grandezza della nobiltaÁ residente nella Capitale rispetto quella delle altre cittaÁ del Regnum. Le fratture in seno alla nobiltaÁ di spada erano multiple, orizzontali e verticali: «questa discordia [cioeÁ quella accennata in precedenza e causata dalla divisione di carattere economico della nobiltaÁ, anch'essa di carattere endogeno] eÁ ben piu crudele tra' i Titolati di garbo e la nobiltaÁ privata: II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 115 poiche questa, per il supposto di portar le medesime famiglie, non tratta quelli, ne con la piu piccola distinzione o altra sorte di Titolo, anzi con mostrarne disprezzo: ond'eÁ che questa resta senza appoggio e quelli senza ombra di seguito». Inoltre «la nobiltaÁ delle cittaÁ, [ossia i] nobili del Regno, eÁ capitalissima inimica e con odio giurato della nobiltaÁ napolitana, nella quale consiste tutto il Baronaggio, [...] perche la nobiltaÁ napolitana non vuole riconoscere per nobili suoi pari gl'altri nobili delle CittaÁ cospicue del Regno, chiamandoli Gentil'huomini di fari; et essi [soli] si dicono Cavalieri e Signori Napolitani» 162. In conclusione, per il nostro anonimo la realtaÁ del Regnum vedeva sovvertita nella pratica quotidiana l'opinione del tempo piu diffusa nell'inconscio collettivo europeo, cioe che l'«ordine» per eccellenza fosse da cercare nello statuto della nobiltaÁ. Come avremo modo di notare qui di seguito, nei giudizi sull'aristocrazia napoletana gli investigatori francesi utilizzavano tre soli criteri: la forza delle armi, il peso della ricchezza ed il grado di affidabilitaÁ. In una societaÁ nella quale vigeva una mentalitaÁ che organizzava le relazioni tra i propri membri secondo un principio di classificazioni per «ordini» e status in base al tipo e carattere delle funzioni svolte a vantaggio del corpo sociale (ad imitazione dell'antica concezione organica), il nobile era essenzialmente l'uomo di armi, il guerriero. Ne discendeva che l'imperio fosse l'essenza dell'attivitaÁ militare e nei fatti un esercito era una gerarchia di comandi organizzati tra di loro. Altra conseguenza legata a questa vedeva nel nobile l'intrinseca attitudine a svolgere in tempo di pace altre attivitaÁ implicanti un potere di comando: governare le province e le cittaÁ, rendere la giustizia nei feudi, presidiare le fortezze, detenere signorie. A Napoli la dialettica tra gli status era stata corrotta dalla demilitarizzazione dei nobili non soltanto di parte angioina: l'opzione di Toledo a favore dei sacerdotes juris aveva fatto sõ che il sistema gerarchico funzionasse quasi all'incontrario. Occorse qualche tempo perche i francesi se ne rendessero conto: cosõ solo nel 1698 fu notato che i Seggi erano altrettante «ReÂpubliques dans la ReÂpublique», in funzione del fatto che la mo162 Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 154), ff. 46r-8v. 116 R. Tufano, La Francia e le Sicilie narchia spagnola aveva favorito lo sviluppo delle funzioni politiche della Capitale, affidando ai Seggi il governo metropolitano ed al ceto togato la centralizzazione delle decisioni politico-amministrative 163. Le esperienze incrociate della Rivoluzione inglese, della Fronda e la nascita delle Province Unite facevano emergere a metaÁ del XVII secolo una prima etaÁ repubblicana, che sicuramente obbligava i membri degli affari esteri francesi a constatare la presenza di una vistosa crepa nei modelli di monarchia assoluta e di porsi dunque la prioritaÁ di forgiare nuovi semantemi per il vocabolo. Sembra tuttavia che il vocabolo res publica mantenesse ancora in Francia una polisemõÂa derivata dai secoli XVI e XVII 164. Da parte nostra notiamo che nel linguaggio della diplomazia il significato piu adatto a definire la realtaÁ politica del regno di Napoli era quello di un regime politico con strutture istituzionali non monarchiche, tuttavia subordinate al re e da lui dipendenti. In generale potremmo sostenere che il lemma in uso tra quei diplomatici prescindeva dal fatto che tali strutture operassero in regimi monarchici, oligarchici, di democrazie o di forme miste e che vi fosse concorrenza tra reÂpublique e monarchie, anzi confusione e disturbo nell'azione di governo. Aggiungiamo che la questione del repubblicanesimo urbano, che Napoli aveva drammaticamente sperimentato durante gli avvenimenti inaugurati dalla brevissima ascesa di Masaniello e ad essa seguõÂti, avraÁ pure contribuito a trasformare il linguaggio della politica in uso nel vasto dibattito sulla legittimitaÁ del potere della composita monarchia spagnola: purtuttavia l'atto solenne di proclamazione della «Real Republica Napolitana» che richiedeva la protezione di Luigi XIV, non puoÁ essere interpretato diversamente dal bisogno di conciliare la necessitaÁ di una riforma politica con il sentimento monarchico diffuso tra le popolazioni del Mezzogiorno, sicuramente alla ricerca di una fedeltaÁ meglio riposta 165 di quella verso il re di Spagna, ormai intimamente compromessa e paurosamente oscillante. 163 Ivi, f. 189r. Per l'evoluzione del termine nel vocabolario francese, cfr. E. Gojosso, Le concept de reÂpublique en France (XVIe-XVIIIe sieÁcle), Presses Universitaires d'Aix-Marseille, Aix-enProvence 1998, al quale si rimanda per la bibliografia. 165 Á E il risultato condivisibile cui perviene Musi nelle sue osservazioni su valori e 164 II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 117 E nelle province siciliane, dove la nobiltaÁ deteneva le proprie signorie, come andavano le cose? EÁ lõ che gli osservatori francesi si sposteranno alla ricerca di notizie sulle tre qualitaÁ capitali (armi, denaro, genio) di quella classe dirigente. Essi troveranno conferma del notevole accrescimento della sfera giurisdizionale della feudalitaÁ e del fatto che il compromesso tra la monarchia spagnola e il baronaggio, fondato sul riconoscimento della sovranitaÁ in cambio dell'ampliamento della giurisdizione feudale, aveva esaurito la sua capacitaÁ di rendere fedeli i baroni meridionali alla Spagna. Inoltre, i meccanismi d'integrazione messi in atto dalla monarchia spagnola avevano incontrato la resistenza posta dall'idea di un'identitaÁ nobiliare «nazionale», pronta a contrastare l'inserimento dei genovesi nel Mezzogiorno con la loro trasformazione in eÂlite locale e ferma nella gelosa difesa dell'autonomia ai fini della conservazione e dell'allargamento della sfera dei privilegi a discapito delle comunitaÁ locali e dei beni demaniali. La storiografia sul Mezzogiorno moderno converge sulla periodizzazione della tendenza della colonia genovese presente nelle Sicilie all'infeudamento: se a metaÁ del Cinquecento la penetrazione feudale dei liguri non era ancora importante e diretta, tra il XVI e il XVII secolo s'attuava il massiccio insediamento di appartenenti a quel ceto mercantile nella feudalitaÁ locale e, in qualche caso, si assistette all'ascrizione ad uno dei seggi nobili della Capitale come coronamento della piena integrazione sociale 166. Quando guardava fuori da Napoli l'osservatore perdeva di vista la fisionomia e l'unitaÁ del gruppo sociale e politico dei nobili residenti nella capitale e sceglieva di narrare dei «luoghi antropologici», dove interagivano pesantemente le parentele e la politica. Seguendolo in contenuti del concetto di «fedeltaÁ» al re nelle popolazioni dell'Italia meridionale durante l'etaÁ spagnola: L'Italia dei vicereÂ, cit. nt. 161, pp. 149-64. Qui la formula «meglio riposta» va intesa come ben diversa dal punto di vista critico e qualitativo. 166 Cfr. Galasso, Economia e societaÁ nella Calabria, cit. (nt. 55); F. Cozzetto, Lo Stato di Aiello. Feudo, istituzioni e societaÁ nel Mezzogiorno moderno, Napoli 2001; M.A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d'Otranto tra medioevo ed etaÁ moderna, Napoli 1988; Ead., Un groupe social ambigu: organization, strateÂgie et repreÂsentation de la noblesse napolitaine entre XVIe-XVIIIe sieÁcles, in «Annales ESC», 6, 1993 ed in ultimo A. Musi, FeudalitaÁ e genovesi nel Regno di Napoli: l'etaÁ spagnola, in corso di stampa. 118 R. Tufano, La Francia e le Sicilie quella descrizione e forzando la sua analisi con l'incrocio di altre fonti al fine di aggiungere qualche elemento prosopografico, ci eÁ forse possibile passare da un approccio rigido ad uno che privilegi la mobilitaÁ delle configurazioni politiche. 14. Conclusioni: dall'anomalia al collasso Questo capitolo eÁ stato dedicato al complesso delle valutazioni elaborate dai numerosi ed acuti osservatori politici, francesi o italiani, che erano stati messi in attivitaÁ dalla diplomazia parigina, in vista della successione spagnola. Per concludere su questo tema, si puoÁ dire che essi ± sia pure con qualche differenza di accenti dovuta alle loro diverse condizioni cetuali e funzionali, di milites o di robins ± furono d'accordo nel tracciare un quadro drammatico della situazione socioistituzionale napoletana. La preoccupazione e l'evidente rammarico di quegli analisti era che la profonda crisi creava una distanza enorme tra le nuove aperture derivanti nel Mezzogiorno dalla svolta dinastica spagnola e l'incapacitaÁ delle popolazioni di avvantaggiarsene: condizioni di paralisi costruite dagli assetti sociali, politici ed istituzionali presenti nella capitale del Regno. Le speranze non esattamente prevedibili, ma ampie, e le possibilitaÁ d'inserimento internazionale di cui avrebbero goduto le societaÁ meridionali dopo la morte di Carlo II contrastavano non solo con la forza invincibile di quelle strutture, ma anche con l'andamento abulico, quasi inerte, passivo, del corpo sociale napoletano. Le analisi fin qui esaminate si lasciavano fortemente condizionare dalla crisi della comunitaÁ napoletana, e dalla particolare natura di quell'involuzione, che puoÁ essere indicata cosõÂ: la forza dominante era costituita da un parassitismo che paralizzava l'economia e condizionava ogni aspetto della vita sociale, perche coinvolgeva tutti i ceti: borghesi, togati, nobili, ecclesiastici, opere pie, tutti interessati ad investire i loro risparmi nelle rendite statali. Quei cespiti erano offerti a tasso vantaggioso e presentavano doti incomparabili di sicurezza e di eventuale rapido recupero degli enormi capitali erogati per assicurarsene il godimento. Di modo che i benestanti vivevano a II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso 119 carico dei meno fortunati e delle province, e sottraevano capitali eventualmente e necessariamente diretti a sovvenzionare le imprese di rischio. Ne nasceva un blocco infrangibile, un circolo vizioso non redimibile. EÁ possibile individuare i creatori di quel sistema, i tutori e gli arbitri del suo riprodursi all'infinito, negli uomini di toga, la cui autoritaÁ era per altro garantita sia da un alto livello di cultura, sia da una lungamente collaudata esperienza gestionale, sia dal modo arbitrario e segreto con cui in quasi tutta l'Europa (Inghilterra a parte) i magistrati realizzavano le loro operazioni amministrative e di giustizia. Vedremo subito dopo che, invece, le indagini sulle situazioni delle province sembravano lasciare maggiori margini di manovra alla politica francese: aspettativa anch'essa fallimentare, perche quella soluzione avrebbe delegittimato le magistrature centrali. EÁ chiaro che la trappola napoletana e centrale era stata l'effetto di una causa lontana, la riforma del 1542, da cui era nata l'anomalia istituzionale. Di questo nesso s'individuavano gli effetti e le cause, ma non se ne aveva coscienza storica precisa e ben distinta. Certo eÁ che una considerazione sintetica emerge da tutte le relazioni: il meccanismo di dominio inventato da Pedro de Toledo, e da lui piu o meno consapevolmente realizzato, poteva essere espresso sinteticamente mediante la ben nota e bella immagine che pochi decenni piu tardi, nel 1723, Pietro Giannone creoÁ e pubblicoÁ per descrivere quel dramma: gli spagnoli avevano esaltato gli uomini di toga contro i milites, avevano cosõ mortificato e quasi spento le attitudini marziali della nobiltaÁ e della popolazione; contemporaneamente, per tenere avvinti i benestanti del Mezzogiorno alla patria spagnola, non solo li avevano incatenati facendoli partecipi degli interessi economici dello Stato dominante, ma avevano «indotto i napoletani a comprarsi le proprie catene, perche non potessero disciorsene» 167. Si era creata cosõ una saldatura degli inte167 Istoria civile del regno di Napoli di Pietro Giannone, nella stamperia di Giovanni Gravier, Napoli 1770, p. 243. 120 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ressi tra dominati e dominanti: meccanismo drammatico, ideato da Pedro de Toledo ed ulteriormente rafforzato e stabilizzato a seguito della rivolta del 1647-1648. La vera e propria restaurazione della toga ai vertici della pubblica amministrazione aveva dimostrato che quel cancro alimentava se stesso. L'anomalia aveva generato il collasso. 121 III LA POLITICA DI LUIGI XIV RILANCIO DELLE PROVINCE CONTROLLO DELLA CAPITALE 1. Inconfidenti della Spagna e cugini di Luigi XIV In una relazione inviata da Napoli alla corte di Francia, datata 15 febbraio 1693, un informatore francese assicurava il proprio governo che alla morte del re di Spagna la nobiltaÁ avrebbe desiderato un re proprio, ancora meglio se straniero, al fine di «se mettre en reÂpublique»: opzione senz'altro preferibile al dover sottostare a «la cour de Rome». Dunque, com'eÁ evidente, secondo l'analista i politici del Regno erano stressati da una sindrome continua: essere assoggettati alla corte di Roma. Questa preoccupazione si aggiungeva ad un'altra, ugualmente debilitante ma inevitabile: la dipendenza da un secondo (anzi un primo) potere esterno, ossia dalla nazione dominante. Il vocabolo reÂpublique accentuava l'aspirazione alla duplice indipendenza ed era qui usato per porre in rilievo la singolaritaÁ di quella realtaÁ politica, che registrava nella memoria sociale l'esistenza di una tripla identitaÁ: Regno, Viceregno e feudo della Chiesa. Quest'ultima era complicata dal dato di fatto che non esprimeva soltanto una condizione di vassallaggio, piu o meno legalmente fondata, ma richiamava il primato dello spirito sulla materia. Significava, quindi, diretta dipendenza dalla organizzazione mondana della vita ultraterrena, di cui, all'interno dello Stato, erano agenti e testimoni viventi gli ecclesiastici, che si sentivano sudditi di un'altra autoritaÁ. La mancata concentrazione del Super Ego istituzionale e sociale in un'immagine unitaria di patria, ossia del pater, in Italia, ed in particolare nel Mezzogiorno, portava ad un'intima frantumazione della persona pubblica, disagio profondo che si cercava di esorcizzare usando abbondantemente il termine respublica. I riflessi di questa condizione storica, che in Italia si eÁ protratta fino all'altro ieri, hanno inciso ed incidono negativamente sulla soliditaÁ psicologica ed integritaÁ morale del `cit- 122 R. Tufano, La Francia e le Sicilie tadino' (nell'accezione rousseauviana), sul suo equilibrio etico e sulla sua condizione morale. Una profonda e multipla schizofrenia politica eÁ stata per oltre un millennio e mezzo la condizione in cui hanno vissuto le popolazioni subalpine. Lõ risiedeva la vera ragione per cui gli spagnoli nutrivano malcelati sospetti sul lealismo della nobiltaÁ napoletana, soprattutto nella considerazione del forte «esprit de meÂcotentement et de revolte» che la dominava: cioÁ aveva sempre obbligato i vicere spagnoli ad attenersi alla pratica di «mettre tout en usage pour semer de la jalousie et de la discorde entre le principales Maison de Naples, pour les porter au faste et aÁ la deÂpense, pour abaisser et ruiner celles qui veuillent trop s'eÂlever, pour animer le peuple contre la noblesse, pour les diviser tous», cosõ da raggiungere lo scopo di «la tenir dans un respect aveugle aux volonteÂs du Roy» 1. Molte altre fonti insistono invece sull'inclinazione filofrancese della nobiltaÁ napoletana, che si dichiarava disposta ad accettare un re d'Oltrealpe, subordinando quella novitaÁ alla condizione necessaria che nulla venisse mutato nell'ordine costituzionale del Regnum. Ma i giudizi sull'aristocrazia siciliana erano tutt'altro che lusinghieri, anzi talvolta spregevoli: «mais toute cette noblesse, et particulierement celle qui n'est jamais sortie du royaume, est d'une ignorance, une superstition et d'une vanite inconcevable» 2. Le voci interne al regno insistevano invece sulla totale incapacitaÁ militare dell'aristocrazia locale, sulla discordia e la grande disunione che regnava tra le grandi Case, tutti fattori che non avrebbero affatto giovato alla Francia nel caso in cui si fosse imposta la necessitaÁ di una conquista manu militari di Napoli: «detti Titolati poi e Nobili e Popolo mai et il mai grande si moveranno da per essi contro gli Spagnoli, ne verranno a risoluzione o partito alcuno, ancorche fussero piu che riaffrontati e rioppressi: [...] come perche con effetto uno non si daÁ caso che si fidi dell'altro: [...] di sorte che, in materia di Stato, un fratello sicurissimamente accuserebbe l'altro, atteso che sentisse la proposta dubitarebbe im1 2 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 86v-87r. Ivi, f. 194v. III. La politica di Luigi XIV 123 mediatamente esser quella artificiosa, perloche correrebbe alla rivelazione per liberarsi dal dubbio, o per far danno al parente e vantaggiar le proprie pretenzioni in qualche litigio, che assolutamente a nessun manca» 3. Com'eÁ evidente, la critica dell'anonimo travalicava i confini della materia politica e si portava sul piano antropologico, dove perveniva ad una condanna radicale della condizione non solo civile, ma umana. Eppure non si puoÁ dire che quella feroce severitaÁ fosse infondata: come Rousseau avrebbe poi osservato, l'idea di un'umanitaÁ globale nasce non dalla metafisica, ma dall'estendersi dell'esperienza civile, ossia sociale, oltre i limiti della famiglia, del clan, ed infine dello Stato. L'uomo sente veramente come propri innanzi tutto gli impulsi che nascono dall'esperienza esistenziale 4. Pur essendo ancora lacunosa la conoscenza della nobiltaÁ napoletana, delle sue tradizioni politiche e della collocazione sul piano delle alleanze internazionali, in particolare della consistenza e della forza delle «antiche fazioni» angioine ed aragonesi ± che, secondo Pietro Giannone, erano ridotte a «reliquie», per giunta «vacillanti» nelle scelte di campo tra fine Sei ed inizio Settecento ±, di quel ceto eÁ ben noto un topos di diffusione europea: i testimoni indigeni e gli osservatori degli altri paesi la giudicavano in blocco come «inconfidente» nei confronti della Spagna, «per quanto strano possa apparire e malgrado le considerazioni di segno opposto della storiografia» 5. Le testimonianze esaminate usano come discrimen temporale il periodo a ridosso della rivolta di Masaniello, che era considerato da chi si trovava ad affrontare il giro di boa della successione di Spagna come una vera pietra miliare, un laboratorio da cui trarre informazioni preziose, a ragione della sua singolaritaÁ di conflitto sociale e politico. Di fronte all'inerzia popolare, si registra in questa fase un notevole addensamento di congiure aristocratiche filofrancesi. Il padre A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 49v. Ci riferiamo alle considerazioni di Ajello, con richiami al pensiero di Rousseau, in «Frontiera d'Europa», në 2, 2007 (pubblicato solo di recente), dal titolo GlobalitaÁ, dialettica e socialitaÁ critica. Orientamenti della storiografia nel terzo millennio, pp. 9-48. 5 P. Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, presso NiccoloÁ Naso, Napoli 1723, voll. 4, IV, p. 375. La considerazione eÁ di Benigno, op. cit. (cap. II, nt. 135), p. 257. 3 4 124 R. Tufano, La Francia e le Sicilie teatino Andrea Paolucci, giustiziato dalle autoritaÁ spagnole il 9 agosto del 1647 perche ritenuto il capo di una cospirazione di quel segno politico, era stretto congiunto dei Cosso, la potente ed aristocratica famiglia di Nido 6. Numerosi nobili congiurati sostennero il tentativo di offensiva militare di Tommaso di Savoia d'impadronirsi del Regno: mandante dell'occupazione era il cardinale Mazzarino, che cosõ teneva alta una tradizione risalente al suo predecessore, Richelieu 7. Per queste ragioni Michelangelo Schipa ha evidenziato come il movimento filofrancese nel Mezzogiorno d'Italia possedesse delle caratteristiche di lungo periodo ed una consistenza e vitalitaÁ non rinvenibile in altre realtaÁ della Penisola. Tuttavia, egli non addebita alla monarchia d'Oltrealpe alcuna responsabilitaÁ dello scatenarsi dei moti masanelliani, dei quali gli preme invece mettere in luce la matrice problematica come squisitamente economico-sociale, lasciando in ombra il ruolo della politica internazionale, almeno fino alla seconda e terza fase dei tumulti, quando essi si tradurranno in una «ribellione aperta, accanita e feroce contro il dominio di Spagna» 8. Riflettendo sulle origini della disaffezione nobiliare nei confronti della Spagna, Benigno avanza l'ipotesi che la causa sia da rinvenirsi nella congiuntura del 1639-41 e nella contrapposizione di un'importante fazione aristocratica alla politica di Medina. A peggiorare la situazione la venuta a Napoli dell'Almirante e, con la caduta di Olivares, l'arrivo del visitatore ChacoÂn: «sotto attacco erano gli uomini legati a Medina, il nerbo dell'aristocrazia lealista al regime di Olivares. Il risultato fu un clima di sospetto reciproco cosõ acuto che all'arrivo a Napoli del vicere Arcos la situazione appariva per molti aspetti allarmante» 9. Dopo 6 F. Capecelatro, Diario contenente la storia delle cose avvenute nel regno di Napoli negli anni 1647-1650, a cura di A. Granito, Napoli 1850-54, vol. I, pp. 150-2; F. Andreu, I Teatini e la rivoluzione nel regno di Napoli, in «Regnum Dei», XXX, 1974, pp. 221-396; F. Benigno, op. cit. (cap. II, nt. 135), pp. 256-8. 7 G. Carignani, Tentativi di Tommaso di Savoia d'impadronirsi del Regno di Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», VI, 1881, pp. 663-731. 8 M. Schipa, Albori di risorgimento nel mezzogiorno d'Italia, Napoli 1938, pp. 1-26. Sull'interpretazione dei moti da parte di Schipa cfr. Benigno, op. cit. (cap. II, nt. 135), ad indicem. 9 Benigno, op. cit. (cap. II, nt. 135), p. 258. III. La politica di Luigi XIV 125 Masaniello saraÁ il governo di OnÄate a riorganizzare le fila dei fedeli alla monarchia, rafforzando il potere del ceto togato, smantellando una classe dirigente aristocratica sospettata a ragione di piu o meno coperte simpatie filofrancesi e causando una serie di reazioni, tra le quali la piu notevole fu quella del principe di Montesarchio. Il tentativo d'instaurare un regno indipendente sotto il regime di don Giovanni d'Austria coinvolse, oltre al principe, l'Avalos, il principe di Troia e Gregorio Carafa, priore della Roccella 10. Attraverso la rete delle parentele dei cospiratori ne risultavano coinvolte importanti case aristocratiche, i cui nomi ricorreranno poi in documenti di periodi successivi che ci riguardano direttamente e ci accingiamo ad analizzare. Abbiamo giaÁ detto che la scelta di fedeltaÁ del primo momento avvenne comunque attraverso lo sforzo del governo francese di creare un «double» legame di fedeltaÁ alle «deux courones» di Francia e di Spagna ed abbiamo citato a testimone la corrispondenza di Luigi XIV con i Grandati napoletani, avente proprio ad oggetto questo legame doppio con la Francia e con la Corona spagnola, oramai borbonica. Tra i nomi presenti nella documentazione francese figurano il principe di Castiglione, il duca di Calabria, il principe d'Avellino, il principe di Ottajano, il duca di Giovinazzo, il principe di Bisignano, la famiglia Montesarchio, il principe di Poggioreale, il duca di Sessa, la duchessa di Monteleone, il duca d'Atri, il principe di Piombino, il principe di Santo Buono. Nella relazione del 1693, cioeÁ quella citata in premessa al paragrafo, l'osservatore francese si era spostato dalla cittaÁ partenopea nelle quattro province «principali» del Regno, Terra di Lavoro, Abruzzi, Puglie e Calabrie: in quei luoghi la nobiltaÁ napoletana perdeva l'immagine sbiadita al confronto con il potere repubblicano, che governava nella metropoli ed acquistava nitore e colore distingueÂ. In Terra di Lavoro la nobiltaÁ piu potente era quella dei Montesarchio, il cui omonimo principe viene descritto come un vecchio pieno di debiti e il cui geÂnie «paroit moins francËois que espanÄol», 10 M. Schipa, La congiura del principe di Montesarchio, in «Archivio storico per le province napoletane», III-IV, 1918, pp. 271-96; V, 1919, pp. 191-226; VI, 1920, pp. 251-79. 126 R. Tufano, La Francia e le Sicilie nonostante egli si fosse reso protagonista della congiura filofrancese che aveva mirato a rendere il regno autonomo con a capo don Giovanni d'Austria 11. Nella classifica delle nobiltaÁ meridionale creata dal francese viene subito dopo Marzio Carafa, duca di Maddaloni, ed eÁ indicato come Grande di Spagna 12. Nonostante si supponga, a ragion veduta, che il padre fosse stato avvelenato per conto del governo in un carcere madrileno, tuttavia egli era indicato di disposizione piu spagnola che francese. Questa affermazione contraddice quanto sostenuto dall'anonimo di Miletti, per il quale il duca «conserva un odio inestinguibile verso gli spagnoli», a segno tale che «ne beverebbe un mare di sangue in un sorso» 13. Della sua affezione verso la Francia peroÁ eÁ testimone un avvenimento particolare: nel 1693 Maddaloni, dopo un periodo di carcerazione per aver favorito un abate criminale, venne liberato assieme ad altri nobili dal vicere alla notizia che era in avvicinamento la flotta francese alla costa napoletana, con a capo della formazione navale il figlio bastardo del re di Francia, Jean d'EstreÂes 14. Nella graduatoria figura anche il principe di Avellino, ramo della grande famiglia Caracciolo. Nato il 17 luglio del 1668, Marino III Francesco Maria aveva sposato una sorella di Filippo Antonio Spinola, marchese di Los BalbaseÁs, che era destinato ad essere uno degli uomini piu importanti del governo spagnolo durante il periodo della guerra di successione, divenendo capitano generale, ambasciatore, vicere di Sicilia ed infine, nel 1715, consigliere di Stato. Per l'anonimo di Miletti, Marino III ostentava una «sopraffina spagnolagine», anche perche la duchessa di Terranova gli era nonna, ma soprattutto per il fatto che egli possedeva in perpetuo «uno delli sette ufficij, ch'eÁ il Gran Cam11 Cfr. infra, cap. II, nt. 56. Mentre in realtaÁ in una Lista dei Grandati di Spagna nel Regno di Napoli del 1703 vi eÁ indicato come avente il diritto al «trattamento da Grande per la sua persona»: cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 117v. Secondo Confuorto, op. cit. (cap. II, nt. 53), vol. II, pp. 256 e 285 cioÁ avvenne solamente nel 1697, data piu tarda di quella con cui eÁ datato il documento. 13 L'avvelenamento del padre eÁ confermato dal Confuorto, op. cit. (cap. II, nt. 53), vol. III, p. 117, che attribuiva la morte al tradimento del conte di Castrillo. 14 Ivi, vol. II, pp. 58-9. 12 III. La politica di Luigi XIV 127 merlangato del Regno», e temeva «che da un nuovo dominio gli potesse essere levato» 15. L'anonimo di Miletti non nutriva dubbio alcuno che il principe «siegue col genio la rettitudine del governo di Francia», sia perche ha sostenuto a piu riprese che «se Napoli havesse un re, che vi risiedesse, non vi sarebbe ne regno, ne vassallaggio piu felice», ma soprattutto perche egli riteneva che «il Regno non puol durare in mano de' Spagnoli, e supponendo che il marchese de los Valuases, troppo interessato nella Spagna e come genovese, potesse restar privo del ducato del Sesto et altre terre, che nell'istesso Regno possiede; onde si daÁ a credere, che la Francia potesse investirne i suoi figli a causa della moglie figlia del marchese Spinola» 16. La sua famiglia aspirava al Grandato, che peroÁ ottenne solamente nel 1707, a seguito dell'arrivo degli Austriaci come prezzo del tradimento alla Spagna: il principe Marino III s'era infatti messo alla testa del partito imperiale per vendicarsi dell'ingratitudine degli Spagnoli, «al fianco dei quali si era schierato nella congiura di Macchia ed aveva combattuto in Lombardia» 17. Negli Abruzzi la famiglia piu potente era quella degli Avalos del Vasto. Cesare, fratello minore di Ferdinando Emanuel d'Avalos d'Aquino Mendoza, marchese di Pescara, aveva ereditato dal 1690 il titolo a seguito della morte del nipote Diego Francesco Emanuel 18. Cesare eÁ indicato nella relazione francese come filospagnolo, ma secondo l'anonimo di Miletti la famiglia negli anni Novanta eÁ divisa sul punto della fedeltaÁ, tant'eÁ che il marchese del Vasto, padre di Cesare, «spera che la mutatione del Regno possa un giorno dare a questo tutto lo splendore e lo stato della casa d'Avalos, per il quale intento egli sarebbe il primo a seguire le armi francesi» 19. Un documento parigino 15 In Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), pp. 210-1. Ivi, p. 211. 17 Ivi, p. 212. 18 Confuorto, op. cit. (cap. II, nt. 53), vol. I, p. 298 e B. Aldimari, Memorie di famiglie nobili cosõ spente, come vive del Regno di Napoli, e d'alcune altre forastiere, StamperõÂa di Giacomo Raillard, Napoli 1691, vol. I, p. 16. 19 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, f. 84v e Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), p. 203. 16 128 R. Tufano, La Francia e le Sicilie successivo (1697) insisteva invece sulle eccellenti qualitaÁ del marchese di Pescara 20. Ma altri due personaggi chiave vengono indicati nel documento francese del 1693: il duca d'Atri ed il principe di Santo Buono. Il primo, Giovan Girolamo Acquaviva d'Atri, eÁ descritto come di genio francese: ne la relazione anonima di Miletti (che lo dipinge come di «natura quieta» e che sebbene egli «non abbia avuto disgusto dalli Spagnoli, ad ogni modo si ricordano le persecuzioni ricevute dal padre, strapazzato per cosõ dire ogni momento con carcerazioni vilipendiose»), ne i fatti relativi alla congiura di Macchia smentiranno il giudizio della spia francese. Il duca d'Atri, cugino e cognato di Giulio Acquaviva, durante la macchinazione si schieroÁ infatti dalla parte di Filippo V e contro i parenti prossimi Acquaviva di Conversano 21. Vecchi rancori lo spingevano nella direzione francese: l'antico smacco subõÂto per il declassamento della cittaÁ di Teramo da principato a ducato e l'assassinio per mano regia dello zio del padre, Andrea Conclubet marchese d'Arena, personaggio simbolo del rinnovamento culturale dell'aristocrazia napoletana, che agli occhi della monarchia spagnola aveva peccato della grave colpa di essersi prestato a soccorrere i rivoltosi di Messina 22. Il Conclubet, la cui casa era la sede delle riunioni dell'Accademia degli Investiganti, fu assassinato il 24 aprile 1675 da Giacomo Milano, marchese di San Giorgio, che nella crudele modalitaÁ con cui compõ la sua missione di morte non usoÁ «pontualitaÁ», anzi agõ con «soverchiaria», come ricordava con sdegno il cronachista Confuorto. Sia la memoria di Miletti sia altre fonti coeve indicano nell'efferato omicidio un vero e proprio delitto di Stato, tant'eÁ che «gli Spagnoli 20 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit., cap. II, nt. 60, f. 132r, Eclairessement sur les familles du Royaume de Naples. 21 F. Nicolini, Uomini di spada di chiesa di toga di studio ai tempi di Giambattista Vico, Hoepli, Milano 1942, vol. I, pp. 34-42. 22 Anonimo in Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), pp. 198-9. Notizie sul presunto delitto di Stato e sulla consecutiva carcerazione in Confuorto, op. cit. (cap. II, nt. 53), vol. I, p. 62. Sul ruolo avuto dal Conclubet nell'Accademia degli Investiganti, cfr. S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metaÁ del Seicento, D'Anna, MessinaFirenze 1965, p. 90. III. La politica di Luigi XIV 129 non vollero far costare il delitto e salvorno l'uccisore marchese di San Giorgio protegendolo in Palermo, e poi dopo alcuni anni, che ad praeteritionem lo tennero in castello, lo liberorno ex capite innotiae, rimandandolo ne' suoi stati in Calabria con isforzare il duca d'Atri, e tutti i parenti dell'ucciso a dare le parole reggie per sicurezza dell'uccisore, che dalli Spagnoli fu stimato un sicario della Corona per haver tolto dal mondo il piu odioso che havesse la medema, a pretesto, che havesse mandati soccorsi in Messina di vettovaglie» 23. In effetti, sempre secondo il Confuorto, il 5 marzo 1681, al fine di evitare la vendetta contro il marchese di San Giorgio, il vicere prese come misura preventiva l'arresto di alcuni familiari ed amici del Conclubet, affinche dessero «parola regia di non offendere» il sicario. Finirono in carcere, per essere poi liberati il 30 aprile seguente dietro pagamento di una cauzione, lo stesso duca d'Atri, Bartolomeo di Capua, principe della Riccia, e suo figlio, Marino Caracciolo, principe della Torella, e suo figlio, Giovanni Battista Spinelli, marchese di Fuscaldo e suo figlio 24. Luigi XIV aveva giaÁ nel 1697 ricevuto dall'Acquaviva molte lettere in cifra, che dimostrerebbero antichi e consolidati rapporti tra la famiglia napoletana e la Francia. Con esse Giovan Girolamo si dichiarava disposto alla morte del re di Spagna ad assumere l'incarico di guidare il partito filo-francese per occupare il Regno. L'attacco sarebbe avvenuto attraverso le Puglie e, come suggerito anche in altri casi, la conquista manu militari poteva avvenire esclusivamente attraverso uno sbarco sulle coste adriatiche. Nelle lettere del principe al re di Francia il nobile mostrava un grande odio verso l'«onnipotenza» dei genovesi, padroni del Regnum grazie alle notevoli vendite del patrimonio demaniale 25. Nei fatti, tra la fine del Cinquecento e la prima metaÁ del Seicento, s'era prodotto nei regni di Napoli e di Sicilia un nuovo equilibrio sociale a seguito dell'infeudazione come segno del radicamento dei grandi uomini d'affari genovesi nella societaÁ d'ordini 23 Anonimo in Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), pp. 199. Cfr. supra, nt. 22. 25 Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit., cap. II, nt. 60, ff. 132 e ss., tutti cifrati dal titolo Eclairessement sur les familles du Royaume de Naples. 24 130 R. Tufano, La Francia e le Sicilie del Mezzogiorno moderno 26. Tuttavia, l'esplosione di questi uomini «nuovi» si attenuava nella metaÁ del Seicento, sicche la composizione della grande aristocrazia terriera non subiva grandi mutamenti prima della fine del XVIII secolo 27. I genovesi erano troppo legati alla Corona spagnola e anche le loro strategie matrimoniali con famiglie indigene, messe in atto per meglio radicarsi nella realtaÁ meridionale, risultavano in questa fase ricche di risvolti ambigui, come nel caso prima citato del principe di Avellino. Costui s'aspettava dalla Francia la concessione dei feudi di cui era titolare il cognato, Filippo Antonio Spinola, in quanto genovese e troppo legato alla Spagna. Se cioÁ non avvenne fu perche il marchese di Los BalbaseÁs s'integroÁ invece pienamente nella nuova classe dirigente che si era creata attorno a Filippo V. Ci eÁ lecito dunque pensare che il passaggio di Marino III dalla parte austriaca sia in parte da attribuire al fallimento della sua ipotesi di consolidamento economico della propria famiglia a discapito di quella del cognato genovese. Altro personaggio citato nel documento francese del 1693 eÁ Marino Caracciolo, IV principe di Santo Buono: eÁ dipinto come un individuo troppo interessato alla carriera ed al perseguimento dei propri privati interessi, ragione per cui non mostra ne fede, ne preferenze politiche. Eppure, il figlio Carmine NiccoloÁ, V principe di Santo Buono e duca di Castel di Sangro, verraÁ premiato per la sua fedeltaÁ franco-spagnola. Era Grande di Spagna di prima classe, ma quella onoreficenza era stata ottenuta dal padre nel settembre del 1687, grazie all'intervento di Domenico Giudice, duca di Giovinazzo, che avrebbe cosõ ricambiato l'impegno del principe per la sua aggregazione al seggio di Capuana. Poi divenne ambasciatore spagnolo a Venezia ed in seguito vicere del Peru 28. Cugino di primo grado 26 A. Musi, Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Napoli 1996. G. Delille, Famiglia e proprietaÁ nel Regno di Napoli, XV-XIX secolo, Einaudi, Torino 1988, p. 70. 28 R. Barometro, Caracciolo Carmine Nicola, voce del Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIX, 1976, p. 328. Carmine era nato nel 1671 ed era morto nel 1726. In A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 15, f. 283, lettera di Santo Buono al re di Francia, datata 2 giugno 1702, con la quale il principe comunica la nomina ad ambasciatore di Spagna a Venezia. 27 III. La politica di Luigi XIV 131 del duca d'Atri, nel 1702 invioÁ al re di Francia un interessante memoriale, del quale daremo conto poco piu avanti nel tentativo di cogliere altre ragioni della fede politica nella monarchia d'Oltrealpe. 2. Santo Buono indica i «rimedi»: giustizia e decentramento Il duca di Saint-Simon aveva conosciuto personalmente Carmine NiccoloÁ Caracciolo e lo aveva frequentato sovente durante la propria missione in Spagna come ambasciatore di Francia. Ne aveva tratto un'ottima impressione: «c'eÂtait un fort honneÃte homme, treÂs consideÂreÂ, d'une conversation charmante et instructive» 29. Gradevole era anche la sua famiglia, formata dalla moglie, una Ruffo di Bagnara, e da quattro figli, anch'essi come il padre «fort honneÃtes gens», che tuttavia alla morte del principe preferirono ritornare nel regno di Napoli, percheÂ, a dire del Pari di Francia, la Spagna era ostile allo straniero che non possedesse grandi e forti legami in quella terra, tali da convincerlo a restarvi 30. Il principe di Santo Buono soffriva di gotta, ma in PeruÂ, durante il suo viceregnato, aveva sperimentato un'erba medica esente dalle controindicazioni dei rimedi europei, che se guarivano i sintomi del malanno, alla lunga finivano con l'uccidere il paziente. La gotta tuttavia non gli impediva di praticare il suo passatempo preferito, la caccia, alla quale, seduto su di un tabouret sollevato da valletti, accompagnava Filippo V: per il critico duca quest'ultimo privilegio era piuttosto segno dell'autorevolezza del personaggio e della grande stima che lo circondava, ma non del rango, giacche egli non aveva raggiunto il grado di Consigliere di Stato 31. Egli era un uomo di pregio, tanto eÁ vero che il re di Francia gli chiese di esprimere il proprio parere «sul sistema presente del governo del Regno di Napoli» in particolare cioÁ «che riflette al militare come al politico et economico» 32. Il 14 marzo del 1702, per il tramite 29 Saint-Simon, MeÂmoires (1721-1723), vol. VIII, eÂdition eÂtablie par Yves Coirault, Gallimard, Paris 1988, p. 134. 30 Ivi, p. 135. 31 Ibidem. 32 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 15, ff. 117r-34v. 132 R. Tufano, La Francia e le Sicilie del cardinale de Janson, il principe rispondeva alla regale richiesta. Per quel che riguarda le osservazioni sulla situazione del regno, la relazione del Santo Buono non differisce punto dalle precedenti che abbiamo esaminato fin qui; ma eÁ la parte propositiva, quella relativa alle possibili riforme, che si lascia apprezzare per spunti di maggiore interesse. V'eÁ da dire innanzitutto che il principe denuncia lo strapotere del ceto togato nella Capitale, mostrando come l'indebita ingerenza del Collaterale anche in materia militare indebolisca ulteriormente la giaÁ precaria situazione del Regno. La fortezza di Capua, progettata dal geniale ingegnere militare Gian Giacomo dell'Acaya, barone di Segine, per la quale Carlo V aveva previsto una rendita annua di tremila scudi, veniva governata da un «ministro togato» ed i frutti che si erano accumulati, ammontanti oramai a cinquecentoquarantamila ducati, venivano destinati dal Collaterale per scopi non bellici, mentre il reggente che amministrava la fortezza ne ricavava un compenso di seimila ducati annui 33. Per il principe il disordine dilagante nel ramo della giustizia «civile» risiedeva maggiormente nello svilimento degli oneri professionali connessi alle cariche di toga, offerte senza avere alcun riguardo al merito ed alle capacitaÁ, ma esclusivamente in base ai prosaici criteri della venalitaÁ e delle clientele. Cosõ occorreraÁ che il nuovo re licenzi «coloro che ne stimeraÁ incapaci», per «ripurghare questo corpo politico dolcemente, in modo che fra pochi anni si riduca a' quello stato di perfezione, che piu d'ogni altra cosa puol accrescere la gloria di S. M. e l'amore de' Popoli verso di lui, essendo veramente questa operazione quella che [eÁ] piu attesa da tutto il Regno, troppo afflitto et annoiato dall'essersi perduta ogni memoria di giustizia civile» 34. Santo Buono ricordava che, all'avvento al trono del duca d'AngioÁ, s'era sparsa la notizia della riforma delle procedure processuali 33 Il forte di Capua, detto pure di Carlo V, fu costruito su un progetto del 1542 dallo stesso architetto e i lavori furono diretti dall'ingegnere capuano Ambrogio Attendolo. Sulla tecnica costruttiva utilizzata dal Dell'Acaya, cfr. A. Monte, Una cittaÁ fortezza del Rinascimento meridionale, Ed. del Grifo, Lecce 1996. 34 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 15, f. 123v. III. La politica di Luigi XIV 133 per rimediare alla prassi giudiziaria che tendeva da «trent'anni in quaÁ» ad «eternare» le cause, «velandosi tal pernicioso stabilimento colli pretesti di politica e di buon governo, cioeÁ di mantenere la gente occupata ne' tribunali, di dar da vivere a tanti curialisti (che non saranno in Napoli meno di trentamila) et in fine di mantener le forze d'ognuno atterrate e non permettere l'accrescimento della robba di chisisia, benche si conoschi chiaramente che da altri posseduta» 35. Per il principe, memore del tumulto popolare scoppiato per la congiura di Macchia, al quale avevano partecipato «gran parte di simil razza di curiali sfacendati ed inutili», sarebbe molto meglio trovare il modo d'occupare i giovani nelle «buone arti meccaniche» e nel commercio piuttosto che nell'avvocatura 36. Ma la causa dei disordini nell'amministrazione della giustizia risiedeva massimamente nel modo con cui si compiva il cursus honorum della magistratura, che non s'ispirava al criterio della gradualitaÁ della progressione di carriera e di promozioni concesse in rispetto del merito e dell'anzianitaÁ nel servizio, ma procedeva per balzi irregolari, che premiavano spesso i giurisperiti peggiori. PercioÁ, egli chiedeva che si riprendesse l'uso di «pigliare da' Tribunali quei giovani che piu fiorivano nell'avvocazione e di mandarli Auditori nelle provincie, e dopo aver girato o tutte o buona parte d'esse, e che per conseguenza s'erano ben informati colla visual ricognizione dello stato del Regno, si passavano ai giudicati di Vicaria, accioÁ s'ammaestrassero non meno nel criminale che negl'atti ordinatori, di dove passando doppo ai Tribunali maggiori del Consiglio o delle Camera potevano amministrare con tante cognizioni un'intiera giustizia e rendersi capaci d'ascendere al primo ministiero del Regno, ch'eÁ la carica di Reggente del Collaterale» 37. Eppure la riforma della giustizia veniva strettamente collegata ad una profonda riconsiderazione del rapporto centro e periferia, cioeÁ quello tra la capitale e le province del regno, che aveva creato la «mostruositaÁ impropria di esser piu grande il capo di tutt'il 35 36 37 Ivi, f. 123v. Ivi, f. 124r. Ivi, f. 126r-v. 134 R. Tufano, La Francia e le Sicilie corpo», «calculandosi effettivamente d'esserci piu popolo in Napoli ch'in tutt'il resto del Regno» 38. Il problema istituzionale di centralizzare il controllo della giustizia regnicola diviene il pretesto perche il Santo Buono avanzi la sua proposta di una profonda riforma delle istituzioni giudiziarie, ritenuta propedeutica per la necessaria inversione del trend secolare che aveva svilito l'intera nazione con la crescita spropositata ed irrazionale della capitale: «pregiudizialissimo abuso introdotto e sempre piu accresciuto nei Tribunali di Napoli d'avocare in essi tutte le cause del Regno, anche minime e di pochi scudi, a segno che nell'Udienze provinciali non ve ne resta pur'una, benche minima e di bagatella, che in grado d'appellatione non siano nuovamente giudicate ne' Tribunali di Napoli» 39. Da lõ la proposta d'istituire «Tribunali Supremi di giustizia» nelle quattro province del regno, «scegliendosi per tale effetto le cittaÁ piu salubri d'aria, abbondanti e ben situate» 40. Gli effetti di questa modifica delle istituzioni giudiziarie sarebbero stati diretti ed indiretti: i primi avrebbero riguardato lo stabilimento di un buon governo nell'amministrazione della giustizia, i secondi avrebbero capovolto lo squilibrato rapporto tra la capitale e le province, a loro vantaggio. Un'altra riforma, necessaria per sottrarre dalla morsa asfissiante dell'accentramento amministrativo le province, sarebbe stata la fondazione di altre UniversitaÁ degli Studi, anch'esse rimedio alla congestione della metropoli e speranza di liberazione per «molti spiriti elevati» provinciali 41. Con il riequilibrio del rapporto tra centro e periferia, considerato fondamentale per il risanamento del regno di Napoli proprio a partire da una radicale rivoluzione delle istituzioni giudiziarie, Santo Buono chiedeva la riforma della amministrazione pubblica, il rilancio del sistema militare sia statico che dinamico, lo sfruttamento intensivo delle risorse del sottosuolo, la riorganizzazione del trasporto marittimo. Accompagnava tali proposte con l'invito ai «signori fran38 39 40 41 Ivi, f. 128r. Ivi, f. 127r. Ivi, f. 128r. Ivi, ff. 129r-30v. III. La politica di Luigi XIV 135 cesi» d'investire in maniera massiccia nel Sud d'Italia per creare stretti rapporti commerciali tra i due paesi 42. La centralitaÁ della riforma giudiziaria era dal nobile proposta negli stessi termini con cui il togato Serafino Biscardi si era rivolto al re di Francia. Tra gli esponenti piu intelligenti e rappresentativi del ceto nobiliare e del ministero togato v'era concordia sulle diagnosi e sui propositi di cambiamento, ma la prassi politica degli anni a venire provvide a rompere quest'armonia d'intenti che coinvolgeva solo gli esponenti piu illuminati del riformismo napoletano. Nelle pagine seguenti tenteremo d'illustrare il come ed il perche l'intesa non riuscõÂ. I fattori endogeni che incrociarono la politica francese nel regno di Napoli finirono per sommarsi all'evoluzione del sistema politico internazionale: questa miscela esplosiva fece in modo che gli austriaci conquistassero facilmente il regno continentale e lo governassero per ben ventisette anni. Solamente nel 1734, il felice ed inaspettato epilogo dell'avventuroso tentativo di Elisabetta Farnese di dare un regno al figlio don Carlos sembroÁ poter rimuovere le cause della schizofrenõÂa che aveva contagiato il Mezzogiorno continentale in seguito alla sua decadenza a viceregno. Infatti cioÁ che caratterizzoÁ i primi anni dell'indipendenza restaurata, ossia della «restituzione del Regno» (come gli storici di un tempo erano soliti indicare quella svolta entusiasmante), fu l'orgoglio di avere finalmente un «re proprio», rampollo di una delle piu illustri famiglie d'Europa, giovane, ricco e generoso. Esplosione di entusiasmo che conferma la diagnosi qui formulata all'inizio del precedente paragrafo, nata da un particolare della relazione anonima francese del 1693: la popolazione era vissuta in un disordine schizofrenico, dovendo appartenere contemporaneamente a tre nazioni, in lotta tra di loro. Un profondo e sottile motivo di scoraggiamento era la sindrome di chi soffre la mancanza di punti di riferimento attendibili, di chi eÁ orfano di autoritaÁ familiari e credibili, di chi eÁ paralizzato dalle incertezze. I ``regnicoli'' videro improvvisamente installarsi sul trono di Napoli il segno e l'emblema di 42 Ivi, f. 130v per l'appello ai commercianti francesi. 136 R. Tufano, La Francia e le Sicilie un'unitaÁ civile, un padre simbolico: era giovane, ma nuova voleva essere anche la comunitaÁ delle Sicilie, ossia un organismo radicalmente rigenerato. 3. Il tentativo di ridimensionare il Collaterale: l'azione di La TreÂmoõÈlle Mentre la famosa madame des Ursins tesseva la sua tela nella corte e nel governo di Filippo V, riscuotendo il successo della linea politica del re e della Maintenon, a Napoli venne inviato il fratello della principessa, Joseph Emmanuel de La TreÂmoõÈlle, nel tentativo di manovrare meglio la vita politica dell'Italia meridionale 43. Fu infatti preciso ordine di Luigi XIV che, nel dicembre del 1702, quell'abate si spostasse da Roma, dove risiedeva per collaborare con l'ambasciatore francese Janson, nella capitale partenopea 44. Il compito che gli era stato affidato dal monarca era di sostenere il vicere di Napoli in un momento estremamente delicato dei rapporti tra il Vaticano ed il regno meridionale dopo l'incidente provocato dal Collaterale con la corte romana per la mancata estradizione del ribelle Aniello Migliaccio, che, dopo aver partecipato alla congiura di Macchia, si era rifugiato a Benevento, cittaÁ sotto la giurisdizione romana 45. Nella missiva Luigi XIV esprimeva chiaramente l'intento di dare maggiori poteri al vicere in materia giurisdizionale, sottraendoli al Collaterale. Cosõ un mese dopo l'arrivo del francese a Napoli, correvano voci insistenti sui suoi reali compiti 43 Sul ruolo di Anne Marie de La TreÂmoõÈlle (vedova in seconde nozze di Flavio degli Orsini, amica della Maintenon e passata alla storia come princesse des Ursins) e sulle vicende che la videro protagonista, rimandiamo a Saint-Simon, MeÂmoires, cit. (cap. II, nt. 51), ad indicem ed a Baudrillart, cit. (cap. I, nt. 50), passim. Sul fratello, Joseph Emmanuel, nominato cardinale nel 1706 alla fine della sua missione a Napoli, si veda il giaÁ citato Saint-Simon, ad indicem. 44 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 16, ff. 177-181, Luigi XIV all'abate di La TreÂmoõÈlle. 45 Un incidente simile era giaÁ avvenuto nel febbraio del 1701 a L'Aquila per un caso di confugio di un delinquente napoletano, tale Caruso: v. la relazione di Medina-Celi a Luigi XIV del 20 dello stesso mese in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, ff. 10v-3v. Sulla volontaÁ di Luigi XIV di dare maggiori poteri al vicere in materia giurisdizionale, sottraendola al Collaterale, cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 16, lettera di Torci a TreÂmoille del 26 ottobre 1702 (ff. 177-81) e dello stesso abate al ministro francese del 14 dicembre (f. 243r e ss.). III. La politica di Luigi XIV 137 politici, ed era descritto come il vero vicere del regno 46. Tra Versailles, Madrid, Napoli e Palermo era un continuo rimbalzare di voci: i due fratelli de La TreÂmoõÈlle erano legati al piu potente gruppo di potere della Francia di quegli anni e ne rappresentavano i terminali in Spagna e a Napoli 47. Come vedremo nelle pagine seguenti, non fu facile per l'abate far quadrare il cerchio di un'improbabile concertazione tra la politica della Santa Sede, del vicere e l'estremismo giurisdizionalistico del Collaterale. Dentro questa vicenda, tutta segnata dal duro scontro politico tra il ministero togato e lo Stato pontificio, venne a consumarsi l'intera stagione francese a Napoli. Nel 1706, al termine della sua missione, il figlio del duca di Noirmoutier fu nominato cardinale, sicuramente per ricompensarlo dei servizi resi dalla sua famiglia al gruppo di potere della Maintenon. Di questa realtaÁ occorre tenere conto per comprendere meglio l'intera vicenda. Al dire di due testimoni diretti, il duca di Saint-Simon e Charlotte Elisabeth de BavieÂre, duchessa di OrleÂans, nella Corte di Francia operavano in quel frangente tre gruppi di potere contrapposti, «tout la Cour se partage entre les trois cabales»: «les uns veulent obtenir la faveur de la puissante dame [cioeÁ la Maintenon], les autres celle de Monsieur le Dauphin [Monseigneur, figlio de Louis XIV], d'autres encore celle du duc de Bourgogne [nipote di Luigi XIV e figlio del precedente] 48. Considerando che i due duchi si frequentavano molto poco, sia per motivi gerarchici sia a causa di una reciproca 46 Ivi, vol. 17, TreÂmoõÈlle a Torci, Napoli 4 gennaio 1703, f. 4r-v. Nella lettera (in parte cifrata) il nobile confessava al ministro francese che egli sperava di non aver urtato il governo spagnolo, dal momento che il vicere di Napoli non mostrava affatto di dispiacersi della sua intromissione nella politica interna. 47 Sulla geografia del potere nella corte di Versailles nell'etaÁ della successione di Spagna, rimandiamo al giaÁ citato Saint-Simon ed all'interpretazione di Le Roy Ladurie, op. cit. (cap. I, nt. 49), pp. 181-235: «le groupe exerce aussi une certaine influence internationale, notamment en Espagne, aÁ travers Mme des Ursins et la premieÂre femme de Philippe V, qui n'est autre que la súur de la duchesse de Bourgogne [...]; ces deux princesses sont en bons terms avec la Maintenon, et l'une avec l'autre» (p. 212). 48 Correspondance de Madame, duchesse d'OrleÂans, extraite de ses lettres originales deÂposeÂes aux Archives de Hannovre et de ses lettres publieÂes par M.L.-W. Holland, traduction et notes par Ernest JargleÂ, E. Bouillon, Paris 1890 (2 ed.), vol. II, pp. 101-2 (lettere del 28 septembre 1709 e del 23 deÂcembre 1710). 138 R. Tufano, La Francia e le Sicilie antipatia, e che i due testi qui utilizzati rimasero inediti per molto tempo ancora dopo la morte di entrambi, l'esatta coincidenza tra le due testimonianze eÁ prova inconfutabile dell'esistenza nella Corte dei conflitti accennati 49. Il primo gruppo, guidato dalla Patronne, era il piu potente, perche piu vicino al re. Ne facevano parte i residui delle vecchie dinastie mandarinali (i Le Tellier-Louvois, il clan Colbert e i PheÂlypeaux); Blouin, primo valletto di camera del re; il maresciallo di Bloufflers; il cancelliere di Pontchartrain e tanti altri nomi illustri. Come abbiamo notato, quel centro di potere esercitava inoltre una notevole influenza internazionale, soprattutto in Spagna, attraverso Madame des Ursins, influente sulla prima moglie di Filippo V, e a Napoli, con l'abate La TreÂmoõÈlle. Al fine di comprendere meglio la politica francese nella corte romana, occorre segnalare l'atteggiamento del gruppo Maintenon verso gli affari religiosi. Per Le Roy Ladurie la cabala dominante aveva adottato un atteggiamento «centro-destristra», cioeÁ antigiansenista, non del tutto allineato alle posizioni dei gesuiti ma piuttosto a quelle del seminario delle Missions eÂtrangeÁres (piu rigido nella difesa dell'ortodossia) ed all'ordine di Saint-Sulpice 50. Inoltre, la Maintenon conosceva bene ed usava spesso l'influenza regionale del potente reÂseau dei vescovi francesi, ruolo ecclesiastico nel quale l'aristocrazia di spada, di toga e finanziaria ambiva d'inserire i propri cadetti 51. Quest'ultimo aspetto c'interessa da vicino, nella considerazione della forte pregiudiziale antifrancese posta dal Vaticano, che fu massima negli anni del papato di Innocenzo XI, costretto a fronteggiare le pretese del gallicanesimo e del ceseropapismo di Luigi XIV 52. La frizione tra Francia e Roma raggiunse alti livelli di tensione con il conclave e con il nuovo pontefice, giaÁ da quando si era intensificato il lavorõÂo diplomatico dei cardinali francesi 53. Tra l'altro, occorre ricor49 Le Roy Ladurie, op. cit. (cap. I, nt. 49), pp. 181-235. Ivi, p. 190. 51 Ivi, p. 221. 52 Cfr. L. Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, vol. XIV, parte II, DescleÂe & C. Editori Pontifici, Roma 1932, pp. 180-6. 53 Ivi, p. 390. 50 III. La politica di Luigi XIV 139 dare che negli anni Ottanta la rappresentanza degli interessi francesi nella Corte romana era tenuta dai due fratelli CeÂsar e FrancËois d'EstreÂes, il primo cardinale, il secondo ambasciatore, ambedue molto invisi alla Curia. Alla fine, il 6 ottobre 1689, la Francia subõ l'elezione del veneziano Pietro Ottoboni, che nei fatti successivi si riveloÁ profondamente antifrancese. Ogni sorta di speculazione storiografica eÁ stata tentata per cogliere il senso delle fluttuazioni della politica francese nei confronti della Curia romana. Come spiegare la soppressione del protestantesimo francese nel 1685? In quell'occasione Luigi XIV volle apparire come il campione dell'ortodossia cattolica con un atto di superbia nei confronti della Chiesa romana, o piuttosto la sua scelta antiprotestante fu il segno ch'egli intendeva percorrere la strada della filiale deferenza verso il Pontefice? In questa seconda ipotesi, forse la piu probabile alla luce di quelli che saranno i risvolti successivi, il ruolo che ebbe la Maintenon sarebbe da considerare fondamentale 54. E a cioÁ si aggiunga il problema della sensibilitaÁ religiosa del monarca, che da piu fonti ci viene testimoniata come improntata ad una forma di devozione cieca che si affidava a bigotti consiglieri 55. Questi ed altri elementi ci fanno propendere per la seconda congettura, cosicche la riappacificazione con il Pontefice, a dieci anni dalla grave crisi del 1682, appare frutto d'un compromesso che avvenne a stadi graduali. Nel 1693 Luigi XIV abolõ l'obbligo d'insegnare nelle UniversitaÁ la dichiarazione dei quattro articoli, ricevendo in cambio l'accettazione delle nomine di quaranta vescovi: questo fu il primo di tanti atti politici che segnarono un profondo e progressivo ammorbidimento delle proprie posizioni nei confronti del Vaticano 56. Dopo lo scoppio della congiura di Macchia, la Francia spinse per 54 Mandrou, Louis XIV en son temps, cit. (cap. I, nt. 49), pp. 348-75. Ivi, pp. 374-5. Lo storico riporta l'incisiva testimonianza della principessa palatina, che nel 1711 scriveva: «Le roi est un bon chreÂtien, mais treÂs ignorant dans les choses de la reÂligion; il n'a, de sa vie, lu la Bible; il croit tout ce qui lui disent le preÃtes et les faux deÂvots; il ne faut donc pas eÃtre surpris s'il s'est eÂgareÂ; on lui dit qu'il doit agir de telle manieÁre; il ne sait mieux faire, et il croirait se damner s'il eÂcoutait d'autres conseils que ceux de se conseillers ordinaires». 56 Ivi, p. 380. 55 140 R. Tufano, La Francia e le Sicilie l'allontanamento di Medina-Celi da Napoli, offrendogli in cambio il Consiglio delle Indie, «une place fort lucrative» (Saint-Simon), sebbene, prima della riconferma a Napoli per un ulteriore triennio, egli stesso avesse chiesto al re di Francia di occupare un posto nel Consiglio d'Italia 57. Fu allora inviato nella cittaÁ partenopea il piu fidato Giovanni Emanuele Pacheco Fernandez, duca di Escalona e marchese di Villena, ch'era stato da poco nominato vicere di Sicilia, e poi sostituito ad interim dal cardinale del Giudice. D'altronde, l'affidabilitaÁ di Villena era testimoniata persino dai suoi costumi: egli «n'eÂtait point espagnol pour l'habit: de sa vie il n'avait porte golille ni l'habit espagnol; il le disait insupportable, et partout fut toute sa vie veÃtu aÁ la francËaise» 58. Appena giunto a Napoli, Villena si rese conto che il nodo della fedeltaÁ alla nuova dinastia era costituito dalla confiance nel debito pubblico e che proprio in questo ambito delicato la situazione era veramente disastrosa, al punto ch'era difficile piazzare «los efectos de el ultimo Donatibo, que son de la meyor calidad en el reyno» 59. Nel 1702, Janson si trasferiva a Napoli per curare la prossima visita di Filippo V. Conosciuto il nuovo vicereÂ, il cardinale scriveva al re di Francia le impressioni riportate: Villena era un uomo «freddo» e «particolare», con poco talento per un incarico cosõ delicato, anche se il conte di Marcin lo aveva accreditato come il migliore politico spagnolo. D'altronde, «les ministres d'Espagne ne peuvent prendre aucune resolution. Il raisonnent beaucoup, mais ils ne conclurent rien. Ils sont si accoutumeÂs aÁ laisser les affaires dans la confusion et dans le desordre, qu'ils auroit bien de la peine aÁ changer de conduite. Tout ce qu'on peut faire, c'est de leur remontre et attendre que Dieu y mette la main». Una ragione sufficiente perche il cardiA.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 14, passim per la corrispondenza tra Luigi XIV, Medina Celi e Torci. Per la prima richiesta di Medina Celi, cfr. anche vol. 13, dispaccio del cardinale de Janson a Luigi XIV con memoriale anonimo accluso. Il vicere partiva da Napoli lasciando debiti per duecentocinquantamila ducati, come denunciarono a Torci i creditori napoletani: ivi, vol. 14, ff. 70r-5v. 58 Saint-Simon, MeÂmoires, op. cit. (cap. II, nt. 35), vol. I, pp. 852-853. 59 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 14, copia di lettera di Villena a Filippo V del 12 aprile 1702, f. 106 ss. 57 III. La politica di Luigi XIV 141 nale controllasse le mosse di Villena piu da vicino, tenendo con lui una corrispondenza piu fitta ed orientata a dirigerne ogni mossa 60. Nel 1702, la tensione tra i due governi italiani aveva infatti raggiunto il livello di guardia, mentre appariva chiaro che il Collaterale aveva scelto la strada del non ritorno nelle relazioni tra il regno e la chiesa romana, pensando di poter sfruttare gli ampi spazi di libertaÁ politica che sembravano aprirsi con la nuova dinastia 61. L'operazione di polizia extra-territoriale voluta dal Collaterale per catturare il ribelle era costata la scomunica dell'autorevole avvocato fiscale della Sommaria, Vincenzo de Miro, e del consigliere Consalvo Machado, che, scortati da birri, avevano eseguito manu militari la cattura del reo in territorio pontificio. Ma l'incidente diplomatico tra i due regni non era un caso isolato, giacche era stato preceduto da una dura controversia tra lo Stato napoletano e l'arcivescovo di Sorrento, che aveva cercato di controllare i bilanci delle estaurite di Piano, cappelle da lungo tempo amministrate dai laici, perche ritenute di natura regia 62. Il Papa usava il ricatto della scomunica per condizionare l'esito della controversia. In questo caso lo strumento era stato rivolto contro l'intero Collaterale e contro il vicereÂ, costringendo il gioco diplomatico a spostarsi infine dentro la curia romana, dove lo spagnolo Uceda e il francese Janson divenivano i veri arbitri della politica interna napoletana 63. Il supremo organo giurisdizionale del Regno era guidato dall'emergente e prepotente personalitaÁ di Serafino Biscardi, ch'era stato scelto come un interlocutore molto autorevole dal potente ministro Torci. La pesante censura francese sull'attivitaÁ del Collaterale sarebbe stata allora una delle potenti molle che avrebbe poi spinto Biscardi 60 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 15 ss., Napoli, 18 aprile 1702, Janson a Luigi XIV, ff. 203v-6r; mentre per la citazione dell'altra lettera di Janson al re di Francia, aprile 1702, f. 221r-v. 61 Sulle vicende descritte qui sulla base della sola documentazione francese, v. la narrazione precisa, condotta sui notamenti del Collaterale, da Luongo, Serafino Biscardi, cit. (cap. II, nt. 45), pp. 183-236. Il giurista cosentino, adottando la dialettica consueta tra Stato-Chiesa, aveva sperato che da Parigi venisse maggior energia. 62 Ivi, p. 196 ss.. 63 V. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, voll. 15-22, passim. 142 R. Tufano, La Francia e le Sicilie verso l'opzione politica austriaca. CioÁ spiegherebbe l'improvviso silenzio del togato con il membro del governo francese, dopo aver ben compreso le strategie politiche del re di Francia. Come bene intuisce Dario Luongo, l'iniziale netta presa di posizione filoangioina di Biscardi condizionoÁ per qualche tempo gli sviluppi della sua politica ecclesiastica. Una serie di vicende mostra che il reggente calabrese assunse in materia giurisdizionale posizioni improntate a maggiore moderazione rispetto a quelle espresse nella prima fase della sua carriera ministeriale. Si trattava ovviamente di atteggiamenti sempre dettati da considerazioni di opportunitaÁ, che non implicarono alcuna rinuncia sul piano dei princõÂpi all'esigenza di difendere lo Stato contro le prevaricazioni ecclesiastiche. Le ragioni di questo ripiegamento furono chiaramente dovute alla necessitaÁ di non esacerbare i contrasti con la Curia romana in un momento di grave difficoltaÁ internazionale per l'incalzare degli eventi bellici 64. Il 21 ottobre del 1702 il vicere Villena chiedeva a Luigi XIV d'intervenire direttamente sul governo spagnolo, lamentando la cattiva amministrazione del Consiglio d'Italia, sia negli affari politici sia in quelli finanziari 65. Il vicere mirava evidentemente a mettere in discussione i canali politici che tradizionalmente avevano gestito i rapporti tra Spagna e Napoli, e la sua azione era condivisa dal re di Francia, che gli assicurava l'appoggio presso il governo madrileno 66. Il compito del TreÂmoõÈlle era di consigliare e convincere il vicere a modificare gli assetti costituzionali del regno napoletano, facendo in modo che egli fosse il solo responsabile della politica estera. Per questa ragione, secondo il francese, occorreva muoversi contro le «maximes du Collateral, ou Conseil de ce pays, qui sont enteriement opposeÂes a cette union [quella tra i due Stati], et c'est encore un des desordres attache a ce royaume, auquel il semble qu'il ne doit manquer aucune» 67. In realtaÁ, era stato lo stesso Luigi 64 Luongo, op. cit. (cap. II, nt. 45), pp. 195-6. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 16, Napoli, Villena a Luigi XIV, f. 167r-v. Sull'orientamento parigino influivano scelte strutturali e costituzionali. 66 Ivi, Versailles s.d., Torci a Villena, f. 169r. 67 Ivi, lettera di TreÂmoõÈlle a Torci del 26 ottobre 1702. 65 III. La politica di Luigi XIV 143 XIV a dare legato a TreÂmoõÈlle, affinche si adoperasse per l'affrancamento dell'esecutivo dal Collaterale e dall'intero sistema dei Consejos, come dimostra l'appoggio che il re di Francia dava al vicere napoletano in materia giurisdizionale presso il governo di Madrid 68. Ma l'attacco francese al Collaterale era ben piu radicale: esso mirava a sottrarre all'organo anche le altre materie di Stato, dalle finanze alla guerra. Si trattava di settori nevralgici, per i quali occorreva procedere ad una profonda ristrutturazione, facendo ben attenzione a non far perdere al pubblico la confiance nello Stato napoletano. Tuttavia la ricerca di nuovi assetti costituzionali nel governo napoletano avrebbe significato la creazione di pericolose situazioni di disequilibrio, delle quali potevano approfittare gl'imperiali, sempre pronti ad attraversare l'Adriatico. La condizione di stallo in cui versava l'azione francese nella parte bassa dello Stivale apparve molto chiara al baÃtard de France, il conte d'EstreÂes, non appena la flotta da lui guidata per accompagnare il nuovo re a Napoli approdoÁ in questa cittaÁ. Qui il vicere ha «peu d'autorite et de credit», tuttavia risulterebbe pericoloso proporre qualunque modifica negli assetti di governo del regno. Il recente trasferimento ad altri incarichi del Luogotenente e del Fiscale della Sommaria s'era dimostrato un errore tragico, che aveva fatto perdere credito alla soliditaÁ degli investimenti statali. E gli imperiali non facevano altro che rimarcare questi elementi per potenziare il veleno della propaganda anti-borbonica 69. In quelle condizioni era impossibile spostare anche uno solo dei puntelli su cui si fondava l'edificio secolare creato dalla dominazione spagnola. 4. Lo scontro con la chiesa romana e la censura francese Nel 1701, l'arcivescovo di Sorrento, Filippo Anastasio, aveva tentato di far valere un'antica rivendicazione ecclesiastica, cioeÁ il 68 Cfr. le lettere di TreÂmoõÈlle a Torci del 26 ottobre, del 2 novembre, del 14 e del 18 dicembre 1702 in ivi, rispettivamente ai ff. 177r-81r, 187r-v, 243 ss., 213r-v. 69 Napoli, 24 dicembre 1702, Victor Marie, comte d'EstreÂes a Janson, in ivi, ff. 249r56r. L'impatto del costituzionalismo francese divenne allora evidente. 144 R. Tufano, La Francia e le Sicilie controllo dei bilanci delle cappelle amministrate dai laici, altrimenti dette estaurite 70. Questa competenza esclusiva degli amministratori laici contro le ingerenze degli arcivescovi era da secoli difesa in maniera inflessibile e con accanimento dal potere civile 71. Alla base dei continui attacchi da parte ecclesiastica era la convinzione che nessun diritto positivo avesse stabilito la natura regia delle estaurite, mentre la parte laica replicava che gli atti fondativi di esse erano andati distrutti durante l'assedio ed incendio subõÂto da Piano di Sorrento nel 1545. L'arma usata dall'arcivescovo Anastasio fu la scomunica degli amministratori, ragion per cui egli fu invitato dal vicere a portarsi nella capitale, ad audiendum verbum regis. Ma quell'ordine non portoÁ a raggiungere alcuna soluzione della vertenza ed il Collaterale, ispirandosi ad un principio di prudenza suggerito dal vicereÂ, evitoÁ di attaccare le temporalitaÁ dell'arcivescovo e pose in essere un provvedimento che era considerato consueto in quei casi, anche se di contenuto giuridico palesemente aberrante: ricorse all'incarcerazione dei suoi parenti. Contravvenendo alle disposizioni viceregie, l'arcivescovo abbandonoÁ la capitale e fece ritorno nella sua diocesi. Ma questo episodio fu tutt'altro che isolato, anzi esso si sommoÁ ad altre controverse vicende giurisdizionali nelle quali venne coinvolto il Regnum, sicche il contenzioso accumulatosi con la Santa Sede ai primi del Settecento si presentava molto ampio e straordinariamente critico, anche per i suoi riflessi sulla situazione europea. Nei fatti, il confronto non si svolgeva esclusivamente tra il regno di Napoli e la Curia romana, ma si sviluppava all'interno di una complessa partita interna ed internazionale. In essa erano impegnati parecchi soggetti politici, entro un quadro molto piu ampio e multiforme di quello delineato, per altro ottimamente, da Luongo nel suo piu volte citato lavoro su Biscardi 72. Si assisteva dunque all'instaurarsi di piu conflitti politici ed al crearsi di diversi centri 70 71 72 Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, passim. Luongo, op. cit. (cap. II, nt. 45), p. 196. Ivi, passim. III. La politica di Luigi XIV 145 decisionali: in primo luogo a Napoli, tra potere ecclesiastico e potere laico, il cui fronte era tutt'altro che compatto, con il Collaterale ed il ministero togato in generale schierato contro i tentativi di mediazione opposti dal Vicere e contro le manovre di TreÂmoõÈlle, tutte tese invece a stringere la morsa dei freni sul giurisdizionalismo meridionale; in secondo luogo a Roma, con le corti madrilena e parigina che facevano fronte compatto attraverso i propri rappresentanti, rispettivamente il duca di UcËeda ed il cardinale di Janson, contro le decisioni del ceto ministeriale napoletano. Per le cui tesi laiche, che ne erano il vanto e l'aspetto valido e di notevole significato non solo culturale, ma anche etico, quello fu un banco di prova molto difficile: le difficoltaÁ incontrate dalla versione giurisdizionale, radicata nelle tesi ministeriali fin dal Cinquecento, influirono sull'orientarsi dei togati verso Vienna e sulle scelte generali. A parte gli ovvi interessi di ceto e di potere, la cultura giuridica napoletana, nata fin dai tempi angioini con funzioni di supplenza di un potere politico centrale che era stato sconfitto e prostrato ai papi, ed avendo raggiunto un livello complessivamente alto ai tempi di D'Andrea, poi di Gravina, di Biscardi, di Argento e di Giannone, non poteva facilmente metabolizzare quei precedenti e non aveva esperienza sociale e civile adatta a capire l'importanza generale di una `linea' politica costituzionale, come quella francese. Fin dai primi contrasti sull'affare di Sorrento, Serafino Biscardi non aveva lesinato critiche all'operato dei due diplomatici stranieri, anche se era perfettamente consapevole dei risvolti internazionali della crisi tra Regno e Papato e, come tale, conscio che la direzione delle trattative sarebbe scivolata da Napoli verso Roma, ed affidata ai due rappresentanti dell'esecutivo di Filippo V e di Luigi XIV. Il che avvenne puntualmente nel 1704, quando il governo madrileno, nonostante le resistenze del Consiglio d'Italia ed ottemperando alla volontaÁ francese, ordinoÁ al governo napoletano d'inviare a Roma un ministro. Nel Collaterale del 30 agosto Biscardi chiese che fosse scelto «un huomo costante, che non faceva tirarsi dalla Corte di Roma», in quanto si doveva «trattare di tutta la giurisdizione che S.M. tiene 146 R. Tufano, La Francia e le Sicilie in questo Regno» 73. Venne scelto il consigliere Giacinto Falletti, che giunse infine nella capitale papalina nel gennaio del 1705. Com'era ovvio, l'intera problematica, in seguito al trasferimento della sede, riduceva notevolmente i margini d'intervento del ceto ministeriale napoletano e la sua forza di pressione sull'esecutivo. Di cioÁ si ebbe precisa coscienza quando il Falletti dovette preparare una serie di note da presentare al Papa sulle piu importanti questioni giurisdizionali non concluse e che nell'espletamento del suo compito doveva essere coadiuvato da uditori di Rota spagnoli. Gli argomenti da trattare erano talmente vari da esaurire l'intera rubrica del giurisdizionalismo meridionale: l'autonomia delle estaurite e la potestaÁ economica esercitata dallo Stato nei confronti degli ecclesiastici, le immunitaÁ personali, l'applicazione della bolla gregoriana, la scomunica del Preside di Calabria Ultra, Domenico Garofalo, comminata dall'Arcivescovo di Reggio nel 1696 74. Nel 1704 venne indirizzata al re di Francia una relazione sui rapporti tra la giurisdizione regale e l'ecclesiastica stilata da Serafino Biscardi, ed in seguito rifluita nell'ampia memoria manoscritta intitolata Idea del governo politico ed economico del regno di Napoli, recentemente edita da Luongo in appendice alla sua monografia su Serafino Biscardi 75. Tra il manoscritto edito ed il testo inedito inviato al re di Francia non esistono rilevanti discrepanze. CioÁ consente di periodizzare meglio alcuni aspetti relativi alla vicenda biografica di Biscardi ed in primo luogo il fatto che l'Idea non fu pensata quale poi divenne, ossia come piattaforma programmatica dell'attivitaÁ di governo che il giurista si accingeva a svolgere presso la corte di Barcellona, nel periodo compreso tra il 1ë novembre 1707 e l'inverno del 1708, ma qualche anno prima, proprio durante il governo francese. A tal proposito eÁ interessante notare che in premessa il relatore dichiaroÁ 73 Ivi, p. 216. La vicenda, scaturita da un contrabbando di seta calabrese organizzato da ecclesiastici, eÁ stata ricostruita da Luongo, ivi, pp. 73-5. 75 Ivi, pp. 297-398, spec. le pp. 334-59. Il documento, Pregiudizj fatti al Regno dal Sommo Pontefice eÁ in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, ff. 241r-62r. I Pregiudizi erano molti, perche non corretti dalla debole sovranitaÁ spagnola. 74 III. La politica di Luigi XIV 147 all'interlocutore francese la consapevolezza che «la congiuntura de' tempi ci vieta il poter porgere quei rimedij soliti a darsi ne' i tempi passati» 76. Come dire che nello scontro contro i poteri ecclesiastici il Collaterale, che aveva dimostrato ben altra forza e determinazione nell'affermazione del regalismo in precedenti momenti della storia del Regno, doveva in quel frangente adottare esclusivamente una strategia di carattere difensivo. Tuttavia il Reggente non poteva esimersi dal notare che non vi era un solo «punto» della Real giurisdizione, che non fosse stato «pregiudicato fuor di modo» dall'aggressivitaÁ degli ecclesiastici. Costoro sono piuttosto da ritenersi alla stregua di «congiurati», perche «tentano tutti i modi di far in maniera che Vostra MaestaÁ rimanga nel Regno di Napoli senz'autoritaÁ per difendersi contro i ribelli, senza giurisdizione per poter governare i suoi vassalli, senza patrimonio ne proprio, ne dei suoi sudditi e senza braccio da potersi liberare da tanta violenza che se l'inferiscono alla giornata» 77. Se si tiene presente l'influenza che Biscardi riuscõ a realizzare nell'ultimo decennio della sua vita nel Collaterale, nella Capitale e sul piano internazionale, il suo riferito e durissimo, radicale giudizio sulla posizione degli ecclesiastici ± qualificati senz'altro come «congiurati», che impediscono allo Stato di difendersi dai «ribelli» ± fa capire sull'isolamento di Giambattista Vico molto piu di quanto si possa desumere da migliaia di pagine encomiastiche, che sono uscite, a cascata, dalla storiografia idealistica, e che hanno cercato sempre di attenuare gli eccessi di ortodossia del filosofo, e di nascondere le finalitaÁ ultime del suo sistema di pensiero. A parte alcune intuizioni, tipiche di un ingegno fantasioso e creativo, l'intento fondamentale della sua produzione fu di giustificare e di legittimare pienamente l'assetto sociale ed economico (e di riflesso, anche culturale) napoletano, che allora era disastroso, e non poteva meritare aggettivo piu indulgente. Le tesi togate erano di scontro, non di pacificazione. 76 77 pino. Ivi, f. 241r: Biscardi si rendeva conto del negativo condizionamento francese. Ivi, ff. 241r-v. Diagnosi feroce, che metteva in guardia il costituzionalismo transal- 148 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Nonostante il suo radicalismo antiecclesiastico, in questo come in altri casi, l'atteggiamento del giurista di Altomonte nei confronti del potere centrale parigino fu prudente, anche se non dissimulatore: forse a ragione del fatto che i due anni di governo di TreÂmoõÈlle avevano confermato nella prassi cioÁ che il francese pensava e scriveva al proprio re, cioeÁ che «les maximes du Collateral c'y sont entieÁrements opposeÂes a cette union [cioeÁ tra il Vaticano ed il Regnum], et c'est encore un des desordres attache a ce royaume, auquel il semble qu'il ne doit manquer aucune» 78. L'unione tra i due regni italiani era invece dalla Francia auspicata come avvenimento epocale, espressione della sua `cristianissima' prioritaÁ, della sua duratura capacitaÁ di sanare ogni incidente, e di evitarne le gravi conseguenze sul piano dei rapporti internazionali. Ma le idee parigine apparivano utopistiche a Napoli. I contenuti della polemica anticurialistica di Biscardi sono stati analiticamente esposti dal Luongo, che con finezza interpretativa ha messo in rilievo alcuni aspetti del pensiero del ceto togato sui rapporti tra Stato e Chiesa. CosõÂ, nell'argomentazione dei ventitre Pregiudizij, l'avvalersi di schemi dottrinali elaborati dalla feudistica, nonche il continuo riferimento a grandi entitaÁ ideali e sintentiche, piu che segno di una vocazione formalistica del Biscardi, avrebbero avuto il significato di astrarre il regalismo dalla polemica anticurialistica del momento, per trasferirlo sul piano delle affermazioni incontrovertibili ed oggettive della Scientia Juris 79. In quelle pagine la coltre formalistica diviene ancora piu pesante quando il giurista d'Altomonte si trova ad affrontare lo spinoso argomento della pretesa concessione feudale del regno di Napoli da parte della Sede Apostolica. In effetti, sia il ricorso alla copiosa letteratura che aveva confutato la pretesa romana, sia l'insistenza sulla distinzione elaborata dalla feudistica fra investiture «reali» e «verbali», sono caratterizzate da uno stringente formalismo. Ma in ambedue i casi l'obiettivo di Biscardi eÁ molto chiaro: le investiture concesse dai pontefici per il 78 79 Ivi, vol. 16, f. 243r, lettera di TreÂmoõÈlle a Luigi XIV del 14 dicembre 1702. Luongo, op. cit., (cap. II, nt. 45), p. 271. III. La politica di Luigi XIV 149 Mezzogiorno d'Italia erano del tipo «abusivo» e meramente verbali, ancor piu perche richieste dai sovrani meridionali «con espressa riserva delle proprie ragioni» 80. D'altronde, l'argomento relativo alla pretesa che il regno di Napoli fosse feudo della Santa Sede aveva radici fondate nella mancata imposizione sui beni ecclesiastici, ragione per cui si rendeva necessario invertire quella regola ed imporre al clero di contribuire ai pesi fiscali: tesi ovviamente condivisa dalla communis opinio. Ma era estremamente difficile poter prevedere un obbligo generale di contribuzione a carico degli ecclesiastici dal momento che la «ragione ch'allegano prima eÁ l'incontrastabile loro immunitaÁ, e secondariamente eÁ che qui non costituiscono parte nella Republica, perche ne' parlamenti non interviene il clero, come interviene in altre parti del mondo, ma interviene il Baronaggio, la CittaÁ di Napoli e le cittaÁ demaniali» 81. Si tratta di un'analisi dov'eÁ molto acuta e matura l'idea che l'esclusione degli ecclesiastici dai parlamenti quasi giustifica l'assurdo di sentirsi essi collocati fuori della respublica, e quindi di non essere sottoposti ai doveri civili; ma, in una societaÁ, chi puoÁ contribuire e se ne astiene, non ne fa parte. L'esposizione dei ventitre Pregiudizi ha inizio con il problema dell'immunitaÁ locale, che costituiva uno strumento micidiale a disposizione della Chiesa, perche rendeva impraticabile l'amministrazione della giustizia regale, ostacolando la repressione dei reati ed il mantenimento dell'ordine pubblico. Dai canonisti era considerata fonte di tale istituto il diritto divino, e piu volte nel corso dell'etaÁ moderna, dal Concilio di Trento alla bolla Cum alias di Gregorio XIV (1591), tale basilare principio era stato riaffermato con vigore. Se la bolla citata contemplava alcune categorie di reati per i quali era escluso il privilegio del foro ecclesiastico, tuttavia l'interpretazione della norma rendeva difficile distinguere fino a che punto il diritto positivo regale potesse intervenire. Tanto piu complicata diveniva la sua interpretazione quando si pretendeva da parte ecclesiastica di applicare l'istituto per delitti di lesa maestaÁ, come nel caso del ribelle Aniello 80 81 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 259r e v. Citiamo da Luongo, op. cit. (cap. II, nt. 45), p. 380. 150 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Migliaccio, la cui causa era in discussione a Roma. Secondo una spiegazione restrittiva dovevano essere esclusi dal godimento dell'immunitaÁ locale solo coloro che «congiuravano contro la persona del Principe», mentre potevano godere del foro ecclesiastico «tutti l'altri ribelli che congiurano contro la tranquillitaÁ dello Stato e del Regno» 82. Per Biscardi si trattava di affermazioni paradossali, le cui conseguenze erano esiziali per la stabilitaÁ politica, perche accettarle avrebbe significato «che poco importa che si perda il Regno, purche il Principe non perda la vita, come se vi potesse restar persona di Principe quando succeda l'estinzione del Regno» 83. 5. Propaganda ed opinione francofoba (1704) Durante la guerra di Successione, i limiti imposti dalla censura e dalla repressione governativa favorirono la proliferazione di scritti clandestini come strumento per orientare l'opinione pubblica 84. In Spagna, ad esempio, i nobili contrari ai Borbone, fuoriuscendo dai patri confini, lanciarono da Vienna e da Lisbona delle vere campagne di propaganda in opposizione a Filippo V, attraverso una temperie di scritti, che presentavano tutte le caratteristiche proprie di quello stile che la critica definisce «letteratura d'esilio» 85. Ovviamente la nobiltaÁ austriacante produceva quelle opere per guadagnare quante piu simpatie ed adesioni al proprio partito, e da cioÁ risulta evidente che il suo scopo fosse proprio quello di formare un'«opinone pubblica» favorevole. In effetti, come nota TeoÂfanes Egido, l'attivitaÁ propagandistica dell'aristocrazia si rivolgeva ben oltre i confini sociali del proprio status, ossia all'intera societaÁ iberica 86. Se, come dimostra la PeÂrez 82 Ivi, p. 261. Ibidem: eÁ evidente un'idea ascendente, induttiva della sovranitaÁ. 84 M. T. PeÂrez Picazo, La publicõÂstica espanÄola en la Guerra de SucesioÂn, CSIC, Madrid 1966, 2 voll., ha realizzato un'importante censimento delle opere prodotte in Spagna, che ha analizzato in relazione al contenuto filosofico e politico, poiche il suo unico obiettivo era quello di «bosquejar el pensamiento espanÄol de los uÂltimos anÄos del siglo XVII y primeros del XVIII». 85 T. Egido, OpinioÂn puÂblica y oposicioÂn al poder en la EspanÄa del siglo XVIII (17131759), Universidad de Valladolid, Valladolid 1971, p. 263. 86 Ivi, p. 31. Su cioÁ cfr. anche Enciso Recio, La opinioÂn puÂblica, in Historia de EspanÄa, 83 III. La politica di Luigi XIV 151 Picazo, gli scritti nobiliari si segnalano per una modalitaÁ ed uno stile peculiare, ricco d'enfasi ed esprimente «superior y serena dignidad», mentre la produzione ecclesiastica si caratterizza per l'erudizione, le citazioni, l'esposizione puntuale di dottrine giuridiche e l'abbondanza di dati storici, tuttavia eÁ difficile determinare con esattezza le influenze di membri d'altri gruppi sociali sulla redazione dei testi. Se prendiamo ad esempio il caso del celeberrimo Manifesto del Almirante, eÁ diffi lvaro de Cienfuegos non fosse, insieme cile pensare che il religioso A all'aristocratico Juan TomaÂs EnrõÂquez de Cabrera, uno degli autori 87. Anche la pubblicistica relativa al regno di Napoli ed al periodo della guerra di Successione, conservata nei fondi archivistici francesi, italiani e spagnoli, eÁ rappresentata da una mole di scritti che sembra non possedere alcuna caratteristica di unitaÁ. Si tratta infatti di materiale vario per forma e per provenienza sociale degli autori, dov'eÁ contemplata sia l'opposizione aristocratica e dei ceti dirigenti laici e clericali sia la critica popolare, quest'ultima espressione piu genuina dell'opinione pubblica in quanto manifestazione diretta della protesta contro il potere: parodie di vita cortigiana, versi diversi, pamphlets, documenti governativi nei quali eÁ tuttavia difficile discernere i limiti tra veritaÁ e finzione. Il termine «pubblicistica» riunisce dunque materiali che sono espressione di vari modi di percepire la realtaÁ da parte dei contemporanei, da non sottovalutare nella consapevolezza che uno studio sopra le mentalitaÁ e le ideologie politiche deve tenere pur in considerazione le forme di opinione e propaganda, sebbene l'utilizzazione della formula di «opinione pubblica» per l'EtaÁ moderna possa comportare il rischio molto alto di scadere negli errori dell'anacronismo 88. cit. (cap. V, nt. 8), t. XXIX, pp. 211-7. Argomentazioni di avviso contrario all'uso storiografico in etaÁ moderna della formula «opinione pubblica» in K.M. Baker, Politique et opinion publique sous l'Ancien ReÂgime, in «Annales ESC», janvier-feÂvrier, 1 (1987), pp. 41-71 e S. Maza, Le tribunal de la nation: les meÂmoires judiciaires et l'opinion publique aÁ la fin de l'Ancien ReÂgime, in «Annales ESC», janvier-feÂvrier, 1 (1987), pp. 73-90. 87 Sul manifesto a favore dell'Arciduca scritto da don Juan TomaÂs EnrõÂquez de Cabrera, cfr. le osservazioni di M.L. GonzaÂlez Mezquita, PosicioÂn y disidencia en la guerra de sucesioÂn espanÄola. El Almirante de Castilla, Junta de Castilla y LeoÂn, Valladolid 2007, pp. 205-79. 88 Gli studi sopra l'opinione pubblica hanno avuto inizio in Francia ad opera di Emile Bourgeois e Louis AndreÂ, Les sources de l'histoire de France XVIIe sieÂcle (1610-1715), vol. IV: Journaux et pamphlets, A. Picard, Paris 1913-35, che hanno richiamato l'attenzione della 152 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Ovviamente si eÁ perduta invece ogni traccia diretta della diffusione orale della pubblicitaÁ austriaca, che dovette essere massiccia, influente, minuta, penetrante ed efficace, come testimonia, dopo l'ingresso delle truppe nemiche nella cittaÁ partenopea, il marchese di Villena, in fuga da Napoli a Gaeta il 14 luglio del 1707: gli ecclesiastici, fossero secolari o regolari, furono il principale strumento austriaco della reÂvolution contro Filippo V, esclusivamente con l'aver sedotto i peuples della Capitale e delle province «dans les confessions et dans les conversations», inducendoli alla lesa maestaÁ attraverso il grande potere mediatico di cui disponevano 89. Secondo il vicereÂ, di cioÁ era responsabile in massima parte l'ambiguitaÁ papale: Clemente XI, da una parte, temeva il regalismo francese, dall'altra, pensava che Francia e Spagna riunite potessero proteggere l'intera Europa dall'avanzata del calvinismo. In genere, gli spagnoli d'ambedue gli schieramenti politici interpretarono queste ambiguitaÁ vaticane a loro favore, mentre a Napoli, come abbiamo notato, il gallicanesimo francese mantenne paradossalmente in posizione di stallo il regalismo napoletano espresso dal Collaterale. Cosõ la dicotomia tra alto e basso clero, che caratterizzoÁ per il suo radicalismo la dialettica politica nella Catalogna, con il primo in gran parte felipista ed il secondo austriacante, non trovoÁ corrispondenza nel regno italiano 90. Qui, secondo lo Spedicato, durante tutto il viceregno spagnolo, i vescovi regi furono contemporaneamente «fedeli» alla causa monarchica ed a quella romana, e tuttavia non «giocarono un ruolo marcatamente politico come funzionari della corona spagnola» 91: il che equivale a dire, in maniera piu diretta, che non si era assistito per tutto il periodo spagnolo ad alcuna «nazionalizzazione» delle gerarchie ecclesiastiche, fenomeno che in altre realtaÁ europee storiografia su questa forza di pressione sul governo della nazione francese. Tra gli ultimi e piu raffinati prodotti sull'argomento eÁ da segnalare C. Jouhaud, Mazarinades: la Fronde des mots, Aubier, Paris 1985. Per il caso spagnolo, fondamentali gli studi sulla stampa settecentesca di Enciso Recio, op. cit. (nt. 86), cui rimandiamo per la bibliografia. 89 A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 22, f. 151r. 90 Cfr. R. GarcõÂa CaÂrcel e R.M. AlabruÂs Iglesias, EspanÄa en 1700. ¿Austrias o Borbones?, Arlanza Ediciones, Madrid 2001, pp. 38-40. 91 M. Spedicato, Il mercato della mitra. Episcopato regio e privilegio dell'alternativa nel regno di Napoli in etaÁ spagnola, Cacucci, Bari 1996, pp. 206-7. III. La politica di Luigi XIV 153 aveva rappresentato l'inequivocabile segnale di una sempre piu netta separazione di ruoli tra Stato e Chiesa. Gli ecclesiastici furono tutt'altro che `nazionalisti', evitarono di prendere posizioni troppo nette, in fondo furono coerenti con la loro linea di sudditanza rispetto a Roma; ma non c'eÁ dubbio che la prospettiva di dover mantenere la propria `alteritaÁ' rispetto ad una Spagna afrancesada, e quindi gallicana, fosse vista come un enorme disastro. Nella crisi politica della successione, come dimostra l'atteggiamento del vescovo di Sorrento ± che era di nomina regia e responsabile dell'arcidiocesi di piu grande prestigio istituzionale, anche perche godeva di una rilevante supremazia nel settore economico sulle rimanenti altre ±, l'antico e tradizionale vincolo di fedeltaÁ verso il re cattolico fu nettamente a vantaggio del potere romano. Atteggiamento che confermava il carattere ``alieno'' attribuito agli ecclesiastici da Biscardi: il legame primario era quello che contava; fare politica era compito dei vertici romani, i `civili' si battessero pure per questioni di lana caprina, mentre gli ecclesiastici, i pastori, si occupavano di `coltivare' il gregge. Nulla sappiamo invece dire dell'azione propagandistica dei gesuiti, che in ogni regione della Spagna mantennero generalmente un atteggiamento fermamente felipista 92. Per ritornare ai documenti rimastici, si tratta perlopiu di scritti di tono polemico il cui scopo era far conoscere il pensiero dell'autore intorno a temi dell'attualitaÁ al centro di conflitti sociali e politici, con l'intenzione di guadagnare consenso ed adesioni per la propria causa. Tali opere potevano essere commissionate dal governo o contro di esso, mentre talvolta potevano essere marginali rispetto alle logiche del potere centrale e della sua piu netta ed aperta opposizione. Questa forma di propaganda politica si serviva simultaneamente di motivazioni coscienti e razionali e di altre subcoscienti ed irrazionali, in un gioco abile di relazione tra le une e le altre. Composta in gran parte di manoscritti, reca titoli lunghi, insieme dettagliati ma misteriosi, per indurre il lettore alla curiositaÁ. Tra i tanti possibili esempi di questa produzione austrofila durante la guerra di successione ab92 Cfr. GarcõÂa CaÂrcel e AlabruÂs Iglesias, EspanÄa en 1700. ¿Austrias o Borbones?, cit. (nt. 90), pp. 38-40. 154 R. Tufano, La Francia e le Sicilie biamo scelto il Discorso Accademico da recitarsi in Napoli in occasione dell'arrivo fatto in Lisbonna del Sempre Invitto e glorioso Carlo Terzo Legitimo Monarca delle Spagne 93. Per il suo contenuto questo interessante manoscritto rappresenta il prototipo ideale della promozione gallofobica che sosteneva nell'Italia meridionale l'azione a favore dei diritti al trono dell'Imperatore austriaco, all'interno di un segmento di quelle «redes de poleÂmicas» europee del materiale propagandistico costruitesi attorno al conflitto per la successione 94. La struttura a rete di questa letteratura si giustifica infatti perche il medesimo tema s'incontra in opere scritte in diverse zone geografiche del Continente, al punto che alcune di esse organizzano dei veri e propri attacchi o difese di personaggi celebri. Cosõ un inconsueto fenomeno celeste o atmosferico, un cattivo raccolto, l'ingresso e la scomparsa di un personaggio della corte spagnola, l'apparizione di uno scritto, di un'opera letteraria o la predicazione di un sermone scatenavano immediatamente una tormenta letteraria. Interventi che possono essere definiti d'azione, per la principale caratteristica d'essere una produzione compulsiva e convulsa, come la trama degli echi delle vicende belliche, politiche e curiali che la sosteneva e ne giustificava l'esistenza. Ancora, come nel caso in specie, essa possiede generalmente in se due registri culturali armonizzati attraverso un dosaggio sapiente: l'erudito, per i riferimenti costanti alla cultura libresca ed accademica (come il titolo stesso indica), ed il popolare, di cui contiene risonanze di saperi e credenze. EÁ un'osservazione che ci pone il duplice problema di comprendere in modo preciso l'intenzione dell'autore assieme alla natura dei destinatari, ossia che induce a valutare il testo in rapporto al fenomeno della sua ricezione. Il metodo di questa analisi si puoÁ avvalere, almeno nei suoi termini generali, della proposta interpretativa che Jouhaud ha utilizzato per le mazarinades parigine: questi scritti, circolando per la 93 A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, ff. 147r-154r, con a margine la dicitura: «recu avec la lettre de la part de M. de Charmont, 31 may 1704». 94 Sulle «redes de poleÂmicas» come strumento interpretativo del materiale propagandistico austriaco e francese, cfr. GonzaÂlez Mezquita, PosicioÂn y disidencia en la guerra de sucesioÂn espanÄola, cit. (nt. 87), pp. 205-80. III. La politica di Luigi XIV 155 metropoli, incontravano l'attenzione di quasi tutti i gruppi sociali urbani, accoglienza che, inevitabilmente, condizionava l'intenctio auctoris 95. La lettura da parte di chi non apparteneva necessariamente allo status sociale dell'autore era uno degli aspetti piu importanti che ogni scrittore doveva preliminarmente affrontare nel mettere mano alla penna. Di cioÁ i contemporanei avevano piena coscienza, come dimostra un brano del Discursos conjeturales y precisas consecuencias que funda la lealtad y razoÂn sobre la poca que adquiere el SenÄor Archiduque de la prosecucioÂn de la guerra, scritto nel 1710 da Juan Alfonso Guerra y Sandoval e destinato a buona fortuna: «ha hechado los imperialesal viento varios papeles para fundar su derecho a la sucesioÂn universal de EspanÄa en quienes se halla buen latõÂn pero poca razoÂn; palabras que halagan, pero enganÄos que desvõÂan [...]. Este papel que yo escribo por cumplir el cargo de mi oficio es breve, pero no tiene palabra que no diga le ha escrito de la lealtad el cuidado para desenganÄar» 96. Ironizzando sullo stile forbito degli avversari politici, Guerra y Sandoval evidenziava la necessitaÁ di allargare quanto piu possibile la sfera del pubblico, rivolgendosi con espressioni sobrie anche a coloro che possedevano una minore capacitaÁ d'interpretare uno scritto dai contenuti estremamente formali e zeppo di palabras, tanto altisonanti quanto ingannevoli. Come nota Maravall, a proposito delle influenze sul pensiero sociale e politico del XVII secolo spagnolo, la presenza paradigmatica di Quevedo e di GraciaÂn sembra condizionare anche il documento di nostro interesse 97. Alla base di questa scelta si poneva una visione pessimistica della realtaÁ imperiale spagnola, improntata alla necessitaÁ del disinganno e della disillusione per il ricordo delle sconfitte politiche che avevano percorso tutto il Seicento. Un pessimismo che, all'ingresso del nuovo secolo, era alimentato dal peso delle «catene, con le quali 95 Jouhaud, Mazarinades: la Fronde des mots, cit. (nt. 88), p. 81: la diffusione urbana di questa letteratura eÁ uno di quegli elementi che dissolverebbe in parte la pretesa polaritaÁ tra cultura popolare e delle eÂlites. 96 Cit. in GonzaÂlez Mezquita, op. cit. (nt. 87), p. 225. 97 J.A. Maravall, Ensayo de revisioÂn del pensamiento social y politico de Quevedo, in Estudios de Historia del pensiamento espanÄol. El siglo del Barroco, Centro de Estudios PolõÂticos y Costitucionales, Madrid 1999, pp. 257-324. 156 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ci ha tenuti fin ora vincolati la Francia» 98. Tuttavia, se lo stile utilizzato tendeva all'iperbolico ed al sorprendente, risentendo ancora della deriva del marinismo (che a Napoli era durato piu a lungo che altrove, spingendosi dentro ai primi decenni del Settecento), i richiami alla «ragione economica» segnalano alcune straordinarie novitaÁ. D'altra parte, la presenza di uno stile neo-barocco nel gusto napoletano del primo Settecento si manifestoÁ in modo talmente semplificato e «pulito», che di esso si utilizzarono solamente le componenti naturalistiche, dunque razionalistiche, mentre se ne negavano quelle magiche. CioÁ eÁ mostrato con chiarezza dal piu affermato pittore del tempo, Francesco Solimena, la cui Caduta di Simon Mago fu il segno di tutto un programma, coerente con il successo del cartesianismo `fisico' 99. Piu legati alla tradizione risultano essere invece i richiami alle «raggioni» della «Morale» e della «Politica» nella preferenza alla successione degli Asburgo. L'austrofilia dell'autore sembra essere la naturale evoluzione del concetto d'Impero cristiano e non una semplice passione dinastica 100. In cioÁ il testo napoletano riprendeva la A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, ff. 148r. Cfr. R. Ajello, Dall'accademismo al naturalismo. Cultura e politica nella Napoli di Pergolesi, in «Frontiera d'Europa», 1998, në 2, pp. 5-46. 100 A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 148r: «E vaglia il vero, Generosi Accademici, se ben si considerano le raggioni incontrastabili, che fin dall'Utero Materno portoÁ seco alla luce del Mondo il nostro Gloriosissimo Carlo, sopra de' Regni delle Spagne, chiaramente si comprenderaÁ l'obbligo di Vassallaggio a cui siamo tenuti, senza ch'io con legale comprovazione vi faccia conoscere per invalido ed insussistente il Testamento Carlino concepito irregolarmente a favore del Duca d'AngiuÁ, o perche dolosamente estorto, o perche repugnante alle Leggi di Spagna, o perche contrario alle rinunzie fatte solennemente dalle due Principesse di Casa d'Austria passate al Trono di Francia, bastandomi unicamente la cognitione di questa veritaÁ inseminata nella mente e passata nel cuore d'ognuno, per farvi vedere impegnata la stessa Giustizia di Dio nel proteggerla. Ne punto fa remora alle vostre acclamazioni il giuramento di giaÁ prestato al Duca d'AngiuÁ sotto nome di Filippo V, poiche l'estorcere, armata manu, giuramenti di fedeltaÁ da un Magistrato sorpreso, non eÁ un guadagnare raggioni, ma un perderle. Tanto piu che nel caso nostro, non havendo egli potuto giaÁ ottenere l'investitura della Santa Sede, restano in consequenza liberi dal giuramento li Popoli. Or posto un tal principio, che per Legge Divina et humana Carlo 3ë sia legitimamente l'Erede della Monarchia, e chi non conosce a prova che sarebbe un pregiudicare alla propria coscienza, quando s'omettesse la congiuntura di conferire alla stabilitaÁ del di lui Trono, e di nostro riposo, col sottrarsi all'orgogliosa baldanza del Gallo usurpatore? E qual piu bella occasione poteva mai apprestarsi al commune buon genio, quanto il vedere l'Aquile Auguste assistite da non suddite spade, giaÁ in istato di detrudere l'intruso!». 98 99 III. La politica di Luigi XIV 157 chiara esposizione che di questi princõÂpi proponeva El Almirante nel Manifiesto. Per il nobile spagnolo l'aristocrazia castigliana nutriva da secoli una profonda fedeltaÁ al proprio monarca, sentimento che si era costruito attorno al mito cattolico di una Augustissima Casa: giuridicamente i due rami familiari degli Asburgo erano i veri pilastri della difesa temporale della Chiesa romana 101. L'espressione di questo sentimento trovava un momento importante nella cerimonia barocca della processione per il Corpus Christi, segno della pietas delle Case reali austriache, alle quali l'Eucarestia serviva quale collante ideologico e religioso delle diverse entitaÁ politiche degli Asburgo 102. Tuttavia, per gli avversari borbonici gli argomenti relativi alla difesa dell'ortodossia cattolica cadevano di fronte ad un problema di politica internazionale, tutt'altro che di modesta entitaÁ, se messo in relazione con il problema religioso: come spiegare l'alleanza politica degli Asburgo con herejes, quali gli inglesi e gli olandesi? Durante la guerra la questione politica e quella religiosa rappresentarono infatti un nodo teorico inestricabile, che poteva essere risolto solo immaginando l'esistenza nell'arena internazionale di un «precontractual state of nature»: l'ordine era prerogativa domestica, interna agli Stati, mentre il disordine e l'anarchia regnavano nei rapporti tra entitaÁ nazionali 103. Da questa impostazione derivava una teoria dei rapporti internazionali che postulava l'«equilibrio» degli Stati di «potenza» e sosteneva l'ineluttabilitaÁ della guerra. Essa traeva le proprie 101 Un'esposizione chiara di questo atteggiamento della nobiltaÁ castigliana in PeÂrez Aparicio, La guerra de SucesioÂn en EspanÄa, in Historia de EspanÄa, cit. (nt. 86), t. XXVIII, diretto da J.M. Jover Zamora, p. 355 e ss.. Cfr. anche F. Edelmayer, Asburgo d'Austria e Asburgo di Spagna nella guerra dei trent'anni e La nobiltaÁ austriaca nella prima metaÁ del Seicento, in Controriforma e monarchia assoluta nelle province austriache. Gli Asburgo, l'Europa centrale e Gorizia all'epoca della guerra dei Trent'anni, a cura di Silvano Cavazza, Istituto di Storia sociale e religiosa, Gorizia 1997, rispettivamente alle pp. 29-42 e 61-70. 102 Un interessante lavoro sull'argomento eÁ di A. LoÂpez AÂlvarez, IdeologõÂa, control social y conflicto en el Antiguo ReÂgimen: El derecho de patronato de la Casa Ducal sobre la procesioÂn del Corpus Christi de BeÂjar, Centro de Estudios Bejaranos, BeÂjar 1996. 103 Sui paradigmi culturali alla base delle teorie della politica internazionale, cfr. il recentissimo contributo sull'argomento di R.N. Lebow, A Cultural Theory of International Relations, Cambridge University Press, Cambridge 2008, spec. le pp. 262-304, cui si rimanda per la bibliografia. 158 R. Tufano, La Francia e le Sicilie giustificazioni teoriche dagli scritti di intellettuali laici come Machiavelli, Bodin ed il duca di Rohan, le cui tesi di politica internazionale erano ben presenti nelle opere dei cattolici ortodossi austriacanti 104. Non eÁ dunque casuale l'intervento massiccio dello scrittore fiorentino nella Spagna del XVII secolo, delle cui opere si hanno tracce vieppiu consistenti negli ultimi anni del regno di Carlo II 105. I felipistas ovviamente ribaltarono sugli avversari questi stessi argomenti: gli alleati dell'Austria erano degli eretici ed occorreva fare leva sul sentimento religioso e sul relativo simbolismo per organizzare al meglio lo scontro politico, allargandolo dentro il tema di una nuova crociata. Cosõ recitava un'immagine abbastanza diffusa di Filippo V, ritratto con la spada sguainata e l'aria bellicosa, atteggiamento che gli varraÁ il soprannome di el Animoso: «Sea puÂblico en el mundo, se desnudan debidamente mi espada y la de mis reinos por la Fe, por la Corona y por el Honor de la Patria» 106. Al re Borbone l'avversa parte del reseau polemico rispondeva che «per la fe', per la Patria il tutto lice», dunque persino un accordo con potenze straniere non ortodosse al cattolicesimo romano. Inghilterra ed Olanda facevano sicuramente «un gran contrappunto all'Im104 A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 149r: «E da qui in avanti si ponga in opra quell'Eroica VirtuÁ che tutti annidate nel petto, o' con praticar la costanza nell'incontrare i perigli per mantenere i suoi Dritti a Cesare, o' con adoprar la fortezza nel superare gl'ostacoli, che potessero impedirgli il possesso, o' con prevalersi della generositaÁ nell'azardare la propria vita, non che i beni per la giustizia di sõÁ importante causa, che pur dovria avere ogni forza ne' cuori, e forza tale, che dovrebbe consigliarci a rinunciare a nostri proprii interessi, conforme, non so' se per esempio, o' per nostra confusione, ne hanno dato una valida riprova l'Olanda e l'Inghilterra, potenze tanto formidabili, che, potendo espirare in sõÁ favorabile contratempo ogni piuÁ rimarcabile lor vantaggio, col promuovere l'antico partaggio inculcato giaÁ da defonto Guglielmo, hanno fatto un generoso sacrificio de gl'utili nascenti al simulacro d'un tanto nume, e non lungamente hanno indugiato a secondarne gl'Oracoli coll'unirsi compagne al nostro eroe nella ricupera dell'usurpato suo Trono. Certo egl'eÁ, c'ambedue queste potenze fanno un gran contrappunto all'Impresa, ma la gloria dell'armonia tutta, tutta resta a Voi, o' Anna, immortale Regina, che siete l'intelligenza motrice, voi, che invigilando al bene di tutti, meritate appunto, ch'il cuore di tutti si faccia umile nicchia alla vostra grande e venerabile immagine. Fortunatissima Eroina, voi siete veramente l'Astrea del nostro secolo, se con giusta bilancia ponete in sicuro l'equilibrio d'Europa. Voi siete la DeitaÁ tutelare del Mondo, se reprimendo da per tutto la troppa alterigia della Francia ne procurate sollecitamente la pace». 105 Cfr. A. GarcõÂa Gallo, La aplicacioÂn de la doctrina espanÄola de la guerra (Datos para su estudio), in «Anuario de Historia del Derecho EspanÄolo», 11 (1934), pp. 5-74. 106 Cit. in GonzaÂlez Mezquita, op. cit. (nt. 87), p. 230. III. La politica di Luigi XIV 159 presa», ma l'alleanza con esse si giustificava in nome di una «giusta bilancia» che potesse porre al sicuro «l'equilibrio d'Europa» 107. 6. FedeltaÁ politica e «raggioni economiche» Ma l'argomento centrale dello scritto di nostro interesse non riguarda la giustificazione giuridico-formale della infedeltaÁ al duca d'AngioÁ, che si trova contemplata tra le «raggioni» morali. In poche e brevi battute l'autore si libera di un argomento che era invece considerato fondamentale in altre parti dell'impero spagnolo, specialmente nel nord della Penisola iberica 108. In primo luogo, Filippo V aveva violato la legge fondamentale dei regni di Castiglia e d'Aragona che escludeva la linea francese dalla successione al trono spagnolo. A causa di un testamento «invalido», «insussistente» e «concepito irregolarmente», il duca d'AngioÁ aveva giurato contro se stesso, dal momento in cui si era obbligato al rispetto di una legge infranta proprio con la sua accettazione del trono. Il Borbone era dunque un usurpatore. I regni di Spagna non avevano un re legittimo, pertanto nullo era il rapporto di vassallaggio con i propri sudditi, che potevano tranquillamente ritenersi liberi dal giuramento di reciprocitaÁ e fedeltaÁ al duca. In secondo luogo, la Spagna era divenuta una provincia del «Gallo usurpatore», senza che il popolo avesse acconsentito, ed ancora, «non avendo egli potuto giaÁ mai ottenere l'Investitura della Santa Sede», restavano «in consequenza liberi dal giuramento li Popoli» 109. A proposito delle resistenze cetuali al nuovo monarca, la storiografia spagnola ha da tempo provato che la xenofobia e le altre manifestazioni di dissenso (come le infinite liti per questioni di precedenza nei vari cerimoniali) contro i francesi da parte dei Grandi di Spagna traevano origine dal panico di un cambiamento radicale dello stile di governo 110. L'aristocrazia d'alto liA.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 154r. Cfr. il caso de El almirante in GonzaÂlez Mezquita, op. cit. (nt. 87), p. 420 ss. 109 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, f. 148v. La cit. nei ff. 150v-151r. 110 La bibliografia sull'argomento eÁ talmente vasta che ci limitiano ad un solo titolo: Egido, op. cit. (nt. 85), passim. Regesti dei dispacci veneti, inviati da vari luoghi (Napoli, Roma, Vienna, Parigi, Londra, Madrid etc.), dal giugno 1700 al luglio 1701, contengono i 2 107 108 160 R. Tufano, La Francia e le Sicilie gnaggio temeva soprattutto d'essere spodestata dalle solide e cospicue posizioni di potere politico che deteneva. Ma origini differenti aveva la francofobia o l'austrofobia di altri gruppi sociali. La borghesia spagnola fu lacerata a lungo da un conflitto interno, che non trasse origine solamente dalle differenti identitaÁ regionali, ma soprattutto dal fatto ch'essa non si presentava come un blocco sociale compatto, per il diversificarsi degli interessi economico-finanziari e per la percezione stessa della propria identitaÁ 111. Mentre i castigliani erano in generale filoborbonici, soprattutto per la preoccupazione di potenziare i propri reseaux commerciali a discapito della concorrenza residente in Portogallo, in Inghilterra ed in Olanda, la borghesia della Corona d'Aragona continuava a difendere strenuamente la propria indipendenza dalla regione limitrofa e nutriva un'antica ostilitaÁ nei confronti della Francia 112. Del tutto falsa eÁ risultata invece la vecchia immagine di una borghesia catalana austriacante che si opponeva ad un borbonismo difensore della feudalitaÁ. Come inesatta risulta la tesi che le simpatie per gli Asburgo fossero proprie dei settori economici catalani legati all'industria tessile inglese che traevano ingenti profitti dall'importazione di quei manufatti, mentre i ceti medi felipistes rivendicavano l'autoctonõÂa della produzione e il rilancio dell'esportazione. Molto piu convincenti i risultati prodotti da quella storiografia che ha dimostrato come gli interessi della borghesia austriachista fossero legati alla politica espansionistica di commercianti anglo-olandesi, che, dal canto loro, miravano a rompere il monopolio andaluso del commercio atlantico. Alla fine, sembra piu equilibrata la posizione storiografica che vede la borghesia commerciale catalana divisa tra possibili sostenitori del regime borbonico ed irriducibili irredentisti 113. voll. (pp. 550 e 580) di F. Nicolini, L'Europa durante la guerra di successione di Spagna, Napoli 1937-1938. 111 Cfr. la sintetica ma efficace ricognizione sullo stato delle interpretazioni e delle conoscenze storiografiche relative ai ceti medi della penisola iberica ed ai loro comportamenti politici nel periodo in esame di GarcõÂa CaÂrcel e AlabruÂs Iglesias, EspanÄa en 1700. ¿Austrias o Borbones?, cit. (nt. 90), cui rimandiamo per la bibliografia. 112 Ivi, p. 41. 113 Una sintesi delle ricerche sull'argomento e la relativa bibliografia ivi. III. La politica di Luigi XIV 161 Gli atteggiamenti politici dei ceti medi produttivi spagnoli ci riportano all'interesse che l'autore del Discorso mostra per le «ragioni economiche». Il sedicente accademico invitava calorosamente l'uditorio a considerare «inglorioso il passato» del Regno per poter «qualificare piu efficacemente il presente» 114. Come a dire che occorreva accantonare le oscure, torbide e paralizzanti questioni di storia dinastica, di diritto e di morale, per sviluppare un ragionamento piu realistico e pragmatico in vista di una scelta a favore dell'Austria: «E per venir in chiaro, basta che di passaggio fissiamo lo sguardo nel sistema presente e nel venturo. Se miriamo il presente, vedremo che l'intruso Duca d'Angiu non ad altro pensa, ch'a caricarci d'imposizioni, ch'a riempirci d'agravij. Non vi eÁ traffico di cui non se ne usurpi l'utile, non v'eÁ industria di cui non ne gode il vantaggio. E quando il florido nostro Regno corrispose gratuitamente in altri tempi piu milioni alla Corona di Spagna, oggi dura fatica a mantenere a se stesso il sostentamento per le tante soldatesche francesi introdotte con apparenza di conservatione, benche destinate ad effettivo esterminio. Se poi miriamo il futuro, noi vediamo, che col riconoscere il nostro Carlo, veniamo ad assicurarsi d'un gran tesoro perenne, merce che la corrispondenza di queste due Case Augustissime apriraÁ a noi un commodo commercio con l'Austria e con altre confinanti Provincie, ove trasportando le vettovaglie, di cui abbondiamo [e ne] ritraremo con sicurezza quegl'utili, ch'al presente ci vengono impediti ed usurpati» 115. La citazione contiene un elemento interessante relativamente al giudizio sulla situazione economica del regno meridionale durante il viceregno, fino alla morte di Carlo II. Un regno «florido», in grado di soddisfare le esigenze finanziarie della Corona spagnola per svariati «milioni», eÁ un'immagine inconsueta e forte per chi eÁ abituato dall'Italia a guardare agli ultimi anni della Spagna imperiale come ad un periodo di profonda crisi politica e di recessione economica. All'origine della visione pessimistica v'era il mito costruito dalla storiografia spagnola dell'etaÁ romantica di un'enorme espansione della Spagna nel Cinquecento, cui faceva contrasto drammatico la decadenza del secolo 114 115 A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 154r. Ivi, f. 149v. 162 R. Tufano, La Francia e le Sicilie seguente 116. In Italia la critica romantico-idealistica ha sempre ritenuto che la situazione della Penisola non potesse essere interpretata fuori dai piu ampi schemi culturali e collettivi propri di un'etaÁ di crisi. Prescindendo dalle dimostrazioni offerte di recente dalla storiografia economica sulla buona capacitaÁ reddituale del regno di Napoli anche alla fine XVII secolo, tesi che tendono a dimostrare l'attendibilitaÁ del nostro testimone, occorre interrogarsi sulla tenuta del sistema politico imperiale spagnolo a fronte di una generale ed indubbia crescita dell'economia di parecchie sue zone periferiche 117. In effetti, cioÁ che Sabatini nota per l'Italia spagnola, ribaltando vecchie e deformanti tesi storiografiche sulla crisi di fine secolo, trova molte corrispondenze in altre zone dell'impero. Diversi indicatori economici sembrano dimostrare una tendenza positiva dell'economia, con un chiaro saldo al rialzo per le regioni mediterranee e cantabriche ed una situazione di crisi nelle zone della Meseta. Lo storico americano Ringrose ritiene che la crescita smisurata di Madrid distrusse la rete mercantile pre-esistente fin dal primo decennio del XVII secolo, con il risultato paradossale che la capitale politica dell'Impero era inserita in un mercato angustamente regionale ed incapace di crescere 118. La Ca116 Come ha dimostrato in un lavoro pioneristico H. Kamen, The Decline of Spain a Historical Mith?, in «Past and Present», n. 8 (1972). Sull'argomento eÁ ritornato con puntuali osservazioni J. Israel, The decline of Spain: a Historical Mith?, ivi n. 91 (1981), pp. 170-80 e The seventeenth-century crisis in New Spain: myth or reality?, ivi n. 97 (1982), pp. 150-6. Piu recente il contributo di M. A. Ladero Quesada, La ``decadencia'' espanÄola como argomento historiograÂfico, in «Hispania Sacra», 48 (1996), pp. 5-50, cui si rimanda per la bibliografia. 117 Sabatini, La spesa militare, cit. (cap. II, nt. 134, p. 103), cui si rimanda per la bibliografia relativa alla penisola italiana. L'economia, peroÁ, non poteva rimediare al collasso del sistema reso evidente dal confronto con altre realtaÁ nazionali. 118 D.R. Ringrose, Madrid y la economõÂa espanÄola, 1560-1850, Alianza, Madrid 1985. Sull'impressionante trend demografico, cfr. M.F. Carbajo Isla, La poblacioÂn de la villa de Madrid, Madrid 1987. A risultati uguali giunge B. Yun Casalilla, Sobre la transicioÂn al capitalismo en Castilla. EconomõÂa y Sociedad en Tierra de Campos (1500-1830), Junta de Castilla y LeoÂn, Salamanca 1987. Cfr., inoltre L.J. Coronas Vida, Endeudamiento y crisis de la comunidad rural en Castilla la Vieja durante el Antiguo ReÂgimen: la villa de Mahamud y el senÄorõÂo de VillahizaÂn, in «BoletõÂn de la InstitucioÂn FernaÂn GonzaÂles», n. 208, pp. 87-124; A. GarcõÂa Sanz, Desarollo y crisis del Antiguo ReÂgimen en Castilla la Vieja, Akal, Madrid 1986; Per le altre regioni della penisola, qualche titolo eÁ A. GarcõÂa Sanz, JaeÂn, siglo XVII. BiografõÂa de una ciudad en la decadencia de EspanÄa, DeputacioÂn, JaeÂn 1994; A. GaÂmez AmiaÂn, ¿Una o varias agriculturas en la AndalucõÂa del siglo XVIII, in Estructuras agrarias y reformismo ilustrado en la III. La politica di Luigi XIV 163 stiglia era stata tradizionalmente il centro dell'organizzazione politica spagnola soprattutto per la capacitaÁ di sostegno economico al governo. Il crollo della sua economia e l'avanzare delle periferie comportoÁ evidentemente l'incapacitaÁ del punto mediano di mantenere in equilibrio l'intero sistema contro le forze centrifughe. In cioÁ potrebbe risiedere una delle concause del crollo delle logiche su cui si fondava lo Stato spagnolo, le cui classi dirigenti aspiravano ad una riforma politica che rimettesse all'originario posto di comando la Castiglia. Ai castigliani il modello francese dovette apparire come il piu conveniente per un rilancio della centralizzazione. Nel regno di Napoli dopo sette anni di sperimentazione di uno stile di governo di quel tipo, la logica del vecchio blocco economico-politico-sociale prevalse fortunosamente grazie ad una congiuntura internazionale favorevole all'Austria ed ai suoi alleati. Non sappiamo dire cosa sarebbe avvenuto nel regno italiano senza l'intervento di questo deus-ex-machina; tuttavia i contemporanei avevano chiara percezione che l'intero sistema avrebbe subõÂto dei notevoli mutamenti. Biscardi, nell'analizzare per conto del governo francese la situazione del Regno, richiamava l'attenzione sul rapporto di scala esistente tra gli enormi ed antichi mali e la necessitaÁ di grandi riforme, che potevano attuarsi solamente in condizioni politiche straordinarie. Al punto che il fallimento della congiura aristocratica del 1701 era da imputare ai timori della borghesia ch'era nata e si era sviluppata attorno alla gestione del debito pubblico, dal quale «cette bourgeoisie et les honnetes gens ont leur principales subsistences» 119. 7. Conclusioni L'arrivo degli imperiali a Napoli nel 1707 pose fine all'azione politica del re di Francia, lasciando in sospeso i processi che egli aveva innescato: in primo luogo la riforma costituzionale per un esecutivo piu forte e il rilancio della nobiltaÁ come classe dirigente. EspanÄa del siglo XVIII, Min. de Agricultura, Madrid 1989; R. Lanza GarcõÂa, La poblacioÂn y el crecimiento econoÂmico de Cantabria en el Antiguo ReÂgimen, Univ. Autonoma de Madrid - Univ. de Cantabria, Madrid 1991. 119 Cfr. supra, cap. II, par. 9. 164 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Certo, nel complesso, le iniziative francesi non ebbero uno sbocco istituzionale concreto; ma non si puoÁ dire che non ebbero seÁguito, poiche mostrarono in funzione un diverso modello di sviluppo, che indusse molti a meditare sulle arretratezze del Mezzogiorno ed ancor oggi ci aiuta a capirle. Per altro, la breve durata e l'esito negativo di quel riformismo furono le cause che hanno portato la storiografia a trascurare quei segni eloquenti. Ma il compito attuale attribuito agli storici non eÁ di enumerare gli eventi, secondo metodi paleopositivistici: comporta, invece, l'ambizione, ben piu complessa, di fare emergere e di capire a fondo i processi del passato quali fenomeni che furono la causa di quelli in corso. Anche le scelte compiute dai nostri avi obbedivano a tendenze pregresse, di origine spesso lontana, che risentivano di flussi sotterranei, per cosõ dire `carsici', erano la conseguenza di altre opzioni, legate a situazioni storiche diverse, i cui effetti si erano cristallizzati in sostanziali strutture mentali. Ogni esperienza umana e sociale si traduce in una fondamentale trasformazione della materia cerebrale soggettiva, e dunque tutto il presente eÁ storia. Compito del ricercatore non eÁ quello dell'archivista che, dedicandosi per caso a determinati documenti, li registra tutti in modo `oggettivo', li raccoglie in fasci e li numera ad uso di chi li vorraÁ riportare in vita. Lavoro prezioso, che eÁ preliminare alla ricerca dello storico: egli deve servirsi di quei dati per formulare diagnosi utili a risolvere le difficoltaÁ attuali, che aiutino a capire fenomeni nati da cause di origine antica. Per cogliere la ragione di quell'andamento, eÁ necessario penetrare nella trama profonda delle identitaÁ sociali. Lo storico deve illuminarne la sostanza e le tendenze, deve coglierne il modo di essere e di evolversi. Nel nostro caso, l'impatto del modello statale francese sul Mezzogiorno durante la guerra di successione spagnola creo un attrito formidabile tra alcune pubbliche `sostanze', tra le mentalitaÁ italiane, spagnole e francesi piu antiche, che erano tra loro molto diverse. Ne nacquero scintille, che emersero chiaramente ed illuminarono la vita civile dei contemporanei. Quelle luci ci forniscono ancora segni certi sulle condizioni di allora, che sono all'origine di molti problemi ancor oggi irrisolti. 165 IV TENDENZE DI METAÁ SECOLO TENTATIVI DI ADOTTARE L'ECONOMICISMO FRANCESE 1. Le difficili letture della politica tardomercantilista Il tema della regolazione governativa in senso tardomercantilistica delle relazioni commerciali tra il regno del Sud d'Italia e la Francia meridionale rientra in pieno nella questione dei rapporti tra politica interna, estera ed economia: quindi dell'influenza reciproca tra poteri delle une e dell'altra in etaÁ moderna, che eÁ materia assai difficile da trattare per il suo sostanziale collocarsi su piu livelli di lettura. Su tali differenti superfici dobbiamo infatti porre: 1) le istituzioni politiche, il loro ruolo e la loro evoluzione; 2) le economie nazionali, il loro stato ed il loro sviluppo; 3) le teorie economiche e la loro relativa traduzione in prassi di governo. Oltre alla necessitaÁ di tenere ben presenti tali differenti punti di vista al fine della costruzione di un frame dalle sufficienti capacitaÁ esplicative, a complicare ulteriormente il quadro si aggiunge la riconosciuta autonomia della politica internazionale e della sua sfera, che dalla sintesi dei singoli fattori fa emergere assetti di cui tener conto in vista di ciascun cambiamento. Infatti, come ha dimostrato la recente scienza politica anglo-americana, la dimensione internazionale va tenuta ben distinta dalla politica estera dei singoli Stati, ne puoÁ essere spiegata come semplice somma di esse 1. Per Ken1 Mi riferisco agli autori di tre libri che hanno segnato fondamentali cambiamenti nella scienza della politica internazionale: H.J. Morgenthau, Politics among Nations, New York 1948; M. Kaplan, System and Process in International Politcs, New York 1957 e K.N. Waltz, Theory of International Politcs, New York 1979 (trad. it. Bologna, 1987). Quest'ultimo volume, pur al centro di un dibattito animatissimo tra gli specialisti, risulta essere il testo piu frequentemente adottato nei corsi universitari statunitensi di relazioni internazionali (cfr. H.R. Jr. Alker e T.J. Biersteker, The Dialectics of World Order: Notes for a Future Archeologist of International Savoir Fair, in «International Studies Quaterly», XXVIII (1984), n. 1). Per la vicenda intellettuale del Neorealism, di cui Waltz eÁ considerato il capofila, rimandiamo al volume curato da R. Keohane, Neorealism and Its Critics, New York 1986. 166 R. Tufano, La Francia e le Sicilie neth Waltz, ad esempio, eÁ un errore tipico dello scienziato politico confondere una teoria della politica internazionale con una teoria della politica estera, perche la «confusione sulle pretese esplicative di una teoria dell'equilibrio formulata correttamente trova le sue radici nell'incerta distinzione fra politica nazionale ed internazionale», se non addirittura nel diniego di tale differenza 2. Dopo un secolo di scontri tra idealisti e realisti, tra historicists e scientists, tra positivisti e postpositivisti, tra razionalisti e costruttivisti, le scienze politiche contemporanee hanno costruito approcci molto sofisticati per definire e spiegare la realtaÁ delle relazioni internazionali. Lo scetticismo sull'efficacia dei modelli esplicativi elaborati dalle teorie della politica internazionale cosiddette ``riduzioniste'' ha portato alla creazione di tipi di spiegazione ``sistemica'', che costituirebbero la risposta alle pretese unilaterali che sia l'economia ad influenzare la politica o viceversa 3. 2 Vale la pena citare l'intero passo di Waltz per illustrare meglio la potenza euristica di questa tesi, poco conosciuta in Italia al di fuori dello strettissimo ambito degli specialisti di Relazioni Internazionali: «per coloro i quali negano la distinzione e formulano spiegazioni interamente di unitaÁ interagenti, le spiegazioni della politica internazionale sono anche spiegazioni della politica estera e viceversa. Altri mescolano le proprie pretese esplicative e confondono il problema della comprensione della politica internazionale con quello della comprensione della politica estera; (...) le difficoltaÁ di spiegare la politica estera lavorano contro l'elaborazione di teorie di politica internazionale solo se queste ultime si riducono alla prima» (cit. dall'ediz. italiana, pp. 230-1). Ci corre l'obbligo di una veloce annotazione sullo stato dell'arte della disciplina delle Relazioni Internazionali in Italia, perche il suo limitatissimo spazio accademico si riflette negativamente sugli apporti che potrebbe offrire anche alla storiografia politica. Dopo il lavoro di N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari 1969, che individuava l'ostacolo principale allo sviluppo della disciplina nella Penisola nell'impatto forte e duraturo dell'approccio storicistico di Benedetto Croce sulla realtaÁ politico-culturale del secondo dopoguerra, ancora nei primi anni Novanta L. Morlino (La scienza politica italiana: tradizione e realtaÁ, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», a. 1991, n. 1, pp. 91124) insisteva su tre motivi ben noti della resistenza italiana all'introduzione di nuove forme di cultura: una visione «ancillare» della politica che deriva dall'idealismo, sia esso di destra che di sinistra, la resistenza accademica ad un possibile nuovo imperialismo di matrice statunitense ed il carattere fortemente ideologico del pensiero politico italiano sia nella versione marxista che cattolica. Quadro non ancora mutato agli inizi del nostro secolo, come risulta dal piu recente lavoro di Sonia Lucarelli e Roberto Menotti, Le relazioni internazionali nella Terra del Principe, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», a. XXXII, n. 1, apr. 2002, pp. 31-82, che aggiungono ulteriori ed altrettanto interessanti elementi di discussione ai precedenti. 3 La riduzione alla matrice economica capitalistica del fenomeno dell'imperialismo IV. Tendenze di metaÁ secolo 167 Una buona scienza delle relazioni internazionali individua una parte delle cause nella sfera autonoma della pratica del governo, sapendo distinguere tra conoscenze economiche, sociali e teorie politiche. Si tratta, tuttavia, di una distinzione che postula l'integrazione tra i vari fattori, affermando nello stesso tempo l'«autonomia» della politica. E il concetto di approccio sistemico, generato anche in alcuni dal rigetto dell'«illusione induttivista», ci torna utile per poter definire e spiegare i rapporti tra Stati nell'Europa del XVIII secolo 4. Per queste ragioni l'intera vicenda settecentesca del mercantilismo e del tardomercantilismo va inscritta dentro il complesso sistema politico europeo e non limitata dentro l'analisi di due sole prospettive nazionali, la francese e l'italiana; ne risulta altrimenti un quadro riduttivo della complessa realtaÁ storica. Infatti, sotto il profilo delle caratteristiche generali assunte in quei decenni dalla politica internazionale, allora il mondo era un sistema multipolare, talmente stabile da poter essere considerato come l'apogeo dell'equilibrio di potenza, in considerazione del fatto che un gran numero di soggetti internazionali, i piu forti, interagivano e riuscivano a compensare il trasformarsi del potere e della sua distribuzione attraverso repentini cambiamenti di alleanze, resi possibili dall'assenza di profonde spaccature ideologiche e di altro tipo 5. Per i tre secoli dell'etaÁ moderna e fu teorizzata per primo da Hobson, seguita da Lenin e ripresa dalle teorie dei neocolonialisti, per giungere fino a Wallerstein. 4 La formula tra caporali eÁ di C. LeÂvi-Strauss, molto critico nei confronti degli scienziati sociali che pensano di arrivare alla certezza attraverso l'accumulo di dati. Si daÁ per inteso che un ``sistema'' si compone di due elementi: una struttura e le unitaÁ interagenti. La struttura eÁ la componente estesa a tutto il sistema che rende possibile pensarlo come un intero, cfr., tra i classici della teoria dei sistemi applicata a diverse discipline: A. Angyal, The Structure of Wholes, in «Philosophy of Science», gen. 1939; W.R. Ashby, An Introduction to Cybernetics, London 1964; W. Burckley (a cura di), Modern Systems Research for the Behavioral Scientist, a Sourcebook, Chicago 1968; L.V. Bertalanffy, General System Theory, New York 1968; S.F. Nadel, The Theory of Social Structure, Glencoe 1957; M.G. Smith, On Segmentary Lineage System, in «Journal of the Royal Anthropological Institut of Great Britain and Ireland», n. 86, lug.-dic. 1956. 5 Copiosa eÁ la letteratura sulla teoria dell'equilibrio, cfr. E. Haas, The Balance of Power: Prescription, Concept or Propaganda, in «World Politics», vol. 5, n. 4, lug. 1953, pp. 442-77, che ha individuato otto significati diversi del termine, e spec. M. Wight, The Balance of Power, in Diplomatic Investigations: Essay in the Theory of International Politics, London 1966. 168 R. Tufano, La Francia e le Sicilie fino al 1945 la struttura della politica internazionale eÁ cambiata una sola volta, con il passaggio da un sistema multipolare ad uno bipolare 6. La lunga durata della politica europea multipolare sembra inoltre dimostrare la stabilitaÁ di un sistema politico-internazionale anarchico e non gerarchizzato. Tuttavia, come nel caso delle teorie delle relazioni sopranazionali (che spiegano alcune leggi della politica internazionale e, solo secondariamente, servono a fornire delle informazioni sulle politiche estere degli Stati e sulle loro relazioni economiche), una storia della politica internazionale non pretende di rendere interscambiabili storiografia politica ed economica, quantunque la prima sia in grado di dire qualcosa anche sull'economia. 2. Nuove prospettive di ricerca sul commercio settecentesco Alle difficoltaÁ metodologiche sopra esposte ed alle ambiguitaÁ scaturenti dalla diversitaÁ e frammentazione delle fonti, altre ancora si aggiungono, che proviamo ad illustrare in breve. Ad un primo approccio esse si presentano come interne agli statuti epistemologici di settori della storiografia, come il politico-istituzionale. Quest'ultimo eÁ stato infatti attraversato in anni recenti da un radicale rinnovamento delle prospettive: lo dimostra il farsi strada di un generale atteggiamento fortemente problematico in cui faticano a formarsi ortodossie interpretative. Ora, a prescindere dalle genealogie di questo modificarsi dei punti di vista della storiografia politica, il risultato piu evidente della svolta indicata consiste nell'abbandono di modelli di comprensione che prendevano di mira solamente lo strato statale del potere ed il livello ufficiale del diritto. La sfera delle istituzioni politiche comprende tutti quegli orga6 Nel 1700 le grandi potenze erano: Turchia, Svezia, Olanda, Spagna, Austria, Francia, Inghilterra; nel 1800: Francia, Austria, Inghilterra, Prussia, Russia; nel 1875: Austria, Francia, Inghilterra, Prussia (Germania), Russia, Italia, Giappone; nel 1910: Austria, Francia, Inghilterra, Prussia (Germania), Russia, Italia, Giappone e Stati Uniti; nel 1935: Francia, Inghilterra, Prussia (Germania), Russia, Italia e Stati Uniti; nel 1945: Russia (Unione Sovietica) e Stati Uniti. Cfr. Q. Wright, A Study of War: Second Edition, with a commentary an war since 1942, Chicago 1965, appendice 20, tabella 43. IV. Tendenze di metaÁ secolo 169 nismi nei quali si poneva il problema di un governo politico, da qualunque parte esso fosse gestito, sia dall'alto sia dal basso, dal centro come dalla periferia, attraverso organi monocratici o consiliari. L'analisi ``diffusa'' del potere, cioeÁ «au ras des comportements des acteurs», consente di armonizzare tra di loro la sfera macro-politico/ economica e quella micro-politico/economica, cosõ come sembrano dimostrare recenti lavori sulla Francia del XVIII secolo. Questo modo di procedere risolve annosi problemi d'interpretazione storica: abbatte ogni rigida contrapposizione tra Stato e societaÁ, e privilegia la prospettiva che guarda alla pratica della regolazione economica, nella consapevolezza che i molteplici livelli della stessa riorganizzazione non si collocavano tutti dentro la sfera statale. Tra gli esempi possibili, citiamo l'operazione storiografica di Philip Minard sul colbertismo. Egli riesce a stemperare il colore nero della leggenda nata sulla vicenda del colbertismo, rivelando ch'essa era frutto dell'apologia anglofila del laisser-faire e del clima generale della seconda metaÁ del secolo dei Lumi. Vengono per questa via restituiti al lettore i veri aspetti del gioco creato dallo Stato francese di fine Seicento. Ad esso partecipavano almeno quattro soggetti: il potere centrale che fungeva da croupier, i ``corps de meÂtier'', i detentori di privilegi particolari e la regolamentazione uniforme 7. Questa operazione storiografica costituisce un passo avanti per la ricerca: se si fosse rimasti al livello di lettura della teoria mercantilistica collocata di fronte alla prassi governativa, sarebbero state escluse dall'analisi le reazioni dei gruppi sociali e degli attori economici colpiti dallo choc voluto da Colbert. Anche il secondo livello di lettura, quello delle economie di antico regime, ha visto aumentare negli ultimi anni la crescita di approcci revisionistici delle tesi classiche dell'imperialismo e del terzomondismo: visuali dirette a valutare in maniera tutto sommato positiva ed ottimistica il ruolo dei flussi commerciali a lunga distanza sulla crescita complessiva dei soggetti economici meno progrediti e piu deboli 8. Gli Quello di Minard, La fortune du colbertisme. EÂtat et industrie dans la France des LumieÁres, Paris 1998, eÁ solo un esempio tra i tanti. 8 Sull'argomento cfr. G. Federico, Commercio estero e «periferie», Il caso dei paesi mediterranei, in «Mediterranea», n. 4, sett. 1998, pp. 163-96. 7 170 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ultimi decenni hanno poi visto descrivere con piu certezza la ``logica'' dei commercianti d'antico regime: essa non conosceva alcun limite geografico, superava spesso le frontiere politiche e possedeva delle gerarchie interne, che tuttavia si costruivano e si modificavano all'incontro con peculiaritaÁ locali, regionali e nazionali. Ogni rete commerciale cosõ formata dipendeva da altrettanti segmenti di mare, fossero essi il Mediterraneo o gli Oceani. Ma nessun mare del pianeta, almeno fino al secolo XVII, era controllato o dominato totalmente da qualche Stato, da qualche cittaÁ o da qualche signore feudale, quanto piuttosto dai complessi «sistemi mercantili», dentro i quali si collocavano anche gli Stati, con la loro politica interna, quella internazionale e con i propri agenti. CosõÂ, ancora nel Settecento, secolo in cui fu potenziato il controllo statale sui mari, gli europei mal conoscevano i loro litorali, la cui stragrande maggioranza appariva come spazio mal organizzato dai poteri locali e centrali, che, per ragioni simili o divergenti, tentavano di ordinarli per meglio controllarli 9. Questo revisionismo ha consentito la scrittura di alcune nuove pagine della storia del Mezzogiorno d'Italia. Un percorso di ricerca sui traffici commerciali tra Marsiglia ed il Mezzogiorno d'Italia, avviato sessant'anni fa da Ruggiero Romano, eÁ stato ripreso da Maria Antonietta Visceglia e Biagio Salvemini nel quadro di una profonda riconsiderazione delle linee di evoluzione dell'economia meridionale tra XVIII e XIX secolo 10. Il loro lavoro, datato 1991 e poi proseguito da Salvemini sui fondi della magistratura marsigliese della SanteÂ, ha consentito di offrire alcune risposte esaurienti ai dubbi esposti da A. Cabantous, Les «secondes deÂcouvertes»: les EuropeÂens et leurs littoraux au XVIIIe sieÁcle, in «Bulletin de la SocieÂte d'Histoire Moderne et Contemporaine», a. 1997, n. 1-2, pp. 56-67. 10 R. Romano, Le commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de l'Adriatique au XVIIIe sieÁcle, Paris 1951. B. Salvemini-M.A. Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi commerciali e complementaritaÁ economiche. Prima parte, in MeÂlanges de l'Ecole FrancËaise de Rome. Italie et MeÂditerraneÂe, t. 103, a. 1991, 1, pp. 103-63; Id., Pour une histoire des rapports eÂconomiques entre Marseille et le Sud de l'Italie au XVIIIe et au deÂbut du XIXe sieÁcle, in «Provence historique», fasc. n. 177, a. 1994, pp. 321-65. Su questi nuovi orientamenti storiografici, cfr. P. Bevilacqua, Il Mezzogiorno nel mercato internazionale (secoli XVIII-XIX), in «Meridiana», n. 1, a. 1987, pp. 19-46. 9 IV. Tendenze di metaÁ secolo 171 Romano, spostando l'attenzione dai bilanci centrali dello Stato francese e napoletano alle modalitaÁ di funzionamento del sistema degli scambi e delle dinamiche di un mercato internazionale che specializzava i flussi delle merci tra il centro e la periferia europea, in funzione di una domanda di materie prime richieste dai paesi in via d'industrializzazione 11. La loro analisi mostra in maniera convincente come sia fallace, se non addirittura falso, fondare la tesi della marginalitaÁ del mercato internazionale nelle societaÁ preindustriali su valutazioni quantitative aggregate, dal momento che un'analisi ravvicinata mostra l'estrema varietaÁ delle aree economiche pur all'interno della stessa regione, «fette piccole ma strategicamente decisive nel reddito complessivo» 12. CosõÂ, il Mezzogiorno d'Italia perde i tratti della lunga immobilitaÁ temporale (condizione che poteva registrare nei rapporti con la Francia al piu l'eccezione di un commercio «aÁ la cueillette» che, come denotava Romano, «non eÁ qualcosa cui si possa attribuire rimbombanti attributi»), ma non si presenta piu nemmeno «con la fisionomia omogenea che ha contrassegnato la sua morfologia spaziale» 13. Il traffico marittimo dell'Italia meridionale «assume cosõ una configurazione non lineare che comporta dei costi di trasporto e d'intermediazione relativamente elevati, ma che si rivela tuttavia flessibile e solida» 14. Al punto, come riveleraÁ in un'indagine successiva lo stesso Salvemini, che il commercio « aÁ la cueillette» (questa volta procedente dal sud al nord del Tirreno) saraÁ capace di modificare alcuni assetti tradizionali nelle zone d'interesse, creando nuovi gruppi sociali (lavoratori che risultano da un'amalgama di seamen, colpoteurs ed imprenditori). Ovviamente, essi sono sembrati lontani dalla possibilitaÁ di scardinare il tradizionale assetto tripartito delle societaÁ d'antico regime, 11 Sulla discussa utilitaÁ dei bilanci statali nell'era proto-statistica si rimanda ai pioneristici lavori di Michel Morineau. 12 Salvemini-Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi commerciali, cit. (nt. 10), p. 104. 13 Salvemini-Visceglia, Pour une histoire des rapports eÂconomiques entre Marseille et le Sud de l'Italie cit. (nt. 10), p. 341. 14 Ivi, p. 347. I corsivi sono miei. 172 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ma non per questa apparente ragione non meriterebbero studi piu approfonditi. La valorizzazione dell'olio calabrese o la reinvenzione del grano siciliano non solamente modificano il quadro della geografia degli scambi, ma riescono a creare un'«innovazione», seppur «precaria», perche travolta infine dalla grande marcia di nuovi cicli storici (l'industrializzazione del nord-Europa) che si andavano sommando a processi iniziati secoli prima. CioÁ significa che le possibilitaÁ delle economie di aree subregionali dell'Italia meridionale d'inserirsi nella dialettica dei mercati eÁ da valutare in modo rigorosamente realistico, all'interno di un quadro complessivo, anche questo ancora da scoprire, in cui la Francia, Spagna, Inghilterra e la restante Europa si confrontavano e si scontravano con forme di organizzazione politiche ed economiche molto diverse, creando riflessi e ripercussioni sull'intera area mediterranea, come ben comprese e descrisse Montesquieu. CosõÂ, la collocazione della ricerca storica all'interno di un quadro molto piu ampio e problematico impone di valutare diversamente gli effetti della dominazione straniera, spostandone la diagnosi dal moralismo, che deriva dallo schema interpretativo liberale di tipo ottocentesco e risorgimentale, agli effetti pragmatici, empirici, strutturali, che sono ancora fortemente attivi nel profondo delle mentalitaÁ. Queste nuove strategie storiografiche, che meglio consentirebbero di rispondere alla nostra iniziale domanda, sono stimolate e sostenute in gran parte dallo stato della documentazione, essa stessa frutto del lavoro politico-istituzionale dell'epoca. Quando questi dati mancano al ricercatore non rimane altro che arrangiarsi come puoÁ 15. Nella meno auspicabile delle ipotesi di lavoro egli puoÁ decidere di ritornare alla vecchia strategia interpretativa di marca idealistica fondata sul confronto tra teoria e prassi, dove la seconda, com'eÁ ovvio, viene desunta dalla prima. PuoÁ ancora tentare di ricavare notizie piu o meno dirette da altre fonti mai esplorate, come nel caso 15 Peggiore il caso della loro esistenza ma dell'impossibilitaÁ di fruirne per colpa dei depositari, come nel caso della napoletana Segreteria d'Azienda, il cui fondo attende da secoli d'essere riordinato. IV. Tendenze di metaÁ secolo 173 della politica internazionale, al fine di verificare i «gradi di libertaÁ nella determinazione dei propri percorsi evolutivi e le opportunitaÁ che le compagini sociali si danno», al fine di associarle al «restringimento speculare che esse riescono ad indurre nelle opportunitaÁ di altre compagini» 16. Quest'ultima prospettiva abbiamo scelto di utilizzare nel tentativo di chiarire alcuni aspetti del tardocolbertismo e del tardomercantilismo franco-ispano-napoletano. In primo luogo perche siamo convinti del fatto che i meccanismi di dominazione, di dipendenza e di crescita bloccata nella storia europea dell'etaÁ moderna non sono mai stati irreversibili e che l'allargamento, pur modesto, del mercato interno, la partecipazione alla divisione internazionale del lavoro hanno sicuramente favorito l'emersione di una borghesia commerciante. Nel caso di specie, occorre tentare di comprendere perche e come il conflitto che nacque spontaneo tra il dinamismo di questi nuovi ceti (delle cui esigenze fu portavoce autorevole Antonio Genovesi, maestro di generazioni di ``regnicoli provinciali'') e l'immobilismo dei gruppi che beneficiavano dello status quo e della dipendenza dalla Spagna fu eluso dalle classi dirigenti dello Stato meridionale. Quest'ultimo aspetto apre un'altra serie d'interrogativi non meno importanti sulla natura della libertaÁ che possedevano le compagini sociali nella determinazione dei propri percorsi evolutivi. 3. Influenza commerciale francese in Spagna alla fine del Seicento La storiografia piu recente descrive l'intera vicenda settecentesca della politica economica spagnola come il tentativo di superare i vecchi modelli mercantilisti sia ispano-portoghese sia anglo-olandese, che erano stati assunti a guida dai rispettivi governi tra XVI e XVII secolo 17. Ambedue gli schemi di politica economica, pur mirando allo 16 Salvemini-Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno, cit. (nt. 10), p. 104. Un riassunto di questa politica, delle conseguenze e degli orientamenti storiografici piu recenti in AgustõÂn GonzaÂles Enciso, La industria espanÄola y su renovacioÂn, in Aa.Vv., Spagna e Mezzogiorno d'Italia nell'etaÁ della transizione, a cura di Luigi De Rosa e Louis Enciso Racio, E.S.I., 1997, pp. 253-80. 17 174 R. Tufano, La Francia e le Sicilie stesso scopo, cioeÁ l'accaparramento di metalli preziosi, differivano notevolmente nei metodi. Per Spagna e Portogallo era infatti facile il conseguimento di oro ed argento per le vie politiche e militari del colonialismo, mentre Inghilterra ed Olanda organizzarono un sistema commerciale che avrebbe dovuto attrarre i metalli preziosi trasportati in Europa dagli stessi paesi iberici, e che finiva con lo sviluppare un'altra forma di colonialismo. Il discrimine tra i due metodi non era di poco conto e, come sappiamo, fu foriero di straordinarie conseguenze: le due nazioni nordiche, per la necessitaÁ di offrire prodotti al proprio sistema mercantile, crearono condizioni di sviluppo industriale, ed alcune iniziative economiche erano giaÁ avviate a partire dal XVI secolo 18. Tuttavia la dittatura dell'ideologia coloniale di marca iberica fu messa in discussione solamente dopo la seconda metaÁ del Seicento, quando cadde ogni certezza di un progresso che fosse il risultato dell'afflusso di metalli preziosi e dell'espansione coloniale 19. Nel 1679, con l'istituzione della Junta de Comercio y Moneda, la Spagna inaugurava una politica ispirata a criteri diversi dal diretto sfruttamento coloniale e finalizzati all'incremento della produttivitaÁ: era una chiara influenza del modello anglo-olandese. Certo eÁ che la politica della Junta doveva essere orientata ad aumentare la produzione industriale attraverso l'abbassamento del carico fiscale, mediante la ricerca sul mercato del lavoro internazionale di manodopera altamente specializzata, mostrando, infine, un'attenzione particolare per il commercio, nel tentativo di rivitalizzare quello americano 20. 18 Si tratta di un tema classico della storiografia, su cui, per le origini, cfr. J.U. Nef, Industry and Government in France and England, 1540-1640, Ithaca 1969, mentre, per i risvolti successivi, cfr. F. Crouzet, De la supeÂriorite de l'Angleterre sur la France. L'EÂconomique et l'Imaginaire XVIIe-XXe sieÂcles, Paris 1985. 19 A.M. Bernal, EspanaÄ, proyecto inacabado. Los costes/beneficios del Imperio, Marcial Pons Historia, Madrid 2005, passim. 20 Sull'argomento, che tende a spostare negli ultimi anni del regno di Carlo II l'impegno riformista di marca afrancesada, cfr. la tesi di AgustõÂn GonzaÂles Enciso, PresioÂn polõÂtica y modelo mercantilista. La renovacioÂn de la polõÂtica ecoÂnomica espanÄola (1679-1720), in Aa.Vv., Poteri economici e poteri politici. Secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Le Monnier, Firenze 1999, pp. 651-62, mentre sull'esistenza di un pensiero economico spagnolo contemporaneo a quello inglese, che aveva di mira il IV. Tendenze di metaÁ secolo 175 Per evidenti somiglianze politiche e per una certa circolaritaÁ ideologico-culturale, cui si aggiunsero nuove, concrete comunanze d'interessi commerciali e finanziari, la politica della Junta, almeno fino alla successione borbonica, trasse queste indicazioni dal modello francese, che nell'epoca dello splendore di Luigi XIV aveva raggiunto ragguardevoli traguardi politici nel continente europeo 21. Com'eÁ noto, quel sistema si fondava su tre strumenti considerati fondamentali, che tuttavia non furono pedissequamente adottati dagli spagnoli, soprattutto dopo il cambio dinastico: una politica doganale che rendeva difficili le esportazioni di materie prime e le importazioni di manufatti; una politica industriale che mirava a moltiplicare le manifatture, accordando loro una serie di franchigie ed esenzioni fiscali; una politica di formazione della manodopera, che si fondava sull'acquisizione e diffusione di competenze tecnologiche estere. EÁ da notare che, per effetto di un cambiamento generale delle mentalitaÁ maturato dal pensiero critico, una nuova forma di governo si esprimeva nella Francia a cavallo tra i due secoli. Il ``Concilio del Commercio'' istituito da Colbert a Parigi, cercava di realizzare e regolare un fenomeno nuovo: esperimenti di partecipazione sociale come teoria e come pratica tardomercantilistica 22. Le procedure amministrative adottate dal Concilio riuscivano a creare tra gli agenti del re e la popolazione mercantile e manifatturiera francese un circolo potenziamento del settore manifatturiero, cfr. M. Grice-Hutchinson, El pensamiento ecoÂnomico en EspanaÄ (1177-1740), Barcelona 1982, pp. 193-4, 198. Sull'interesse della Junta per il commercio americano, oltre il citato GonzaÂles Enciso, cfr. C. Malamud, EspaÄna, Francia y el ``comercio directo'' con el espacio peruano (1695-1730), in La economõÂa espanÄola al final del Antiguo ReÂgimen. vol. III, Comercio y colonias, Madrid, 1982, p. 86 ss.; J. MunÄoz Perez, El comercio de Indias bajo los Austrias y los tratadistas espanÄoles en el siglo XVII, in «Revista de Indias», a. 1957, pp. 209-21. 21 Sui rapporti tra Francia e Spagna si rinvia a due titoli che rivedono alcuni schemi storiografici: per la storia ideologico-politica cfr. Schaub, La France espagnole. Les racines hispaniques de l'absolutisme francËais, cit. (cap. I, nt. 47), mentre per la storia economica, cfr. Zylbergberg, Une si douce domination. Les milieux d'affaires francËais et l'Espagne vers 1780-1808, cit. (cap. I, nt. 47). 22 Cfr. T. Schaeper, The French Council of Commerce: a study of mercantilism after Colbert, Ohio 1983 e lo studio successivo di D. Kammerling Smith, Structuring in Early Eighteenth-Century France: The Political Innovations of the French Council of Commerce, in «The Journal of Modern History», vol. 74, n. 3, Sept. 2002, pp. 490-537. 176 R. Tufano, La Francia e le Sicilie virtuoso e produttivo. L'amministrazione statale puntoÁ, con Louis de Pontchartrain, Michel Chamillart e Nicolas Desmaretz, a rendere omogenee, stabili ed efficienti le riforme politiche di Colbert e di Louvois 23. Si tendeva a stabilire una prassi amministrativa solida ed una politica economica concertata con i ceti produttivi, attraverso un sistema di partecipazione dal basso alle politiche mercantili. In questa nuova fase del mercantilismo francese eÁ stato visto il momento creativo di una nuova mentalitaÁ politica, affermatasi attraverso il principio di razionalitaÁ universale proprio dell'homo úconomicus. Questa diagnosi eÁ il risultato di recenti tesi revisionistiche delle fasi finali del regno di Luigi XIV che anticipano di alcuni decenni, rispetto alle cesure temporali oramai classiche di Furet e Habermas, le ipotesi sulla nascita dell'opinione pubblica e sulla rottura epistemologica dei paradigmi politici dell'Ancien ReÂgime 24. E come il modello colbertiano aveva messo in crisi i parlamenti di Francia, cosõ questo nuovo modo di fare politica colpiva in un punto nevralgico l'antica visione della respublica dei togati, da dove provennero le piu forti resistenze alla exportation administrative del modello francese nel regno meridionale. All'interno di questo ciclo di rilancio dell'economia spagnola, nel regno di Napoli fu fondata la prima Giunta di Commercio (1690), composta da reggenti togati, provenienti dalla Sommaria e dal Collaterale, oltre che da Francesco D'Andrea, nella qualitaÁ di avvocato fiscale 25. Come dimostra la lunga discussione sul contrabbando del tabacco, tutta la prima fase di attivitaÁ dell'organismo fu volta ad operare contro la feudalitaÁ. Venne inoltre posto al centro dell'azione mercantilistica il problema delle dogane, poiche i passi, le tariffe e gli uffici erano cresciuti «in maggior prezzo di stima contro lo stato 23 Cfr. J. Collins, The State in Early Modern France, Cambridge 1995; R. Mettam, Power and Faction in Louis XIV's France, New York 1988 e J. M. Smith, The Culture of Merit: Nobility, Royal Service and the Making of Absolute Monarchy in France, 1600-1789, Michigan 1996, spec. il cap. IV. 24 Cfr. su cioÁ argomenti e bibliografia in D. Kammerling Smith, Structuring in Early Eighteenth-Century France: The Political Innovations of the French Council of Commerce, cit. (nt. 22). 25 Ascione, Il governo della prassi. L'esperienza ministeriale di Francesco D'Andrea, cit. (cap. II, nt. 19). IV. Tendenze di metaÁ secolo 177 caduto del Regno, non per altro cioÁ cagionato che per le accresciute estorsioni» 26. Secondo i calcoli del D'Andrea esistevano circa ottocento passi, spesso abusivi e riscuotenti diritti illeciti, che in mano al baronaggio provinciale gravavano sul commercio per circa il trenta per cento dell'ammontare complessivo. L'azione della Giunta ebbe echi antifeudali dentro il Collaterale, ma che furono subitaneamente spenti dalla reazione delle altre componenti sociali. L'argomento affrontato in quella sede di discussione fu la richiesta d'applicazione dell'ordine del vicere Pedro Afan de Rivera, che nel 1560 aveva imposto una disciplina secondo la quale ad ogni passo doveva essere esposta la tabella dei prezzi tariffari. Il richiamo del D'Andrea all'osservanza di questa vecchia norma contro le estorsioni praticate nelle province finõ col provocare ampie reazioni, una vera e propria carica della «mandria de' ceti» colpiti dalla riforma, come ebbe modo di annotare qualche giorno dopo il Segretario del Regno 27. CosõÂ, occorreraÁ aspettare un altro ventennio, affincheÁ nel regno meridionale si attivasse un'altra Giunta in materia economica. Ma essa spostoÁ il centro delle proprie proposte di riforma economica dalla feudalitaÁ al parassitismo burocratico, che da quel momento verraÁ indicato come la causa principale dello «stato caduto del Regno». Ma ritorniamo alla Spagna. Per l'evidente influenza francese, cioÁ che difettoÁ nelle scelte spagnole durante il primo quindicennio del nuovo secolo fu un'adeguata attenzione verso il commercio americano, sicche i gruppi di asentistas stranieri (in special modo olandesi) e spagnoli furono sostituiti proprio da francesi e l'asiento del commercio umano dei neri d'Africa fu negoziato con una compagnia cui erano interessati personalmente Luigi XIV ed il nipote Filippo V 28. Solo dopo il 1715 e i successivi anni Venti la politica economica spagnola seguõ 26 Cit. in Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (cap. II, nt. 22), p. 144 e passim per l'attivitaÁ di questa Giunta, e per gli altri due tentativi (1690-93, 1708-11) e per i motivi del loro fallimento. 27 Ivi, p. 144-5. 28 G.J. Walker, Politica espanÄola y comercio colonial, 1700-1789, Barcelona 1979, p. 47 ss. 178 R. Tufano, La Francia e le Sicilie infatti obiettivi diversi, non piu influenzati dalla corte di Versailles, cosicche fu possibile raggiungere il traguardo della riforma dell'Azienda, poi dell'intero apparato amministrativo e militare. Intanto, in seguito al matrimonio del re spagnolo con Elisabetta Farnese, si puntoÁ in politica internazionale al perseguimento di obiettivi mediterranei. Scontato eÁ il fatto che, durante questo spazio temporale, le Sicilie seguirono le incerte sorti delle altre regioni dell'ex-impero, in un periodo in cui erano le risorse finanziarie, non quelle economiche, l'elemento risolutivo per non perdere la guerra. Come aveva notato il pubblicista inglese Charles Davenant, le guerre contemporanee non si esaurivano per l'estinguersi dell'odio tra i contendenti, tanto meno per mancanza di uomini ad attrezzare gli eserciti, quanto per l'esaurirsi del denaro 29. Un governo falliva il raggiungimento del massimo obiettivo bellico quando non era nelle condizioni di convincere i propri nazionali ad investire le proprie ricchezze, per confiance nella potenza statale, oppure era incapace di adottare misure e stratagemmi finanziari atti a fronteggiare le campagne di guerra. Gli spaventosi problemi che avevano atteso Filippo V all'arrivo in Spagna (ordine pubblico, finanza, difesa, questione ecclesiastica, assetto costituzionale di tipo «orizzontale») apparivano ancora piu terribili in relazione al continuo drenaggio di risorse per la guerra ed al mantenimento della tranquillitaÁ sociale. Il ceto ministeriale delle Sicilie si trovoÁ, cosõÂ, a dover fronteggiare ambedue i problemi, adeguandosi al ruolo di «patrimonial bureaucracy». Questo stato di cose duroÁ almeno fino all'anno 1714, quando la fine delle ostilitaÁ segnoÁ una traiettoria nuova e diversa: «el triumfo» della politica «vertical», contro le logiche di verso «orizontal» proprie del vecchio impero. Tuttavia, a seguito delle decisioni assunte ad Utrecht, le Sicilie erano oramai lontane dalla vista spagnola di quei tempi. E negli anni precedenti, i costi della guerra e le difficoltaÁ dell'erario spagnolo avevano spo29 C. Davenant, Ways and Means, in The Political and Commercial Works, a cura di Charles Whitworth, London 1771, vol. I, p. 15. Sull'Inghilterra di quegli anni, che giaÁ nel 1692 aveva testato con il cancelliere delle scacchiere Charles Montagu il meccanismo del debito pubblico a lungo termine, cfr. il classico P.G.M. Dickson, The Financial Revolution in England. A study in the development of public credit, 1688-1756, Macmillan, London 1967. IV. Tendenze di metaÁ secolo 179 stato i margini del guadagno statale dagli investimenti in Sicilia ai preparativi per la spedizione in Sardegna, allontanando ogni proposito di riforma economica. CioÁ accadde a discapito della buona volontaÁ mostrata dal marchese di Los BalbaseÁs, vicere di Sicilia. Fino all'arrivo di Carlo III dalle Sicilie, monarca che riapriva in maniera continua il discorso sul commercio atlantico, la vita politica spagnola si presentoÁ come una successione d'influenze italiane e francesi, che rendevano per tanti versi ``imperfetta'' l'applicazione del modello colbertista 30. Come ogni generalizzazione, questo schema potrebbe contenere alcune esagerazioni di tipo ideologico. EpperoÁ non si sbaglia nell'individuare il filo rosso della competizione tra i due modelli tardomercantilistici anglo-olandese e francese, ambedue perseguiti con alterna costanza dalla classe politica spagnola. Ce ne fornisce una prova lampante Campomanes che pubblicava nel 1775 un'antologia di autori mercantilisti del Seicento, dando per scontato che fossero ancora vivi ed incombenti i problemi ch'essi si erano trovati ad affrontare in quel tempo, offrendone soluzioni pertinenti, tuttavia non perseguite dal governo spagnolo 31. Dentro questo quadro generale cercheremo d'individuare alcuni nodi del tardomercantilismo siciliano durante la guerra di successione spagnola. 4. Il tardo colbertismo in Sicilia: Los BalbaseÁs (1707-1713) Carlo Filippo Antonio Spinola e Colonna, marchese di Los BalbaseÁs, fu vicere di Sicilia dal 1707 al 1713. Il personaggio eÁ quasi sconosciuto alla storiografia siciliana, se non fosse per una sua rimarchevole relazione con la quale egli prendeva congedo dal governo dell'isola che si accingeva a passare sotto la dominazione piemontese 32. 30 Per una veduta d'assieme e per approfondimenti bibliografici su singoli aspetti del regno di Carlo III di Spagna, cfr. i due voll. degli atti dello Colloquio internazionale Carlos III y su siglo, Universidad Complutense, Madrid 1990. 31 ApeÂndice a la EducacioÂn Popular, vol. I-IV, Madrid 1775-1777. Sul Campomanes cfr. C. De Castro, Campomanes. Estado y reformismo ilustrado, Madrid 1996. 32 La relazione eÁ stata oggetto di studio da parte di D. Ligresti, Il costo del 180 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Accanto al dato contabile, di per se espressivo della grave crisi attraversata dalle finanze siciliane negli ultimi anni spagnoli, le inusitate avvertenze sono un preciso e drammatico atto di accusa delle anomalie presenti nell'amministrazione statale e una preziosa testimonianza del modo con il quale il vicere aveva retto l'isola per un quinquennio. A questo proposito occorre notare che esiste una precisa coincidenza tra i metodi di governo del vicere spagnolo e quelli che tenteraÁ d'attuare Giovanni Brancaccio a Napoli dopo il 1734, per non supporre a ragione che proprio a questa esperienza il primo segretario d'Azienda del nuovo Regno si sia rifatto. La scalata al governo spagnolo dei sobri tecnoÂcratas fu condotta innanzitutto «aparcando discursos ideoloÂgicos» e assumendo «criterios pragmaÂticos», tuttavia ispirati a preoccupazioni neomercantilistiche 33. La polemica contro le astrazioni ed un rigoroso pragmatismo cui ispirare le scelte furono in quei decenni due facce della stessa medaglia, ossia della critica contro i vecchi metodi della conoscenza e delle scienze, che intanto in Inghilterra John Locke aveva elaborato al massimo livello della polemica ed a sostegno di una opzione metodologica integralmente empirica. Erano tendenze generali di pensiero che si fecero sentire in tutt'Europa, suggerirono comportamenti nuovi ed a volte imposero un ritmo incalzante al raggiungimento degli obiettivi. La Spagna era impegnata in una difficile crisi economica, ancora di piu esasperata dal coinvolgimento in una politica internazionale che distoglieva risorse preziose per l'erario. I risultati raggiunti dalla classe dirigente spagnola in trent'anni di lavoro sono incontestabili: miglioramento dell'amministrazione fiscale, costruzioni di navi, riorganizzazione dell'esercito e degli approvvigionamenti, sdradicamento del contrabbando, sistemazione delle vie di comunicazione, un quadro istituzionale radicalmente riformato nella direzione di un rafforzamento dell'esecutivo. Piu tardi fu chiara ed eÁ ben nota in questo decisivo risveglio l'azione personale di Jose PatinÄo. privilegio: uno stato del Patrimonio del regno di Sicilia del 1713, in «Siculorum Gymnasium», n.s., a. LI (1998), nn. 1-2, pp. 517-35. 33 Cfr. la sintetica ed efficace ricostruzione di R. GarcõÂa CaÂrcel, Felipe V y los EspanÄoles, Random House Mondadori, Barcelona 2003, p. 162 ss. IV. Tendenze di metaÁ secolo 181 In Sicilia anche il Los BalbaseÁs aveva messo in atto una pratica politica di utilizzazione delle giurisdizioni speciali per superare l'«accordo/discorde» tra amministrazione dell'Azienda reale e Tribunale del Real Patrimonio, facendo ben attenzione a non modificare il quadro normativo esistente, nel timore di logorare il sentimento piu forte che stava alla base del «grande amor y fidelidad» dei naturali verso il re, ossia il mantenimento dei «sus privilegios» 34. I gravi limiti di esercizio del principale mandato del nuovo vicereÂ, cioeÁ il mantenimento dell'amore e fedeltaÁ dei siciliani verso Filippo V, sono giaÁ chiari nella prima Relazione di Los BalbaseÁs al Consejo de Estado. CosõÂ, com'era avvenuto citra Pharum, la «fedeltaÁ» siciliana bloccava una seria politica di riforme amministrative ed economiche. Era, percioÁ, un'arma a doppio taglio: brandendola contro il nemico era piu facile ferirsi che offendere. La denuncia delle difficoltaÁ indica inconvenienti non nuovi. Il vicere scriveva che le difficoltaÁ incontrate erano molto serie: «L'esperienza ha fatto conoscere che la molteplicitaÁ de' ministri e le parzialitaÁ di parentele, amicizia o altri fini particolari, non han fatto correre l'amministrazione con quella regola che conviene al Buon Governo, per trascurarsi l'esigenza, darsi dilazioni a' debitori, farsi le gabelle con poca diligenza, non sbrigarsi le cause di giustizia che pendono nel tribunale ed altri inconvenienti che s'hanno sperimentato». Di fronte a questa molteplicitaÁ di ostacoli, era «indispensabile prendersi [dal] governo cura particolare» del bilancio economico statale, per «poter supplire» alle innumerevoli spese ed «altre occorrenze precise, particolarmente nelli tempi critici che hanno corso». BalbaseÁs puntoÁ al rafforzamento dell'esecutivo cercando di aggirare gli ostacoli di solito posti dall'apparato ministeriale, in particolare dal Tribunale del Real Patrimonio: ma mentre cercava di raggiungere lo scopo seguendo vie diverse dalle tradizionali, nello stesso tempo (come eÁ indicato nella Relazione) operoÁ in modo da non mostrare 34 A.G.S., Estado, l. 6126, fasc. 16, s.n. 182 R. Tufano, La Francia e le Sicilie appieno l'intento politico d'innovare, e cercoÁ di superare pragmaticamente «le lungherie e dilazioni solite del Tribunale [che] non fariano riuscire le provvidenze» 35. Questi in sintesi sono i problemi in cui Los BalbaseÁs si eÁ imbattuto in Sicilia e la strategia che ha adottato per superarli. L'attenzione qui rivolta alla vicenda nasce dalla constatazione che essa era indicativa di uno assetto generale: l'amministrazione era abituata per antiche mentalitaÁ a seguire passivamente le vie tradizionali, e costituiva la maggiore difficoltaÁ contro cui urtavano tutti i tentativi d'innovare, che erano indotti dal diffondersi delle idee critiche. Di questo si trovano ulteriori, interessanti riscontri in una voluminosa corrispondenza con la Spagna, attraverso la quale ci eÁ stato possibile ricostruire anche altri aspetti di quegli anni tumultuosi 36. Los BalbaseÁs venne nominato al viceregno di Sicilia da Luigi XIV 37. L'influenza diretta del Re Sole sulla politica delle Sicilie, tema su cui ci siamo soffermati nei primi capitoli, ebbe termine nel 1707 con l'arrivo degli Austriaci a Napoli e nel 1709 ultra Pharum, pur trascinandosi stancamente con il governo viceregnale del Los 35 Il testo della Relazione eÁ, su questo punto, il seguente: «Ed infatti questo presente governo (come pure l'hanno fatto alcuni de' passati) si eÁ caricato di questo peso, soprintendendo a tutto con l'assistenza del solo Razionale della Contadoria reale, e benche cioÁ sia costato quanche straordinario travaglio, niente di meno ha fatto conoscere l'esperienza esser servito di gran profitto, ed in tal maniera si eÁ potuto disimpegnare di supplire a tutte le urgenze che hanno occorso, con aver sortito l'effettuazione di molte tasse, contribuzioni, donativi ed arbitrij, che avriano dovuto passare per il Tribunale del Real Patrimonio, lasciando peroÁ correre per via del medesimo tutti li dispacci ed ordini nella forma solita, benche stimolati da' viglietti della Secretaria, apprestati per dover spedire e dispacciare l'ordini che si son stimati convenienti. E dove si eÁ conosciuto bisogno si sono spediti l'ordini per la Secreteria addirittura per potersi fare in tempo le diligenze, poiche le lungherie e dilazioni solite del Tribunale non fariano riuscire le provvidenze, con che niente si eÁ venuto ad alterrare [sic] la regola ordinaria, e se n'eÁ conseguito il fine bramato». Citiamo dalla traduzione italiana della Relatione, conservata presso l'A.S.T., Sicilia, inv. 1, cat. 2, mazzo 6. A margine del documento v'eÁ riportata una frase significativa del fatto che la politica di riforme dello Stato isolano era iniziata giaÁ durante i viceregni di Filippo V e che l'amministrazione piemontese seguõ quella linea politica: «il y a une semblable copie dans les eÂcritures que S.M.R. porte en Sicile». 36 In A.G.S., Estado, ll. 6118 e 6126. 37 Sul rapporto tra il re di Francia e il vicere di Sicilia ha richiamato l'attenzione il ben documentato A. Baudrillart, Philippe V et la cour de France, Paris 1890, vol. I, p. 372 e passim per la carriera successiva. IV. Tendenze di metaÁ secolo 183 BalbaseÁs, fino all'arrivo dei Piemontesi. Questo processo politico procedette parallelo alle dirette interferenze sul governo e sulla corte di Filippo V 38. Come aveva giaÁ notato Baudrillart, il re di Francia conosceva tutto il personale amministrativo spagnolo, sicche nessun trasferimento, promozione o nomina all'interno dei vasti domini poteva avvenire senza il volere regale del giglio di Francia. Le consulte del Consejo de Estado venivano comunicate a Luigi XIV e da lui esaminate o trasmesse al ministro Torci e al duca d'Harcourt: le risposte francesi sugli argomenti e gli ordini sulle materie che vi erano trattate venivano poi lette nel Despacho. Anche l'attivitaÁ dei Consejos provinciali era attentamente seguita e coordinata in Francia, al punto che il conte Marcin dalla Spagna riferiva che «nous attendons sur toutes choses la deÂcision du Roy, qui est regardeÂe ici comme un ordre absolu aussi bien qu'en France» 39. I meccanismi attraverso i quali Luigi XIV condizionava la vita politica delle Sicilie agivano in due maniere: da un lato, con precise pressioni sul governo centrale spagnolo, sui due vicere di Napoli e di Palermo (che venivano scelti dallo stesso regnante francese) e sul ceto ministeriale delle due Sicilie; dall'altro, con i tentativi di riforme istituzionali in Spagna, che finivano poi per agire anche nelle province situate fuori dalla penisola iberica. In quest'ultimo caso si assistiva ad un'utilizzazione massiccia di giurisdizioni speciali, come nel caso del sindacato a sostegno della finanza di guerra 40. CosõÂ, durante gli anni della Guerra di successione spagnola, alcuni fattori intervennero a modificare drasticamente i rapporti tra lo Stato spagnolo e le istituzioni isolane, in particolare: l'emergenza e l'addensarsi di una fase fiscal-militare nella storia dell'Italia meridionale, la diretta ingerenza francesce negli affari politico-istituzionali piu delicati, il sottile gioco di reciprocitaÁ politiche e d'interazioni 38 Cfr. supra, cap. I, II e III. Baudrillart, op. cit. (nt. 37), vol. I, pp. 120-1. L'affermazione, netta e precisa, eÁ largamente suffragata dalla documentazione parigina inedita nei primi capitoli. 40 Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla memoria del giurista all'esperienza di governo (1673-1720), cit. (cap. I, nt. 25), p. 115. Diverso dal napoletano il caso siciliano, su cui ivi, le pp. ss.. 39 184 R. Tufano, La Francia e le Sicilie istituzionali tra Francia, Spagna e Sicilie. La generazione di togati che visse quell'esperienza professionale dentro una temperie di straordinaria intensitaÁ, sviluppoÁ abilitaÁ amministrative, gestionali e tecniche giuridiche molto particolari. Nel caso della Sicilia, ad esempio, si assistette all'utilizzazione straordinaria dello strumento del sindacato per una massiccia operazione di recupero degli antichi, enormi debiti accumulati dalle universitaÁ del regno e da pubblici ufficiali nei confronti della corte viceregia. In questo caso abbiamo anche notato l'adozione di una pratica di police del governo viceregnale nei confronti delle amministrazioni demaniali e feudali, che veniva attuata in maniera sistematica e particolarmente dura dal togato sindacatore e le cui radici affondavano, oltre che nel terreno della fiscalitaÁ, anche in quello dell'ordine pubblico, nella ricerca di fidelidad alla nuova dinastia spagnola. La successione spagnola era infatti stata anche guerra civile: il pessimo raccolto del 1699 aveva messo a soqquadro Madrid e le province iberiche con una serie di rivolte antisignorili, che presto entreranno in gioco nella nuova dinamica politica scatenata dalla guerra stessa. Il sindacatore Salvatore Guascone pote cosõ reintegrare al regio fisco 254 onze per somme non esatte dal 1702 al 1709 dalla Tavola del Peculio di Messina, che sarebbero ammontate all'enorme cifra di 500 onze di evasione fiscale, se non fosse nel frattempo sopraggiunta la morte di alcuni debitori 41. E come si evince da relazioni dello stesso tenore, l'economia di guerra finiva per favorire l'enorme ampliamento delle competenze delle giurisdizioni speciali, che erano sottoposte, in misura minore, a norme generali e ad usi del diritto pubblico e, in misura maggiore, semplicemente a competenze sostanziali e processuali extra ordinem. Si assisteva, pertanto, ad un avanzamento di posizioni della «dignitaÁ» vicereale all'interno della dialettica tra gli status nella Sicilia del primo Settecento. I re avevano conferito ai loro vicari l'autoritaÁ «potestativa» «nei gradi cosõ alti e sublimi d'autoritaÁ», «che maggiore 41 Ivi, p. 115 e ss., dov'eÁ citata la relazione di Salvatore Guascone al vicereÂ, Messina 11 luglio 1710. IV. Tendenze di metaÁ secolo 185 non se ne puoÁ desiderare, ne pensare»: al punto da sconfinare nel «quasi dispotico» 42. CosõÂ, in una consulta di poco successiva, datata 1719, il presidente della Gran Corte di Sicilia, Giuseppe Fernandez de Medrano, commentava le prerogative dell'istituto viceregio criticando il fatto che negli ultimi anni la Segreteria di Stato e Guerra del vicere avesse «usurpato i negozij attenenti la Giustizia», nonostante un freno allo strapotere viceregnale fosse stato posto dallo stesso Filippo V all'inizio del suo regno, limiti peroÁ dichiarati formalmente, ma non praticati nella sostanza 43. D'altronde, i vicere «non devono nemmeno allontanarsi dal voto dei Regi Consiglieri», soprattutto nelle materie di giustizia. E ogni atto che emani da loro senza la previa controfirma del Sacro Consiglio eÁ «senza forza e vigore» 44. Solo quando vi concorra il «voto» del massimo organo giurisdizionale, i vicere «posson far leggi, che si chiamano prammatiche», «direttive delle materie civili, che [sono] coattive in quelle criminali»: «e queste restano perpetue valiture con vigore eterno» 45. La preoccupazione maggiore del togato siciliano era evidentemente quella di costringere le prerogative vicereali dentro le logiche di potere costruite dall'accordo tra potere regale madrileno e governo degli organi costituzionali del viceregno isolano. CosõÂ, per Fernandez, l'esercizio dell'autoritaÁ regale poteva essere pieno solamente nei modi previsti dall'istituto della «grazia», che sul terreno della fiscalitaÁ e degli uffici comportava, comunque, una privatistica contrattazione tra gubernaculum e Parlamento di Sicilia. BalbaseÁs apparteneva a quella nuova classe dirigente indigena sulla quale aveva lavorato con sapienza il «Colbert d'Espagne», Michel-Jean Amelot, l'ambasciatore francese inviato in Spagna per dare 42 B.C.P., G. Fernandez de Medrano, Della dignitaÁ del vicere di questo Regno, consulta s.d. (ma databile 1719), mss. Qq F 208, ff. 62r-5v. 43 Il Fernandez fa cenno di «strepitosi ordini Reali» emanati nel 1701: ivi, f. 62v. 44 Ivi, f. 64r: «vengono peroÁ limitate queste autorevoli podestati da molte Reali disposizioni e dalle leggi, costituzioni e capitoli del Regno, l'osservanza de' quali ha giurato l'istessi VicereÂ, e percioÁ sono in obbligo di religiosamente osservare, ne senza nota di spergiuro ha questo contravvenire. Oltre di cosõÁ, leggersi nelli loro Privilegi, e fu dichiarato per lettere reali dirette al conte di Alba [...] nel 1591 a' 8 aprile». 45 Medrano cita a questo proposito la Prammatica 22 del 15 maggio 1583. 186 R. Tufano, La Francia e le Sicilie a quel governo una direzione unica e forte 46. L'abile pilota guidoÁ la politica spagnola nel senso di marcia consigliato dalla «variante» colbertista del mercantilismo. Essa prescriveva una ricchezza statale fondata sull'abbondanza di metalli preziosi in circolazione nel paese, una concezione agonistica degli scambi, una politica statale a favore dell'industria e del commercio (considerati strumenti mediante cui «la gloire du roi et de l'EÂtat» progrediva nell'interesse generale), e un'idea della popolazione come la risorsa politica, economica e militare piu importante dello Stato 47. Quest'ultimo postulato, anche attraverso l'elaborazione teoretico-giuridica di Jean Domat, innovava il tradizionale sistema tripartito delle dignitaÁ (qui orant, qui pugnant, qui laborant), ne conservava l'armonia, ma invertiva sostanzialmente l'ordine gerarchico dei tre fattori, poiche si fondava sull'uomo come soggetto produttore di ricchezza. Le istruzioni del Consejo de Estado (12 luglio 1707) al nuovo vicere e la relativa dura risposta (23 luglio) mostrano, insieme alla dialettica interna alle due istituzioni di governo spagnole preposte alla direzione degli affari siciliani, Despacho e Consejo de Estado, i risvolti locali dello scontro politico franco-spagnolo e della guerra con l'Austria 48. Il Consiglio riteneva sufficiente per la difesa del regno il ricavato dal sequestro dei beni posseduti in Sicilia dai partigiani napoletani dell'Austria e raccomandava al vicere di stabi46 «Sous lui, tout changea ou tout commencËa de changer: institutions, industries, lettres et arts de la France s'introduisirent dans la PeÂnisule, en renouveleÁrent la forme politique et jusqu'aÁ l'esprit. Sans les deÂsastres de la plus terrible des guerres et sans un rappel anticipeÂ, euÃt eÂteÂ, n'en doutons pas, le Colbert de l'Espagne»: Baudrillart, op. cit. (nt. 37), vol. I, p. 229 (e ss. sulla sua azione politica), il cui giudizio puoÁ risultare enfatico, ma affatto lontano dal vero. Sulla scelta dell'ambasciatore Amelot, «homme [...] qui eÂtait de robe [...] d'honneur, de grand sens, de grand travail», giudizio condiviso dalle mesdames Maintenon e Ursins (la quale ultima «ne crut pas pouvoir trouver mieux pour avoir sous elle un ambassadeur sans famille et sans protection ici autre que son meÂrite», dunque pronto a far parte attiva della cabala principale della corte francese), cfr. anche Saint-Simon, MeÂmoires, cit. (cap. II, nt. 35), vol. II, pp. 580-1, con un lusinghiero ritratto dello stesso. 47 Su questi aspetti del colbertismo, cfr. P. Minard, La fortune du colbertisme. EÂtat et industrie dans la France des LumieÁres, Paris 1998, p. 16 ss. 48 A.G.S., Estado, l. 6126, fasc. 15 (le istruzione del Consejo de Estado) e fasc. 16 (risposta di Los BalbaseÁs). IV. Tendenze di metaÁ secolo 187 lire una stretta collaborazione con il ministero togato. Los BalbaseÁs si rese subito conto che la situazione difensiva era pessima: tremila fanti, distribuiti in sei battaglioni e sei sole compagnie a cavallo; i quadri superiori dell'esercito ridotti ad un solo tenente-colonnello e ad un sergente maggiore; l'assoluta mancanza di munizioni per alimentare la difesa terrestre; Palermo, capitale del regno e sede del vicereÂ, assolutamente indifendibile; lo spirito pubblico intriso di diffidenza verso gli spagnoli per la possibilitaÁ di essere abbandonati al nemico, com'era avvenuto di recente nel regno continentale ed a Milano. Le consuete diagnosi sul collasso erano confermate appieno. L'anno 1710 vedeva incrementare l'attivitaÁ riformista del vicereÂ, che dialogava oramai direttamente con don Jose Grimaldo, membro del Despacho, cioeÁ senza piu la mediazione del Consejo de Italia, che invece, dal canto suo, preferiva avere come interlocutore il presidente della Gran Corte Civile e Criminale, residente a Palermo 49. S'instituiva cosõ una ben strana dialettica politica, le cui linee tendevano verso lo stravolgimento di un trend socio-istituzionale secolare, descritto nei risultati raggiunti dalla storiografia socio-istituzionale siciliana: il vicere risiedeva a Messina serrato nella cittadella militare, cioeÁ nell'unica cittaÁ siciliana sicuramente affidabile per il comportamento da sempre filofrancese di quella popolazione e rifiutava di stabilirsi nella sede viceregia palermitana. Anzi, all'invito del re di eseguire immediatamente quell'ordine, il genovese rispose in malo modo, con atteggiamento sprezzante da sembrare quasi fellone, sostenendo che Filippo V era sempre nelle condizioni di trovare un suo sostituto piu «loco» di BalbaseÂs e che potesse obbedire a comandi cosõ «sciocchi» ed «insensati». Da quel momento in poi egli recise ogni corrispondenza con il vecchio Consiglio e rispondeva politicamente solo al Grimaldo. D'altra parte, il leader del ceto togato siciliano, Fernandez de Medrano, inizioÁ una fitta corrispondenza con il Consejo, assumendo il comando non solamente poliziesco della Capitale, ma financo militare 50. Palermo in quei frangenti veniva descritta come un luogo 49 50 Ivi, l. 6118, passim. L'episodio cui abbiamo fatto un veloce cenno rappresenta una spia significativa 188 R. Tufano, La Francia e le Sicilie lugubre, orribile per la morte che la giustizia regale quotidianamente riservava ai civili sospettati di tradimento, i cui cadaveri a monito rimanevano appesi alla forca per giorni e giorni. Un cittaÁ senza possibilitaÁ di difesa ne di offesa, e sguarnita di baroni, che avevano preferito arrocarsi nelle piccole fortezze dei propri feudi: non uno dei loro terribili «caballeros» ardiva di entrarvi. Il 23 aprile di quell'anno il vicere era di ritorno a Messina dopo una visita alla piazze militari del regno, «con el desconsuelo de no haver podido aplicar ninguna de las muchas providencias que necesita el estado de ellas». La causa di quel fallimento era nelle «grandes miserias del Reyno», per cui occorrono «nuevos valimientos para buscar medios», per l'attuazione dei quali Los BalbaseÁs aveva giaÁ presentato la «planta» al Tribunal del Patrimonio ed alla Giunta dei Presidenti e Consultore per il prescritto parere: imposta diretta di un carlino per onza del ricavo annuale di «estados y feudos», compresi quelli incamerati dalla Regia Corte, con un gettito previsto di ventimila scudi. La cifra era sufficiente al varo di una flotta di dodici feluche per «asegurar el Commercio y la quietitud del Reyno que procuran pertubar los corsistas enemigos». Il piano era minuzioso: l'armamento di un'imbarcazione viene valutato in millesettecento scudi; la flotta doveva essere composta da sei feluche da quaranta remi e le rimanenti da venticinque a trenta remi. Inoltre, il vicere stabiliva il mantenimento dell'intera flotta a carico del Senato di Palermo, che si sarebbe avvalso degli avanzi della Colonna frumentaria, di una tassa del due per cento su tutti i prodotti d'importazione e dell'uno per cento sopra i grani ed i generi commestibili. Tuttavia, i costi della guerra e le difficoltaÁ dell'erario spagnolo spostavano i margini del guadagno statale dagli investimenti in Sicilia ai preparativi per la spedizione di Sardegna, allontanando i propositi di riforma del velleitario vicereÂ. Intanto, i rapporti franco-spagnoli subivano un brusco capovolgimento di fronte, giaÁ deciso nell'aprile del rivoluzionamento, avvenuto durante la guerra di Successione, delle vecchie logiche politiche ed istituzionali su cui si fondava il rapporto Spagna-Sicilia, cfr. Tufano, op. cit. (cap. I, nt. 25). IV. Tendenze di metaÁ secolo 189 del 1709: «Louis XIV abandonne l'Espagne et cesse de la gouverner» (A. Baudrillart). CosõÂ, carico d'incongruenze per le dure necessitaÁ finanziarie della guerra, pieno d'ambiguitaÁ nell'azione politica giurisdizionalistica e reso quasi schizofrenico per le esigenze interne alla nazione di Luigi XIV, il tardocolbertismo francese cessava di essere sperimentato nel Mezzogiorno d'Italia. 5. Nuovo interesse per il commercio a Napoli in epoca austriaca La forte tensione del governo viennese alla ricerca di uno sbocco prestigioso nel Mediterraneo aveva in qualche maniera allentato la morsa imposta dalle grandi potenze marittime europee allo spazio vitale del Mezzogiorno, dopo una condizione di paralisi che si era protratta per due secoli. Tuttavia, l'operazione di rilancio del nuovo governo austriaco attraverso una politica neomercantilistica era frenata dalle sue difficoltaÁ finanziarie. Furono soprattutto due le iniziative pensate per una radicale riforma della politica economica del regno meridionale, tutte protese a creare alcune condizioni di autonomia della produttivitaÁ all'interno dello scacchiere mediterraneo: con la prima, di cui fu ideatore Serafino Biscardi, venne istituita (30 aprile 1710) una Giunta di Commercio, per il rilancio economico del viceregno; con la seconda fu fondato un apposito istituto di credito per la ricompra dei fiscali, il Banco di San Carlo per agire radicalmente sui meccanismi del debito pubblico, che rastrellavano gran parte dei risparmi e bloccavano l'iniziativa privata, privandola di valide forme di autofinanziamento 51. Tra il tardocolbertismo francese e il neomercantilismo austriaco non esistevano differenze teoriche: J. J. Becher come Colbert aveva sostenuto la razionalizzazione dello sfruttamento delle risorse economiche e l'impulso statale al fine di organizzare la produzione 52. La 51 Sulle ragioni che istituivano la Giunta e sul ruolo assunto da Biscardi, cfr. Luongo, Serafino Biscardi, cit. (cap. II, nt. 4), pp. 278-90. Sul Banco San Carlo, cfr. R. Ajello, Il Banco di S. Carlo: organi di governo e opinione pubblica nel regno di Napoli di fronte al problema della ricompra dei diritti fiscali, in «Rivista Storica Italiana», LXXXI, 1969. 52 Sul mercantilismo austriaco cfr. P. Schiera, Dall'arte del governo alle scienze dello 190 R. Tufano, La Francia e le Sicilie differenza che, con il trascorrere del tempo, si dimostroÁ tanto profonda quanto fatale fu nel fatto che l'economicismo francese era un aspetto di un rapporto antico, collaudato da ben oltre un millennio, e quindi intensamente cooperativo tra societaÁ e Stato, mentre a sostegno della politica economica austriaca e della visione imperiale non poteva esservi altro che un coacervo d'ideali astratti. Essi avevano trovato modo d'indirizzarsi in senso moderno grazie alle venature critiche che furono tipiche degli Asburgo di quel ramo e che da Carlo VI furono trasmesse fino a Giuseppe II, e grazie alla capacitaÁ di aggiornamento di una grande capitale, come Vienna, che si era avvalsa della sua centralitaÁ in Europa per assorbire idee di varia provenienza e per fare da mediatrice dei maggiori modelli di sviluppo. A Napoli l'indirizzo economico asburgico-viennese, impersonato a Barcellona da Carlo (ancora terzo come pretendente alla successione di Carlo II e poi sesto come imperatore) impresse un impulso molto importante e valido, che gradualmente creoÁ nell'intero Mezzogiorno un clima sensibilmente diverso da quello tardoseicentesco, che era stato caratterizzato dal pessimismo, dallo scoraggiamento, dal ripiegamento ecclesiastico su posizioni vecchie ed intransigenti. La linea afrancesada (o, secondo la formula crociana, il «partito gallico»), resa eloquente e concreta da Francesco D'Andrea, non era stata in grado d'imporsi per i suoi meriti pur del tutto evidenti, non era stata coraggiosa fino al punto di schierarsi in modo deciso e costante a favore della Francia; ma ebbe la fortuna di essere stata adottata appieno da Carlo III giaÁ a Barcellona, dove i suoi consiglieri provenienti dalle Sicilie erano uomini d'idee nuove, e dove prevaleva un visione moderna, anglolandese, dell'economia, e dove la cultura giuridica, anche se non era altrettanto innovativa, non era del tutto chiusa alle riforme. Ma proprio in questo ultimo settore, ossia nella intersezione del diritto con l'economia, le aperture critiche di provenienza d'andreiana, impersonate da Biscardi, si rivelarono fallimentari. Fu dopo la morte del geniale reggente del Collaterale, nella Stato. Il Cameralismo e l'assolutismo tedesco, GiuffreÂ, Milano 1968 e J. Berenger, Finances et absolutisme autrichein dans la seconde moitie du XVIIe sieÂcle, Paris 1976. IV. Tendenze di metaÁ secolo 191 estate del 1711, che apparve chiara l'incapacitaÁ del riformismo giuridico di resecare le sue radici parassitarie. Infatti la Giunta mercantile voluta da Biscardi continuoÁ a lavorare e nel 1714 invioÁ a Carlo VI un'interessante consulta, in cui furono analizzate le cause della crisi commerciale e produttiva. L'ostacolo non fu piu individuato nel fondamento feudale, ma in un circolo vizioso di natura economico-sociale, di cui il parassitismo burocratico costituiva la base fondamentale. La nuova diagnosi comporto un cambiamento importante, soprattutto perche i rimedi furono programmati non piu guardando solamente alle riforme interne al Regno, ma anche verso l'esterno e, complessivamente, in modo nuovo e molto piu audace e razionale. Si puntoÁ sulla necessitaÁ di creare una compagnia di commercio diretta a superare le colonne d'Ercole di Gibilterra e capace di estendere le sue attivitaÁ in Atlantico; e furono indicate come prioritarie sia la ricerca di trattative vantaggiose con il «Turco» sia la necessitaÁ di «mantenere nette da' corsari non solo le coste del Regno, ma ancora quando fosse possibile il Mediterraneo». A giudizio della Giunta occorreva estendere «a questo Regno la tregua col Turco, che godono gl'altri Paesi austriaci», in modo da consentire il conseguimento almeno in parte del «mentovato fine, andando le nostre navi con libertaÁ nelle coste dell'Africa, parendo per altro totalmente disconveniente essere con essi in perpetua rottura senza fare loro alcun male e con riceverne da essi innumerabili, come l'hanno sperimentato non solo le navi ma ancora le popolazioni del regno» 53. Inoltre, Carlo d'Asburgo aveva cercato di facilitare il trasferimento «delli ebrei che volevano venire da Livorno per stabilire case di negozio in questo Regno», ed era in corso di progettazione un nuovo porto franco nella cittaÁ di Pozzuoli, con il coinvolgimento della comunitaÁ puteolana, impegnata a contribuire alla costruzione dei magazzini portuali con un fondo di 18 mila ducati 54. 53 Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Wien, F. Radente, Per il commercio del regno di Napoli, Coll. Fs. 33, t. V, cc. 10-22v, cit. da Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (cap. II, nt. 22), pp. 147-8. Radente fu il maggior collaboratore di Fleischmann, inviato da Carlo VI a Napoli nel giugno 1721. 54 Ivi, pp. 148-9. 192 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Secondo Ajello, il viceregno austriaco si caratterizzoÁ per un'impostazione riformistica piu tecnica e piu pratica, meno moralistica e meno legata alla contrapposizione ideologica, sicche la direzione antifeudale dei tentativi di riforma, che aveva caratterizzato gli ultimi anni spagnoli, si attenuoÁ a vantaggio di un obiettivo nuovo: combattere il parassitismo burocratico 55. Questo politica si avvalse della competenza e probitaÁ del Consigliere aulico di Carlo VI, Anselm Franz von Fleischmann, che fu posto al servizio del vicereÂ, il cardinal d'Althann, al fine di governare in modo nuovo e fattivo l'economia, attraverso il recupero di un rapido potere di gestione, di amministrazione e di riforma da parte dell'esecutivo. Tuttavia, il governo viennese viveva in una contraddizione insanabile tra le idee mercantilistiche e produttivistiche e la visione politica legata al vecchio costituzionalismo giuridico, dalla Catalogna trasferito a Vienna. Il giudizio di Pietro Giannone su quel sistema, espresso dall'idea di trapiantare nella capitale austriaca i vecchi Consigli spagnoli, fu particolarmente duro, giacche egli intuõ che quella logica della continuitaÁ era irrazionale ed avrebbe bloccato ogni recupero della produttivitaÁ 56. L'analisi ricognitiva sulla situazione napoletana venne affidata al razionale Francesco Radente, che dimostroÁ l'inesistenza di una benche minima uniformitaÁ e razionalitaÁ nelle riscossioni doganali e che in quelle condizioni sarebbe stato impossibile realizzare qualunque politica protettiva delle manifatture locali. Il pensiero medievale, vittima della sua sintesi spuria con lo spiritualismo universalistico, del tutto astratto, si fondava sull'inventiva dei singoli (la sapienza ideale infusa nella mente dei giuristi Commentatori), rifuggiva dal dar credito al coordinamento centrale delle energie e delle iniziative, credeva nel valore di un pluralismo che in realtaÁ era espressione del particolarismo ispirato a criteri dettati dagli adattamenti specifici ed occasionali, del tutto avulsi da valori di razionalitaÁ gestionale e di 55 Ivi, passim. Il riferimento eÁ alla Breve relazione de' Consigli e Dicasteri della cittaÁ di Vienna, scritta dal Giannone durante il suo soggiorno viennese, datato dal 1723, ed ai duri giudizi da lui espressi sugli spagnoli di Vienna nella Vita scritta da lui medesimo, a cura di Sergio Bertelli, Milano 1960, pp. 116-24, 171, 231, 237. 56 IV. Tendenze di metaÁ secolo 193 efficienza produttiva. A nulla valsero i tentativi dei due vicere di superare la resistenza «elastica, ma non esplicita» (Ajello) del ministero togato. Il 29 dicembre del 1721 il Consiglio Collaterale, nell'approvare la relazione Radente, affido il compito di realizzare l'uniformitaÁ delle tariffe ai delegati degli arrendamenti, ossia proprio a coloro che tradizionalmente tutelavano l'interesse dei redditieri. La logica di questa soluzione eÁ palese: i delegati degli arrendamenti erano reggenti di quel supremo organo, o del Sacro Regio Consiglio. Quella delibera ebbe l'effetto di stroncare l'iniziativa di Fleischmann, e di prostrare l'entusiasmo e l'impegno suo e di Radente. Il provvedimento finiva per confermare le cause di una situazione frammentata e bloccata in una varietaÁ tariffaria priva di ogni razionalitaÁ ed incoercibile. Quell'ostacolo, essendo posto proprio dalle maggiori autoritaÁ del ministero togato e cogliendo un punto nodale dei loro interessi, spegneva ogni scontro generato dalla dialettica tra status, giacche dentro il compatto fronte parassitario militava tutta la societaÁ benestante: nobili, togati, ecclesiastici ed una parte consistente del popolo «grasso» che aveva investito i propri risparmi nelle rendite «certe», quelle del debito pubblico 57. L'episodio aveva posto in luce quale fosse il problema centrale della vita politica ed economica della fase viceregnale, difficoltaÁ avvertita da Bartolomeo Intieri, intellettuale d'indirizzo empirico e banchiere di estrazione popolare, che divenne consigliere informale di Montealegre. Egli fu amico personale di Celestino Galiani, suo collaboratore nell'Accademia delle Scienze e poi protettore di Genovesi; ma Intieri aveva avuto largo credito giaÁ nella corte viceregnale napoletana specialmente sotto il governo laico ed illuminato del conte d'Harrach. L'opinione degli uomini d'ingegno come il matematico e `meccanico' fiorentino, dotati di orientamento critico e di vasta cultura internazionale, eÁ un elemento che la storiografia non puoÁ fare a meno di mettere al centro dei tentativi di realizzare una politica di sviluppo, innanzi tutto per tre ragioni: sia perche quelle idee erano 57 Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (cap. II, nt. 22), pp. 155-73. La coesistenza di questo interesse multiplo creava un blocco invincibile. 194 R. Tufano, La Francia e le Sicilie fondate su una sintesi esistenziale di fattori estremamente vari, che oggi non eÁ facile ricostruire e che nessun'analisi quantitativa, per quanto varia e complessa, potrebbe altrimenti fornire; sia perche quelle tesi erano in rapporto dialettico con una specifica forma mentis, statica e tradizionalista, che, grazie ad altri dati, eÁ ben conosciuta e puoÁ rivelarne i punti di forza e di debolezza; sia, infine, perche eÁ possibile depurarle dagli aspetti soggettivi ponendole a confronto con altre idee di segno opposto. Tutto eÁ ipotetico e relativo nelle nostre conoscenze e, in questo quadro, la logica complessiva dei fattori storici eÁ l'unica fonte che possa dare l'immagine, problematica e strutturalmente complessa, dei fenomeni osservati. Essi, inversamente, restano muti se non sono inseriti nel flusso plurimo del dinamismo esistenziale. 6. I problemi interni ed internazionali del nuovo Regno indipendente L'arrivo degli spagnoli nel 1734 ruppe la trama dei rapporti tra governo viennese ed i migliori esponenti del ceto giuridico-politico delle Sicilie. Intieri, sia nella corrispondenza ufficiale con il governo fiorentino come agente mediceo a Napoli, sia nel suo enorme carteggio che in questi ultimi tempi si avvia ad essere pubblicato e che riguarda le maggiori personalitaÁ della cultura non soltanto italiana, indicoÁ che la piu potente forza conservatrice era nel potere stabilizzante della toga sovrana. Il blocco nasceva dal totale assoggettamento dell'economia ad un personale inesperto dei moderni problemi economici ed orientato verso formalismi idealistici che erano al polo opposto del pragmatismo anglo-francese. Formae mentis profonde inducevano gli uomini di toga a darsi una veste di religiositaÁ settoriale giuridica, che essi s'illudevano fosse un aspetto del pensiero moderno, ed era invece un segmento del coacervo medievale: quello italiano, beninteso, che era il frutto amaro di un millennio di crisi, e non quello franco-inglese ed europeo che era rivolto verso il futuro e che aveva saputo trasformare e rinnovare i caratteri vecchi, metafisici ed escatologici, della religiositaÁ tradizionale, in forti vincoli di unitaÁ e solidarietaÁ patriottica, ossia in una religione attiva. IV. Tendenze di metaÁ secolo 195 La debolezza della concezione giuridica arcaica era nel fatto che il diritto appariva espressione di una sintesi ideale ed universale (di qui il modello imperiale dei glossatori, dei commentatori e dello stesso Dante); ma quell'astrazione era la mera copertura di un particolarismo miope ed angusto, incosciente dei suoi limiti, perche ammantato di prosopopea sacerdotale. Questi indirizzi finivano per rafforzare l'accettazione passiva del sottosviluppo, come coerente con l'Ordine Universale. La logica della saggezza individuale di ciascun giurista, ritenuta capace di raggiungere da sola, semmai grazie ad ispirazioni misteriose, le VeritaÁ assolute ed universali, dava vita ad indirizzi rivolti in senso opposto ad ogni coordinamento razionale, empirico, centrale dei valori, delle mete e delle attivitaÁ. Il potere sovrano si presentava ambiguo fino ad essere inesistente, scisso tra impero e comuni, oltre che tra queste due opposte `ragioni' e quelle della chiesa romana. Il mancato intervento a favore dell'economia era la conseguenza della pretesa che dovesse valere sempre e dovunque una sapienza personale, emanazione diretta della VeritaÁ ontologica, metafisica, eterna ed universale. Grazie ad essa le scelte del giurista si sarebbero orientate nel segreto delle sue meditazioni individuali, nel rapporto verticale con l'Assoluto, al di fuori di ogni dialettica, ossia di ogni necessitaÁ di dialogo. Il confronto delle idee nasce dallo scetticismo, dal dubbio sulla validitaÁ della ragione individuale, dal rifiuto delle sintesi mentali astratte ed omnicomprensive, dalla debolezza degli strumenti intellettuali soggettivi. Le vecchie mentalitaÁ statiche avevano causato, fino ad allora, una `oggettiva' condizione di difficoltaÁ dell'imprenditoria italiana meridionale; invece il dinamismo transalpino, come si eÁ visto, godeva, grazie alla Dialectica che era da secoli intesa come scienza logica e poi come metodo del mercato, di una tutela centrale che giaÁ andava oltre il vecchio paternalismo, tipico della ideologia mercantilistica, utilizzava giaÁ gli incentivi dei governi alle forme di associazionismo imprenditoriale di stampo ben piu moderno. Ed infatti, nonostante che parte della storiografia sul Mezzogiorno sia preclusa alla valutazione positiva dei tentativi di rilancio del commercio e delle nuove prospettive imprenditoriali, eÁ evidente che le imprese strutturalmente di maggior significato in direzione della 196 R. Tufano, La Francia e le Sicilie riforma e verso una nuova concezione della produttivitaÁ (ad esempio il Supremo Magistrato del Commercio, che semplificava al massimo la giustizia commerciale) furono prese proprio dal gruppo formatosi intorno a Montealegre, e di cui furono consiglieri Celestino Galiani, Bartolomeo Intieri, Pietro Contegna ed anche un magistrato, Francesco Ventura, che (non a caso) era delegato degli inglesi. Contegna era stato artefice del tentativo di riforma del sistema fiscale mediante la ricompra generalizzata dei cespiti pubblici alienati, e rimase (anche se ufficialmente `giubilato') il maggior consigliere segreto di Montealegre. Da quell'accordo tra afrancesados spagnoli e napoletani, espressione di un'oggettiva convergenza ideale e mentale, nacquero alcuni tentativi di riforma della politica economica, che spostarono i termini del sottosviluppo meridionale sui piani della politica internazionale e delle nuove mentalitaÁ critiche e dinamiche. Con la nascita del nuovo Regno, i vecchi problemi strutturali erano sostanzialmente immutati, ma le condizioni entro cui le Sicilie si trovarono ad affrontarli furono del tutto nuove. I rapporti internazionali (la protezione di Elisabetta Farnese, donna di straordinarie facoltaÁ intellettuali) favorirono, fino al 1746 (morte di Filippo V) le iniziative audaci di Montealegre. Contegna e Ventura, a lui legatissimi, erano gli stessi magistrati di cultura aperta al rinnovamento che avevano dato vita ai piu ambiziosi tentativi asburgici. Non a caso erano entrambi amici personali di Pietro Giannone. L'avvento dei Borbone di Napoli coincise con una fase di sviluppo del commercio estero delle due Sicilie, che in alcuni periodi riuscõ a raggiungere punte notevoli. Segno e misura di quell'incremento furono la stipula d'importanti trattati commerciali: con la Sublime Porta (1740), con Tripoli (1741), con la Svezia (1743), con la Danimarca (1748), con l'Olanda (1753), e, infine, con la Russia (1787). Significativa l'assenza di norme regolatrici dei rapporti tra Mezzogiorno italiano ed i suoi maggiori partners commerciali, Francia ed Inghilterra; ma di cioÁ si daraÁ conto nelle pagine seguenti. Tuttavia, l'incremento del commercio estero del Mezzogiorno fu per sua natura determinato dalla favorevole congiuntura internazionale e, come ha notato un benemerito storico siciliano, «la maggiore vitalitaÁ che esso mostra rispetto al IV. Tendenze di metaÁ secolo 197 passato eÁ purtroppo molto spesso una vitalitaÁ riflessa, subordinata al ritmo crescente di altre economie e da esse condizionata» 58. Occorre a questo punto, tentare di delineare, seppure in estrema sintesi, il rapporto tra l'evoluzione delle istituzioni politiche preposte alla politica economica e commerciale, e la loro capacitaÁ di tradurre le teorie economiche in prassi di governo. Se la monarchia borbonica appariva consolidata dopo la vittoria del 1744 a Velletri, tuttavia il sostegno economico e militare della Spagna era venuto meno nel 1746, in seguito alla morte di Filippo V ed alla relativa emarginazione di Elisabetta Farnese da quel governo. Due anni piu tardi, il trattato di Aquisgrana sancõ ufficialmente la grave situazione internazionale in cui versava la Spagna. CosõÂ, a partire da quella data venne pure a mancare sul piano internazionale l'idea, reale o fittizia, di una reale protezione spagnola sul Mezzogiorno d'Italia. D'altra parte, l'inserimento estero era strettamente collegato alle condizioni interne. E nelle Sicilie, com'eÁ stato giaÁ notato, gli entusiasmi riformatori dei primi due lustri del nuovo regno crollarono giaÁ nel 1744, proprio nel momento in cui la monarchia borbonica appariva consolidata dopo la vittoria di Velletri. La reazione vincente dei baroni, dei togati e degli ecclesiastici contro il frutto migliore della breve, ma intensa, stagione riformistica, il Supremo Magistrato del Commercio, contro i Consolati di terra, e contro le colonie di ebrei avrebbe frenato e segnato in negativo la politica neo-mercantilistica per l'intero secolo. Uguale significato ebbe il ripristino delle delegazioni, che il neo-segretario di Azienda, Giovanni Brancaccio, aveva sottratte agli esponenti del ceto togato, e che apparivano l'espressione macroscopica del disordine scaturente dall'improduttivitaÁ giuridica. 58 O. Cancila, Impresa redditi mercato nella Sicilia moderna, Bari 1980, p. 278. EÁ doveroso ricordare che a questo storico si deve la pubblicazione di alcune memorie siciliane illuminanti in tema d'interferenza tra politica internazionale ed economia interna. In particolare, poiche il trasporto marittimo era condizionato, almeno per le merci di valore alto e medio, dall'azione della pirateria nordafricana, solo le potenze marittime erano in grado di contrastare questa piaga con feroci ritorsioni e percioÁ esse dominavano il mercato dei noli. Chi trasporta la merce in condizioni quasi monopolistiche, ne determina il prezzo. Le materie prime meridionali subivano appieno questo handicap strutturale. 198 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Le circostanze relative alla nascita del Supremo Magistrato del Commercio, lo spirito per il quale era stato creato e le vicende successive sono state descritte con efficacia da Raffaele Ajello 59. Istituita proprio sul modello francese, questa magistratura (come rilevarono gli stessi politologi contemporanei, autori di memorie edite in questi ultimi anni: ad esempio Borgia, Gregorio Grimaldi, Pallante) s'inquadroÁ nell'ampia politica realizzata da Montealegre al fine di rilanciare la produttivitaÁ delle Sicilie. La strategia fu sviluppata sul versante internazionale e su quello della politica interna. Qui la creazione della nuova magistratura commerciale ed ancor piu dei Consolati di terra (che si aggiungevano a quelli di mare giaÁ esistenti) avrebbe dovuto sottrarre gran parte della materia commerciale alle vecchie magistrature, realizzando una giustizia dotata di specifica competenza, ancorche rapida ed efficiente. Il tentativo s'inquadrava nell'idea di sviluppare la produzione economica del Regno inserendola nel commercio internazionale: aspirazione non irrealistica fino al momento in cui la direttiva e la tutela di Elisabetta Farnese erano in grado di benevolmente prevalere sul re di Spagna. Per ottenere gli scopi che Jose PatinÄo aveva perseguito e poi suggerito ai suoi allievi, tra cui Montealegre, era necessario creare un organo tecnico e giurisdizionale, diretto ad individuare gli intralci alla produttivitaÁ ed a consigliare al governo provvedimenti per migliorarla, e quindi, in definitiva, capace di rimediare alle lungaggini del sistema giudiziario napoletano. Il nuovo tribunale colpõ in particolare la giurisdizione feudale, poiche il rito semplificato, il minor costo della procedura e le maggiori garanzie delle nuove magistrature periferiche sottrassero una parte cospicua di contenzioso alle corti feudali. I risultati della riforma furono molto positivi, come testimoniava NicoloÁ Fraggianni, tra i migliori giuristi politici del regno. Egli era stato fin dall'inizio ostile 59 Sulla istituzione di questa magistratura (30 ott. 1739), gli ampi compiti giurisdizionali, la lotta intrapresa contro di essa dalle magistrature ordinarie e dalla feudalitaÁ, e la progressiva riduzione delle sue funzioni in coincidenza con il declino della fase riformistica nel regno, cfr. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metaÁ del secolo XVIII, I, La vita giudiziaria, Jovene, Napoli 1961, pp. 146-68 e La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, vol. VII, Cava dei Tirreni, 1972, pp. 650-1. IV. Tendenze di metaÁ secolo 199 al tentativo, ma in seguito riconobbe i meriti della magistratura, adoperandosi a far pervenire al principe Bartolomeo Corsini, al tempo vicere di Sicilia, «i lumi necessari per poter riuscire questo nuovo magistrato in sollievo, quiete e beneficio del pubblico» anche nell'isola 60. Tuttavia, a parte i risultati, che furono da mille intralci frenati e poi in gran parte cancellati dalla morte di Filippo V e dalla perdita di ogni peso subita da Elisabetta sotto Ferdinando VI, nei tredici anni intercorsi dal 1746 al 1759, l'aspetto che eÁ necessario mettere in luce eÁ di carattere ideologico e culturale: la congiuntura favorevole e l'accordo tra pensiero critico meridionale e spagnolo realizzarono l'unica strategia coordinata e coerente che avrebbe potuto rilanciare l'economia delle Sicilie. Ci si servõÂ, tra l'altro, di una specie di spionaggio e di pirateria manifatturiera: furono attirati nel Mezzogiorno artigiani provenienti da molti paesi, e lasciarono tracce evidenti consistenti i fiorentini (arazzi), i lionesi (sete e tessuti), i sassoni (porcellane). Operazioni che presupponevano una forza internazionale che in realtaÁ non esisteva, perche la protezione spagnola era problematica e precaria, cosõ come il sistema di potere di Elisabetta Farnese. Alla debolezza si supplõ con la temerarietaÁ di un uomo, Montealegre, che era dotato di qualitaÁ appropriate: laboriositaÁ, disinvoltura, gusto del rischio, intelligente intraprendenza. 7. Il breve governo degli afrancesados sulle Sicilie L'ispiratore di queste riforme era stato lui, il segretario di Stato Jose JoaquõÂn GuzmaÂn de Montealegre, marchese e poi duca di Salas. Egli puntoÁ sul momento particolarmente felice dei rapporti tra la Spagna e le Sicilie per tentare quanto lo stesso imperatore Carlo VI si era adoperato a realizzare in varie occasioni, con esiti fallimentari. Lo statista sivigliano, giaÁ creatura di PatinÄo e degli ambienti madrileni a lui vicini, uomo, dunque, di cultura moderna afrancesada, d'accordo con Genovesi e con tutta la migliore scienza economica e 60 N. Fraggianni, Lettere a B. Corsini (1739-1746), a cura di Elia del Curatolo, Jovene, Napoli 1991, let. XXX, pp. 66-7, 16 gen. 1740. 200 R. Tufano, La Francia e le Sicilie politica del Mezzogiorno continentale ed insulare, era convinto che l'involuzione delle Sicilie derivasse dalla debolezza dell'economia nel quadro degli spietati rapporti di forza dominanti nel Mediterraneo centrale. La proiezione della sua strategia fu chiaramente diretta ad Oriente. Tutta la parte bassa dello Stivale, dal Garigliano a Pantelleria, gli appariva stretta a tenaglia da una duplice pressione: del sottosviluppo islamico nordafricano e dalmata, esportato attraverso le razzie piratesche, e della protezione che a quelle imprese espoliative era accordata a piene mani dalla potenza francese. Quest'ultima ricavava due chiari vantaggi da quell'alleanza, uno diretto ed uno indiretto: realizzava un'efficace penetrazione commerciale nelle instabili organizzazioni politiche islamiche, che vivevano prevalentemente di pirateria, e bloccava l'autonomo sviluppo dei noli ed in genere delle attivitaÁ mercantili delle Sicilie, creando uno stato di fatto per cui l'economia del Mezzogiorno era tenuta ad un livello di dipendenza coloniale, rispetto al commercio francese. Durante tutto il Settecento, questa linea interpretativa, che faceva dipendere la debolezza commerciale dall'asservimento delle Sicilie, si fondoÁ su alcuni solidi topoi, che possono essere sintetizzati in poche frasi di due acuti osservatori siciliani, scritte alla fine degli anni ottanta: «le nostre derrate tanto vagliono quanto gli esteri incettatori vogliono che valessero»; la nostra economia «viene offesa e ridotta al niente dalla pirateria dell'Africani, e diressimo meglio se diressimo dalle avide mire di alcuni nazioni europee, che la fomentano per il vantaggio del loro commercio» 61. Situazione di dipendenza coloniale, di cui era chiara ai contemporanei l'influenza sull'involutivo modello sociale: «le vessazioni continue [...], avendo scoraggiata la nazione, l'hanno interieramente distolta dal proficuo esercizio della nautica», e agiscono in maniera negativa sui progressi delle manifatture e del commercio 62. Per un 61 O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo, Salv. Sciascia edit., Caltanissetta-Roma 1977, rispettiv. p. 231 e p. 230. 62 A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi IV. Tendenze di metaÁ secolo 201 tortuoso gioco d'influenze, che eÁ normale nella dialettica dell'esperienza storica, quello stesso sistema francese della produttivitaÁ e della efficienza, che costituiva il modello cui nel Mezzogiorno si guardava per imitarlo, agiva in modo da ostacolare o impedire la sua adozione nelle societaÁ piu deboli, meno organizzate, incapaci di contrapposizione militare: e questa eÁ una prova ulteriore che il successo della civiltaÁ comunale ha comportato poi una condizione di difficoltaÁ e di ritardo che non si era ancora esaurita nel Settecento, cosõ come lo spiritualismo orientato in direzione metafisica si traduce in un invaghirsi delle duttili e fascinose astrazioni, abbaglio che daÁ corpo e giustificazione alta a vizi mentali deleteri. Per gli osservatori contemporanei era ancora necessario distinguere il trasporto di generi di alto prezzo e di scarso ingombro e peso, in prevalenza in mano ai francesi, dal transito di materiali che avevano caratteristiche opposte. Su questi ultimi, infatti, era forte l'influenza dei tassi di assicurazione che, rispetto ai noli francesi, erano nettamente piu alti per le navi delle Due Sicilie. Come dimostrano gli studi di Franca Assante, la differenza eÁ facilmente comprensibile ed ovvia, in relazione ai maggiori rischi corsi dalle navi italiane di perdite per le razzie piratesche 63. D'altra parte, la vincente concorrenza francese per il trasporto di materiali di piu elevata qualitaÁ e costo eÁ confermata dallo studio di Maurizio Gangemi sui flussi commerciali del legname e della manna provenienti dal Mezzogiorno italiano nell'arco cronologico 1710-1848. Il primo genere era trattato da navigatori regnicoli, il secondo dai francesi. Inoltre, era noto che il mercato del trasporto passeggeri era quasi esclusivamente riservato ai noli di quella nazione. E cioÁ avveniva anche per i viaggi del personale amministrativo regio, a meno che non si potesse usufruire di navi da guerra, che di solito viaggiavano per scorta ai convogli 64. Ad esempio, Tanucci si lagnoÁ de Naples de n'eÃtre tenu aÁ aucun des traiteÂs contracteÂs par les Rois ses preÂdeÂcesseurs, fonde sur la possession de ces Etats aÁ titre du droit de conqueÃte (pp. 123-5). 63 F. Assante, Il mercato delle assicurazioni marittime a Napoli nel Settecento. Storia della «Real Compagnia». 1751-1802, Napoli 1979. 64 Molti gli esempi di tal genere. Cosõ ancora nel 1752, il governo spagnolo si preoccupava che un gruppo di uomini della Real Hacienda in missione a Napoli rientrassero in patria non su naviglio napoletano, ma inglese o francese, cioeÁ con «vandera 202 R. Tufano, La Francia e le Sicilie con il suo amico fiorentino Francesco Mefetti, che si serviva di trasportatori livornesi nel rifornirlo di un vino toscano. I ritardi ch'essi accumulavano gravavano sull'efficienza della spedizione, al punto che Tanucci, scontento di dover aspettare, dichiaroÁ di preferire «navi inglesi, francesi, olandesi» 65. Il problema era anche degli approdi calabresi, e dei loro fondali inadatti a navi di alto tonnellaggio: Gangemi riferisce che il legno necessario per la flotta spagnola fu trasportato a Cartagena da navi mercantili olandesi. Solo il traffico piu minuto e piu povero poteva superare quegli ostacoli. Una marineria povera eÁ disposta ad accontentarsi di un lucro minimo a fronte di rischi che erano comunque seri, perche i pirati andavano alla ricerca o di merci ricche e di uomini robusti o danarosi, capaci di pagare un riscatto: tutto il resto non valeva il rischio e la spesa. Era nota la tendenza dei marinai della flotta mercantile e militare borbonica a trasferirsi, saltando nei porti da bordo a bordo, da legni nazionali a francesi, anche per meno alte remunerazioni. Per questo motivo il governo napoletano invioÁ emissari a Cefalonia ed a Smirne per approvigionarsi di quel genere di mano d'opera, e la documentazione prova la rilevanza del fenomeno, riferendo le proteste del governo turco 66. Questo ed analoghi problemi (ad esempio quello del contrabbando) erano resi piu gravi dal fatto che per ragioni di prestigio e di rispetto alla bandiera i comandanti francesi rifiutavano ogni visita a bordo delle autoritaÁ locali. I contrasti su questo punto attraversano tutta la vita politica internazionale delle Sicilie, e segnano i progressi della sua indipendenza: nelle fasi viceregnali, il diritto di visitare le navi francesi per impedirne il contrabbando appariva una pretesa irrealistica. In definitiva, eÁ comprensibile che partisse un certo traffico di piccolo cabotaggio e di andamento litoraneo, diretto verso il sud della segura» perche «libra de moros»: M. Gangemi, Dal Regno di Napoli a Cartagena. Il Mezzogiorno e l'approvvigionamento di legname dell'arsenale spagnolo a metaÁ del `700, in Aa.Vv. Ricchezza del mare. Richezza dal mare. Secc. XII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 2006, p. 425. 65 Tanucci, Epistolario, II, 1746-52, a cura di R.P. Coppini e R. Nieri, Roma 1980, p. 730, let. 624. 66 Archivio General de Simancas, Estado, leg. 1519. IV. Tendenze di metaÁ secolo 203 Francia, ed animato da uomini di mare disposti a tutto pur di procurarsi un guadagno e pur di trovare, grazie a faticosi e rischiosi trasporti, un mercato per merci abbondanti e svilite dalla scarsezza dei compratori. La scomparsa di migliaia di poveri marinai, la loro fine in qualche mercato di schiavi nordafricano, costituiscono zone d'ombra della storia: non se ne parla. I dati quantitativi tratti dai legni in arrivo nei porti francesi non tengono conto delle perdite, per effetto della pirateria e dei naufragi. Il circolo vizioso cosõ instaurato avrebbe potuto esser spezzato solo se il regno di Napoli avesse potuto mettere in campo un forte potere militare marittimo: tentativo cui si pensoÁ piu tardi, per effetto delle velleitaÁ di potenza di Maria Carolina, consigliata da Ferdinando Galiani e dall'ex ufficiale di marina Giovanni Acton 67. Nel primo decennio del regno indipendente Montealegre, uomo di Stato avventuroso ed ardito al limite della temerarietaÁ, si fidava anche troppo dell'appoggio militare spagnolo. PercioÁ, tra il 1735 ed il 1744 il governo napoletano cercoÁ di sottrarre le Sicilie alla condizione di passiva sudditanza economica dalle grandi potenze europee: la diplomazia francese reagõ per quanto le fu allora possibile, ed ancora piu duramente a distanza di tempo. EÁ triste dover ammettere (anche perche questa contraddizione svela quanto sia tortuoso lo spirito umano, e quanto sia difficile giudicarne l'impatto con la realtaÁ) che alleati dell'inerzia e del sottosviluppo furono la bontaÁ d'animo ed i buoni sentimenti del re di Napoli: Carlo dimostroÁ una propensione alla generositaÁ ed alle smisurate spese di corte (basta dare uno sguardo al palazzo reale di Caserta per convincersene), inversamente proporzionale al suo preciso obbligo di curare la buona raccolta dei fondi pubblici e la loro oculata amministrazione. Si spiega cosõ che i mercanti di ampie vedute, come il toscano Alessandro Rinuccini, potesse arrivare all'estremo (quasi assurdo) di qualificare il buono e mite re di Napoli, molto timorato di Dio (e specialmente della Vergine e di Sant'Antonio), come un despota sconsiderato 68. 67 R. Ajello, I filosofi e la regina. Il governo delle due Sicilie da Tanucci a Caracciolo (1776-1786), in «Rivista Storica Italiana», a. CIII (1991), I parte fasc. II, pp. 398-454, e II parte fasc. III, pp. 657-738. 68 Nel comparare la situazione della politica economica toscana con quella del 204 R. Tufano, La Francia e le Sicilie 8. Giunta di Commercio borbonica e scontro con la Francia (1735-56) Fin dal 16 aprile 1735 fu istituita una Giunta di Commercio, di cui conosciamo le attivitaÁ dal 1736 al 1738 69. Presieduta dal Segretario di Stato Montealegre, vi furono inseriti mercati di provata esperienza e giuristi d'indirizzo moderno. Nel giugno del 1739, quale evoluzione della Giunta, fu istituita una Conferenza di commercio, da cui ebbero vita una serie d'iniziative, che andarono oltre la creazione del Supremo Magistrato (Editto del 30 ottobre 1739) e dei Consolati. Fu promulgata un'apposita prammatica che concesse facilitazioni ai commercianti ebrei ed alle loro famiglie affinche si trasferissero a Napoli oppure in altre cittaÁ delle Sicilie, furono avviate relazioni diplomatiche dirette a stipulare accordi commerciali con la Porta Ottomana e con vari altri paesi, fu creata dal 1738 al 1742 una Compagnia per il commercio nelle Indie 70. Di queste novitaÁ ebbe a risentirsi specialmente la diplomazia francese, costante nell'indirizzo, instaurato fin dal primo quarto del secolo XVI, di assicurarsi la gelosa preminenza nei rapporti con l'Oriente. Segni di un'ostilitaÁ di questo tipo furono manifestati da tutti i diplomatici francesi operanti a Napoli nei primi anni del governo borbonico napoletano. Avvisaglie molto concrete furono Regno di Napoli, il banchiere illuminista Rinuccini si era talmente convinto del «dispotismo» del governo napoletano in materia economico-finanziaria che scriveva all'amico Buondelmonti (2 apr. 1754): «L'Imperatore eÁ quasi meno dispotico ne' suoi Stati che il nostro Monarca qui, e i napoletani non son semplici, eppure fidano il loro denaro a' Banchi pubblici». Il documento eÁ stato edito e commentato da R. Iovine, Una cattedra per Genovesi nella crisi della cultura moderna a Napoli, in «Frontiera d'Europa», a. VII, 2001, nnë. 1-2, p. 505. Il giudizio eÁ di un grande esperto di mercati, economia e finanza dell'Europa perche «pratico» e grandemente interessato alle vicende regnicole: le pesanti accuse rivolte all'establishement carolino ed allo stesso sovrano mettono in luce la pressocche totale mancanza di sensibilitaÁ da parte del governo verso i problemi strutturali. 69 Di questa giunta la SocietaÁ Napoletana di Storia Patria possiede gli atti (43 pareri, provvedimenti, consulte) dall'8 feb. 1736 all'8 mag. 1738, in un codice ms. di 616 cc., segnato XXI D 30. 70 Su queste iniziative, cfr. E. Contino, Le funzioni dei consoli e lo sviluppo del commercio marittimo del regno di Napoli nel secolo XVIII, Napoli 1983, pp. 4-9 per la Conferenza di commercio. Della stessa Contino, Mire di espansione commerciale del Regno di Napoli nel secolo XVIII. I progetti di compagnia delle Indie Orientali, Napoli 1990, pp. 41-79, per il progetto della compagnia delle Indie. IV. Tendenze di metaÁ secolo 205 espresse nel maggio del 1736 dall'ambasciatore Louis PhiloxeÁne, marchese di Puyzieulx, che fu il titolare dell'ambasciata da quell'anno al 1739 71. Di quei difficili rapporti sono testimonianza le Observations sur le Commerce de France dans les Royaumes de Naples et de Sicile, scritte dallo stesso ambasciatore. Egli lamentava la crisi del commercio francese, addebitata alle misure protezionistiche prese dal nuovo governo, in particolare al peso delle tariffe doganali, ed in genere all'intraprendenza ed alle pretese di autonomia del governo napoletano e della sua politica di espansione nel Mediterraneo. Per opporre una risposta convincente a quelle proteste, Montealegre nominoÁ una giunta, cui pose a capo un uomo di sua totale fiducia, l'ex reggente del Collaterale ed ora Caporuota del Sacro Regio Consiglio, quindi uno dei quattro membri della Regia Camera di Santa Chiara: Francesco Ventura. Egli era stato, per l'indubbia e riconosciuta intelligenza e per esperienza ed abilitaÁ personale, oltre che come nipote ed erede di Gaetano Argento, l'autoritaÁ preminente del Consiglio Collaterale durante gli ultimi anni. Di lõ a poco sarebbe stato nominato Presidente del Supremo Magistrato del Commercio. Entrarono nella giunta Matteo Ferrante, come avvocato fiscale, e Oronzio De Mauro, amministratore della Dogana di Napoli. EÁ da notare che, oltre a Ventura, anche Ferrante era amico di Pietro Giannone, di cui condivideva le idee. I tre esperti esaminarono il problema in una lunga consulta, datata 25 luglio 1736, in cui, dopo aver descritto analiticamente le merci sia d'estrazione sia d'importazione della Francia, le tariffe praticate per i dazi e per la dogana, e dopo aver compiuto un confronto tra quei dati e altri simili relativi agli scambi con gli inglesi e con gli olandesi, conclusero dichiarando non fondate le doglianze del diplomatico. Il declino del commercio francese si verificava soltanto 71 Fino a metaÁ secolo, dopo Puyzieulx, assunse la carica di Ministre pleÂnipotentiaire, Anne-Claude De Thiard, marchese di Bissy. Questi fu seguito dallo Charge d'Affaires Guymard. Dopo Puyzieulx l'ambasciata fu ricoperta dallo Charge d'Affaires Tiquet ed il 7 luglio 1740 prese possesso della carica un altro ambasciatore, Paul FrancËois Gallucci de l'Hopital, marchese di Chateaneuf, che rimase fino al 1750. Un messa a punto della «sociologia» diplomatica, fondamentale per la diplomazia francese dei primi del Settecento, eÁ l'opera di BeÂly, Espions et ambassadeurs, cit. (cap. I, nt. 13) 206 R. Tufano, La Francia e le Sicilie per le manifatture di media qualitaÁ, perche le merci prodotte in Inghilterra ed importate nelle Sicilie erano piu a buon mercato e, a paritaÁ di prezzo, migliori. Inoltre, i mercanti inglesi acquistavano in abbondanza olii e lane, «laddove da' Francesi poco o niente v'eÁ da sperare, poiche quel regno [...] abbonda di tutto e poche merci da qui si estraggono» 72. Quanto alle tariffe della dogana sarebbe impensabile rifarle, poiche alcune delle voci sono legate a tradizioni antiche, create nel 1125, nel 1253 e nel 1385. In realtaÁ, la loro consolidata esistenza aveva creato un groviglio d'interessi e di diritti acquisiti, impossibile da sbrogliare. Vi eÁ qui un'eco delle discussioni e dei contrasti che accompagnarono i tentativi di riforma FleischmannRadente, cui si eÁ accennato: ma il clima era diventato diverso, perche la credibilitaÁ del governo borbonico, in una fase di grande slancio internazionale della politica di Elisabetta e di Jose PatinÄo (che era al termine della sua vita), e la protezione molto ampia accordata dai re di Spagna a don Carlos, attribuivano una certa sicurezza ed indipendenza alla giovane monarchia delle Sicilie: la Francia non poteva non tenerne conto, tanto piu in quanto non aveva ancora realizzato il capovolgimento delle sue alleanze. Nonostante la giunta avesse posto nella documentazione una gran cura, che rende difficile negare la validitaÁ dei rilievi tecnici, eÁ fuori dubbio che fosse in gioco un ampio problema di strategia politica e mercantile: Ventura era il delegato degli inglesi, e l'azione di Montealegre era diretta a creare concorrenza tra i partners commerciali delle Sicilie, e percioÁ ad allentare la dipendenza dalla Francia. Il sivigliano Segretario di Stato appare dai documenti il Deus ex machina di ogni iniziativa, pur essendo egli, sul piano dell'autoritaÁ formale, posposto a Sansteban del Puerto, che aveva la massima influenza personale sul giovane re, essendone stato l'educatore. Montealegre, uomo di cultura critica e di orientamento decisamente empiristico, incline piu alle scienze naturali che alle umane e tradizionali (non a 72 L'incartamento eÁ in A.S.N., Esteri, fasc. 4863. Il documento francese fu redatto in due parti distinte, uno per la Sicilia ed una per il regno continentale, ed eÁ accompagnato dalla traduzione italiana. La consulta consta di 19 facciate, e contiene dati molto precisi. IV. Tendenze di metaÁ secolo 207 caso protesse Celestino Galiani e Costantino Grimaldi e scelse Antonio Genovesi come suo bibliotecario personale) interpretoÁ il suo compito di Segretario di Stato delle Sicilie come un banco di prova della sua ideologia empirica ed illuministica, diretta a rigenerare la produttivitaÁ del giovane regno, come se la sua rinascita potesse annullare gli antichi malanni e come se il quadro europeo potesse assistere impassibile al miracolo di quel risorgimento. Ne l'una ne l'altra delle due diagnosi erano fondate; ma valsero a dare alle sue iniziative una coerenza teorica ed uno slancio progettuale che solo la piu recente storiografia ha individuato come episodio rilevante per il suo significato programmatico, ancor piu per i suoi risultati pratici; ma tra di essi eÁ necessario ricordare almeno che la creazione dell'insegnamento di Meccanica e di Commercio, e quindi la nascita di una personalitaÁ come quella genovesiana, ebbero origine proprio dalle riforme montealegrine e dal clima da esse creato. Poco piu tardi, ossia dopo la creazione del Supremo Magistrato del Commercio, organo mediante cui Montealegre e Ventura avrebbero voluto realizzare il loro programma di rilancio dell'economia, le resistenze interne di cui parla il documento francese trovarono eco anche nelle critiche di un altro Segretario di Stato, Bernardo Tanucci, che, pur essendo stato immesso nella corte per influenza di PatinÄo e Montealegre, di cui era strumento l'ambasciatore di Spagna a Firenze, divenne l'avversario segreto ed il denigratore occulto della politica montealegrina fino al 1746. Poi si rese conto, quando era troppo tardi, che le modeste doti culturali di Carlo non permettevano a quel re di governare da solo, gli ardimenti a volte troppo disinvolti del Sivigliano erano la cura necessaria per un ambiente, come quello napoletano, frenetico, anarchico e caotico, ma tenuto fortemente a freno dalla vicina potenza romana 73. Tanucci divenne poi, tra il 1755 73 Su questa fase, successiva al 1746 (partenza di Montealegre) e precedente il 1755 (ascesa di Tanucci) sono di gran rilevo le testimonianze di Leonardo del Riccio, esperto ed intelligente uomo politico toscano, amico di Tanucci, che venne a Napoli nel 1751 e nelle sue lettere ± recentemente pubblicate da Raffaele Iovine con ampio commento e con penetrante introduzione ± constatoÁ che il governo delle Sicilie, privato dell'intraprendenza di Montealegre ed affidato ad un parmigiano debole e poco capace (Giovanni Fogliani, uomo che era stato posto lõ per non far ombra all'autoritaÁ personale del re, e 208 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ed il 1759, l'uomo piu importante del governo napoletano e in tale posizione di autoritaÁ rimase fino al 1776. Tra il 1746 ed il 1755 (o poco prima) egli attraversoÁ un periodo di massimo scoramento e di pessimismo esistenziale, che era direttamente connesso con gli sforzi di un'attivitaÁ di governo che si rilevava pressocche inutile quanto a risultati pratici. La nuova magistratura ± scrisse Tanucci riferendosi alla istituzione voluta da Montealegre ± «turba tutte le giurisdizioni», perche estende la sua competenza e priva altri organi, in primo luogo il Sacro Regio Consiglio, di molte controversie, che costituiscono la materia prima per i guadagni delle «mastrodattie» (cioeÁ le cancellerie). PercioÁ i titolari di quegli uffici (coloro che li hanno acquistati dalla corte e li hanno dati in gestione, ossia in affitto) protestano perche la rendita decresce e non corrisponde piu al tasso d'interesse in base al quale essi li acquistarono. Le proteste venivano da capitalisti autorevoli, amici del re: ad investire nell'azienda reale erano specialmente gli uomini della corte. Le difficoltaÁ al cambiamento erano poste in primo luogo dal fatto che l'impresa statale (come qui eÁ stato piu volte notato) era quasi totalmente `alienata', ossia ceduta in gestione ai privati. Poiche quasi tutti i cespiti e gran parte delle attivitaÁ non erano piu a disposizione del governo, ogni novitaÁ colpiva diritti acquisiti dai compratori, ossia dagli alleati del governo. I gestori ed utenti della macchina giudiziaria napoletana trovavano facilmente molti appoggi, e quell'opposizione era resa piu acuta dalla prepotente personalitaÁ (l'«anima calabrese»), piuttosto altera e non incline alle mezze misure, del primo presidente, Francesco Ventura 74. Al di laÁ di questa evidente e documentata personificazione delle ideologie dominanti in lotta tra di loro, un fattore decisivo dello scontro fu la tradizionale opzione della Chiesa romana per la difesa ad ogni che ritroveremo, altrettanto imbelle, come vicere di Sicilia in infra, capp. VI e VII), era in effetti allo sbando, proprio perche privo di una personalitaÁ di rilievo: Tra Tanucci e Genovesi. La dialettica tra modelli politici in sei lettere inedite su societaÁ e cultura a Napoli nel 1751, in «Frontiera d'Europa», a. 2006, n. 1, pp. 147-268. 74 B. Tanucci, Epistolario, vol. I, 1723-1746, a cura di R.P. Coppini, L. Del Bianco, R. Nieri, pref. di Mario D'Addio, Ed. Storia e Letteratura, Roma 1980, p. 379, a Bartolomeo Corsini, 23 gen. 1740. IV. Tendenze di metaÁ secolo 209 costo dello status quo, ostilitaÁ rafforzata e resa piu drastica dalla presenza degli esprits forts nel partito montealegrino e quindi dalla necessitaÁ di opporsi in particolare a quella strategia di rinnovamento. Un aspetto dei rapporti commerciali tra la Francia e le Sicilie fu a lungo al centro della loro aspra rivalitaÁ: il fenomeno del contrabbando francese. La quasi totale libertaÁ che esso procurava alla Francia nell'aggirare gli ostacoli delle gabelle determinava pesanti contraccolpi negativi sui rendimenti dei fiscali e degli uffici di regio patrimonio ed alienati. Le conseguenze indirette non erano piu lievi: in un'economia parassitaria, fondata sulle «catene» del debito pubblico (P. Giannone) come quella dell'Italia meridionale, il costo della sopravvivenza del sistema era pagato sia dalla «gente di campagna», sia da quella di cittaÁ, per l'impossibilitaÁ di aggirare i divieti e le imposizioni, e per l'aumento della pressione fiscale a causa della scarsa redditivitaÁ degli arrendamenti frodati. A tal proposito, Ruggiero Romano ha osservato che se la politica di repressione del contrabbando avesse avuto successo il commercio franco-napoletano sarebbe diminuito nettamente e si ci sarebbe trovati di fronte all'ostacolo che lo aveva per lungo tempo intralciato: le condizioni di privilegio tariffario concesse all'Inghilterra e alla repubblica genovese e le clausole del trattato stipulato tra Olanda e Due Sicilie 75. L'intuizione dello storico eÁ difficilmente confutabile; ma, se eÁ vero che un esito positivo alla lotta al contrabbando alla fine avrebbe presumibilmente ridotto il volume di affari e dei traffici tra i due paesi, tuttavia il prezzo che l'intera societaÁ meridionale pagava per questo fenomeno era sicuramente piu alto degli immediati ricavi. Ancora, su questo aspetto eÁ lacunoso ogni giudizio che spieghi il fenomeno soltanto in rapporto al volume ed ai ricavi dell'affare illecito, senza guardare ai meccanismi, alle dinamiche politiche ed agli effetti di questa attivitaÁ sulle societaÁ interessate. La situazione caotica che ne derivava non solo creava scandalo e dimostrava la imperfetta indipendenza e limitata sovranitaÁ delle Sicilie, ma bloccava ogni 75 R. Romano, Le commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de l'Adriatique au XVIIIe sieÁcle, Paris 1951. 210 R. Tufano, La Francia e le Sicilie tentativo di porre ordine razionale alla materia fiscale ed alla politica economica sul piano internazionale. L'esperienza napoletana avvenuta con l'istituzione della soprintendenza della regia azienda e con il conferimento a Giovanni Brancaccio delle delegazioni degli arrendamenti, se ebbe l'effetto d'inasprire la lotta al contrabbando, aveva da subito insinuato il dubbio sull'utilitaÁ di misure protezionistiche. Ad esempio, Giovanni Pallante ± che scriveva nel 1737 ± notoÁ che i contrabbandi erano «puramente necessari», essendosi, con le misure prese dal governo napoletano (dando «la potestaÁ regia agli appaltatori di corte ed agli officiali commissari e squadre di assassinare e scorticare e scomponere la gente»), «caricati i pesi e le imposizioni di laÁ del convenevole», al punto che «se si voglia pagare le imposizioni per intero, ed i diritti estorti dagli uffici e le maledette formalitaÁ, si perde la maggior parte del prezzo della roba che si contratta» 76. Pallante lamentava che la repressione del contrabbando giovasse al parassitismo degli «affittatori ed ufficiali di corte», ossia ad una «moltitudine di assassini». D'altra parte, egli aveva giaÁ chiaro il rapporto tra il disarmo viceregnale del regno (ossia il crollo dell'armamento militare, ancora molto curato dagli Aragonesi) ed il collasso del commercio. Insisteva sull'insegnamento «delle cose militari ne' collegi» e sulla necessitaÁ di «nobilitare la milizia», ed inseguiva l'illusoria e fantastica immagine delle azioni di forza contro i nidi dei pirati, sull'esempio di quanto aveva fatto Luigi XIV mandando la sua flotta a bombardare nel 1682 Algeri, nonostante che quella reggenza (come poi ricordoÁ Genovesi) schierasse in prima linea i prigionieri sudditi francesi. Dunque, giaÁ nel 1737 Pallante chiedeva forza internazionale e coraggio nella difesa dei propri interessi. Nella coscienza dei suoi contemporanei il problema del sottosviluppo meridionale andava oramai ricostruito nei tempi lunghi, in rapporto alla politica francese di alleanza con l'Oriente, instaurata fin dai tempi di Francesco I, e che richiedeva come sua condizione indispensabile il controllo delle vie d'acqua verso est, ossia lungo le coste italiane. Come vedremo 76 G. Pallante, Memoria per la riforma del regno, «Stanfone», 1735-1737, op. cit. Infra, (cap. V, nt. 77), p. 243. IV. Tendenze di metaÁ secolo 211 nelle pagine seguenti, la fase precedente e successiva alla caduta di Tanucci (1776) fu caratterizzata da molti equivoci: la politica francese vide nello statista toscano il nemico dei suoi interessi, ma in realtaÁ intanto il quadro internazionale preparava la svolta, voluta da Giovanni Acton ancor prima del 1789, e diretta alla sostituzione dell'influenza inglese a quella francese. Tuttavia il tentativo diretto a rimediare al pessimo trend di lungo periodo fu travolto dall'avventurismo e dall'inesperienza della corte napoletana, dalla Rivoluzione e poi dalla Restaurazione. 9. Conclusioni EÁ un dato elementare che la civiltaÁ franca e poi francese, nei suoi molteplici aspetti, ha avuto un'influenza enorme sulla storia italiana ed in particolare del Mezzogiorno, fin dal tempo dei longobardi. Questa costante va ben al di laÁ sia dei prolungati domini politici angioino e napoleonico, sia delle piu brevi presenze durante la spedizione di Carlo VIII (1494-95) e nel corso della tumultuosa guerra franco-spagnola combattuta per la conquista del Mezzogiorno nei primi tre decenni del Cinquecento. La stretta connessione tra avvenimenti politici e culturali fu del tutto evidente nei momenti di svolte e di turbolenze sociali: basti pensare alle rivoluzioni e rivolte del 1547, del 1647-1648, del 1701 e del 1799. Negli ultimi decenni, al di sotto di questa serie di eventi ufficiali e ben noti, eÁ stato individuato, come una componente non trascurabile dell'economia meridionale, un flusso di navigazione mercantile, prima poco avvertito, tra la Francia e le coste della Sicilia, della Calabria e della Campania. Quest'attivitaÁ commerciale tendeva a sottrarsi al controllo ed all'influenza della politica sia interna sia internazionale, ed in parte riusciva in questo intento, ma in larga misura essa nasceva proprio dal forte dislivello economico e politico tra le due parti, cui si aggiungeva il fatto che per le piccole dimensioni di quelle imprese la politica e la fiscalitaÁ non le individuava. EÁ risaputo, infatti, che l'economia del Mezzogiorno dipendeva prevalentemente da due sistemi produttivi, l'inglese ed il francese, che erano 212 R. Tufano, La Francia e le Sicilie diretti all'elaborazione delle materie prime ed all'esportazione dei manufatti. Il bilanciamento tra le due presenze economiche avvenne durante la lunga fase di passivitaÁ della politica mercantile spagnola, acutamente notata da Montesquieu in una serie delle sue PenseÂes dedicata al commerce du Levant pour l'Espagne 77. Le sue osservazioni sul commercio iberico (spagnolo e portoghese) risentirono delle indicazioni che l'ex-Presidente ebbe a Napoli tra il 23 aprile e il 6 maggio 1729 78, durante i suoi viaggi in Europa. VisitoÁ la Germania, l'Austria, l'Italia, la Svizzera, l'Olanda e si trattenne poi in un lungo soggiorno in Inghilterra tra la fine del 1729 ed il 1732. Montesquieu indicoÁ come una «horrible faute» che la Spagna e il Portogallo si privassero di un commercio mediterraneo specialmente con il Levante, «qu'ils pourroient faire avec bien plus de facilite que les autres nations» 79. Questo ``vuoto'' della presenza spagnola certamente influõ sul ``pieno'' di quella francese e facilitoÁ la nascita dell'indicato trend della navigazione litoranea francese lungo le coste meridionali e siciliane verso l'Oriente, fenomeno sulle cui rotte si formoÁ, in direzione inversa, il trasporto meridionale di materie povere, che imitava quella tecnologia e quella organizzazione. Dato che le autoritaÁ marittime ed i governi francesi esercitavano una sorta di controllo e di orientamento sulla pirateria nord-africana, sarebbe interessante scoprire se essi concedevano una sorta di protezione anche ai trasportatori meridionali verso la Francia, sia pure sotto forma di mere notizie sui momenti piu favorevoli o piu pericolosi per la navigazione, oppure mediante avvertimenti alle centrali piratesche, con cui erano in segreta relazione. Il traffico commerciale francese fu certamente facilitato dall'appoggio politico di quel governo, che proteggeva il contrabbando dei suoi mercanti, vietava le visita a bordo delle navi di sua bandiera, si procurava marinai delle Sicilie contro i divieti del governo napoletano. Tutto questo emerse 77 Montesquieu, Mes penseÂes, in Oeuvres completes, par Roger Caillois, BiblioteÂque La PleÂiade, NRF Gallimard, Paris 1949, vol. I, pp. 1496 (fram. 1992-1993=262-264, I, pp. 272-4). 78 Ivi, pp. 719-33. 79 Ivi, p. 1496. IV. Tendenze di metaÁ secolo 213 chiaramente e ripetutamente dopo il 1734, quando i fattori politici derivanti dal nuovo risalto internazionale delle Sicilie furono in grado di mettere in luce quelle condizioni aberranti d'indiretto sfruttamento. Sul trono di Napoli sedeva un personaggio come Carlo di Borbone che era protetto e tutelato, di nome piu che di fatto, dal governo spagnolo, dove gli uomini di Elisabetta Farnese, in quei primi decenni e fino al 1746, dominavano. La storiografia idealistica, che conserva una certa nascosta e verbalmente rifiutata, ma fondamentale sudditanza nei confronti dello spiritualismo tedesco (e quindi non eÁ in grado di distinguersi da altre forme, ancor piu arcaiche, di questa tendenza), ha sempre trascurato i problemi meridionali dell'economia e del commercio. Cosõ essa si lascia spesso condizionare dalle invettive bigotte contro il materialismo francese (ad esempio, quelle di origine vichiana) e non daÁ rilievo alla cultura italiana, ed in particolare napoletana, che prese a modello il neomercantilismo francese e che cercoÁ, imitandolo, di creare sbocchi di produttivitaÁ e d'imprenditorialitaÁ. Paradossalmente quella storiografia non ha dato il minimo spazio al fenomeno della pirateria e della utilizzazione che se ne fece da parte francese: uno strumento feroce e spietato di condizionamento e di sfruttamento del sottosviluppo meridionale. Questa affermazione ± sia ben chiaro ± non eÁ diretta ad invogliare valutazioni moralistiche dei rapporti di forza, che nell'epoca considerata (ed oltre) dominavano senza freni i rapporti internazionali, come Rousseau piu volte denunzioÁ. Ma lo stesso ginevrino colse il significato profondo che le identitaÁ nazionali, giaÁ da tempo realizzate in alcuni paesi d'Europa (e non in Italia), stavano manifestando nel Settecento. I sentimenti di ordine civico e di nazionalitaÁ furono l'esperienza basilare necessaria per la nascita di fenomeni di segno opposto, secondo l'andamento `normale' della dialettica, che condiziona tutte le esperienze storiche. PercioÁ Rousseau scrisse che dall'imperialismo oppressivo nasce, come segno di una saturazione diretta ad avviare l'opposto movimento pendolare, la considerazione dei diritti umani al di laÁ del nazionalismo e del patriottismo. La morale dell'uomo in quanto tale si fonda sull'esperienza dell'etica 214 R. Tufano, La Francia e le Sicilie sociale, ossia civile; il sentimento della globalitaÁ, inteso in senso buono come partecipazione alle sofferenze dell'umanitaÁ intera, si sviluppa nelle societaÁ nazionali meglio organizzate, non in quelle disgregate. A questo proposito il grande ginevrino formuloÁ diagnosi che hanno anticipato di un quarto di millennio cioÁ che oggi eÁ sotto gli occhi di tutti: se fosse vero il contrario, i talebani combatterebbero a difesa della Croce rossa, e le forze degli Stati nazionali indosserebbero la dinamite e si farebbero esplodere come kamikaze. Fu dopo il 1734 che nel Mezzogiorno sorsero nello stesso tempo difficoltaÁ e facilitazioni. Per un verso il governo napoletano (come dimostroÁ la Giunta presieduta da Ventura, formata di afrancesados) non era piu disposto a tollerare gli aspetti piu irregolari del dominio commerciale francese; per un verso opposto Montealegre, libertino gaudente, ostile ad ogni bigotteria ed allievo di PatinÄo, avvioÁ una politica diretta a favorire comunque gli scambi mercantili, anche con i Turchi, e si illuse che le imprese delle Sicilie potessero essere irrorate ai capitali ebraici. Ma ebbe contro questa politica i vecchi assetti di potere, alleati con i nuovi. I ben noti ostacoli, posti dagli ecclesiastici e dal governo francese nelle trattative con alcuni Stati esteri, e le difficoltaÁ incontrate dal livornese Finocchietti Faulon nello stipulare l'accordo commerciale con la Porta ottomana, dimostrano che la passivitaÁ, accertata nel 1729 da Montesquieu, era ancora vincente a Napoli, con una differenza: non si presentava piu come paralisi ideativa ed imprenditoriale del ceto dirigente togato, ma era presente, in modo altrettanto greve ed invincibile, negli assetti sociali e nelle mentalitaÁ diffuse. Dopo il 1734, il governo borbonico immise nei propri quadri il meglio del potenziale riformismo asburgico-napoletano. Si avvalse all'interno della spinta di rinnovamento data dall'indipendenza ritrovata, dalla protezione di Elisabetta Farnese e dalla giovane etaÁ del re Carlo: condizioni (queste due ultime) che comprimevano e rendevano innocuo il culto della tradizione, proprio del re, e la sua tendenza a considerare lo status quo una norma quasi cogente. Ma in politica estera i rapporti diplomatico-commerciali tra Napoli e Parigi furono caratterizzati da un latente e costante contrasto, articolato in IV. Tendenze di metaÁ secolo 215 un'estrema varietaÁ di episodi minuti, la cui serie e consistenza emergono dall'epistolario tanucciano, e sono confermati sia dalle relazioni settimanali inviate ai vari governi europei dai rappresentanti diplomatici (particolarmente precisi ed importanti i dispacci piemontesi) sia dalle registrazioni consolari, sia dall'ampia documentazione presente nell'archivio parigino degli affari esteri. Su questa casistica influirono le imprevedibili volubilitaÁ, leggerezze e rilassatezze di comportamento delle due regine, quella sassone e poi quella austriaca, espressioni di atteggiamenti morali del tutto diversi, ma entrambe convinte che deliciae principis fossero il fattore basilare della salus populi: idea, per altro, condivisa dal re Carlos. La cronaca di questi contrasti, animati dal rigore tanucciano, manifestatosi appieno dopo il 1759, eÁ una cronaca che le fonti indicate consentono di narrare; ma questo compito non tocca a chi scrive nella presente sede e forse saraÁ assolto in un'altra occasione. Certo eÁ che un quadro coerente dei rapporti economici tra la Francia e le Sicilie e dei loro sviluppi eÁ possibile solo integrando fonti molteplici di vario genere, ossia le testimonianze della piu diversa natura e provenienza, in base al criterio che eÁ stato posto in modo decisivo dal pensiero critico moderno: non esistono settori privilegiati e di per se certi, ne affermazioni e dati che si possano sottrarre al dubbio ed all'esigenza di verifica sperimentale comparativa. In altri termini, tutto, in questo mondo, eÁ opinione. Minore incertezza si ha dove la verifica di attendibilitaÁ delle diagnosi e delle idee sia possibile mediante il confronto tra fonti diverse ed attraverso la conoscenza approfondita delle strutture psicologiche, culturali, mentali che caratterizzano le personalitaÁ dei singoli testimoni. Inoltre, una norma anche piu ampia e generale eÁ stata perfezionata dalla critica alla fine del secondo millennio: una conoscenza reale dei fenomeni (tuttavia sempre relativa) nasce dalla comprensione della dialettica esistenziale, ossia dal contrasto degli interessi e delle idee. Non valgono appigli ed ancoraggi dogmatici di nessun genere, che tendano a sottrarsi a questo limite, per sfuggire ad una chiara e documentata verifica razionale. 217 V OLTRE LA METAÁ DEL SECOLO LA FRANCIA DAL DOMINIO ALL'INFLUENZA POLITICO-CULTURALE 1. Fallimento dell'unione di fatto tra le due corone borboniche (1715) Pare che, quando Louis XIV rese nota ai cortigiani la sua accettazione del testamento del re cattolico Carlo II, l'ambasciatore spagnolo esclamasse con enfasi: «il n'y a plus des PyreÂneÂes!» 1. Ma per una di quelle magie, che rendono imprevedibile la storia umana, la catena di montagne, tre lustri prima scomparsa, si ripresentoÁ all'improvviso intatta ed ancor piu massiccia, tra il 1714 ed il 1715, in seguito a due avvenimenti cruciali per le vicende e relazioni narrate in queste pagine: la morte di Maria Luisa Gabriella (14 febbraio 1714), prima moglie di Filippo V, fu seguita nello stesso anno dal matrimonio del re di Spagna con Elisabetta Farnese; Luigi XIV morõ il 1ë settembre 1715. La nuova regina era una bella donna, ma tutt'altro che dotata di temperamento dolce e remissivo, come ad arte l'aveva descritta l'intermediario del matrimonio, il geniale ecclesiastico parmense e fine diplomatico Giulio Alberoni, presente nella corte madrilena giaÁ dal 1710 (solo piu tardi fu nominato cardinale, nel luglio 1717) 2. A Jadraque, in territorio spagnolo, ai piedi dei Pirenei, il 23 dicembre 1714 Elisabetta ebbe uno scontro con la principessa Orsini, tutrice informale degli interessi francesi a Madrid, e fece subito capire di esser ben diversa da come era stata descritta 3. Poco dopo il re di Spagna mostroÁ che le condizioni precarie del suo sistema nervoso erano preoccupanti in senso patologico 4. 1 Cit. da BeÂly, op. cit. (cap. I, nt. 13), p. 19. Ajello, La vita politica, cit. infra, nt. 5, p. 462. 3 Baudrillart, op. cit. (cap. I, nt. 50), p. 610 s. 4 Sull'evolversi della malattia mentale di Filippo V (con descrizione di alcune delle sue bizzarrie che aiutano a comprendere l'estrema gravitaÁ del quadro clinico) cfr. H. Kamen, Philip V of Spain, Yale University Press, New Haven and London 2001, passim. 2 218 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Con la presenza di una forte personalitaÁ femminile nel governo di Madrid si aprõ una nuova stagione negli equilibri europei, oltre che nella storia della monarchia cattolica. La societaÁ spagnola aveva giaÁ goduto di una forte immissione d'idee francesi con il governo di Filippo V, novitaÁ che favorõ il rafforzarsi della componente afrancesada. In queste giaÁ adulte condizioni dell'influenza della grande nazione sorella ebbe inizio allora una fase italiana (1715-1746), diretta ad obiettivi in gran parte diversi da quelli auspicati dal Re Sole e fin qui narrati: mete caratterizzate dall'energico temperamento di una regina di singolare carisma. Ella era infatti dotata di sguardo penetrante e di vedute ampie, ma molto realistiche; la sua presenza rafforzoÁ tutto cioÁ che era filofrancese, in quanto spregiudicato, dinamico, razionale e, se necessario, ostile agli astratti eccessi di fedeltaÁ alle tradizioni. Questo cambiamento avvenne sia sul piano del governo sia su quello dei piu dinamici indirizzi di cultura. Dunque, quando si esalta l'influenza della Spagna nella storia italiana dopo la morte di Carlo II, bisogna tener conto che fu fenomeno «gallispano» (secondo la formula di Tiberio Carafa), ossia di una politica e di una cultura spagnola giaÁ fortemente rinnovate dalla ratio francese. Quella sviluppata nelle presenti pagine eÁ una linea interpretativa che segue alla lettera le indicazioni, a suo tempo (negli ultimi anni del secolo XIX) formulate dalla mente penetrante di Benedetto Croce. Egli vide chiaramente questa trasformazione verso lo esprit francese, svolta attiva ed evidente giaÁ negli ultimi decenni del Seicento, ben prima che si aprisse la successione di Carlo II. La ``fase italiana'' fu seguita, dopo la morte di Filippo V, da tredici anni d'intervallo, caratterizzati da un «neutralismo a ultranza», e da rigurgiti delle vecchie idee iberiche integraliste, patrocinate da Barbara di Braganza. Nell'autunno del 1759, con l'arrivo a Madrid di Carlo di Borbone, ormai terzo come re di Spagna, questa fase confusa di arretramento ebbe termine, e si aprõ per la storia della monarchia cattolica un nuovo corso, che non sarebbe pienamente comprensibile se non si tenesse conto di quanto era avvenuto a Napoli dal 1734 al 1759. Certo eÁ che, il figlio prediletto di Elisabetta Farnese, giaÁ a Madrid e poi durante la permanenza in Italia, V. Oltre la metaÁ del secolo 219 aveva maturato nei confronti della Francia idee ed interessi spesso dialettici 5. Influõ a creare in Carlo questa tendenza lo spagnolismo tradizionalista e bigotto dell'ajo Santisteban. Una sorta di frattura si venne percioÁ a creare tra due ideali: da un lato il culto, greve e serioso, della tradizione imperiale iberica, forma mentis sorretta dall'orgoglio spagnolo e da un totale ossequio all'ortodossia; dall'altro la cultura afrancesada, di carattere razionale ed empirico, fortemente incline al dinamismo, alla produttivitaÁ, al rinnovamento. Se si guarda a quanto avvenne in Spagna dopo il 1746, bisogna riconoscere che l'orgogliosa societaÁ iberica durante tutto il secolo mal sopportoÁ l'idea di relazioni politiche franco-spagnole senza frontiere, che avrebbero dovuto addirittura trasformare l'orografia del Paese. L'analisi storiografica della Spagna settecentesca nei suoi rapporti politici ed economici con la Francia eÁ di certo complicata dall'incrociarsi nella cultura nazionale spagnola dei temi della «invertebracioÂn hispaÂnica», della difficile articolazione dell'«Estado y de la nacioÂn», della dialettica tra le diverse realtaÁ regionali, riconducibile all'antitesi tra una «EspanÄa federal» (la monarchia «compuesta» degli Austrias) e un'«EspanÄa vertical» (quella afrancesada, per l'appunto, risalente alla prima epoca borbonica) 6. Tuttavia, questa stessa storiografia converge nel sostenere che la sua classe dirigente, almeno nella vecchia Spagna, aveva scelto la successione borbonica affinche l'enorme impero si conservasse unito e fosse trasmesso ai 5 Cfr. a tal proposito i giudizi di R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, nella misc. Storia di Napoli, vol VII, Di Mauro, Cava de' Tirreni 1972, e piu di recente in Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia 1734-1759, introduzione a Carlo di Borbone. Lettere ai re di Spagna, Ministero dei Beni culturali, Roma 2001. 6 Sulla guerra di successione spagnola, sulle scelte compiute in Spagna riguardo l'opzione dinastica e sulla politica interna ed estera di Filippo V la bibliografia eÁ vasta. Rimane ancora oggi insuperata Baudrillart, Philippe V et la Cour de France, Firmin, Paris 18901900, 5 voll., opera piu volte citata qui. Si vedano inoltre i primi due volumi di W. Coxe, Memoirs of the Kings of Spain of the House of Bourbon, Longsmans, London 1813 (tradotto in spagnolo da J. De Salas Y Quiroga, EspanÄa bajo el reinado de la Casa de BorboÂn, Madrid 1846). Piu recentemente H. Kamen, The War of Succession in Spain 1700-1715, Weidenfeld and Nicolson, London 1969. Cfr., in ultimo, l'importante riflessione di Ricardo GarcõÂa CaÂrcel sulla nascita del nazionalismo spagnolo, datata proprio a partire dalla successione borbonica e dall'immagine storiografica del regno di Felipe V nel secolo XIX, Felipe V y los espanÄoles, cit. (cap. IV, nt. 33). 220 R. Tufano, La Francia e le Sicilie posteri nella sua integritaÁ: erano in gioco, oltre all'orgoglio e al sentimento nazionale, radicati interessi costituiti 7. La nuova dinastia avrebbe dovuto tenere come principale obiettivo la salvaguardia dell'unitaÁ della monarchia, restaurando il suo antico potere e prestigio. Ed entro questa prospettiva alcuni storici spagnoli hanno segnalato l'organicitaÁ della politica estera borbonica lungo tutto il sec. XVIII, «que obliga a entenderla como un todo desplegado en dos tiempos ± el correspondiente al reinado de Felipe V y el que atanÄe a la plenitud de Carlos III, separados ambos por el neutralismo a ultranza de Ferdinando VI» 8. 7 Cfr. i saggi di R. Dennis Hussey-J.S. Bromley, Pressioni europee sull'impero spagnolo (1688-1715), e di G. Clark, Dalla guerra della lega di Augusta alla guerra di successione spagnola, in Storia del mondo moderno Cambridge, vol. VI, L'ascesa della Gran Bretagna e della Russia (1688-1713), Garzanti, Milano 1971, rispettivamente alle pp. 409-55 e 456-90. Per J.A. Maravall Casesnoves, La philosophie politique espagnole au XVII sieÁcle dans les rapports avec l'esprit de la contre-reforme, a cura di L. Cazes e P. Mesnard, Paris 1955, fu Rodriguez de Lancina l'unico scrittore spagnolo che ammetteva da parte del monarca assoluto la riforma costituzionale della norma che regolava la trasmissione della sovranitaÁ. 8 «Confundir esa continuitad con la concreta articulacioÂn de los Pactos de Familia y entender esos Pactos como una superditacioÂn de los intereses espanÄoles a los intereses de Francia, constituye un doble error. Lo cierto es que el despliegue polõÂtico internacional de nuestro siglo XVIII se produce como una reÂplica a las claÂusolas de la Paz de Utrecht, y reconoce una prolongada etapa ± veinte anoÄs ± antes de que se decida al Primer Pacto; y que tanto eÂste como el segundo y tercero ± el carlotercista, vigente asta 1790 ± se resuelven maÂs bien a favor de los objetivos de EspanaÄ que en fiuncioÂn de los planes de Francia»: C. Seco Serrano, Politica exterior, in Actas del Congreso Internacional sobre «Carlos III y la IlustracioÂn, Madrid, 1989, t. I, p. 109. Sulla stessa linea di giudizio si vedano: D. Ozanam, La polõÂtica exterior de EspaÄna en tiempo de Felipe V y de Fernando VI, in La eÂpoca de los primeros Borbones. La nueva monarquõÂa y su posicioÂn en Europa (1700-1759), t. XXIX, vol. I della Historia de EspaÄna, fondata da R. MeneÂndez Pidal e diretta da J.M. Jover Zamora, Espasa Calpe, Madrid 1999; M.V. LoÂpez-CoÂrdon, Bases institucionales y sociales de la accioÂn exterior espanoÄla del siglo XVIII, in I Symposium Internacional: Estado y fiscalidad en el Antiguo ReÂgimen, a cura di C.M. Cremades GrinÄaÂn, Murcia 1989; J.M. Oliva Melgar, Politica exterior en el siglo XVIII, en El reformismo borboÂnico (1700-1789), vol. VII della Historia de EspanaÄ, diretta da A. DomõÂnguez Ortiz, Barcelona, 1989; P. Zabala Y Lera, El marqueÂs de Argenson y el Pacto de Familia de 1743, Madrid 1928; M.P. RuigoÂmez De HernaÂndez, La polõÂtica internacional de Carlos III, in La eÂpoca de la IlustracioÂn. Las Indias y la polõÂtica exterior, t. XXXI, vol. II della Historia de EspaÄna, fondata da R. MeneÂndez Pidal e diretta da J.M. Jover Zamora, Espasa Calpe, Madrid 1988; J. HernaÂndez SaÂnchezBarba, Del Tercero Pacto de Familia al Tratado de Aranjuez. AfirmacioÂn de la separacioÂn eÂxterior respecto a Francia, in I Symposium Internacional: Estado y fiscalidad en el Antiguo ReÂgimen, cit. pp. 193-209. V. Oltre la metaÁ del secolo 221 Durante tutto il Settecento, da parte francese si recriminoÁ, invece, per lo scarso senso di lealtaÁ dimostrato dagli spagnoli, dopo l'evento epocale della guerra di successione. Basti qui citare, per tutti, il pensiero di Voltaire. Egli attribuõ ad Alberoni il disegno politico d'infrangere gli accordi di Utrecht e di sconvolgere l'intera Europa. Asse centrale dei suoi piani sarebbe stato quello di eccitare una rivolta in Francia per spodestare il duca d'OrleÂans e dare la reggenza a Filippo V. Costui, che aveva rinunciato alla corona di Francia per la pace, «excita, ou plutoÃt preÃta son nom pour exciter, des seÂditions en France, qui devaient lui donner la reÂgence d'un pays ou il ne pouvait reÂgner. Ainsi, apreÁs la mort de Louis XIV, toutes les vues, toutes les neÂgociations, toute la politique, changeÁrent dans sa famille et chez tous les princes» 9. 2. «InveÂteÂre antipathie» spagnola contro la Francia: cause profonde L'avventuroso ed improbabile piano di Alberoni tendeva ad un estremo diametralmente opposto a quello del Re Sole. Relativamente alle motivazioni da cui era stato spinto Luigi XIV a combattere contro la Grande Alleanza, che univa l'imperatore, il re d'Inghilterra e gli Stati generali delle Province Unite, il topos classico circolante negli ambienti politici francesi si trova efficacemente sintetizzato in un anonimo documento diplomatico del 1782: «Les puissances qui firent cause commune pour s'opposer aÁ l'installation d'un Prince de la maison de Bourbon sur le troÃne d'Espagne avaient pour objet la crainte que les deux couronnes de France et d'Espagne se reÂunissent sur une meÃme teÃte et celle que ces deux Puissances, adoptant les meÃmes systeÁmes politiques, ne joignissent leurs forces pour tout envahir et surtout pour concentrer entre elles tous les avantages du commerce» 10. 9 Sul duro giudizio storico e politico di Voltaire, cfr., tra le altre opere, il PreÂcis du sieÁcle de Louis XV, in êuvres historiques, eÂdition eÂtablie et annoteÂe par Rene Pomeau, Gallimard, Paris 1957, pp. 1302-3. 10 A.A.EÂ., Espagne, MeÂmoires et documents, vol. 208 (1776-1782), Diverses observations qui peuvent eÃtre inteÂressantes pour connaõÃtre l'Espagne, p. 173r, anonime, ma datate 1782. 222 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Ma, anche se il progetto, concepito da Luigi XIV, di unire di fatto le due potenze divise dai Pirenei era fallito, l'influenza culturale, economica e commerciale francese sulla Spagna, giaÁ presente nella seconda metaÁ del Seicento, era cresciuta a dismisura nel corso del Settecento 11. Avvenimenti politici come l'ascesa al trono di Filippo V, la politica mercantilista dei Borboni o la firma del Terzo Patto di Famiglia cambiarono la storia delle relazioni economiche e finanziarie franco-ispaniche; ma non quelle culturali. Ne avvenimenti come la notevole concorrenza inglese e la penetrazione sul mercato spagnolo delle tele della Slesia, riuscirono a mettere in crisi la presenza della rete commerciale francese in Spagna lungo tutto il secolo dei Lumi 12. L'affermarsi di un modello razionale, empirico e critico di vita e di pensiero, eÁ fenomeno che procede a livelli molto profondi delle mentalitaÁ. Secondo l'anonimo estensore della memoria del 1782 (dov'eÁ sintetizzata la storia settecentesca dei rapporti tra le due nazioni) «les manies et espeÁces d'eÂgarement d'Espagne dans lesquels tomba Filippe V [...] apreÁs qu'il fut reste paisible possesseur de son Royaume, livreÁrent ce Gouvernement aux Italiens, dont les efforts furent d'eÂloigner les francËais et tous ce qui pouvaient eÃtre favorables aÁ leur parti» 13. Dopo l'influenza dei politici italiani ± sui cui effetti sulla vita della nazione francese Voltaire aveva espresso un perentorio giudizio negativo ± venne l'epoca della formazione di un forte partito inglese nella penisola iberica, giacche «le reÁgne de Ferdinand ne fut pas plus favorable aÁ la France, au contraire il fut entieÁrement livre aÁ la Reine Barbe, princesse portugaise toute anglaise. Pendant sa dureÂe les Ministres d'Angleterre eurent ouvertement la plus grande influence dans le gouvernement et une entieÁre preÂpondeÂrance. 11 Cfr. A. Girard, Le commerce francËais aÁ SeÂville et aÁ Cadix au temps des Habsbourg, Paris 1932, per la nascita del reÂseau marchand francese. 12 Cfr. M. Zylberberg, Une si douce domination. Les milieux d'affaires francËaises et l'Espagne vers 1780-1808, cit. (cap. I, nt. 47). 13 A.A.EÂ., Espagne, MeÂmoires et documents, vol. 208 (1776-1782), Diverses observations (doc. cit., nt. 10), p. 175r. V. Oltre la metaÁ del secolo 223 C'est aÁ la faveur de ces circonstances que l'esprit d'antipathie si inveÂteÂre contre la France ne s'est point dissipeÂ, mais s'est conserveÂ, et que l'Angleterre est parvenue aÁ se former un parti consideÂrable en Espagne. [...] L'Angleterre pendant sa preÂpondeÂrance, a fait placer ses creÂatures et s'est assureÂe de nos suffrages. Il n'y a point en Espagne de carrieÁre qui meÁne aux emplois, excepte dans le militaire; l'homme de la plus basse extraction peut se flatter de parvenir aux premieÁres places de l'Eglise, de la Magistrature et du MinisteÁre. Il suffit qu'il ait de la protection [...]. C'est un moyen que l'Angleterre a toujours employe avec le plus grand succeÁs sous le reÁgne de Ferdinand ou je connoissoi nombre de personnes aÁ qui m. Keers, ambassadeur d'Angleterre, qui a eu tant de pouvoir dans ce pays, donnait des pensions et des gratifications» 14. Le cose per la Francia non cambiarono neppure con l'avvento al trono del fratellastro di Ferdinando VI, Carlo di Borbone: «on a vu comment ses ministres ont eu l'art de rendre inutiles les heureux effets que les deux puissances devaient attendre de leur Pacte de Famille [...]. Les changements de Ministres n'ont point duà en apporter dans le systeÁme de leurs successeurs. Ils ont tout eu le meÃme inteÂreÃt aÁ faire valoir tous les moyens possibles pour eÂloigner la preÂpondeÂrance du cabinet de Versailles que tous les ministres espagnoles ont toujours redouteÂe» 15. In questo caso, la colpa del mancato indirizzo franco-centrico nella politica estera spagnola ebbe cause interne: «l'eÂtat malheureux de la France dans les dernieÁres anneÂes du reÁgne de Louis XV, a duà fournir des preÂtextes bien plausibles aÁ preÂsenter au Roi d'Espagne, non pour l'eÂloigner de la France, on n'aurait pas oseÂ, mais pour diminuer sa confiance dans son union» 16. In realtaÁ, fu solo dopo l'ingresso al governo del Floridablanca che la 14 15 16 Ivi, f. 177r-v. (corsivo aggiunto) Ivi, f. 200r. Ibidem. 224 R. Tufano, La Francia e le Sicilie monarchia cattolica s'impegnoÁ in una nuova politica commerciale e di produttivitaÁ economica che l'avrebbe dovuta liberare da quello che gli spagnoli stessi chiamavano «il giogo francese» 17. Ancora, nella memoria del 1782, la slealtaÁ politica di quel ministro verso la Francia puoÁ essere giudicata in occasione dell'ultima guerra contro l'Inghilterra, «par toute la reÂsistance qu'il a apporte aÁ entrer dans la guerre, ou qu'il connaissait le peu de moyens que l'Espagne avait pour le faire, ou qu'il s'eÂtait flatte qu'en rester neutre et en faisant grand apparat de ses forces, il n'imposerait, ferait jouer au Roi son maõÃtre le roÃle de meÂdiateur, et ferait la loi aÁ toutes les Puissances» 18. Nel giudizio di disprezzo verso l'«avocat» Floridablanca («eÂleve dans le bureau et porte de la profession d'avocat, dans la quelle il s'eÂtait distingue aÁ la place d'avocat geÂneÂral du Conseill de Castille, puis aÁ celle de ministre d'Espagne aÁ Rome, et de laÁ aÁ celle qu'il occupe»), l'autore dell'anonimo memoriale rivela un tratto caratteristico della diplomazia francese di fine secolo: la profonda disistima verso i letrados spagnoli, che formavano una cospicua parte della classe dirigente di quel paese, e la cui presenza si estendeva enormemente a discapito di chi avrebbe invece avuto «les lumieÁres neÂcessaires aÁ ces places». Com'eÁ evidente, il confronto tra Francia e Spagna riveloÁ nel Settecento, in modo sempre piu chiaro e piu definito, i suoi caratteri ed i suoi originari connotati di netto contrasto tra due diversi modelli di sviluppo delle societaÁ e delle loro culture. Fu una dialettica che coinvolse appieno in senso negativo anche il Mezzogiorno, le cui popolazioni avevano acquisito della mentalitaÁ spagnola gli aspetti deteriori e non l'orgoglio nazionale ne il coraggio militare. La storia posteriore, anche recente, ha dimostrato in modo incontrovertibile al mondo intero che il modello di sviluppo franco-inglese e statunitense 17 Cfr. M. Zylberberg, Une si douce domination. Les milieux d'affaires francËaises et l'Espagne vers 1780-1808, cit. (cap. II, nt. 47), p. 87 ss. 18 A.A.EÂ., Espagne, MeÂmoires et documents, vol. 208 (1776-1782), Diverses observations (doc. cit., nt. 10), f. 201v. V. Oltre la metaÁ del secolo 225 presenta vantaggi incomparabili sul piano del progresso civile: non c'eÁ alcun motivo per cui questo dato di fatto debba essere ignorato dalla storiografia. EÁ evidente che durante l'intera storia medievale e moderna si eÁ sviluppato un processo di acquisizione sperimentale di dati e di convinzioni da cui questo risultato eÁ emerso e si eÁ affermato. Le vicende in queste pagine esaminate mostrano in atto il dispiegarsi della civiltaÁ moderna secondo una fisionomia che resta sempre (com'eÁ ovvio) di carattere ipotetico e precario, ma che sarebbe inutile, fazioso e (dal punto di vista storiografico) errato ignorare come se non esistesse e come se non si presentasse nella sua intima qualitaÁ di un insieme di regole del «vivere civile», che hanno ricevuto il collaudo della rivoluzione francese e di altri tumultuosi avvenimenti lungo altri due secoli, fino ad oggi. Dovremmo resecare ed escludere dal nostro patrimonio di esperienze, che probabilmente eÁ la piu valida delle doti possedute dall'umanitaÁ, cioÁ che eÁ avvenuto dall'illuminismo ad oggi, cioÁ che eÁ ancora in corso e che solo gli integralisti contestano e vogliono demolire? Essi pretendono di sostituire la storia mondiale degli ultimi tre secoli, dalla rivoluzione inglese ad oggi (avvenimenti che furono a loro volta conseguenza di oltre mezzo millennio di gestazione europea, specialmente anglo-francese), con una fantasiosa ed astratta visione dello spiritualismo medievale, ottenuta in modo esclusivamente cerebrale, scartando dal lungo medio evo il mirabile fenomeno di approccio e di preparazione della modernitaÁ. CioÁ che manca nel `delirio' medievalistico eÁ in particolare lo spostarsi del punto focale della spiritualitaÁ dalla trascendenza ± valore proiettato verso l'eternitaÁ in modo soltanto intuitivo ± ad un altro fattore di lunga durata, totalmente sperimentale, concreto e mondano: l'acquisizione e trasmissione sociale delle idee e dei valori, ossia, in due parole, l'esprit de socieÂteÂ. 3. Disprezzo delle ambiguitaÁ e falsificazioni togate Ritorniamo alla nostra analisi specifica. Le frequenti valutazioni negative sullo sviluppo delle carriere nell'apparato statale spagnolo erano probabilmente un riflesso del disprezzo che gli uomini degli 226 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Affaires eÂtrangeÁres nutrivano anche verso i Parlamenti francesi, causa dell'«eÂtat malheureux de la France dans les dernieÁres anneÂes du reÁgne de Louis XV» 19. Piu in generale, l'antipatia nei confronti dei letrados spagnoli era il segnale di due indirizzi culturali ben precisi, di cui eÁ necessario tener conto specialmente nella fase centrale dei rapporti tra il governo parigino e le Sicilie, ossia quando, con la morte di Filippo V, il Mezzogiorno uscõ dall'orbita politica galloispanica. In quello stadio, le forze di collegamento tra le tre societaÁ 19 La dialettica tra la corte ed i parlamenti aveva raggiunto il culmine dell'asprezza giaÁ nell'inverno del 1771, quando la d'EÂpinay scriveva a Galiani: «vous n'avez pas d'ideÂe de l'exaltation des teÃtes et du fanatisme pour et contre. On eÂleÁve des autels aÁ celui qu'on maudit ailleurs, tous les avis son extreÃmes, et rien si rare que rencontrer quelq'un qui ait le sens commun. [...] Vous eÃtes trop bon francËais pour n'eÃtre pas content d'eÃtre absent dans ces moments de trouble» (in La signora d'Epinay e l'abate Galiani. Lettere inedite, Laterza, Bari 1929, con introduzione e note di Fausto Nicolini, p. 148, 18 fev. 1771). La d'EÂpinay notava che «cette discussion d'autoriteÂ, ou plutoÃt de pouvoir axiste entre le roi et le Parlement» fin da «l'eÂtablissement de la monarchie francËaise»: i provvedimenti presi dal cancellier Rene Nicolas Maupeau avevano cambiato «la constitution de l'EÂtat», era crollata «la theÂologie de l'administration», ed era da prevedere che, «un peu plus toÃt, un peu plus tard», sarebbero scoppiate del«des reÂvolutions» (lettera che manca nella raccolta cit. ed eÁ nell'altra, L'abbe F. Galiani, Correspondance, par Lucien Perey et Gaston Maugras, Cadman LeÂvy, Paris 1881, vol. I, pp. 374-5). Dopo di allora, in seguito alla morte di Luigi XV, il successore Luigi XVI aveva ripristinato nelle loro cariche i membri del parlamento di Parigi. Ma lo scontro rimase durissimo fino al 1789. Adrien Lepaige, giurista estremamente autorevole e teorico del parlamentarismo francese, previde anch'egli che si sarebbe arrivati alla convocazione degli Stati generali ed alla rivoluzione. Sul tema, Egret, Louis XV et l'opposition parlementaire, cit. in cap. VII, nt. 21, pp. 218-9 e 182-228, per la riforma. In effetti, era antico il dibattito tra la forma e la sostanza della monarchia francese: era uno Stato formalmente assoluto, ma sostanzialmente pattizio e convenzionale come quello inglese, e la d'EÂpinay mostroÁ di capire chiaramente quale fosse la struttura costituzionale del governo in Francia. Lo scontro tra le componenti della monarchia francese e poi la Rivoluzione furono, d'altra parte, il prezzo che il regno di Louis XV pagava per un'antica libertaÁ, formatasi come elemento consustanziale del costituzionalismo d'antico regime, come poi intuõ Alexis de Tocqueville: «l'intervento irregolare dei tribunali nel governo che turbava spesso la buona amministrazione degli affari serviva qualche volta a salvaguardare la libertaÁ degli uomini: era un male grande che ne limitava uno anche maggiore» (L'Antico regime e la Rivoluzione, trad. it., Rizzoli, Milano 1981, p. 154). Per una sintesi sul tema, cfr. Raffaele Ajello, Il collasso d'Astrea. AmbiguitaÁ della storiografia giuridica italiana medievale e moderna, Jovene, Napoli 2002, pp. 238-61, 288-98, ed in part. 25461. Per il disprezzo con cui i politici legati al `partito' nobiliare guardavano ai giuristi (fossero essi spagnoli o italiani) ancora legati al mos italicus jura docendi, ossia ai metodi dei bartolisti, e che risaliva alle origini del mos gallicus, cfr. Vincenzo Piano Mortari, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, GiuffreÂ, Milano 1962, passim. V. Oltre la metaÁ del secolo 227 italiane, spagnole e francesi non risentivano piu in modo prevalente dei fattori della grande politica europea, ossia delle logiche del dominio. Le influenze della cultura francese continuarono, invece, ad agire in modo estremamente efficace, ed anzi si rafforzarono sempre piuÂ, proprio perche immuni dalla contaminazione con la logica del potere politico. Il modello di sviluppo conseguito dalla monarchia cristianissima era per tradizione coeso ed era stato realizzato (in base ai precedenti celtico-gallici) dalla conquista franca in poi come robusta struttura sia religiosa, sia militare, sia civile e produttiva, secondo la distinzione triadica nei tre status 20. Proprio con il crollo delle pretese imperialistiche quei valori si erano rafforzati in Francia nell'etaÁ illuministica, facendo piu consapevolmente propria la forma mentis empirica, che era tipica della nazione inglese, e che aveva acquistata maggiore coscienza di se dagli insegnamenti di Francis Bacon (anch'essi frutto dell'``albero'' Montaigne) a quelli di Locke e di Hume. Le conseguenze tradizionali delle premesse poste dall'intera storia della filosofia e della politica francese si manifestavano in una sintesi anglofrancese dei valori piu `moderni'. In primo luogo agiva il dubbio, che in Francia era stato sviluppato e perfezionato dalla Dialectica di Abelardo fino alla scepsi di Montaigne. Ragion per cui era vigile e sempre presente il controllo delle opinioni umane, vecchie e nuove, essendo gli strumenti mentali del tutto fallibili ed imperfetti, come gli Essais avevano fin dal 1580 palesemente dimostrato 21. Dunque primato della razionalitaÁ, ma di tipo sperimentale. Inoltre, era ben presente la tendenza a privilegiare, nel giudizio sulle attivitaÁ umane individuali e sociali, il versante economico, in parti20 Sulle diverse «vie» seguite in Europa dalla modernitaÁ giuridica, ed in particolare per le tre formazioni statuali confrontate nelle presenti pagine rimandiamo al quadro generale di lungo periodo fornito molto di recente da Ajello, EreditaÁ medievali, cit. (cap. I, nt. 24), passim, anche per l'argomento relativo all'«armonia» strutturale della monarchia francese. La dialettica franco-spagnola esprimeva motivazioni lontane. 21 Ivi, passim. Montaigne accusava in blocco di peÂdantisme la cultura del suo tempo, con il risultato ch'egli apparve «ormai oltre l'esperienza umanistica», come appartenente ad un piu avanzato capitolo della storia della cultura: E. Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza, Bari 1967 (I ed. in lingua tedesca), p. 90. 228 R. Tufano, La Francia e le Sicilie colare la produttivitaÁ, secondo criteri ispirati alla massima concretezza e secondo valutazioni a posteriori, cioeÁ attente ai risultati, compiute sulla base di procedimenti di collaudo strettamente empirici. L'enfasi era dunque posta sui calcoli e sulle previsioni, e sull'assoluto discredito verso le fantasie vaghe, tanto che lo spirito cartesiano era ostile persino alla poesia, come dimostroÁ Paul Hazard in La crisi della coscienza europea. Da tutto questo nasceva un forte disagio nei confronti di quella cultura giuridica, presente anche nei processi di formazione degli apparati statali in Francia, che aveva ricavato dalla tradizione medievale (specialmente canonistica) una linea sacerdotale, fondata su una logica patriarcale del potere, sul segreto, sulle ispirazioni misteriose, sul rifiuto di motivare le sentenze. Questa tendenza a sostituire i valori connessi alla rappresentanza etnica e cetuale, tipici della civiltaÁ medievale di origine germanica, con quelli spirituali, metafisici, carismatici ed escatologici, specifici della versione pontificia e romana del cristianesimo, era stato a lungo contrastata dalla mentalitaÁ nobiliare. Struttura mentale che molti storici facevano risalire alle genti franche, ossia alle popolazioni vincenti, contro la tradizione romano-gallica, che, a loro modo di vedere, s'era adattata piu a fondo alla deontologia ed alla visione cosmica cristiana. CioÁ era stato segnalato ed elaborato proprio dal pensiero giuridico francese cinquecentesco (EÂtienne Pasquier, FrancËois Hotman, Charles Loyseau etc.), per il quale «i nobili sono i discendenti dei conquistatori Franchi, mentre i non nobili [roturiers] sono i discendenti dei Galli, vinti ed assoggettati dai primi» 22. Per questi motivi, che oggi diremmo ideologici, per i caratteri delle sue antiche strutture mentali, l'aristocrazia, che era in netta 22 Mousnier, La costituzione nello Stato assoluto, cit. (cap. II, nt. 10), p. 53. In seguito, un'importante discussione sull'argomento della contrapposizione tra «galli» e «franchi» avvenne in Francia a partire dalla pubblicazione dei due pamphlets dell'abbe di SieÂyes (cfr. supra, cap. II, par. 8) e rappresentoÁ, con ben altri contenuti rispetto a quelli fissati dall'autore citato, il fil rouge del dibattito romantico sulla nascitaÁ del nazionalismo: K. Pomian, Francs et Gaulois, in Les Lieux de meÂmoire, a cura di Pierre Nora, Gallimard, Paris 1992, vol. III.1, pp. 41-105 e A.-M. Thiesse, La creazione delle identitaÁ nazionali in Europa, Il Mulino, Bologna 2001 (I ediz. francese 1999), pp. 44-51. V. Oltre la metaÁ del secolo 229 prevalenza nell'apparato diplomatico, si poneva in alleanza coi philosophes, e trasferõ le sue idee nella politica del dispotismo illuminato, in particolare nel gabinetto della prima Segreteria di Stato 23. Questo giudizio eÁ dimostrato dalla nostra analisi specifica, fondata sulle carte parigine d'archivio degli Affari esteri. Si utilizzano, a questo punto, in prevalenza testimonianze riassuntive che sono piu tarde rispetto agli avvenimenti narrati, e che seguono un interno andamento, grosso modo, cronologico. Il motivo di questa trasposizione eÁ chiaro: le diagnosi formulate negli anni Settanta si presentano piu mature e piu consapevoli, ed inoltre tendono a descrivere la storia di recente trascorsa a partire da Luigi XIV, da cui le conseguenze attuali appaiono scaturite. La coscienza storica era piu vigile cosciente ed acuta nel momento in cui le grandi scosse costituzionali (come dimostroÁ la riforma Maupeou) si fecero sentire come anticipazione del terremoto rivoluzionario. PercioÁ queste memorie spiegano meglio delle altre l'iter percorso dalle influenze francesi in Europa, ed in particolare sulle Sicilie. L'ideologia che circolava negli ambienti francesi di corte e governativi e che ispirava le relazioni politiche con la Spagna e con l'Italia spagnola puoÁ essere sintetizzata dal pensiero (che fu formulato piu tardi, ma che si riferisce all'epoca ed ai temi fin qui esaminati) di Charles FrancËois Broglie e Jean Louis Favier. Sono idee espresse nelle famose Conjectures raisonneÂes sur la situation actuelle de la France dans le systeÁme politique de l'Europe et reÂciproquement sur la position respective de l'Europe aÁ l'eÂgard de la France (17 aprile-28 agosto 1773), destinate a dirigere la politica estera del re di Francia 24. Insieme alla Correspondance secreÁte tra Broglie e Luigi XV, le 23 Un'ottima messa a punto della sociologia diplomatica francese eÁ l'opera piu volte richiamata nel testo di BeÂly, op. cit. (cap. I, nt. 13). 24 Nelle pagine seguenti utilizziamo l'originale manoscritto conservato presso A.N., Cartons des Rois, K. 157-9, Conjectures raisonneÂes sur la situation actuelle de la France dans le systeÁme politique de l'Europe et reÂciproquement sur la position respective de l'Europe aÁ l'eÂgard de la France, enfin sur les nouvelles combinaisons qui doivent ou peuvent reÂsulter de ces diffeÂrents rapports, aussi dans le systeÁme politique de l'Europe (17 aprile-28 agosto 1773). Fu SeÂgur a pubblicare per primo le Conjectures raisonneÂes nell'opera Politique de tous les cabinets de l'Europe pendant les reÁgnes de Louis XV et de Louis XVI, 2ë ed., Paris 1801. Sul 230 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Conjectures rappresentano una delle poche fonti cronachistiche e memorialistiche della politica internazionale francese della seconda metaÁ del Settecento, giaccheÂ, per una curiosa coincidenza, cronache e memoriali del regno di Louis XV sono stati quasi tutti scritti prima degli anni Sessanta. In seguito alla divisione della Polonia ed al colpo di Stato di Guglielmo III in Svezia, il capo della polizia segreta di Luigi XV, Charles FrancËois Broglie, si dedicoÁ all'elaborazione di un vasto piano d'azione. Esso aveva lo scopo d'orientare i comportamenti dei rappresentanti della Francia all'estero, pur nei limiti imposti dall'inossidabile volontaÁ di pace di Louis XV. Il successo svedese, infatti, gli pareva frutto piu di circostanze fortuite che risultato delle capacitaÁ della diplomazia francese 25. Per Broglie occorreva ridare alla Francia il credito ch'essa aveva perso sul piano internazionale a partire dal 1756, evitando di commettere l'errore degli choiseulistes, che per «avoir appuye et proteÂge la Cour de Vienne, on finit par se persuader qu'elle eÂtait notre appui» 26. Choiseul aveva infatti condotto, soprattutto a partire dal 1763, una politica d'alleanza con l'Austria fondata su una visione irenista dei rapporti tra i due paesi. Legame politico ± notava M. Antoine ± rinsaldato dall'affettivitaÁ che univa i due regnanti: «Marie-TheÂreÁse s'eÂtait prise d'une amitie sinceÁre pour ce beau roi de France, si galamment fideÁle, et Louis eÂprouvait pour la vaillante fille des Habconte di Broglie, cfr. E. Boutaric, Correspondance secreÁte ineÂdite de Louis XV sur la politique eÂtrangeÁre avec le comte de Broglie, Tercier, etc., et autres documents relatifs au ministeÁre secret, publieÂs d'apreÁs les originaux conserveÂs aux Archives de l'Empire et preÂceÂdeÂs d'une eÂtude sur le caracteÁre et la politique personnelle de Louis XV, Plon, Paris 1866, 2 voll; Broglie (duc de), Le Secret du Roi. Correspondance secreÁte de Louis XV avec ses agents diplomatiques 1752-1774, Paris 1878, 2 voll.; M. Antoine-D. Ozanam, Correspondance secreÁte du comte de Broglie avec Louis XV (1756-1774), 2 voll, C. Klincksieck, Paris 19561961. Attribuita a Broglie eÁ l'IdeÂe de la reÂpublique de Pologne et son eÂtat actuel, edita da Eduard Kurzweil, Lacour et comp., Paris 1840. Su Favier, pubblicista di talento e fabbricante d'opere politiche, che era stato anche «syndic geÂneÂral» degli stati della Languedoc, cfr. Flammermont, J.-L. Favier, sa vie, ses eÂcrits, in «La ReÂvolution francËaise», t. XXXVI (1899), pp. 161-84, 259-76 e 314-35. 25 Cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 2ë vol., le lettere n. 408, 410, 413-416 e 425. 26 A.N., Conjectures raisonneÂes, cit. in nt. 24, ff. 1r-2v, e passim. V. Oltre la metaÁ del secolo 231 sbourg un profond et tendre respect. Le tout cimente par une commune hostilite aÁ FreÂdeÂric II» 27. «Assez fou ou au moins surprenant» (M. Antoine) il progetto senile di Louis XV (1770) di sposare, dopo il matrimonio del petit-dauphine con Maria Antonietta d'AsburgoLorena, un'altra arciduchessa, Maria Elisabetta 28. E da Napoli Tanucci, convinto della «cabala» che intercorreva tra Choiseul e Grimaldi, «parimente colligati assieme per potersi l'un l'altro mantenere presso i loro sovrani», avvertiva (19 agosto 1766) il principe della Cattolica, ambasciatore napoletano in Spagna, che la politica internazionale della Francia si risolveva sostanzialmente nell'attivitaÁ governativa di «due nati e nutriti nel servizio austriaco», cioeÁ i cugini Choiseul, «e tutto il resto eÁ pieno di passioni private alle quali fan servire il Re e gli alleati del Re» 29. Per riportare la Francia agli antichi splendori, secondo Broglie, 27 Antoine, Louis XV, Fayard, Paris 1989, pp. 870-1. Ne erano a conoscenza solamente il conte de Broglie e il Durand, al tempo ministro pleni-potenziario a Vienna: «Si Durand n'est pas parti, montrez-lui ce billet, sinon envoyez lui la copie bien chiffreÂe. Qu'il examine bien la figure de la teÃte aux pieds, sans rien excepter de ce qu'il lui sera possible de voir, de l'archiduchesse Elisabeth et qu'il s'informe de meÃme de son caracteÁre, le tout sous le plus grand secret et sans trop donner de suspicions aÁ Vienne et il en rendra compte sans se presser, par une occasion suÃre.» (cit. ivi, p. 893). Antoine segue questa vicenda fino al febbraio del 1772, cioeÁ all'ultima testimonianza ch'egli riscontra al proposito, e si chiede: «a cette date, Louis XV se souvenait-il encore de ce dont il avait charge Durand? Eut-il peur du ridicule (l'arciduchessa era nata nel 1743, il re di Francia, allora duca d'Anjou, il 15 feb. del 1710 n.d.a)? Il ne fut plus jamais question de cette lubie». In realtaÁ, Louis continuava a pensare a questo matrimonio. Il 7 giu. del 1772 Broglie scriveva di cioÁ: «dans mes confeÂrences avec M. Durand, Sire, je n'ai pas manque de traiter l'article de l'archiduchesse Elisabeth. Il m'a reÂpeÂte les meÃmes choses qu'il avait eu l'honneur d'en marquer aÁ Votre Majeste quelque temps apreÁs son arriveÂe aÁ Vienne. Il dit du bien de sa figure, de son esprit et de son caracteÁre. Il croit qu'elle s'est flatteÂe longtemps du mariage le plus honorable et le plus propre aÁ faire son bonheur, et que la teÃte lui en tournait de satisfaction». Ed ancora il 7 apr. 1774, cioeÁ un mese prima della morte del «Bien aimeÂe»: cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 2ë vol., le lettere nn. 401 e 459. 29 Tanucci a Cattolica, 19 ago. 1766, in Bernardo Tanucci, Epistolario, vol. XVII (1766), p. 394. Sul rapporto che legava Grimaldi e Choiseul, cfr. la confidenziale di Gaetano Centomani a Tanucci, in A.S.N., Esteri, fascio 1213, trascritta nel citato volume alla p. 252, nt. 1: «Altra cabala vi eÁ tra Grimaldi e Choiseulle, parimente colligati assieme per potersi l'un l'altro mantenere presso i loro sovrani. Le lettere di Choiseulle di difficile carattere venivano interpretate da Azara, per comunicarle a S.M. Cattolica; spesso peroÁ vi descriveano non come quelle diceano; ma come si desiderava che dicessero secondo le circostanze che si presentavano». 28 232 R. Tufano, La Francia e le Sicilie occorreva ristabilire all'interno l'equilibrio finanziario, consolidare la subordinazione delle corti superiori all'autoritaÁ regale e rilanciare una politica di potenziamento dell'esercito; mentre, sul piano della politica internazionale, era prioritario realizzare una nuova strategia per il consolidamento delle alleanze tradizionali. In quest'ambito Broglie riteneva centrale un accordo molto stretto con la corte di Vienna 30. Atteggiamento al quale si mantenne fedele anche dopo la spartizione della Polonia. Queste idee erano giaÁ in lui maturate nel giugno del 1772, quando elaboroÁ con FrancËois-Michel Durand de Distroff un'importante memoria destinata al re, nella quale esprimeva l'idea di una lega dei paesi del Mezzogiorno europeo, guidata dalle corti borboniche e destinata a controbilanciare le nazioni nordeuropee 31. Concezione strategica generale, su cui ritornava il 27 marzo 1773, scrivendo a Louis XV che: «de touts les arguments qu'on peut employer dans les neÂgociations le meilleur et le seul est d'avoir des armeÂes nombreuses et preÂpareÂes aÁ l'avance, des places en bon eÂtat, des magasins bien fournis, une marine sinon augmenteÂe du moins bien entretenue. Quand la France et l'Espagne seront mises sur ce pied dont malheureusement elles n'ont jamais eÂte si eÂloigneÂes, l'Allemagne et l'Italie les rechercheront avec empressement, le roi de Sardaigne, Naples, GeÃnes, peut-eÃtre Venise se presseront de s'unir avec elles et dans cette position» 32. E, dopo aver descritto il suo piano, sosteneva che qualche problema avrebbe creato la presenza di Bernardo Tanucci, «dont l'aÃge est bien peu propre aÁ mettre l'activite neÂcessaire aux circonstances preÂsentes» 33. Si sapeva che le mani del primo ministro tosco-napo30 Cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 1ë vol., p. XCVI. MeÂmoire du comte de Broglie au Roi sur la paix du Nord, le deÂmembrement de la Pologne et les suites que ces eÂveÂnements peuvent et doivent avoir sur le systeÁme politique de la France, datata 7 giu. 1772, in A.N., Cartons du Roi, K. 157 (riprodotta da Boutaric, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 1ë vol., pp. 432-45), e in A.A.EÂ., Correspondance politique, Pologne, suppl. 13, ff. 300-305 (minuta autografa di Broglie). Durand de Distroff era uno dei principali agenti della polizia segreta di Louis XV, cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 1ë vol., p. 2 nt. 2 e ad indicem. 32 Ivi, 2ë vol., p. 381. 33 Ivi, p. 383: Secondo Broglie per mettere in pratica il suo piano sarebbe occorso 31 V. Oltre la metaÁ del secolo 233 letano per pochi minuti, durante le ventiquattro ore della rotazione terrestre, si staccavano dalla penna, ma mai e poi mai avrebbero preso in considerazione l'idea d'impugnare un'arma, neppure per difesa personale. Dopo i due cugini Choiseul, un altro uomo di punta del governo francese ± nel 1773 molto vicino a succedere al duca d'Aguillon al dicastero degli esteri e poi caduto in disgrazia ± vedeva in Tanucci un serio ostacolo ai progetti politici della Francia 34. EÁ necessario mettere ben in luce tutto questo, che riguarda formae mentis e modelli di sviluppo fondamentali nel corso della storia europea, perche la caduta di quel ministro fu opera in gran parte francese. E non fu un successo per il Mezzogiorno, perche quell'uomo moralmente giusto compensava i caratteri che apparivano odiosi alla diplomazia francese con eccezionali doti mentali di cultura, d'intelligenza e di esperienza. Quell'episodio costituisce il punto di arrivo del nostro excursus, perche l'espulsione del dotto toscano dal governo permise il sommarsi nell'azione politica napoletana di tutte le debolezze, che erano ben note ai francesi, e di un ulteriore carattere negativo, che con esse si accoppia molto male: l'improntitudine e l'avventurismo. Anzi, quando una somma di questo genere avviene, si moltiplicano gli effetti negativi di quei difetti. Le due indicate inclinazioni caratteriali erano presenti in misura molto elevata nella regina Maria Carolina che, per compensare le deficienze del marito, finõ per esaltare ed incrementare le proprie fino alla catastrofe. Come per gli Choiseul, anche per il capo del controspionaggio, la Spagna di Carlo III rappresentava il perno fondamentale della aumentare l'esercito francese di almeno sessantamila unitaÁ ed iniziare le negoziazioni: «il faudrait avoir aÁ Ratisbonne un ministre de la premieÁre capaciteÂ; c'est dans cette ville que la ligue de toutes les puissances bien intentionneÂes de l'Allemagne doit se former et qu'un ministre francËais muni de bonnes instructions faites sur un plan geÂneÂral peut les reÂunir. Il en faut donner du meÃme genre aÁ Turin, Naples, GeÃnes, Venise et avoir dans toutes ces cours des ministres instruits. Je ne connais dans toutes ces cours que le baron de Breteuil qui, avec des ordres clairs et bien reÂfleÂchis, soit en eÂtat de les exeÂcuter; il aura de l'ouvrage aÁ mettre en mouvement le premier ministre de Naples». 34 Forte era stata la tensione tra Tanucci e gli Choiseul durante gli anni sessanta, per l'opposizione dello statista napoletano al terzo Patto di Famiglia e per i tentativi di bloccare il contrabbando francese sulle coste siciliane. Ma, di cioÁ si diraÁ piu avanti. 234 R. Tufano, La Francia e le Sicilie politica estera francese. Secondo il duca di Choiseul, il Patto di Famiglia giocava un ruolo essenziale nel controllo dell'Inghilterra. Tutta l'attivitaÁ politica del potente ministro durante gli anni sessanta aveva mirato ad ottenere l'aiuto economico, militare e navale della Spagna, per frenare le ambizioni inglesi sul mare e nelle colonie d'oltre-Oceano. Negli anni della sua presenza attiva nel governo l'intesa franco-spagnola poteva poggiare su tre solide basi. Una era la comunanza d'interessi sul mare e nelle colonie; la seconda, il vincolo di lealtaÁ tra i due cugini regnanti; l'ultima, la «cabala» tra Grimaldi e Choiseul stesso. 4. SocietaÁ francese: sintesi collaborativa, non esclusivismo sacerdotale Abbiamo fatto cenno nel paragrafo precedente che le frequenti critiche dell'apparato statale spagnolo nascondevano un riflesso dell'ostilitaÁ politica che gli uomini degli Affaires eÂtrangeÁres nutrivano verso il ceto giuridico ed in particolare verso i Parlamenti francesi, giudicati assemblee ``gotiche'', ancora medievali (nel senso negativo del termine), causa dell'«eÂtat malheureux de la France dans les dernieÁres anneÂes du reÁgne de Louis XV». Piu in generale, l'antipatia nei confronti dei letrados spagnoli era il segnale di due indirizzi culturali ben precisi, di cui eÁ necessario tener conto specialmente nella fase centrale dei rapporti tra il governo parigino e le Sicilie, ossia da quando, dopo la morte di Filippo V, il Mezzogiorno uscõ dall'orbita politica galloispanica, e si attenuoÁ la logica del dominio francese. I motivi di ritardo che i diplomatici attribuivano alle mentalitaÁ giuridiche spagnole, spina dorsale fragile di una societaÁ complessivamente arretrata, si estendevano (come vedremo) alle analoghe realtaÁ italiane, che presentavano un'ulteriore e ben piu disastrosa caratteristica negativa: d'ignorare i formidabili valori della coesione sociale e della religiositaÁ civile, fonti primarie della produttivitaÁ, e di puntare su astratti valori dogmatici, in apparenza puramente tecnici, ma intesi come universali ed assoluti, ed in realtaÁ posti al servizio di ben precisi interessi particolari. Nessuno si sarebbe azzardato a mettere in dubbio il coraggio e lo spirito di sacrificio dei militari, V. Oltre la metaÁ del secolo 235 eserciti e flotte, attivi in tutto il mondo a difesa dei possedimenti del Re cattolico: dunque il discredito era limitato e selettivo. Ma quanto agli analoghi strumenti bellici subalpini, a parte i veneziani ed i sabaudi, questi ultimi influenzati dalle tradizioni presenti su entrambi i versanti delle Alpi francofone, tutto il resto delle popolazioni subalpine era oggetto di critiche ancora piu feroci. Si salvava ben poco da quel giudizio: ad esempio, i cavalieri di Santo Stefano. Guardando a questi fenomeni da un diverso punto di vista, e considerando le influenze francesi sul piano della cultura, si puoÁ dire che, invece, gli effetti delle sconfitte politiche e diplomatiche piu o meno coeve alla morte di Luigi XIV furono superati pienamente. Anzi la validitaÁ di quel modello di sviluppo continuoÁ ad agire in modo molto efficace, addirittura si rafforzoÁ sempre piu proprio perche esso si liberoÁ dalla contaminazione con la logica del potere oppressivo del Re Sole, accusato di dispotismo dallo stesso Montesquieu (Lettres persanes). La teoria del rapporto tra Stato e societaÁ realizzata dalla monarchia cristianissima puntava per consuetudine antica sulla compattezza e sulla coesione. Il fatto poi che dalla Francia si guardasse Oltremanica e si voltasse le spalle all'Italia, atteggiamento che appariva odioso a Tanucci, lungi da essere una debolezza, fu un ulteriore segno di saggezza e di forza. Le conseguenze tradizionali delle premesse poste dall'intera storia della filosofia e della politica francese si manifestarono cosõ in una sintesi anglogallica, che espresse nella forma piu alta e convincente i valori sociali del modo moderno. Come prima accennato, a costituire la struttura basilare di questa mentalitaÁ, in primo luogo agiva il dubbio metodologico, che in Francia era stato sviluppato e perfezionato dall'epoca della Dialectica di Abelardo fino a quella della scepsi di Montaigne. PercioÁ era vigile e sempre presente il controllo delle opinioni umane, vecchie e nuove, essendo tutti pienamente convinti che gli strumenti mentali sono imperfetti e profondamente fallibili, tesi che era stata palesemente dimostrata dagli Essais di Montaigne nel 1580. Quei caratteri di debolezza dell'intelletto, erano compensati dalla critica razionale che a sua volta era facilitata dal confronto dei pareri e dalla dialettica delle idee. Erano, ormai, strutture mentali storicamente consolida- 236 R. Tufano, La Francia e le Sicilie te, che si traducevano in un razionalismo controllato, da cui erano caratterizzate le formae mentis prevalenti in Francia. Esse si ponevano al polo opposto rispetto ad altri condizionamenti, decisamente arcaici, che prevalevano in Spagna ed in Italia: l'ipse dixit, l'autoritaÁ trascendente della Chiesa cattolica, l'enfasi sulla tradizione ecclesiastica, il valore emblematico e teoretico di uno status quo storico preventivamente epurato del dissenso ed adattato a storia sacra, ossia ad uso di un ceto e di un potere in Italia sostanzialmente separato. Da tutto questo nasceva un forte disagio nei confronti della cultura giuridica in generale, almeno contro quella radicata e diffusa nell'Europa continentale. La vecchia Scientia Juris bartolistica aveva espresso, anche in Francia, anche nei processi di formazione degli apparati statali posti al servizio del re cristianissimo, una linea sacerdotale, fondata su una visione patriarcale del potere, e quindi sul segreto e sulle ispirazioni misteriose. Questa logica, ad esempio, era stata sempre ostile alla motivazione delle sentenze. Ostracismo significativo: il sacerdos juris non voleva dare conto di seÂ, di come operava, poiche i suoi punti di riferimento ed i suoi modelli non erano riposti nella societaÁ, ma nella metafisica, che si fondeva con la dogmatica, tanto da essere con essa intercambiabile 35. Questo modo passivo e riflessivo, falsamente moralistico, d'intendere i compiti sociali era stato, fin dal medio evo contrastato dalla proposta organizzativa nobiliare, ossia da una diversa mentalitaÁ, che presentava altri limiti, per alcuni aspetti ancor piu pesanti e paralizzanti. Ma erano formae mentis piu duttili, e (paradossalmente) avevano il merito, essendo meno colte (per non dire spesso del tutto incolte), piu concrete, meno deformate da astratti e fuorvianti idealismi medievali, anche se di quell'epoca primitiva, violenta ed aso35 Sull'introduzione del segreto e della prassi di non motivare le sentenze (ne sul piano dei fatti, ne su quello del diritto) nel parlamento di Parigi, avvenuta intorno al 1320, cfr. due classici: T. Sauvel, Histoire du jugement motiveÂ, in «Revue du droit public et de la science politique en France et aÁ l'eÂtranger», Paris 1955, di cui esiste la trad. it., a cura di Francesco Saverio Losito, in «Frontiera d'Europa», a. I, 1995, në 1, pp. 69-120; J.P. Dawson, The Oracles of the Law, University of Michigan, Ann Arbor 1968. V. Oltre la metaÁ del secolo 237 ciale, incline a dar forma a miti irrazionali, conservavano in vita forme tradizionali di sfruttamento e di prevaricazione sociale. PercioÁ la logica francese considerava necessaria la presenza sia della plume sia della eÂpeÂe: la France aveva assoluto bisogno di entrambi gli heÂroõÈsmes. Dalla maggiore duttilitaÁ dei nobili ancora fedeli agli ideali antichi dei milites e della cavalleria, gente attiva, educata a far politica, non fuorviata da pretese sacerdotali, esercitata all'uso empirico delle armi, nasceva la disposizione ad allearsi con l'operazionismo critico e pragmatico dei philosophes, componente centrale del dispotismo illuminato e nella politica monarchica in quasi tutta l'Europa, ed in particolare a Parigi, nel gabinetto della prima segreteria di Stato. 5. La ratio della Francia, come l'olio, sta sempre «en cima» Se era tradizionale e molto diffusa un'«inveÂteÂre anthipatie» iberica nei confronti dei cugini d'oltre Pirenei, quale idea dell'alleato spagnolo aveva la diplomazia francese? Affatto lusinghiera, ci eÁ parso di capire. Subito dopo la fine della guerra d'Indipendenza americana, il conte d'Aranda cosõ indicava, con colorita immagine, al ministro Floridablanca, la propria idea sull'atteggiamento costante, che aveva e avrebbe continuato a regolare i rapporti franco-ispanici: «La EspanaÄ y Francia son como el agua y el aceite que no pueden formar un cuerpo sino en un momento bien batido uno y otro pero en cesando se vuelven a separar les dos especies, con todas las demas naciones del mundo seriamos agua con vino, con vinagre, con zumo de limon, de naranja [...] pero el Frances como el aceite mas ligero quiere sempre estar en cima, y tenemos debajo» 36. Agli occhi del capo del «SeÂcret du Roi», la Spagna, come la Russia, ossia i paesi posti ai due capi opposti dell'Europa, sono «deux cent ans en arrieÁre des autres nations policeÂes» 37. Lo dimostrava la moda ancora in vigore delle «capes enviseÂes» e degli «chapeaux rabatus», 36 1784. 37 A.G.S., SecretarõÂa de Estado, leg. 4673, Aranda a Floridablanca, Parigi 27 luglio A.N., Conjectures raisonneÂes, cit., nt. 24, f. 150r-v. 238 R. Tufano, La Francia e le Sicilie che il corrotto e poco lucido Leopoldo de Gregorio aveva creduto di dovere e poter abolire, attuando un gesto che costoÁ molto caro a lui ed al suo sovrano protettore 38. Neppure le recenti sconfitte di guerra inflitte dall'Inghilterra alla Spagna avevano insegnato alla classe dirigente iberica d'intraprendere scelte riformatrici, indispensabili «pour entrer enfin dans le droit chemin du raisonnement, du calcul et de l'eÂconomie politique, deÂjaÁ trace depuis longtemps et ou d'autres nations avaient fait tant de progreÁs» 39. Per Broglie-Favier (le seguenti citazioni sono tratte dalle loro Conjectures) l'incapacitaÁ della nazione spagnola nell'intraprendere la strada delle riforme era tutta scritta nei genomi del popolo, quasi nell'impossibilitaÁ biologica di saper utilizzare le categorie illuministiche del «raisonnement» e del «calcul». Le riforme economiche tentate da Ensenada, un esponente del gruppo di afrancesados creato da PatinÄo, si erano scontrate con «l'indolence du bourgeois, la faineÂantise de l'ouvrier, la haine et la jalousie nationale contre les eÂtrangeÁres et surtout les francËais» 40. Attraverso la spiegazione del momento eziogenetico dell'haine nazionale verso i francesi e delle circostanze che lo mantenevano in vita, ritornava il motivo del dispregio dell'uomo di governo e dell'illuminista verso le vecchie strutture costituzionali 38 Ivi, f. 150r. Spietato il giudizio politico su Leopoldo de Gregorio, marchese di Squillace, ministro prima di Carlo di Borbone, poi di Carlo III: «ce ministre a eu la reÂputation que donnent toujours les grandes places par une longue faveur. S'il avait eu des talents, du geÂnie, et qu'il euÃt compense des grands vexations par de grands moyens, on aurait pu lui pardonner son aviditeÂ, sa dureteÂ, et meÃme ses voleries eÂnormes: mais aÁ dire vrai il ne savait bien que ce dernier meÂtier. Son premier avait eÂte celui de munitionnaire en Italie. Il voulut le faire ensuite en Espagne lors de la guerre de Portugal s'eÂtant charge de la partie des vivres et des magasins, il n'y montra que son incapaciteÂ. AÁ l'eÂgard des finances il ne savait que doubler, tripler et quadrupler, et il ne s'eÂtait jamais doute de ce principe si connu et si deÂmontre par l'expeÂrience qu'en fait d'impoÃt deux et deux ne font pas quatre» (Ivi, f. 150v). Per i giudizi di Tanucci sul de Gregorio, oltre alle lettere contenute nei volumi di Tanucci, Epistolario, si rimanda a M. Barrio Gozalo, Squillace y su actividad politica a traveÁs de la correspondencia de Tanucci (1759-1766), in Bernardo Tanucci. Statista letterato giurista, Atti del convegno internazionale di studi per il secondo centenario 17831983, a cura di Raffaele Ajello e Mario D'Addio, Jovene, Napoli 1986, pp. 313-43. 39 A.N., Conjectures raisonneÂes, cit., nt. 24, f. 150r. 40 Ivi, f. 151r. V. Oltre la metaÁ del secolo 239 delle societaÁ europee ed i loro rappresentanti, i togati, che frenavano la velocitaÁ della pratica commerciale: «Ces preÂjugeÂs reÁgnent surtout parmi les eccleÂsiastiques [...], les gens de robe, qu'on appelle letrados, et qui partout ailleurs seraient des gens treÁs illettreÂs. Ceux-ci sont reÂpandus dans tous les Conseils, juntas et autres branches de l'administration. Ce sont presque tous gens de fortune qui ont eÂte envoyeÂs aÁ pied aux universiteÂs, ou ils n'ont pu apprendre que les meÃmes inepties qu'on y enseigne, depuis trois cents ans. Ils y ont presque vieilli dans un long cours d'eÂtudes, avant de parvenir au sublime degre de licenciado: et d'emplois en emplois, ils parviennent souvent aux premieÁres places de l'administration, sans aucun meÂrite que la gravite et les lunettes. C'est dans cette classe de peuple que l'haine nationale contre les francËais est veÂritablement dangereuse, parce que ces hommes, sortis de la poussieÁre scholastique, sans eÂducation, sans usage du monde, et sans aucune connaissance pratique, le trouvait tout d'un coup les juges des nations, dont ils savaient aÁ peine le nom, et qu'ils haõÈssent sans savoir pourquoi. Le commerce francËais n'a pas de plus grands ennemis, meÃme en Angleterre» 41. L'eccezionale luciditaÁ di questa requisitoria meriterebbe un'analisi attenta, poiche rivela la conoscenza dei nessi tra i vari piani della struttura organizzativa parassitaria: cultura giuridica legata alla ecclesiastica; attribuzione del titolo di letrados, onorifico, distintivo e dotato di notevole influenza sociale, ai titolari di quella preparazione, che sono, in realtaÁ, gens de fortune, spesso sradicati dai luoghi d'origine, dalle popolazioni locali e dai ceti; giudizio feroce e generalizzazione ingiusta sulle «inezie» insegnate nelle UniversitaÁ, ma constatazione ineccepibile allora, ed in parte ancora oggi, almeno per le FacoltaÁ umanistiche; disprezzo della «gravite» ed in genere dell'immagine del dotto, che era strettamente legata a quella del pedante. Le 41 Ivi, f. 161r-v. E continua: «d'ailleurs, tout ce qui n'est point peuple, la cour, la noblesse et le militaire, ou ne hait point les francËais ou tempeÁre cette haine par l'exteÂrieur de la politesse et des bienseÂances». Tuttavia in un passo precedente:«quelque gouÃt que le Roi Catholique ait montre lui meÃme pour les eÂtrangers, il trouve sans cesse dans les repreÂsentations de son ministeÁre des obstacles aux innovations utiles qu'il aurait deÂjaÁ fait aÁ cet eÂgard s'il avait toujours suivi son penchant» (f. 157r). 240 R. Tufano, La Francia e le Sicilie parole poste in corsivo nella citazione sono altrettante pistolettate contro il vecchio mondo, pieno soltanto di sussiego, e quindi vuoto, ma non consapevole di questa sua leggerezza ed inutilitaÁ, perche incapace di valutare il mondo pratico, l'esistenza, e dunque ignorante di tutto, tranne che di quanto eÁ inutile, superfluo o sbagliato. La Spagna era una nazione in crisi demografica a causa del numero eccessivo di celibi, creati dall'istituto giuridico del maggiorasco. Esso aveva fatto nascere una mentalitaÁ che dai primi due ordini della societaÁ si era estesa, diffondendosi senza distinzione a tutte le classi sociali 42. L'esercito e la marina soffrivano a causa dello spopolamento della nazione, oltre che per la mancanza di geÂneÂraux, in grado di condurre i militari 43. Ma per Broglie la prevalente mentalitaÁ spagnola era soprattutto la cartina di tornasole del fallimento della Francia, della sua incapacitaÁ di divenire una partner affidabile in quella alleanza politica di nazioni, ch'egli chiama la «puissance feÂdeÂrative» 44: «le point essentiel serait que [...] la France influaÃt sur l'Espagne. Tout l'exige: les liens du sang, la supeÂriorite reÂelle du chef de la maison, le danger de l'Espagne si toujours obstineÂe aÁ se conduire d'apreÁs des notions outreÂes de sa puissance et des ses ressources, elle nous engageait avec elle dans un mauvais pas d'ou on ne pourrait plus se tirer. Enfin les avantages qu'elle peut espeÂrer de cette harmonie preÂeÂtablie. Mais pour engager l'Espagne aÁ se mettre en quelque sorte sous la direction de la France, il faudrait avant tout que celle-ci lui donnaÃt l'exemple des mesures des moyens aÁ prendre pour leur inteÂreÃt commun. Le premier pas aÁ faire c'est de lui inspirer la confiance: car d'EÂtat aÁ EÂtat, comme entre particuliers, celui dont la conduite ne peut pas servir de modeÁle, ne serait pas bien recËu aÁ reformer celle d'un autre. C'est donc dans la reforme totale de notre systeÁme politique et militaire qu'il faut chercher les seuls moyens d'acqueÂrir et de conserver la confiance de l'Espagne» 45. 42 Ivi, f. 155v. Ivi, f. 157. 44 Ivi, f. 158r. 45 Ivi, ff. 157v-158r. Cosõ continua Broglie: «Le systeÁme militaire, une fois reÂtabli sur un pied respectable, encouragerait les amis communs, contiendrait les puissances dont 43 V. Oltre la metaÁ del secolo 241 Nella sua idea di un sistema federativo delle nazioni borboniche, egli intravedeva la soluzione politica del futuro, in grado di salvare la Francia dal baratro verso cui irrimediabilmente andava incontro. Prussia, Russia e Inghilterra non avrebbero dato tregua ai troni borbonici e le condizioni della primazõÂa della Francia sul resto del mondo passavano soprattutto per un'alleanza con la casa degli Asburgo. L'idea che l'alleanza austriaca fosse irrinunciabile fu una di quelle che portarono Broglie dentro l'«affaire de la Bastille». 6. I `partiti' francesi: opposte valutazioni di politica estera Pensare che questa mole enorme e caustica di critiche e di riserve antispagnole condizionassero la politica francese in direzione opposta all'alleanza tra le due corti borboniche sarebbe, ovviamente, un'assurditaÁ, dipendente forse da una profonda incomprensione delle leggi imposte dalla politica, che non eÁ scienza di valori, ma di fini e dei mezzi piu adatti a raggiungerli. Il legame tra le due corti sorelle non aveva, infatti, ne favorito ne impedito la decisione della Francia di allearsi improvvisamente, nel 1756, con quanto restava in piedi dell'antico impero romano-germanico, ora austriaco, erede di quello che era stato fin dal medio evo il maggior nemico degli Stati nazionali. Il fatto che quell'alleanza metteva in serie difficoltaÁ in particolare le Sicilie, regioni da tempo contese prima tra gli aspiranti alla successione spagnola, poi tra Vienna e Carlo di Borbone, non ebbe nessun peso sulla decisione francese. L'attribuzione del Granducato di Toscana a Stefano di Lorena, il matrimonio di lui con Maria Teresa d'Austria, la protezione francese affinche nel corso della guerra di successione austriaca i ducati di Parma e di Piacenza fossero attribuiti a Filippo, che di Carlo era il fratello minore e che aspirava a passare, appena possibile, di lõ sul piu l'amitie et la bonne foi sont devenus si probleÂmatiques, aÁ l'eÂgard de l'Espagne comme de la France, et en imposerait aux ennemis deÂclareÂs et perpeÂtuels des deux couronnes. Le systeÁme politique eÂgalement ramene aÁ ses vrais principes, nous rendrait tous les avantages de la Puissance feÂdeÂrative. Nos alliances seraient mieux combineÂes pour notre avantage et mieux combineÂes pour l'inteÂreÃt meÃme de nos allieÂs». 242 R. Tufano, La Francia e le Sicilie consistente ed antico trono di Napoli, erano precedenti bocconi amari per cui il re di Napoli aveva subõÂto come una svolta molto preoccupante «le renversement des alliances» del 1756. Quel cambiamento era stato la risposta austriaca all'invadenza prussiana, ed era stato sancito dai noti matrimoni del delfino Luigi e di Ferdinando IV con Maria Antonietta e Maria Carolina, figlie di Maria Teresa. EÁ il caso di ricordare questi motivi di dissenso tra Parigi e Carlo di Borbone perche da parte del re di Napoli considerare le Sicilie un'ereditaÁ da trasmettere ad uno dei figli fu un desiderio vivissimo ed una preoccupazione costante, nata proprio dall'alleanza tra Parigi e Vienna: la corte borbonica sorella si era collocata cosõ al fianco di quell'impero contro cui Carlo aveva combattuto e vinto a Velletri nel 1744. Le antipatie spagnole nei confronti della Francia provenivano in Carlo dall'educazione vetero-nobiliare che aveva ricevuto dal conte di Santisteban ed a cui si erano aggiunti quei nuovi motivi di cautela e di sospetto. Tanucci nutriva nei confronti del modello di sviluppo francese riserve nazionalistiche e culturali, spesso dissimulate e che poi furono giustamente fondate su motivi di politica economica. Quella, insieme al comune rigore morale, era la larga base su cui si fondoÁ il vincolo di amicizia e di collaborazione tra l'ispido e scostante toscano e l'ombroso e diffidente sovrano spagnolo. Nel 1755, e poi nel 1759, quei moventi influirono largamente nella scelta di Tanucci come braccio destro di Carlo a Napoli. In sintesi, questi dati elementari sugli orientamenti di politica estera presenti a corte e nel governo francese era necessario ricordarli perche nella seconda metaÁ del Settecento il quadro internazionale incise a fondo sui destini delle Sicilie, non piu in modo positivo e fortunato, ma per condurli su vie impervie e disastrose. Per la politica anti-inglese e anti-russa nel Mediterraneo e oltreOceano, il re di Francia, Broglie e le fazioni di corte ritenevano indiscutibile l'alleanza con la Spagna. La storiografia francese individua nel lasso di tempo che va dal 1773 al 1774 due correnti di politica internazionale presenti nella corte: il partito di Choiseul, ossia «du patriotisme», che annoverava alcuni principi di sangue e che contava dell'appoggio degli oppositori alla riforma anti-parla- V. Oltre la metaÁ del secolo 243 mentare di Maupeou, e il gruppo di potere adunatosi attorno alla du Barry, comprendente i duchi di Richelieu, d'Aiguillon, d'Aumont, i conti di Bissy e di Maillebois, la principessa di Montmorency ed altri fedeli e clienti. Il primo dei due gruppi, impersonato dagli Choiseul, da Broglie e da Louis XV, per far fronte all'Europa orientale ed ai suoi fianchi di nord e di sud, contavano sull'alleanza con la corte di Vienna, rafforzata dal matrimonio (19 aprile 1770) del successore al trono, il «petit-dauphine», con l'arciduchessa Maria Antonietta. La futura regina di Francia era infatti molto legata a Choiseul, verso cui dimostrava stima e confidenza. In quello stesso momento l'altro partito di corte, capeggiato dalla signora du Barry ed avverso agli Choiseul ed a Broglie, esprimeva con la politica del duca d'Aiguillon un orientamento nettamente diverso: l'apertura di un'alleanza con la Prussia. Dunque nel 1773 era netta la contrapposizione tra i filoaustriaci ed i filoprussiani 46. Il ministro degli esteri francese, diffidente verso l'Austria, ch'egli considerava fiancheggiatrice di Choiseul e dell'antico ministero, nell'autunno del 1771 aprõ le trattative con Federico II. Della cosa fu subito avvertito l'abile ed intelligente barone di Breteuil, il piu filo-austriaco dei diplomatici francesi e creatura di Choiseul, che tentoÁ di bloccare l'iniziativa tramite Broglie 47. Nel corso di una conversazione, fu proprio l'ambasciatore austriaco a Versailles, il conte di Mercy-Argenteau, ad avvertire Broglie e Louis XV dei tentativi di Federico II, per «brouiller nos deux cours» attraverso d'Aiguillon 48. Era in pericolo la logica che aveva ispirato Louis XV 46 M. Antoine, Louis XV, cit. (nt. 27), passim. Broglie a Louis XV, 9 gennaio 1772: «instruit comme je le suis, Sire, de sa volonte sur un objet aussi important, (cioeÁ l'accordo con l'Austria) je ne saurais, sans manquer essentiellement aÁ mon devoir, me dispenser d'avoir l'honneur de Lui rendre compte de ce que M. le comte de Mercy m'a dit depuis mon retour. Cet ambassadeur m'avait fait preÂvenir au moment de mon arriveÂe par M. le baron de Breteuil qu'il deÂsirait fort de me voir et qu'il avait des choses treÁs importantes aÁ me communiquer. M. de Breteuil en s'acquittant de cette commission m'ajouta que le comte de Mercy eÂtait on ne saurait plus inquiet de nos nouvelles liaison avec le roi de Prusse et que c'eÂtait sur cet objet qu'il voulait m'entretenir». 48 Sulle trattative condotte nell'autunno del 1771, cfr. J. Flammermont, Les correspondances des agents diplomatiques eÂtrangers en France avant la ReÂvolution, pp. 56-65 e la 47 244 R. Tufano, La Francia e le Sicilie per tutto il suo lungo regno: il gioco diplomatico conosciuto con la formula «renversement des alliances». Ancora Broglie ci soccorre nel tentativo di comprendere le linee guida della politica internazionale praticate dalle grandi potenze europee relativamente al regno delle due Sicilie. Anche in questo caso il problema centrale restava quello dell'equilibrio europeo dopo la convenzione firmata il 16 gennaio 1756 a Westminster tra Prussia ed Inghilterra, ed in seguito al trattato di Versailles del 1756. «Les Royaumes de Naples et de Sicile forment donc par eux-meÃmes l'eÂtat le plus consideÂrable, le plus important de l'Italie, et le plus fait pour y eÃtre preÂpondeÂrant. Quant aÁ sa position respective aÁ l'eÂgard des autres Puissances de l'Europe, elle [la position des Royaume] ne peut consister que dans les rapports directs de cette Cour avec celle de Vienne, par les liaisons eÂtroites et, peut-eÃtre, trop intimes que la nouvelle affinite a eÂtablies entre les deux familles, ou dans ceux que les liens du sang et de l'inteÂreÃt commun lui rendent essentiels et neÂcessaires avec la France et l'Espagne. C'est par ces deux puissances qu'elle [la position des Royaume] peut se trouver impliqueÂe, engageÂe dans les affaires geÂneÂrales de l'Europe. C'est pour elle aussi que les deux Monarques parents et allieÂs doivent veiller sans cesse, non seulement aÁ sa suÃreteÂ, aÁ sa conservation, mais aussi aÁ l'accroissement de ses forces, de ses moyens, et aÁ l'usage que, dans plusieurs cas, elle en pourra et devra faire» 49. Queste ultime affermazioni quasi tutelari («doivent veiller sans cesse») esprimono per un verso le aspirazioni del governo napoletano, per un altro un'idea nascente dalla coscienza che il vaso di coccio con cui terminava la penisola italiana correva sempre il rischio di essere schiacciato dai vasi di ferro che avessero voluto realizzare quel risultato: esso, pur essendo prevedibile una resistenza quasi nulla e pur Politische Correspondenz, t. 31, Berlino 1906, passim, ma spec. le pp. 275-87, 343. Gli austriaci erano perfettamente al corrente delle trattative tra d'Aiguillon e Sandoz, inviato prussiano in Francia, cfr. A. D'Arneth-A. Geoffroy, Correspondance secreÁte entre MarieTheÂreÁse et le comte de Mercy-Argenteau, avec les lettres de Marie-TheÂreÁse et de Marie-Antoinette, Paris 1874, t. 1, pp. 246, 247, 258, 259, 267-68. La conversazione tra Broglie e MercyArgenteau in Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 2ë vol., p. 316-8. 49 A.N., Conjectures raisonneÂes, cit. (nt. 24), f. 170r. V. Oltre la metaÁ del secolo 245 essendo parva la materia del contendere, avrebbe sensibilmente spostato l'asse, quanto meno orizzontale, degli equilibri europei. 7. Il problema dell'influenza austriaca sulla Sicilia borbonica L'invito di Broglie a Luigi XV affinche non solo tutelasse le Sicilie, ma ne accrescesse le forze, seguiva di pochi mesi il tentativo di Federico II diretto a sganciare Parigi da Vienna, servendosi del duca d'Aiguillon e del gruppo attivo intorno a madame du Barry. Era una piega degli avvenimenti che giustificava le preoccupazioni molto serie della diplomazia parigina. Essa intuiva che la rottura dell'alleanza con l'Austria avrebbe comportato di pagare un prezzo molto caro nel sud dell'Italia. Il pericolo che si stava profilando all'orizzonte era lo spostarsi delle Sicilie in modo molto stretto verso l'area austriaca, novitaÁ che avrebbe comportato un cambiamento degli equilibri europei, e creato enormi problemi a Carlo III, ponendo sulla bilancia del rapporto franco-ispanico ± giaÁ caratterizzato da un bilanciamento meno stabile di quanto appariva e di quanto si desiderava ± un peso forse disastroso. Erano timori ben fondati, e non eÁ un caso che fossero espressi proprio da uno dei piu autorevoli esponenti del partito del Re, favorevole a mantenere fortemente in vita sia l'alleanza con Vienna sia l'unione `familiare' con la Spagna, e da colui che aveva bloccato il tentativo di rompere il legame con Vienna, e quindi aveva impedito il colpo di mano diretto a «renverser ... le renversement» 50. A questo punto eÁ necessario riportare le Sicilie al centro della scena, e ripercorrere brevemente precedenti ben noti. Dopo il XVI secolo, la diplomazia europea fu dominata dalla grande opposizione tra la casa dei Borbone e quella degli Asburgo. Verso la fine del regno di Louis XIV, quando parve evidente che Carlos II di Spagna non avrebbe avuto discendenti diretti, la successione di Spagna turboÁ l'Europa, sfociando in una guerra lunga, costosa e difficile, che si espanse su scala mondiale. Il trattato di 50 Su questo tentativo, cfr. la cit. importante lettera 6 gen. 1772, di Broglie a Louis XV, cit. in nt. 47. 246 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Utrecht, che la concluse, ed impose una stabilitaÁ durevole alla cristianitaÁ; l'idea di quella pace fu presente durante tutto il secolo dei Lumi, come riferimento e, in qualche caso, come modello 51. Filippo d'AngioÁ, seduto sul trono madrileno, aveva trasformato i termini dello scontro tra le due case regnanti. Il progetto di una stretta unione con l'Austria, diretta contro la Prussia, l'Inghilterra e la Russia, era un vecchio sogno carezzato a lungo dalla Francia del «Bienaime». Datato con l'affermazione brutale della Prussia nel 1740, il «renversement des alliances» europee ± o come viene piuttosto chiamato dagli storici tedeschi e anglosassoni la «reÂvolution diplomatique» ± fu a lungo coltivata, per parte francese, dal duetto ``segreto'' Broglie-Louis XV, dalla coppia governativa Choiseul- Louis XV, e, per parte austriaca, dall'imperatrice e dal ministro Kaunitz 52. Per Broglie l'Austria, pur sconfitta nei suoi tentativi di conservare e poi di riappropriarsi del regno meridionale nel 1734 e nel 1744, fu aiutata dalla politica di Choiseul nel riprendere posizioni sul piano internazionale, a discapito della stessa Francia 53. La casa degli Asburgo riuscõÂ, infatti, a far inserire nel trattato segreto di Versailles del 30 dicembre 1758 alcune clausole ambigue sulle norme relative alla successione sul trono siciliano: nel caso di successione di don Carlos a Madrid, sarebbe stato nominato re di Napoli don Filippo, mentre Parma e Piacenza sarebbero passati ai discendenti del re di Spagna. Grazie alla fermezza di Carlo di Borbone nel far valere i «droits naturels» in favore dei figli, il piano austriaco in definitiva fallõÂ: ma costituõ una mina vagante per alcuni lustri, e turboÁ il sonno di molti, e non solo dei diplomatici. CosõÂ, non rimase alla corte di Vienna altro da fare che l'«espoir de dominer un jour par l'intrigue dans un Royaume que la force n'avait pu lui soumettre» 54. E l'intrigo per Broglie si era materializzato nelle forme della figlia di Maria Teresa. La transizione dall'equilibrio al temuto sovvertimento degli assetti internazionali era legata al temperamento dimostrato da Maria 51 52 53 54 Per tutto cioÁ si rinvia all'acuta analisi di Lucien BeÂly, op. cit. (cap. I, nt. 13). Cfr. su tutti Antoine, Louis XV, cit. (nt. 27), passim. A.N., Conjectures raisonneÂes, cit. in nt. 24, Article 13. De l'Italie, f. 169 ss. Ivi, p. 173v. V. Oltre la metaÁ del secolo 247 Carolina. Tuttavia, essendo note sia le condizioni della monarchia napoletana sia l'educazione che la corte di Vienna era solita dare alla sue principesse, le previsioni lasciavano in vita pochi dubbi: «On n'est pas aÁ porteÂe de juger aÁ quel point l'influence de la Reine peut eÃtre preÂpondeÂrante. Mais d'apreÁs le geÂnie, le caracteÁre et l'eÂducation de toute la branche espagnole, on peut du moins preÂvoir que cette preÂpondeÂrance doit meÃme augmenter avec le temps, au lieu de diminuer. Tel est aussi l'usage heureux et adroit que la Cour de Vienne a toujours su faire de ses Archiduchesses; et, sous l'ImpeÂratrice reÂgnante, on oserait ajouter que cette meÂthode a eÂte encore perfectionneÂe [...] Il serait meÃme possible qu'aÁ la naissance d'un prince heÂritier du TroÃne, la jeune Reine [...] prit sur lui bien plus d'ascendant, et meÃmeassez (dans certains cas) pour lui faire secouer le joug de l'autorite paternelle» 55. Ritornava in questo passaggio di Broglie il tema dell'educazione e del carattere degli esponenti del ramo cadetto dei Borbone di Spagna. Nel caso di Ferdinando IV, Broglie era molto esplicito e, nel delinearne i tratti caratteriali e i modi d'espressione della personalitaÁ, addebitava al suo ajo, il principe di San Nicandro, tutta la responsabilitaÁ dei sentimenti francofobi, oltre che della pessima educazione 56. In Broglie, come in tutti gli osservatori stranieri, era centrale l'osservazione dell'inettitudine e dell'assoluta incapacitaÁ di governo del re Borbone. Erano chiacchiere che correvano per l'intera Europa di metaÁ Settecento, dissimulate con osservazioni quali l'innata disposizione di Ferdinando IV «a divertirsi a spese della fastidiosa serietaÁ che tutti affibbiano alla maestaÁ regale». Ragion per cui egli «era cosõ triste quando il ministro Tanucci l'obbligava ad essere serio nei casi in cui doveva esserlo e mai, di converso, era cosõ contento come quando si sentiva padrone di concedere una grazia a qualcuno». D'altronde, egli «non era ne colto ne erudito e non era portato ad alcuna specie di letteratura», pur avendo un «eccellente raziocinio» e 55 56 Ibidem. Ivi, f. 174, con giudizio su Domenico Cattaneo. 248 R. Tufano, La Francia e le Sicilie «grande stima degli uomini che avevano saputo distinguersi fra gli altri sia per i loro costumi sia per la loro cultura» 57. E la colpa di quel risultato veniva fatta ricadere in tutto sul suo ajo: ma il modello del tradizionalismo bigotto era giaÁ stato trasmesso dal conte di Santisteban, ajo paterno, ed ebbe certamente la sua parte in quel disastro pubblico, addirittura europeo, ancor piu che familiare 58. Quale futuro politico intravedeva il conte di Broglie per il regno di Napoli? Dopo aver vagliato diverse ipotesi di successione dinastica, egli riteneva che il Mezzogiorno d'Italia sarebbe comunque caduto sotto il controllo austriaco, alla ricerca di sbocchi nel Mediterraneo 59. E le conseguenze per la Francia sarebbero state nefaste, 57 La descrizione di Ferdinando eÁ di G. Casanova, Storia della mia vita, trad. it. a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Mondadori, Milano 1989, vol. III, p. 743. 58 Frutto di un impegno tanto gravoso quanto meritorio, eÁ stato di recente pubblicato l'abbondante Carteggio San Nicandro Carlo III, in tre volumi, SocietaÁ napoletana di Storia Patria, Napoli 2009, a cura di Carlo Knight. EÁ una fonte significativa e che riguarda il tema qui sfiorato: le due persone che piu influirono sul carattere, sulla cultura ed in genere sulla formazione di Ferdinando IV solo illuminati appieno da quelle 1400 pagine: dato e non concesso che di luci si tratti e non, piuttosto, di ombre. Certo eÁ che i due corrispondenti mostrano, in modo speculare, i limiti culturali e politici giaÁ riconosciuti da tutta la storiografia meridionale, da Colletta a Croce e, in tempi piu recenti, da Ajello alla Maiorini, alla Russo (che ne ha curato l'omonima voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXII, pp. 456-58). CioÁ, ovviamente, nulla toglie ai meriti di Knight ed all'utilitaÁ della non facile impresa: conoscere gli uomini eÁ il piu valido presupposto per delineare la storia di un'epoca, su cui essi influirono per come erano, e non per come avremmo voluto che fossero. Con questo intento, e non certamente per un esclusivo «risveglio d'attenzione nei confronti del San Nicandro», affidammo ad una brava tesista (Manuela Ferlito, che il curatore cita, ma l'indirizzo della tesi eÁ del relatore, cioeÁ di chi scrive) la cura di una parte dell'epistolario tra l'ajo ed il re spagnolo, da noi individuata a suo tempo nell'archivio simanchino. GiaÁ da quella porzione dell'epistolario tra il re ed il principe ci apparve chiaro che Carlo si preoccupava piu di «diseducare» il figlio, che di formarlo a compiti propri all'esercizio della regalitaÁ. Era quello l'argomento centrale e lo scopo della dissertazione, non certo il profilo di un furbo affarista, ma ignorantissimo ajo, ritenuto unanimamente dai critici un personaggio emblematico dello squallore di parte della classe dirigente meridionale del tempo. 59 Ecco le ipotesi di Broglie: «enfin, en supposant qu'il [cioeÁ, Ferdinando IV] ne s'eÂcarte jamais aÁ cet eÂgard de ses devoirs, il peut perdre le Roi son peÁre, et (tout jeune qu'il est) ne lui survivre que peu de temps. Si, aÁ cette eÂpoque il ne laissait point d'enfant maÃle, il n'est pas douteux que l'Infante aõÃneÂe ne devit le partage d'un des Princes de Toscane et quelques arrangements que Charles III euÃt pu faire de son vivant en faveur de sa ligne masculine, on saurait eÂleveÂe cette Princesse sur le troÃne, et lui en assurer la possession, ainsi qu'aÁ son eÂpoux actuel ou futur. Alors il serait aussi treÁs possible que l'Empereur mouruÃt sans enfants, et que le fils du Grand Duc devint l'heÂritier des Etat V. Oltre la metaÁ del secolo 249 perche gli austriaci, ristretto il potere borbonico a due sole nazioni in Europa, avrebbero cercato ed ottenuto la complicitaÁ inglese, al fine di stabilire in Italia una politica d'equilibrio. L'Inghilterra si sarebbe cosõ assicurata una «supeÂriorite privative dans les ports d'Italie» 60. La potenza inglese, dopo il Baltico, avrebbe dominato anche il Mediterraneo. E ancora una volta l'idea fondamentale di Broglie, ossia la «puissance feÂdeÂrative» come panacea universale, avrebbe permesso di far saltare il banco all'Inghilterra. Per gli uomini degli Affaires eÂtrangeÁres il processo politico internazionale, apertosi a metaÁ degli anni '50 in Occidente, non s'era ancora concluso. Questo paradigma delle relazioni tra i paesi occidentali era poi precipitato per le conseguenze della guerra dei Sette anni. 8. Galiani e Tanucci: la Francia blocca l'economia delle Sicilie «V. E. dunque teme un tempo nel quale la cittaÁ di Napoli sia obbligata dalla potenza enorme della Francia e sia forzata a immense somme, quando ora non paghi l'orribile di 450 mila ducati, cioe 300 mila piu del prezzo da quei ladroni di Marsiglia formato dei grani non ricevuti, condannati dai periti, venuti in contravenzione del mandato. E io non temo. Dice V. E. che convien finir ora la cosa. Anche io ho detto questo. E per quieto vivere contro tutta la giustizia ho offerto a cotesti mangiamondi quel caricatissimo prezzo dei grani, graduando il prezzo a giusto, e li grani pessimi a buoni. Non han consentito. Dunque, che possiamo fare con chi delira per voler delirare, dicendo sentenza del re di Spagna, fatale, irrevocabile, sacra, quella che eÁ di un tribunale, e per tutte le leggi sottoposta a nuovo esame, anche quando non concorressero quelle violenze, che si descrivono in un foglio, che se ho qui, includeroÁ? V. E. scorre a caricar la fantasia cogli austriaci quasi scordata di quel che Ella stessa, ha tanto scritto da Londra. V. E. anche dice, che un altro ministro che mi succeda, accorderaÁ e si scuseraÁ con dire che eÁ obbligato a rimediare ad un male fatto da me antecessore. Ma il Re giovine dureraÁ lungo tempo» 61. d'Autriche. Il reÂunirait aÁ lui seul ceux que Charles Quint avait posseÂdeÂs en Italie, et augmente de la Toscane entieÁre» (ivi, ff. 174r-v). 60 Ivi, f. 175. 61 In Tanucci, Epistolario 1774 (cfr. supra, cap. II, nt. 23) lettera në 1. 250 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Il primo gennaio 1774 Tanucci manifestava in questo modo a Caracciolo la sua amarezza per l'incapacitaÁ dimostrata dal governo napoletano di far valere sul piano internazionale il rifiuto di pagare ai venditori marsigliesi il prezzo del grano ammuffito ricevuto per porre rimedio alla carestia del 1764. Il ministro napoletano sapeva bene che era irrimediabilmente perduta la partita con la Francia per il pagamento degli ingenti interessi cumulatisi in dieci anni per la fornitura dei grani che Marsiglia aveva offerto a Napoli durante quella crisi alimentare. In quell'occasione gli era persino mancato l'appoggio di Carlo III. Della debolezza della Spagna nei confronti della Francia, egli aveva raggiunto una consapevolezza ormai matura. Otto anni prima, nel pieno dello scontro tra lui, Choiseul e Grimaldi sull'adesione del regno di Napoli al Patto di Famiglia tra le potenze borboniche, se ne era lamentato con Cantillana: «EÁ un destino che non si capisce. Il Re Cattolico Nostro Signore certamente conosce tutto, e la nostra ragione, e il nostro vero interesse, e le insidie del commercio francese, e il falso e insolente delle querele, e l'inganno, e la sorpresa che a forza di retorica puerile si vorrebbe fare. AvraÁ la MaestaÁ Sua ragioni occulte di lasciare qualche parte della vittoria all'insolenza benche conosciuta. Noi doviamo venerare le sovrane sue risoluzioni e contentarci di che la MaestaÁ Sua sia persuasa del giusto, regolare, moderato nostro procedere» 62. L'assoluta impossibilitaÁ per le Sicilie di realizzare una qualsiasi politica a tutela della sua economia investe appieno una serie di problemi internazionali ed interni che costituiscono la via maestra da percorrere attentamente, se si vuol capire che cosa avvenne dopo l'indipendenza fortunosamente riacquistata dal regno meridionale. Erano difficoltaÁ che furono nascoste dalla formidabile volontaÁ di Elisabetta Farnese, ma che emersero drammaticamente dopo la morte di Filippo V e si protrassero nei decenni seguenti, secondo una scansione che puoÁ essere semplificata cosõÂ. Dal 1746 al 1759 le Sicilie mancarono di una guida politica 62 A Cantillana, Napoli, 21 giugno 1766, in Epistolario, vol. XVII (1766), p. 267. V. Oltre la metaÁ del secolo 251 adeguata, perche Carlo volle governare da seÂ, e la persona del primo Segretario di Stato, Giovanni Fogliani, successore di Montealegre, fu scelto proprio perche aveva carattere e qualitaÁ diversissimi dal suo predecessore. Disgraziatamente era al polo opposto anche perche non possedeva neanche la minima parte di quelle doti politiche e culturali. La personalitaÁ di Fogliani emergeva (come si espresse un memorialista contemporaneo), in primo luogo per la sua «mancanza di talenti». Era stato scelto senza esperienza e senza cultura politica adeguata per non far ombra al re ed alla regina, che erano fortemente infastiditi per il fatto di esser guidati in tutto e per tutto come se fossero dei ragazzini. Non erano degli incapaci, ma la loro educazione aulica li aveva resi di un'ingenuitaÁ quasi patologica, che li esponeva all'abilitaÁ dei furfanti. La corte ne era stracolma. Inoltre i due giovani regnanti non avevano la minima capacitaÁ di valutare le esigenze del bilancio statale, si comportavano come se Elisabetta potesse continuare a sovvenzionarli, ed erano convinti che il popolo non godesse di altro che della gioia di assistere alle deliciae principum. Insomma, quando nel 1751 un intelligente, autorevole ed esperto uomo politico fiorentino, Lionardo Del Riccio, venne a Napoli invitato dall'amico Tanucci, trovoÁ che il governo era privo di guida politica e che lo statista suo compaesano, essendo utilizzato nella corte solo per fatiche materiali e per la sua portentosa cultura, si trovava oltre l'orlo della disperazione 63. Nel 1755 le prospettive internazionali consigliarono a Carlo di servirsi del talento di Tanucci, che poi, nel 1759, in seguito al trasferimento del Re a Madrid si trovoÁ ad essere il perno intorno a cui girava la Reggenza, formata da nobili napoletani e siciliani che riproducevano nelle loro personalitaÁ le loro ascendenze medievali, inquinate e rese dal punto di vista delle capacitaÁ di governo rovinose da oltre due secoli e mezzo d'inerzia, di emarginazione dai centri della responsabilitaÁ, dunque d'inesperienza politica. Innanzi tutto essi non avevano la minima idea dei doveri pubblici, della responsabilitaÁ che 63 Cfr., sul tema, l'importante saggio di Raffaele Iovine, op. cit. (cap. IV, nt. 73), che in «Frontiera d'Europa» ha pubblicato le dieci illuminanti lettere del Del Riccio. 252 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ogni ceto di governo deve sentire nel condizionare le sorti dell'impresa statale, ossia le esigenze collettive. L'interesse privato di ciascuno dominava su tutto. Per poter capire qual era la reale natura e consistenza dei rapporti economici tra la Francia e le Sicilie eÁ stato necessario compiere questa digressione sul disastroso andamento della Reggenza 64, dove Tanucci cercava di tamponare le piu preoccupanti falle, specialmente economiche, ereditate dalla gestione di rapina realizzata da Leopoldo de Gregorio: e trovava ostacoli quasi insormontabili nell'egoismo e nel particolarismo dei suoi colleghi, che avevano adottato come loro intellettuale di spicco e consigliere uno scaltro e colto leguleio, Giuseppe Pasquale Cirillo. Come avvocato dei Seggi, ossia della nobiltaÁ, egli divenne il maggior difensore dello status quo ed il nemico piu molesto sia di Tanucci sia di Genovesi, e da loro duramente disprezzato. Non aveva altra mira che allargare la sua sfera d'influenza. Fingeva di lavorare all'elaborazione di un codice carolino, era magna pars della relativa commissione di esperti; ma lo stesso Re aveva assicurato fin dall'inizio Elisabetta Farnese che si trattava di una mera finzione: nulla di nuovo sarebbe uscito da quell'apparente travaglio, che non abortiva perche era diretto ad offrire proventi a Cirillo e ad altri disonesti collaboratori 65. Quanto all'economia, De Gregorio ne aveva curato un solo aspetto: l'incremento a tutti costi, spesso rovinosi, del gettito fiscale, di cui la coppia regnante aveva insaziabile bisogno e che provvedeva a distrarre verso impieghi in quella fase (ossia almeno allora) improduttivi: costruzioni di palazzi faraonici e scavi archeologici. Del settore economico qui interessa specialmente il commercio internazionale. Un amico fraterno di Bartolomeo Intieri ed estimatore di Celestino Galiani, Alessandro Rinuccini, banchiere fiorentino, uomo geniale di antica nobiltaÁ e di formidabile esperienza, dotato 64 Sulla Reggenza e sulla sua interna dialettica politica, cfr. M.G. Maiorini, La Reggenza borbonica (1759-1767), Giannini, Napoli 1991. 65 Su Cirillo cfr. Ajello, voce in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. XXV, 1981, pp. 796-801, e sul tentativo di codificazione cfr. dello stesso autore le due op. cit. infra, cap. VII, nt. 16 e cap. VI, nt. 15. V. Oltre la metaÁ del secolo 253 di una cultura eccezionale e di un acume sorprendente, trapiantato stabilmente a Napoli, rilevoÁ che praticamente non trovava posto tra le cure del governo napoletano il compito, in tutt'Europa ritenuto primario, di tutelare il commercio. Per questa imperdonabile lacuna, indice di una mentalitaÁ anacronistica per non dire primitiva, egli arrivoÁ ad accusare Carlo di Borbone, il re buono, mite, anche troppo generoso, di dispotismo 66. EÁ da rilevare che l'impegno diretto ad incrementare il commercio, comportando in primo luogo di riformare o addirittura rivoluzionare l'assurdo sistema su cui era fondato, appariva pericoloso e da evitare accuratamente da chi non volesse correre rischi: ed il re era tra i piu timidi. Si sapeva che i governi francesi avevano visto sempre come loro nemici da demolire gli uomini politici che si occupavano a Napoli (ed altrove) di economia nell'interesse dei loro Paesi, e che intendevano realizzare una politica di contenimento dell'invadenza parigina. Appariva un'offesa a quel governo creare ostacoli ai meccanismi transalpini, diretti ad acquistare a basso prezzo le materie prime, ad elaborarle dando lavoro alle abili manifatture nazionali, e ad esportarle nelle Sicilie, per un verso aggirando i dazi locali con il capillare contrabbando, e per un altro verso paralizzando la marina mercantile locale, che non poteva crescere di tonnellaggio, per i motivi che esamineremo. Innanzi tutto perche solo i legni molto piccoli, rasentando le coste, potevano salvarsi dalla pirateria nordafricana, che era armata, protetta, sovvenzionata dal sistema economico francese, di cui era un ottimo cliente: esso forniva ai pirati tutto cioÁ che era necessario perche potessero svolgere il loro lavoro, e li proteggeva come partners commerciali. 9. Alle Sicilie era consentita soltanto la navigazione piu leggera Sulla navigazione e sul commercio estero delle Sicilie, in particolare nel periodo borbonico, raramente eÁ possibile avvalersi di dati quantitativi. La documentazione statistica relativa al transito delle 66 Cfr. supra, cap. IV, par. 7, ed in particolare nt. 68. 254 R. Tufano, La Francia e le Sicilie navi nei porti e delle merci nelle dogane eÁ troppo lacunosa e parziale per poterne trarre giudizi generali diversi da quelli espressi in modo chiaro ed insistente dagli esperti del tempo. I dati numerici e quantitativi, prima di subire dal tempo molteplici falcidie, sono il residuo di comportamenti diretti ad occultarli o a manipolarli; spesso erano sottratti ad ogni registrazione, poiche i contemporanei erano interessati, spesso obbligati, ad omettere quelle formalitaÁ. PercioÁ su quella base eÁ impossibile qualunque calcolo analitico che ci dia conto delle complesse dinamiche commerciali. L'idea (concepita in questi ultimi decenni da alcuni storici) di far a meno delle diagnosi dei contemporanei, anche i piu intelligenti, quali erano Galiani e Tanucci, eÁ segno di una presunzione smodata. Essa si aggiunge e si somma a quella idealistica, pur adottando un criterio opposto: tanto idolatra i dati numerici, quanto la precedente storiografia trascurava le fonti della vita materiale. Pertanto se eÁ dubbio che il costo dei noli abbia lasciato sempre chiari segni negli archivi, ancor piu eÁ certo che si taceva accuratamente del contrabbando e del relativo traffico, da tutti i testimoni durante molti secoli indicato come di portata enorme. Sicuro eÁ che la marineria delle Sicilie era costretta a mantenersi nei limiti di un cabotaggio minimo, registrato raramente e male. Anche le somme pagate ai comandanti francesi per il trasporto delle persone e delle merci imbarcate durante la navigazione non dalla Provenza alle Sicilie e viceversa, ma da Napoli a Palermo e viceversa, non potevano essere annotate correttamente in partenza o in arrivo a Marsiglia o a Tolone, perche il rapporto commerciale era quasi sempre occasionale e nasceva sul momento. PercioÁ possiamo sostenere che il mercato dei noli si sottraeva quasi del tutto ai controlli. Certo era prevalentemente in mani aliene. La lotta al contrabbando rappresentoÁ il primo segno della capacitaÁ italiana meridionale diretta a reagire allo status quo di dipendenza economica del Regno rispetto alla Francia: e le proteste napoletane furono il cupo brontolio dei tuoni che annunciavano una grande tempesta. Analizziamo qui di seguito alcune lettere di Ferdinando Galiani, negli anni Sessanta segretario dell'ambasciata napoletana a Parigi, a Bernardo Tanucci, e le relative risposte. Questi V. Oltre la metaÁ del secolo 255 testi di per se sintetizzano in modo molto penetrante la condizione di blocco in cui il commercio delle Sicilie era posto dalla miriade delle attivitaÁ rivierasche francesi. I due esperti indicano una serie di particolari atti a rendore palese che il movimento commerciale tra i due paesi era di contrabbando, dunque informale e segreto: cioÁ spiega perche la documentazione ufficiale eÁ spesso inesistente e lacunosa. Il carteggio tra i due pone in luce con estrema luciditaÁ il problema dei rapporti tra l'intraprendenza della nazione dominante nella navigazione, nell'industria e nel commercio da una parte, e la passivitaÁ economica, quasi coloniale, delle Sicilie dall'altra. Galiani il 7 febbraio 1763 giudicava «Santissimo [...] l'editto nuovamente fatto», ossia la proibizione del contrabbando delle Sicilie sulle coste straniere, sancita di recente dal Supremo Magistrato del Commercio napoletano. Ed aggiungeva: «Ma prego V. E. a riflettere, che se con rigore si eseguiraÁ forse ne resteraÁ distrutta la nostra marina. SaroÁ forse un poco lungo a spiegarmi, ma abbia V.E. la bontaÁ di sentirmi. ± Il commercio delle due Sicilie si fa tutto con filuche e legni piccoli, che non hanno sessanta tonnellate di capacitaÁ. Ogni feluga ha tra i sette e i dieci uomini e talvolta piu di equipaggio. Con egual numero di gente gli Olandesi etc. fanno andar un vascello di due o trecento tonnellate e con sedici o diciassette uomini va un vascello di cinquecento. La grandezza di questo carico adunque puoÁ ben fornire alle spese e nutrimento della gente. Ma una filuchetta che puoÁ mai portare (a men che non sia carica di diamanti) che basti a fornir a proporzione le spese dell'equipaggio e il profitto al mercante? Quel guadagno aunque che il commercio non daÁ, lo daÁ il contrabando. Se questo si toglie, filughe non anderanno piu per lo mondo, perche in generale non puoÁ tornar conto a mettere dieci uomini per portarne quaranta o cinquanta tonnellate di roba, mentre il forestiero con egual gente ce ne porta a noi tre o quattrocento. Bisogna adunque privilegiare il nostro commercio. Bisogna imitar le nazioni savie, Inglesi, Olandesi, Francesi, etc., che o proibiscono, o mettono un'imposizione almeno del cinque per cento su tutte le mercanzie di qualunque sorte, che saranno portate nei nostri porti da bastimenti non nazionali. ± Il profitto di questo dazio potraÁ poi servire ad alleggerir quelli che sono sull'estrazione di qualche genere nostrale. Il vino sarebbe il piu necessario a 256 R. Tufano, La Francia e le Sicilie lasciar estrarre. Benissimo piu di tutto sarebbe abolir l'arrendamento dell'acquavite e farne far commercio. Ma quidquid sit di cioÁ, sempre in generale eÁ necessario far che un dazio scoraggisca gli stranieri dal portar nei nostri porti non solo le merci loro, ma talvolta quelle del Regno nostro stesso, o della Sicilia a Napoli. Allora navigheranno i Napoletani con navi grosse, non piu a remi, ma a vela e allora si potraÁ dire che noi avremo un commercio: fin ora non abbiamo altro che contrabando che ci fa sussistere. Una delle ragioni che ha fatto abbandonare il vero commercio, il quale non puoÁ farsi con profitto altro che con le navi onerarie a vela, e ci ha fatto prediliggere le liburne a remi, eÁ stato il timore de' Turchi, da' quali una filuca scampa assai meglio che una nave. Sicche bisogna tener ben espurgati i mari nostri. Allora vedraÁ V.E. crescer le navi grosse e cessar le filuche, ma finche filuche vi saranno vi saraÁ contrabando e nel Regno e negli Stati altrui, perche il contrabando eÁ consustanziale alla filuca. La filuca rade la terra, sbarca dapertutto, scende la gente senza sospetto sempre a terra, finge a sua voglia sempre timor di Turchi o di tempesta. Non cosõ la tartana, la quale cerca sempre l'alto mare ed il vento, non approda se non in rade o in porti, luoghi frequentati e custoditi dalle guardie; non dorme la gente a terra, e se butta la lancia per mandar in terra tutto il mondo lo vede. Non dico di piuÂ, perche V.E. mi capiraÁ meglio che io non so spiegarmi; ma concludo che bisogna nettar i nostri mari, favorir le tartane piu che le filuche, e le nostrali piu che le straniere con un'imposizione, di cui non potranno gli stranieri lagnarsi, perche hanno la simile nei loro paesi 67. Dunque la piccola navigazione con legni leggerissimi era la piu adatta sia a sfuggire alla pirateria, sia a realizzare il contrabbando: queste erano le due condizioni che s'imponevano ineluttabili. «La filuca scampa» (almeno in parte) alla cattura piratesca, ed anche ai controlli posti a tutela dei dazi e delle gabelle; la tartana non si salva ne dall'una ne dagli altri, perche eÁ piu pesante, e non scarica sulla sabbia, ossia quasi dovunque. Galiani cercava di spostare il problema dal tema del contrabbando e della sua repressione a quello della tutela e sicurezza della navigazione contro la pirateria. Se si daÁ 67 In Galiani, Opere, a cura di Furio Diaz e Luciano Guerci, Ricciardi editore, Milano-Napoli, 1975, p. 882, nt. 1. V. Oltre la metaÁ del secolo 257 libertaÁ di commerciare, ne nasce comunque ricchezza. L'abate era per motivi teorici favorevole al libero scambio: ma quale? Era possibile una paritaÁ tra due condizioni diversissime: da un lato flotte mercantili e militari potenti, che erano in grado di difendersi dai pirati, perche le navi da guerra realizzavano sanguinose ritorsioni; dall'altro lato il piccolo, anzi minimo cabotaggio dei `regnicoli' e dei Siciliani? EÁ stato merito di alcuni storici meridionali aver messo in luce una realtaÁ nascosta: alcuni imprenditori `regnicoli' riuscirono a crearsi spazi di attivitaÁ anche nelle pieghe di quel sistema oppressivo. Erano quelle formiche che le grandi flotte dei vascelli francesi, inglesi ed olandesi non si preoccupavano di schiacciare, perche del tutto diversa era la dimensione dei due sistemi. La risposta di Tanucci (23 dello stesso mese di febbraio) coglie perfettamente l'enorme differenza, che non consentiva di porre i problemi del commercio francese e napoletano sullo stesso piano: lo scambio era comunque totalmente, irrimediabilmente diseguale. «Sul contrabando ch'Ella vorrebbe mantenere, per mantenere il commercio delle felughe, bisogna tener per fermo, che, per un contrabando dei nostri sulle coste di Francia, cento son quelli che li Francesi fanno sulle coste delle Sicilie; percioÁ il danaro che esce dal regno, eÁ piu di quello, che entra per li contrabandi. Siccome eÁ sapientia prima stultitia caruisse, cosõ eÁ l'alfa del commercio curare, che il danaro, che esce dallo Stato, sia meno di quello che entra, o certamente non piuÂ. Tutti poi li canoni di commercio, che io leggo nella sua, son la solita predica, che qui si fa, e finora invano. Si teme di offendere, si suscitano dubbi, si sofistica. Sull'acquavite si eÁ discorso, e si eÁ finito disputanto. Ho sperato che Ella mi manderebbe le tariffe di quello, che costõ pagano li nostri generi, per far una qualche uguaglianza su cotesti generi, che qui vengono. Vengo quarto dopo Montealegre, Fogliani, de Gregorio, e vecchio a discorrer di commercio, e trovo che il fatto non eÁ altro, che impedimento a quello che dovrebbe farsi. Trovo ancora, che non possiamo far quel, che Inglesi, e Francesi hanno fatto di proibizione di merci, o trasporti stranieri. Le regole universali nel morale, e politico non ci sono; sorgono dalle circostanze delle terre e dei popoli. Estrazione di generi facile, indefinita; e parca, e dura introduzione son le due cose, che ci appartengono. La seconda non si puoÁ fare alla cieca, 258 R. Tufano, La Francia e le Sicilie senza pregiudicare alla prima. La Grecia a noi confinante produce le stesse cose, che le Sicilie; se le Sicilie non le permutano, ma le vendono: eÁ facile la vendetta gli Occidentali col trasferir alla Grecia il commercio loro, ove non sono ne regole ne frati. E veramente de Gregorio, con molto meno di quello ch'Ella propone, aveva alienati tutti dalle Sicilie, le quali, senza esitare i loro generi, prendevano li stranieri, che le donne, e i loro vassalli vogliono, e sempre vorranno. Il male dei corsari, che Ella avverte, nei nostri mari non eÁ; ma noi non possiamo tener puliti li mari di levante e di ponente. Conchiudo che in teorica si discorre bene, tutto si supera, tutto si edifica, ma in pratica poi non tornano li disegni» 68. Aveva ragione Tanucci nell'osservare che il problema era del contrabbando francese, diffuso e capillare, non di quello napoletano sulle coste francesi, sparuto e facilmente soffocato. Anzi la differenza era la seguente: ogni eventuale azione repressiva antifrancese sarebbe stata impossibile, perche sulle navi battenti quella bandiera gli equipaggi non permettevano si effettuassero visite e bordo, vietate dal governo di Parigi che, al contrario, istituõ o ribadõ il controllo sui piccoli legni stranieri. Pochi mesi dopo lo scambio di lettere trascritto, fu lo stesso Galiani a commentare il provvedimento francese contro il contrabbando straniero, in una lettera a Tanucci del 12 settembre 1763: «il segreto [per combattere il contrabbando] eÁ visitare i bastimenti di sotto a 50 tonnellate; non visitare que' che hanno maggiore capacitaÁ. Questo rimedio ha questo anche di buono, che non eÁ nuovo, non eÁ immaginato la prima volta da me, ma eÁ vecchio; trovato giaÁ dai francesi ed attualmente messo in pratica qui. Sono piu di quindici anni che questo Sovrano fece un ordinanza, in cui dichiaroÁ che tutti i bastimenti di sotto le 50 tonnellate fossero soggetti a visita, non solo nei porti, ma anche nelle cale e intorno ai lidi quando vi si trovassero fermi in maniera sospetta. L'ordinanza dice tutti. Ma perche gl'interpreti delle leggi hanno trovato che ci eÁ qualcosa piu del tutto, e che quando si dice tutti non s'intende nessuno, resta dubbioso se questa 68 In Tanucci, Lettere a Ferdinando Galiani, con introduzione e note di Fausto Nicolini, vol. I, Bari, Laterza 1914, pp. 12-3. V. Oltre la metaÁ del secolo 259 ordinanaza comprenda le nazioni privilegiate. I Francesi per altro non si son fatti scrupolo delle volte di visitarci in virtu di questa ordinanza, ma non vi eÁ decisione formale di questo Re, che dice che hanno i fermieri fatto bene. Quando il Re Cattolico giunse in Ispagna pubblicoÁ editto, in cui, seguendo l'esempio di questa ordinanza francese, stabilõ la visita de' bastimenti piccoli spagnuoli. Qua si eÁ restato. Or dunque non rimane altro, se non che il Re di Francia dica che quel tutti comprende anche i privilegiati ed esenti. Spagna seguiraÁ la decisione di qui. Noi quella di ambedue» 69. EÁ da notare che il tono di Tanucci era sempre tendente all'enfasi quando si riferiva a provvedimenti spagnoli o napoletani, come se le due autoritaÁ fossero in grado di realizzare la stessa efficienza e forza di coazione del governo francese. Era uno stile comprensibile e quasi obbligato in chi, scrivendo o parlando, esprimeva la volontaÁ dello Stato, ossia delle Sicilie. Se il titolare di quel potere avesse implicitamente fatto capire che i suoi ruggiti erano finti, emessi da una tigre di carta pesta, i risultati sarebbero stati ancor piu disastrosi. Questa considerazione vale a proposito della penultima affermazione di Tanucci contenuta nella prima delle sue lettere a Galiani pubblicate in questo paragrafo. Quando lo statista scriveva che «i nostri mari non sono infestati dai corsari», sapeva di esprimere un desiderio, un auspicio, non di descrivere un fatto. La sua tesi era contraddetta subito dopo da lui stesso: «non possiamo tener puliti lo Ionio e l'Adriatico a levante ed il Tirreno a ponente». La casistica a conferma di questa impossibilitaÁ si puoÁ trarre dalle sue stesse lettere: egli tendeva ad esaltare i successi della sua politica ed a minimizzare l'andamento del fenomeno, disastroso per le Sicilie, come esattamente aveva indicato Galiani. Ma Tanucci non poteva far a meno di registrare gli insuccessi della debole marineria napoletana e siciliana, ed egli stesso chiedeva, ad esempio, che per il trasporto di generi d'interesse suo personale ci si servisse di navi francesi. Esse, assicuravano un servizio molto piu rapido: infatti, per farle partire (ad esempio, da Livorno) non era 69 Galiani, Opere, (op. cit. nt. 67), pp. 881-84. 260 R. Tufano, La Francia e le Sicilie necessario che si aspettasse l'accumulo del materiale da trasportare e la formazione dei convogli 70. Come Galiani aveva dimostrato, e come era ben noto, i riflessi delle razzie condizionavano la mole dei bastimenti: era normale per gli equipaggi delle Sicilie navigare sotto costa, rifugiarsi nei porti appena giungeva notizia di un legno piratesco nelle vicinanze. Nella peggiore delle ipotesi, quando l'assalto nemico era quasi certo, i marinai `regnicoli' erano soliti abbandonare la feluca ed il carico, erano costretti a «salvarsi sugli schifi», ossia su piccole imbarcazioni di scorta a remi, molto leggere e rapidissime. Condizioni di uso che condizionavano la mole delle navi, selezionavano il valore dei generi trasportati e ponevano comunque fuori mercato i noli e trasporti delle Sicilie. Non vi era altra soluzione, dunque, che costruire un forte, capillare apparato di difesa militare: provvedimento impossibile data l'estensione enorme delle coste, la vicinanza delle basi piratesche, il pulviscolo delle imprese offensive nordafricane quasi familiari e, in primo luogo, la rigiditaÁ asfittica del bilancio statale. Non era neanche pensabile l'unico rimedio davvero efficiente, quello adottato dai francesi, inglesi, olandesi: possedere una flotta tale da poter bombardare le basi di partenza dei pirati. La debolezza internazionale delle Sicilie avrebbe comunque creato una barriera contro quell'armamento: avendo l'ardire di elevare il tono e la consistenza (come poi fecero Maria Carolina ed Acton, anche per consiglio di Ferdinando Galiani), si sarebbe entrati, in quel caso, in un ginepraio internazionale, perche i rais nordafricani erano protetti dalle potenze marittime, le cui bandiere, essendo dai pirati obtorto collo rispettate, si assicuravano cosõ l'abbattimento totale della concorrenza napoletana e siciliana; a poco valeva il vantaggio che esse si trovavano ad operare in loco. 10. L'enorme dislivello tra le parti impedisce un equo commercio Di fronte ad un concorrere di forze esterne cosõ ben coordinato ed energico, il realismo politico di Tanucci, ammiratore di Machia70 Cfr. supra, cap. IV, nt. 65. V. Oltre la metaÁ del secolo 261 velli, prendeva il sopravvento, e lo costringeva ad accettare le «ingiurie» della nazione cugina quasi passivamente, ma non tanto da non nutrire seri propositi di liberarsi di una presenza ostile troppo determinata ed influente per non creare problemi. Il suo consigliere in materia francese, Ferdinando Galiani, machiavelliano anch'egli, ma empirista, lo aveva rafforzato nelle proprie posizioni. Secondo uno stile di pensiero non illuministico, ma umanistico, lo statista toscano tendeva a presentare le condizioni esistenziali, condizionate ed obbligate da forze dominanti, non giaÁ come assetti contingenti, bensõ nelle forme e nei termini di strutture generali. Il gusto filosofico e moralistico dei vecchi uomini di cultura era di tradurre la realtaÁ precaria in essenzialitaÁ, per dare spazio a valutazioni morali, anche se erano costretti a far buon viso al cattivo gioco. La contraddizione tra cioÁ che «conviene» (verbo ripetuto tre volte nella lettera che andiamo a citare), ossia tra la logica della politica ed il valore della «amicizia vera», tradisce il disagio vissuto dal rigoroso uomo di pensiero, che vorrebbe far trionfare l'etica sulla forza: «Convien l'amicizia, e conviene totale, convien continua, convien costante, perche in altra maniera non puoÁ essere amicizia vera, ne puoÁ produrre gli effetti dell'amicizia, ne dentro, ne fuori. Conosco quanto eÁ la Francia piu delle Sicilie in pericolo di deviare. Grandissima, e antichissima Monarchia situata tralla Germania, il Belgio, e l'Inghilterra, ne molto distante dalle potenze boreali, deve aver molti vincoli, molti riguardi, molte relazioni, le quali o non appartengono alla Sicilie, o non combinino coll'interesse di esse, o ancora a questo si oppongano. Stolto sarebbe il pretender dalla Francia sacrificj, che sconfinassero il sistema d'essa. Persuasi come siamo del poco che la Francia ha da sperare o da temere delle Sicilie, restringiamo li desideri alle cose nostre interiori, e a che il ministero francese si contenti del grandissimo utile che li Francesi tirano dalle Sicilie col noleggio immenso del Mediterraneo, del quale quello delle Sicilie per loro eÁ una gran parte. Si contentino delle tante loro manifatture, che nelle Sicilie vendono zuccheri, stoffe, broccati, grisette, amoerri, velluti, drappi, calzette, cappelli, tele, ma non vogliano ridurre le Sicilie nude, e spogliate totalmente coll'infinito contrabando di una sussistenza modestissima di questo Sovrano, e di questa popolazione insieme, la quale vive delli pubblici fondi acquistati dai suoi maggiori, e nei quali fondi 262 R. Tufano, La Francia e le Sicilie pubblici per le enormi contribuzioni caricate sulla gente di campagna vanno tutti li prodotti di una terra che Dio aveva benedetta colla fertilitaÁ, e gli uomini guastata col governo austriaco e aragonese» 71. Il problema del commercio s'inseriva in un modello di sviluppo che in Francia era progressivo e `moderno' e che in Italia, specialmente nel Mezzogiorno, era regressivo, parassitario ed ambiguo. Questo era il tema dominante, anche se non sempre esplicito, dei dibattiti culturali del Settecento: e bisognerebbe tenerne conto, perche nel dibattito pubblico la materia politica del contendere, da allora ad oggi non eÁ del tutto cambiata. Un grosso scoglio, tuttavia, esiste ancora nella comprensione di come si configurarono realmente i rapporti tra le Sicilie ed il governo di Parigi. Gli studi di Ruggiero Romano, poi di Biagio Salvemini e di Maria Antonietta Visceglia hanno dimostrato che, a metaÁ degli anni cinquanta, la bilancia del commercio ufficiale con la Francia era divenuta attiva per Napoli, mantenendosi tale per tutto il secolo 72. Ma si puoÁ esser certi che la serie dei dati registrati rispecchiavano fedelmente l'andamento della bilancia reale? Se questo fosse vero, le diagnosi di Tanucci e dei suoi consiglieri tecnici (e tra di loro eÁ da collocare non solo Galiani, ma anche Genovesi, fino al 1769) sarebbero del tutto errate, mentre riteniamo ch'essi avevano molto chiara la condizione stabile ed antica cui dovevano sottostare i rapporti tra i due paesi 73. L'interpretazione tanucciana di quei fatti non eÁ dubbia: 71 A Cantillana, Napoli, 21 giugno 1766, in Epistolario, vol. XVII (1766), p. 267 (Corsivi aggiunti). 72 Ruggiero Romano, Le Commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de l'Adriatique au XVIII sieÁcle, Colin, Paris 1951; B. Salvemini e M.A. Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi commerciali e complementaritaÁ economiche, prima parte, in «MeÂlanges de l'Ecole FrancËaise de Rome. Italie et MeÂditerraneÂe», t. 103, a. 1991, 1; Id., Pour une histoire des rapports eÂconomiques entre Marseille et le sud de l'Italie au XVIIIe et au deÂbut du XIXe sieÂcle, in «Provence Historique», fasc. 177, a. 1994, pp. 321-65; B. Salvemini, The arrogance of the market: the economy of the Kingdom between the Mediterranean and Europe, in Naples in the Eighteenth Century. The birth and death of a nation state, edited by Girolamo Imbruglia, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 44-69. 73 Il dubbio sulla conoscenza di questa svolta eÁ di Furio Diaz, L'abate Galiani consigliere di commercio estero de regno di Napoli, in «Rivista storica italiana», LXXX, 1968, p. 859. V. Oltre la metaÁ del secolo 263 «Si contenti» la Francia dei profitti provenienti dai noli, «si contenti» dei grandissimi utili tratti dallo spaccio di manifatture, ma smetta la pratica sistematica del contrabbando. Essa impediva di realizzare una politica di sviluppo, perche aggirava tutte le iniziative poste a sostegno della produzione locale realizzata dai governi napoletani. «Il contrabbando dunque resta, che il ministero francese vuol mantenere a forza, e colla sua prepotenza vuol questo Regno tributario in tre milioni almeno annui di franchi, e va facendo allo Stato un danno molto maggiore colla protezione della bandiera che accorda ai Genovesi» 74. Durante tutta la metaÁ del secondo Settecento i governi di ambedue i paesi, piu che concentrarsi sulla possibilitaÁ reale di concludere un trattato, presero a sviluppare una dialettica formale nei porti, allo scopo di eliminare il contrabbando dell'altra nazione e tentare di assicurarsi una posizione di privilegio in questa materia fiscale. Ma, com'era inevitabile, la Francia riuscõ a mantenere legale ed attiva, sui carichi delle navi dell'altro paese, una pratica costante di «visite» che aveva realizzato e consolidato da tempo immemorabile, e gli interessi delle Sicilie, bloccati da quelle apparenti formalitaÁ, e sostanziali prove di forza, non potevano che sottostare al potere della nazione dominante. La prassi traduceva nella violazione, ormai consueta ed irreversibile, del diritto di sovranitaÁ dei bastimenti napoletani, con ispezioni condotte manu militari. La pubblicazione dell'immenso Epistolario tanucciano, che eÁ ancora molto lontano da essere completo ma che ha ormai raggiunto una mole notevole e largamente probante, offre agli storici una serie di prove molto convincenti a sostegno dei giudizi prima di Montealegre, poi di Tanucci. La validitaÁ di quella diagnosi fu condivisa dai contemporanei di orientamento culturale filofrancese, in primo luogo da Genovesi e da Galiani e da esperti anticonformisti ed arditi come Intieri e Rinuc74 A Cantillana, Napoli 9 ago. 1766, in Tanucci, Epistolario, vol. XVII (1766), pp. 372-3. 264 R. Tufano, La Francia e le Sicilie cini. La loro presenza, come portatori d'idee vicine piu alla forma mentis di Montealegre che di Tanucci, sta emergendo sempre piu chiara da un metodo di ricerca che ridaÁ vita alla dialettica del tempo: se si vuol estendere lo spettro di conoscenza della realtaÁ storica occorre tener conto anche della cultura del dissenso, quale emerge studiando i carteggi privati, dove lo scontro delle idee espresso e motivato. Solo cosõ eÁ possibile evitare confusioni quasi incredibili in cui sono caduti storici anche di eccezionale talento. I bilanci commerciali non numerici, ossia non ricostruiti oggi in base a serie unilaterali e di cui eÁ impossibile garantire la completezza e la oggettivitaÁ, ma le diagnosi che nascevano dalle constatazioni vissute dai contemporanei, negavano alla marineria napoletana ogni possibilitaÁ di competere. Quando si sfioravano quei tasti, si raggiungeva un livello alto di spirito polemico e di sofferenza, perche le valutazioni si proporzionavano alla gravitaÁ ed all'intensitaÁ dei problemi, piu che allo scontro politico in atto. Quella partecipazione emotiva fu all'origine del risorgimento nazionale. EÁ stato piu volte posto in luce il giudizio (che fu di GiosueÁ Carducci e di Giovanni Gentile) secondo cui la profonda competenza genovesiana fece nascere la coscienza che era impossibile uscire dal sottosviluppo economico senza raggiungere l'unitaÁ nazionale; ma un'analoga valutazione, anche se piu generale, era stata giaÁ due secoli prima formulata da Machiavelli, secondo cui un'adeguata «dimensione» dello Stato e la sua naturale tendenza all'espansione sono i presupposti indispensabili della sua sopravvivenza. Ma fu dopo il 1759 che nacque la coscienza di un progresso bloccato dalla preponderanza straniera. Prima di allora il profilo del continente meridionale era talmente basso, da nascondere tutto, persino la stessa esistenza di quei problemi. Per dare un esempio di come le valutazioni dei riformatori si basassero su dati concreti, basti ricordare che il contenzioso riguardava specialmente un fattore meno evidente e non facilmente computabile in termini economici: il volontario spostarsi dei marinai meridionali dai legni nazionali verso la dominante flotta francese, dove, a paritaÁ di `soldo', godevano una sicurezza esistenziale incomparabilmente maggiore. I riflessi di tutto V. Oltre la metaÁ del secolo 265 questo sul costo delle assicurazioni metteva fuori mercato gli armatori `regnicoli' 75. 11. Il contrabbando: punto critico del contrasto ed affare di Stato Tanucci aveva ben valutato che un aspetto dei rapporti commerciali tra la Francia e le Sicilie si collocava al centro della contesa: il contrabbando della nazione dominante. Il fenomeno assumeva un'importanza maggiore di quanto si possa pensare, perche diventava il fattore che bloccava, ossia rendeva stabile, il modello di sviluppo parassitario delle Sicilie ed impediva ogni tentativo di poterlo correggere. Si valutino, ad esempio, i contraccolpi negativi che ne derivavano sui rendimenti dei fiscali e degli uffici di regio patrimonio alienati, sia percheÂ, in un'economia parassitaria e fondata sulle «catene» del debito pubblico (P. Giannone) come quella dell'Italia meridionale, il prezzo del contrabbando era pagato dalla «gente di campagna», per l'impossibilitaÁ che essa aveva di aggirare i divieti e le imposizioni, e dalla gente di cittaÁ, per l'aumento della pressione fiscale a causa della scarsa redditivitaÁ degli arrendamenti frodati. Se eÁ vero che un esito positivo alla lotta al contrabbando alla fine avrebbe presumibilmente ridotto il volume dei traffici tra i due paesi, tuttavia il peso che l'intera societaÁ meridionale sopportava per questo fenomeno era di sicuro piu alto degli immediati ricavi 76. 75 Sulle assicurazioni marittime, cfr. i numerosi studi di Franca Assante, ed in particolare, Il mercato delle assicurazioni marittime a Napoli nel Settecento. Storia della ``Real Compagnia'' 1751-1802, Giannini, Napoli 1979. Piu di recente e grazie ad un inquadramento critico molto ben centrato, Eadem, Il privegio e il rischio. Storia di un fallimento annunziato, in «Frontiera d'Europa», 1997, n. 1, pp. 5-63. 76 Romano ha osservato che se la politica di repressione del contrabbando avesse avuto successo il commercio franco-napoletano sarebbe diminuito e ci si sarebbe trovati di fronte all'ostacolo che lo aveva per lungo tempo intralciato: le condizioni di privilegio tariffario concesse all'Inghilterra e alla repubblica genovese e le clausole del trattato stipulato tra l'Olanda e le Due Sicilie. Il problema, tuttavia, va al di laÁ dei dati economico-commerciali, falsati da un altro piu complesso e che va ricostruito nei tempi lunghi, in rapporto alla politica francese di alleanza con l'Oriente, instaurata fin dai tempi di Francesco I, e che richiedeva come sua condizione indispensabile il controllo delle vie d'acqua verso est, ossia lungo le coste italiane. La fase immediatamente precente e seguente la caduta di Tanucci fu caratterizzata da molti equivoci: la politica francese vide nello statista toscano il nemico dei 266 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Ma su questo aspetto eÁ lacunoso ogni giudizio che spieghi il fenomeno soltanto in rapporto al volume ed ai ricavi dell'affare illecito, senza guardare alla complessitaÁ degli altri meccanismi, alle dinamiche politiche ed agli effetti di questa attivitaÁ sulle societaÁ interessate. L'esperienza napoletana avvenuta con l'istituzione della Soprintendenza della Regia Azienda e con il conferimento a Giovanni Brancaccio delle delegazioni degli arrendamenti, se ebbe l'effetto d'inasprire la lotta al contrabbando, aveva da subito insinuato il dubbio sull'utilitaÁ di misure proibizioniste. Per Giovanni Pallante ± che scriveva nel 1737, ossia proprio quando Brancaccio stava organizzando la sua politica in teoria razionalmente rigorosa ± i contrabbandi erano «puramente necessari», essendosi data, con le misure prese dal governo napoletano (la datio in solutum del 1648), «la potestaÁ regia agli appaltatori di corte ed agli officiali commissari e squadre di assassinare e scorticare e scomponere la gente». In conseguenza erano stati «caricati i pesi e le imposizioni di laÁ del convenevole», al punto che «se si voglia pagare le imposizioni per intero, ed i diritti estorti dagli uffici e le maledette formalitaÁ, si perde la maggior parte del prezzo della roba che si contratta» 77. Pallante lamentava che la repressione del contrabbando giovava al parassitismo degli «affittatori ed ufficiali di corte», ossia ad una «moltitudine di assassini». D'altra parte egli aveva giaÁ chiaro il rapporto tra il disarmo viceregnale del Regno (ossia il crollo dell'armamento militare, fattore che invece era ancora molto curato dagli Aragonesi) ed il collasso del commercio. Insisteva sull'insegnamento «delle cose militari ne' colsuoi interessi, eppure, in realtaÁ, il quadro internazionale, intanto, preparava la svolta, voluta da Acton ancor prima del 1789, e diretta alla sostituzione dell'influenza inglese a quella francese. Ma il tentativo diretto a rimediare al trend di lungo periodo fu travolto dall'avventurismo della corte napoletana, dalla Rivoluzione e poi dalla Restaurazione. 77 Cit. da R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, in Storia di Napoli, vol. VII, Ed. Storia di Napoli, Cava dei Tirreni 1972, p. 601. Questo brano era nella vecchia ed. di Pallante, Lo stanfone, a p. 109. Ora, nella nuova ed., Giovanni Pallante, Memoria per la riforma del regno, «Stanfone», 1735-1737, a cura e con ampia presentazione di Imma Ascione (dal titolo «Uno ``stanfone'' per il Regno», pp. 7-110), Guida, Napoli 1996, eÁ a p. 243. Cfr. anche supra, cap. IV, nt. 76. V. Oltre la metaÁ del secolo 267 legi» e sulla necessitaÁ di «nobilitare la milizia», ed inseguiva l'illusoria e fantastica immagine delle azioni di forza contro i nidi dei pirati, sull'esempio di quanto aveva fatto Luigi XIV mandando la sua flotta a bombardare nel 1682 Algeri 78, nonostante che quella reggenza (come poi ricordoÁ Genovesi) schierasse in prima linea i prigionieri sudditi francesi, esposti al fuoco amico: difficoltaÁ angosciosa che non spostoÁ minimamente la violenza dell'azione militare e ne rafforzoÁ il significato emblematico. Dunque Pallante chiedeva forza internazionale e coraggio nella difesa degli interessi nazionali: doti che non eÁ facile acquisire ex abrupto, quando abitudini e tendenze plurisecolari hanno consolidato la realtaÁ di rapporti internazionali sperequati e sono diventate formae mentis di una popolazione e di un ceto politico. EÁ da notare una coincidenza cronologica significativa, anche in riferimento alla narrazione che saraÁ il contenuto del seguente capitolo: l'anno 1774 fu un momento critico dello scontro commerciale. Marsiglia in special modo era divenuta un approdo malfido per le navi battenti bandiera napoletana. Peraltro, Tanucci aveva attaccato proprio il cuore del sistema mercantile francese nel Mediterraneo, raddoppiando la tariffa dei diritti d'uscita delle merci regnicole non trasportate su legni nazionali. Il 9 aprile 1774, nel corso di un burrascoso colloquio con il primo ministro, l'ambasciatore francese e quello inglese avevano esposto le ragioni del loro dissenso per questa misura. A muso duro Tanucci aveva loro risposto che «tous les Rois eÂtaient les maõÃtres chez eux [...], ce droit [cioeÁ quello d'imporre tasse] ne regardait que les marchands, ne pouvait en aucune manieÁre inteÂresser les cours». L'ambasciatore francese Breteuil, come egli stesso racconta, avrebbe voluto controbattergli che tutte le nazioni commercianti si sarebbero subito rivoltate contro la soluzione protezionistica adottata, e che il Regno correva il rischio di trovarsi isolato nel contesto internazionale. Tuttavia, conoscendo, da un lato, la «purezza» etica che ispirava le azioni politiche del ministro, e con78 Per le cit. da Pallante, ivi, pp. 120 e 176 (Aragonesi), 228-9 (collegi e milizia), e 232 (Algeri). 268 R. Tufano, La Francia e le Sicilie vinto, dall'altro, che la misura non sarebbe durata a lungo, preferõ non insistere 79. Se nelle aspre dichiarazioni ufficiali, nelle confidenze agli amici e nella concreta azione di Tanucci abbiamo visto una faccia della medaglia delle relazioni franco-napoletane lungo la seconda metaÁ del Settecento, l'altra faccia, quella francese, eÁ scarsamente conosciuta. Un documento interessante dell'ideologia che ispirava la politica di «potenza» praticata dal governo francese nei confronti delle Due Sicilie eÁ rappresentato dalle anonime Observations relatives aux inteÂreÃts de la Cour de France aÁ Naples, datate 1776 80. In una sessantina di 79 L'azione di Tanucci diretta a sostenere la marineria napoletana incontrava (oltre alle opposizioni esterne, qui prese in particolare considerazione) enormi difficoltaÁ interne, poste in essere dagli interessi parassitari che si erano modellati anche in base all'assetto internazionale. Unanimemente Genovesi ed i suoi allievi (cfr. infra, i doc. editi da Cancila, nt. 95 e s.) notarono che fino a quando il mercato dei noli fosse rimasto `privativo' di altre nazioni, una qualunque politica di sostegno dell'economia napoletana sarebbe fallita: chi trasporta, impone il prezzo della merce. Intorno a questi problemi, Tanucci acquisõ dal docente di commercio una chiara sensibilitaÁ specialmente dopo la caduta di Montealegre, di cui avversava, anche per gelosia politica, lo spirito di avventura. Tuttavia, in tema di commercio, il rapporto tra quadro internazionale ed interno era giaÁ chiaro prima delle diagnosi di Genovesi. Eloquenti sono, a questo proposito, le quattro memorie, redatte tra il 1732 ed il 1737, di Federico Valignani di Cepagatti (Riflessioni), di Gregorio Grimaldi (Considerazioni), di Giuseppe Borgia di Valmezzana (Relazione), ± pubblicate recentemente in «Frontiera d'Europa», a cura risp. di Giuseppe de Tiberiis, di Renata Pilati e di Raffaele Ajello, le prime due nel numero doppio 1-2 del 2001 e la terza nel n. 2 del 2002: cfr. in part., della terza, il cap. XI, «Del Commercio dentro e fuori regno» ± e la Memoria per la riforma del Regno, di Giovanni Pallante, di cui infra, nt. 77). Gli statisti che cercavano di difendere l'economia delle Sicilie erano destinati alla sconfitta dall'oggettiva convergenza delle opposizioni internazionali ed interne. All'origine delle difficoltaÁ meridionali era la debolezza militare del regno: di qui la politica di armamento navale di Acton e Maria Carolina, consigliata da Ferdinando Galiani e destinata a produrre il fallimento del bilancio statale e delle banche napoletane, ossia il collasso prima interno e poi internazionale delle Sicilie. Tutto questo eÁ la riprova che i piccoli Stati non potevano realizzare una politica di difesa dei loro interessi essendo vasi di coccio tra quelli di ferro. Come si puoÁ leggere nell'abreÂge premesso alla Relazione di Borgia, Galiani (ispirandosi al pensiero realistico di Machiavelli) aveva compreso appieno questa legge, ossia l'ineluttabilitaÁ dell'oppressione dei forti sui deboli, e percioÁ non chiedeva piu commercio, ma «armamento e virtu militari». 80 A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1. Il documento eÁ numerato da p. 119 a 148, ma possiede una sua numerazione originale da p. 1 a 60. Anonimo, contiene annotazioni di pugno di Vergennes. Le Observations si dividono in quattro parti: MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi de Naples de n'eÃtre tenu aÁ aucun des traiteÂs contracteÂs par les Rois ses preÂdeÂcesseurs, fonde sur la possession de ces Etats aÁ titre du droit de conqueÃte (pp. 123-5), V. Oltre la metaÁ del secolo 269 pagine, corrette ed annotate di pugno dal ministro Vergennes, sono enucleate in ordine cronologico tutte le colpe di cui si sarebbe reso responsabile il governo borbonico nei confronti della monarchia francese. Il documento inizia con il tono e con le argomentazioni di chi pensa che, non solamente «il n y a plus des PyreneÂes», ma che, con l'avvento al trono napoletano di Carlo di Borbone, «il n'y a pas des Alpes, ni des Appennines»: «lorsque la France a procure l'eÂtablissement d'un Prince de la maison de Bourbon sur le troÃne des deux Siciles, elle s'est flatteÂe sans doute que le nouveau Roi, inspire par la reconnaissance, et par la notion de son inteÂreÃt, aurait pour elle toute la deÂfeÂrence convenable, et qu'il formerait entre les deux couronnes un lien, d'autant plus durable, qu'il serait assure par l'avantage commun» 81. Secondo l'estensore della memoria, la falsa opinione del principio di sovranitaÁ nazionale per diritto di conquista portoÁ Carlo di Borbone ed il suo ministero ad allontanarsi dalla strada della giuste relazioni con la famiglia dei Borbone di Francia: «la cour de Naples fournit, peut eÃtre, le premier exemple d'un prince sans Etat qui aurait gagne une couronne par les secours d'autres puissances, pour les regarder ensuite comme libre de tout engagement avec elles, parce qu'on Lui donnait les moyens de conqueÂrir son Royaume» 82. Un'ingenuitaÁ commessa dalla corte francese fu invece di non prevedere nel trattato di pace del 1738 un'esplicita norma regolatrice dei rapporti tra le due nazioni. Allora, da parte francese «on s'est contente de garantir au nouveau Roi les secours de la France et de l'Espagne» 83. Ma l'Infante aveva conquistato il trono in nome e per MeÂmoire sur les griefs que la Cour de France a justement aÁ reprocher aÁ celle de Naples (pp. 12529), MeÂmoire sur les avantages qu'offre le commerce des deux Siciles (p. 129-31), MeÂmoire sur les inconveÂnients qui reÂsulteraient de la visite des baÃtiments francËais dans les Etats de sa majeste sicilienne (p. 131-48). 81 Ivi, MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi de Naples, p. 123v. 82 Ibidem. 83 Ibidem. 270 R. Tufano, La Francia e le Sicilie conto di suo padre Filippo V e, pertanto, «le royaume de Naples et de Sicile ont eÂte reÂunis aÁ la monarchie espagnole. Les traiteÂs qui existeÁrent entre Sa majeste catholique pour tous ses Etats avec les puissances eÂtrangeÁres comprennent les dites Royaumes» 84. Invece, «Le ministeÁre napolitain ne tarda pas aÁ adopter un systeÁme destructif des avantage de cette conqueÃte. Il eÂtablit hautement [? o falsamente] comme le principe de ses mesures avec les puissances eÂtrangeÁres, que le roi de Sicile posseÁdent ses Etats par droit de conqueÃte, et n'eÂtant tenu a aucun des engagements signeÂs par les Rois ses preÂdeÂcesseurs» 85. Rispetto alle argomentazioni usate dalla diplomazia francese per la Spagna ± nelle quali il topos centrale rimaneva quello arcaico di una questione dinastica regolata da un diritto familiare ± i riferimenti agli obblighi del regno di Napoli verso la Francia vengono in questo MeÂmoire ricondotti tutti all'interno della logica di un diritto internazionale, come quadro di riferimento supremo. Alla base di questo diritto si collocava una questione di «morale» politica: le Sicilie erano tornate alla Spagna perche occorreva far fronte ad una probabile rottura justi potentiae equilibrii in Italia per «le pouvoir exorbitant de la Maison d'Autriche» 86. Ma le Sicilie erano da subito divenute nemiche delle logiche dello sviluppo economico francese, e il suo ministero «osa enfin porter un coup deÂcisif par l'eÂdit du Roi Charles pour la formation d'un tribunal du commerce en 1739» 87: «ces eÂtablissements eÂtaient contraires aux privileÁges des nationaux, autant [...] des eÂtrangeÁres. Les premieÁres profiteÁrent d'une circonstance heureuse pour deÂterminer sa majeste sicilienne aÁ reteindre les faculteÂs de ce tribunal, sur tous les points ou il leur reÂussit». 84 Ivi, p. 125v. Ivi, p. 119v. A margine eÁ scritto che di quest'atteggiamento s'erano sempre lamentati gli ambasciatori francesi a Napoli. 86 A margine, Vergennes segnalava che l'articolo del preliminare del trattato in questione prevedeva che «le Royaume de Naples et de Sicile appartiendront au Prince qui en est en possession, et qui sera reconnu Roy par toutes les puissances qui prirent part aÁ la pacification»: ibidem. 87 Ivi, p. 120. L'ostilitaÁ francese contro quella magistratura ne prova la validitaÁ. 85 V. Oltre la metaÁ del secolo 271 12. Vergennes contro la giurisdizione napoletana di commercio Le circostanze relative alla nascita del Supremo Magistrato del Commercio, lo spirito per il quale era stato creato e le vicende successive alla sua introduzione sono state descritte con efficacia da Raffaele Ajello 88. Istituita proprio sul modello francese, questa magistratura s'inquadroÁ nell'ampia politica realizzata da Montealegre al fine di rilanciare la produttivitaÁ delle Sicilie. La strategia fu sviluppata sul versante interno e su quello internazionale. Sul piano della politica interna, la creazione del Supremo Magistrato del Commercio ed ancor piu dei Consolati di terra (che si andavano ad aggiungere a quelli di mare giaÁ esistenti), avrebbero dovuto sottrarre la materia commerciale alle vecchie magistrature, realizzando una giustizia dotata di specifica competenza, rapida ed efficiente. Il tentativo s'inquadra nella strategia diretta a sviluppare la produzione economica del Regno ed il commercio internazionale. Per ottenere questo scopo era necessario sia creare un organo tecnico e giurisdizionale, diretto per un verso ad individuare gli intralci alla produttivitaÁ ed a consigliare al governo provvedimenti per migliorarla, e per un altro verso capace di rimediare alle lungaggini del sistema giudiziario napoletano. Inoltre, mediante le sezioni periferiche, s'infliggeva un duro colpo alle corti feudali. L'iniziativa era chiaramente ispirata al modello che era stato faticosamente realizzato in Francia dal cancelliere Michel de l'Hospital tra il 1560 ed il 1563 a Parigi ed in molte altre cittaÁ del reame. Alla istituzione napoletana furono attribuiti analoghi compiti, nel quadro di una politica di rilancio dell'economia e del commercio. Ma mentre in Francia l'audace iniziativa del cancelliere aveva suscitato una serie interminabile di resistenze da parte dei parlamenti, che erano stati privati di un potere esclusivo gelosamente custodito, nei 88 Sulla istituzione di questa magistratura (30 ott. 1739), gli ampi compiti giurisdizionali, la lotta intrapresa contro di esso dalle magistrature ordinarie e dalla feudalitaÁ, e la progressiva riduzione delle sue funzioni in coincidenza del «tramonto del ``tempo eroico''», cfr. R. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metaÁ del secolo XVIII, I, La vita giudiziaria, Jovene, Napoli 1961, pp. 146-68 e La vita politica napoletana cit. in nt. 77, pp. 650-1. 272 R. Tufano, La Francia e le Sicilie regni di Napoli e di Sicilia (dove le opposizioni dei togati furono altrettanto forti e nel giro di pochi anni prevalsero, portando ad un drastico ridimensionamento della magistratura) il nuovo tribunale suscitoÁ in particolare la reazione della feudalitaÁ 89. Dalla riforma, voluta da Montealegre e realizzata da Francesco Ventura e da Pietro Contegna, fedeli amici di Giannone, fu dunque particolarmente colpita la giurisdizione baronale, poiche il rito semplificato, il minor costo della procedura e le maggiori garanzie delle nuove magistrature periferiche, cosõ istituite, sottrassero una parte cospicua di potere giurisdizionale alla feudalitaÁ, e dimostrarono che lo stato era anche lõ presente. I risultati della riforma furono molto positivi, tanto eÁ vero che NiccoloÁ Fraggianni, dall'inizio ostile al tentativo, riconobbe i meriti della magistratura, e scrisse: il Consolato «che qui [a Napoli] si eÁ stabilito si sperimenta giaÁ profittevole». Contemporaneamente lo stesso giurista e magistrato pugliese si adoperoÁ a far pervenire al principe Bartolomeo Corsini «i lumi necessari per poter riuscire questo nuovo magistrato in sollievo quiete e beneficio del pubblico» anche in Sicilia 90. In ambito internazionale il segretario di Stato Jose JoaquõÂn de Montealegre, marchese e poi duca di Salas, puntoÁ sul momento particolarmente felice dei rapporti tra la madre patria spagnola e le Sicilie per tentare quanto lo stesso imperatore Carlo VI si era adoperato a realizzare in varie occasioni, con esiti fallimentari. Lo statista sivigliano, uomo di cultura moderna afrancesada, d'accordo con Genovesi e con la migliore scienza economica e politica del Mezzogiorno continentale ed insulare, era convinto che l'involuzione delle Sicilie derivasse dalla debolezza della sua economia nel quadro degli spietati rapporti di forza dominanti nel Mediterraneo centrale 91. Tutta la parte bassa dello Stivale, dal Garigliano a Pan89 Sull'istituzione di questa magistratura in Francia, cfr. L. Petris, La plume et la tribune. Michel de l'Hospital et ses discours (1559-1562), Droz, GeneÁve 2002. 90 NiccoloÁ Fraggianni, Lettere a B. Corsini (1739-1746), a cura di Elia del Curatolo, Jovene, Napoli 1991, let. XXX, pp. 66-7, 16. gen. 1740. 91 Supra, nt. 79. Con Tanucci l'accordo fu in gran parte limitato dallo scontro delle due politiche personali e divenne pieno in una fase, per cosõ dire, `postuma', ossia successiva al 1746, ossia alla caduta del governo di Montealegre. V. Oltre la metaÁ del secolo 273 telleria, era stretta a tenaglia da una duplice pressione: del sottosviluppo islamico nordafricano e dalmata, esportato attraverso le razzie piratesche, e dalla protezione che a quelle imprese espoliative era accordata a piene mani dalla potenza francese. Quest'ultima ricavava due chiari vantaggi da quell'alleanza, uno diretto ed uno indiretto: l'efficace penetrazione commerciale nelle instabili organizzazioni politiche islamiche, che vivevano prevalentemente di pirateria, e la quasi totale preclusione all'autonomo sviluppo dei noli ed in genere delle attivitaÁ mercantili delle Sicilie, stato di fatto per cui l'economia del Mezzogiorno era tenuta ad un livello di dipendenza coloniale, di cui si avvantaggiava il commercio francese. Quando si nota la positivitaÁ del bilancio commerciale napoletano a vantaggio del grande Paese transalpino, bisogna tener presente cioÁ che due acuti osservatori siciliani scrissero alla fine degli anni ottanta: frase giaÁ in parte riportata in questo libro, ma cui eÁ necessario dare la massima importanza perche in poche righe sintetizza il punto focale dei rapporti economici tra la Francia e le Sicilie: «Le nostre derrate tanto vagliono quanto gli esteri incettatori vogliono che valessero»; la nostra economia «viene offesa e ridotta al niente dalla pirateria dell'Africani, e diressimo meglio se diressimo dalle avide mire di alcune nazioni europee, che la fomentano per il vantaggio del loro commercio» 92. Situazione di dipendenza coloniale, di cui era chiara l'influenza sull'involutivo modello sociale: «le vessazioni continue [...], avendo scoraggiata la nazione, l'hanno intieramente distolta dal proficuo esercizio della nautica», e agiscono come una palla al piede sui progressi delle manifatture e del commercio 93. Il circolo vizioso cosõ instaurato avrebbe potuto esser spezzato solo se il regno di Napoli avesse potuto mettere in campo un forte potere militare marittimo: tentativo cui si pensoÁ piu tardi, per effetto delle velleitaÁ di potenza 92 Cit. da Orazio Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo, cit. cap. IV, nt. 61, p. 231 e p. 230. 93 Ibidem. 274 R. Tufano, La Francia e le Sicilie di Maria Carolina, consigliata da Ferdinando Galiani e da Acton. Per alcuni aspetti i rimedi furono peggiori del male. Nel primo decennio del regno indipendente Montealegre, uomo di Stato avventuroso ed ardito al limite della temerarietaÁ, si fidava anche troppo dell'appoggio militare spagnolo. Tra il 1735 ed il 1744, il governo napoletano cercoÁ di sottrarre le Sicilie alla condizione di passiva sudditanza economica dalle grandi potenze economiche e marittime: in effetti la sua azione fallõ ad opera dei nemici interni, non delle potenze estere. Il re Carlo fu sempre ostile all'idea d'impegnarsi su quel terreno minato, che era del tutto estraneo alla sua vecchia e statica visione nel mondo, e quindi della sovranitaÁ. A riprova che l'iniziativa napoletana diretta a creare una magistratura commerciale aveva investito un punto cruciale dei rapporti internazionali delle Sicilie disponiamo ora dei documenti di parte francese: eÁ significativo che il ministro Vergennes si soffermoÁ molto attentamente su quell'episodio ed aveva notizie precise di quei precedenti molto lontani nel tempo. Il suo interesse mostra che quel governo vigilava affinche il Mezzogiorno continuasse a fungere da zona di espansione per l'economia nazionale: in particolare il Sud era una riserva di materie prime a buon prezzo ed un mercato sostanzialmente libero per le manifatture. Gli impedimenti e gravami doganali napoletani addirittura giovavano, perche incrementavano il livello dei prezzi, ed erano facilmente aggirati grazie o al piccolo cabotaggio, indirizzato direttamente verso le fiere, o al contrabbando, praticato negli stessi porti, con legni di elevato tonnellaggio, il cui carico era nascosto dal divieto di visite a bordo. Prima Montealegre, poi Tanucci avevano cercato d'invertire la tendenza ad accettare passivamente tutto questo; ma l'inerzia era l'effetto anche di un certa insensibilitaÁ culturale e mentale per i temi del commercio e della produttivitaÁ. Era un atteggiamento tipico di una societaÁ dominata da due ceti, gli ecclesiastici ed i togati, entrambi impegnati ad esaltare le loro immagini sacerdotali, ed a procurarsi da vivere con eccessi di pudore e di finzioni; comportamenti che si trasmettevano alle mentalitaÁ collettive, e creavano false scale deontologiche e gravi ambiguitaÁ. Erano gesti gravi, perche si aggiun- V. Oltre la metaÁ del secolo 275 gevano al finto disinteresse per la ``vil moneta'', che era stato tipico della spiritualitaÁ medievale e che era rimasto proprio della nobiltaÁ (un tempo formato da uomini di spada, ed allora da redditieri). In definitiva tutti tendevano a mostrare di non sapere e di non voler badare a questioni ed attivitaÁ definite volgari, ed vantarsi di quella incapacitaÁ. Lo stesso Tanucci finiva per esserne condizionato. Re Carlo era l'immagine vivente di quel tipo di gestione economica. Non a caso la stessa storiografia meridionale d'indirizzo idealistico riprodotto inconsciamente segni di fastidio spirituale e morale che erano tipici dell'antico regime, e mentre ha esaltato le complicazioni gratuite di filosofi spesso visionari, come Vico, ha trascurato o considerato con sospetto e con evidente moralismo i rari tentativi diretti ad invertire quelle inclinazioni ataviche. Questi sono segni di una forma mentis in parte ancor oggi persistente, e che va corretta. Il presidente del Supremo Magistrato del Commercio, uomo d'intelligenza e di cultura superiore, universalmente stimato (anche da Vico che gli dedicoÁ il De Uno e da Doria che scrisse per lui l'importante trattato Del Commercio), fu accusato di aver creato quella magistratura mercantile solo per riacquistare il forte potere che aveva avuto nel Collaterale fino alla primavera del 1735, quando quel Consiglio fu soppresso. Pietro Contegna, in una Memoria ancora inedita, difese il collega e dimostroÁ la validitaÁ dell'iniziativa, che circa quarant'anni piu tardi, nel 1776, ancora Vergennes considerava per gli interessi francesi un pericolo, contro cui la diplomazia parigina si era a suo tempo adoperata con ogni mezzo. Egli ricordava la continua contrattazione tra poteri sulla materia dei limiti della magistratura commerciale napoletana, e citava l'esempio della «componenda» ottenuta dalla CittaÁ di Napoli nel 1746, «aÁ l'occasion de la demande d'un don gratuit» 94. Com'eÁ noto, i donativi erano gli strumenti mediante cui i difensori dello status quo ottenevano che esso fosse appieno restaurato ogni volta che era 94 MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi de Naples, cit. in nt. 80, a margine, p. 120r: «On peut juger par les remontrances de la ville de Naples aÁ Sa majeste sicilienne en 1746, aÁ l'occasion de la demande d'un don gratuit». L'episodio eÁ ricostruito da Ajello, La vita politica napoletana, cit. in nt. 77. 276 R. Tufano, La Francia e le Sicilie stato anche minimamente scalfito. Alle pressioni interne s'erano sommate quelle delle «nazioni amiche commercianti», dove, per Tanucci, governava il connubio mercantilismo-assolutismo: come dire la logica della sopraffazione contro il diritto delle genti, la prepotenza di una ragion di Stato che avrebbe continuato a trionfare su un'Italia da tempo coinvolta in una crisi allora irreversibile: «on sentit en France les inconveÂnients qui doivent reÂsulter du tribunal de Commerce. On fit de des repreÂsentations au ministeÁre napolitain, qui fit envisager ces eÂtablissements sur un point de vue avantageux, de sorte que la cour de France y consentit sur les conditions annonceÂes par celles de Naples» 95. Da quel momento ± lamentava ancora Vergennes ± «le ministeÁre napolitain n'a jamais abandonne son systeÁme, et ne s'est jamais eÂcarte du principe sur le quel il part» 96. Mancava l'interesse francese a stipulare un trattato di commercio tra le due nazioni. Bisognava fingere di voler condurre le trattative e procrastinarne sine die la conclusione. Un riferimento di Vergennes riguarda approcci ufficiali realizzati negli anni 1751-1755: vi lavorarono congiuntamente il marchese Fogliani e l'ambasciatore marchese Pierre Paul d'Ossun 97. Ma i personaggi coinvolti nelle discussioni non parevano ne d'alto profilo, ne concludenti. Nell'ambiente degli Affaires EÂtrangeÁres del Vergennes le quotazioni dell'ambasciatore d'Ossun erano basse. Una spia in Spagna lo aveva informato che il d'Ossun, avendo risieduto «aupreÁs du Roi d'Espagne depuis plus de vingt ans sans interruption et sans eÃtre revenu en France», era alla fine divenuto «plus espagnol que francËais». SiccheÂ, egli «regarde la protection particulieÁre du Roi d'Espagne comme l'appui le plus suÃr pour conserver son ambassade», e «en conseÂquence il ne s'occupe essentiellement comme 95 A margine: «M. de Maurepai, ministre de la Marine, le manda positivement par une deÂpeÃche aÁ M. de l'Hopital, qui lui avait adresse un meÂmorial relatif aÁ l'eÂtablissement du Tribunal du Commerce» (p. 120r). 96 Ivi, p. 120v. 97 Ibidem. A margine eÁ scritto che non si trova di questa elaborazione alcuna traccia dei depositi del ministero degli affari esteri, ma si afferma che M. l'Hopital e D'Ossun erano intervenuti nella stesura del testo. V. Oltre la metaÁ del secolo 277 M. de Grimaldi qu'aÁ plaire aux Espagnols». Inoltre, egli teneva un comportamento «passif» nel negoziare con la Corte spagnola. Infine, l'espion aveva concluso il suo ritratto con una dichiarazione sull'assoluta mancanza di professionalitaÁ del diplomatico francese: «on ne veut pas dire que M. D'Ossun trahõÃt pour cela son ministeÁre. Il en est tout aÁ fait incapable. C'est un treÁs honneÃte homme» 98. Quando Tanucci sostituõ Fogliani nella segreteria di Stato agli Esteri, il 1ë giugno 1755, inizioÁ una fase di stasi nelle discussioni sul trattato commerciale, riapertasi bruscamente durante il periodo 1762-1763. Tanucci aveva intenzione di praticare un certo rigore, a suo giudizio il massimo, ma che in realtaÁ era soltanto (sul piano razionale e prescindendo dalle circostanze) il minimo: dunque poca cosa, ma totalmente nuova e giudicata dai francesi blasfema. Infatti, dopo una fase di stasi, i rapporti tra i due paesi peggiorarono, perche «le ministeÁre napolitain par une longue expeÂrience est devenu plus hardi». Affermazione tanto significativa quanto compromettente, perche ammetteva che l'esperienza aveva fatto nascere l'ardimento: strategia giaÁ adottata da Montealegre e da Parigi temuta. Da allora in poi la diplomazia francese, cosciente che non erano favorevoli ai suoi interessi le nuove condizioni create dalla presenza di un personaggio dal carattere solido, scorbutico, scostante e da una gestione politica che cercava di migliorare il suo livello di razionalitaÁ e d'indipendenza, adottoÁ la pratica della dilazione e dei «veti incrociati», usata anche dagli inglesi. Rispetto a questi ultimi, tuttavia, la politica francese era del tutto diversa, perche era netta la differenza delle rispettive condizioni geografiche. Gli albionici erano soliti praticare (come Galiani descrisse, e lo si eÁ visto) il contrabbando nei confronti delle coste e delle popolazioni ad esse prossime, mentre con le Sicilie cercavano di stipulare patti, e (logicamente) li volevano A.A.EÂ., Espagna, MeÂmoires et documents, Observations particulieÁre sur le MinisteÁre d'Espagne, datate 24 novembre 1773, vol. 207, p. 153v. Anonime, tuttavia l'autore potrebbe essere individuato attraverso alcuni dettagli da lui rilevati sulla sua attivitaÁ, essendo un membro dell'ambasciata francese in Spagna. Egli dice infatti: «Je n'ai pont vu toute la correspondance avec la Cour de Madrid. Je ne connais bien que celle qui a rapport aÁ la deÂlimitation de deux Navarres dont Monseigneur (cioeÁ d'Ossun ndr) m'a charge». 98 278 R. Tufano, La Francia e le Sicilie iniqui, leonini, perche non si eÁ mai visto una pecora che prova a vessare una belva. I trattati non pervenivano a conclusione per altri motivi: la ricompra napoletana degli arredamenti, avviata tra mille difficoltaÁ, procedeva in modo disordinato e non era possibile offrire alla controparte inglese le condizioni chiare e stabili, che essi, abituati a programmare ed a far calcoli esatti, richiedevano. Eugenio Lo Sardo, che ha studiato con eccezionale acume e su fonti archivistiche inglesi l'andamento delle trattative tra Londra e Napoli, riferisce le opinioni di Giuseppe Palmieri, il piu realista degli illuministi meridionali: «I trattati non convengono ai popoli deboli: i patti non sarebbero convenzioni della volontaÁ libera delle parti, ma leggi dettate dalla piu potente imposta alla piu debole» 99. Lo stesso governo inglese, secondo Galiani, aveva dichiarato durante la guerra dei Sette anni «di non conoscere il diritto delle genti»: fantastico codice, ad essi ignoto, che comunque non aveva «luogo nel suo paese» 100. EÁ un'affermazione di cui eÁ da lodare la sinceritaÁ, dote che i francesi non potevano mettere in mostra perche non potevano riconoscere e dichiarare la veritaÁ, che invece eÁ rivelata da Lo Sardo: essi traevano giovamento dagli «alti dazi» posti da Napoli, grazie a cui le merci di contrabbando ricevevano un'aggiunta di prezzo oltretutto comoda ed economica da esigere 101. I francesi non avevano interesse a forzare la mano sul piano dei diritti del leone: si mostravano miti, distratti ed incerti, poiche potevano aggirare gli ostacoli ed ottenere risultati migliori senza stipulare patti. Essi erano in una situazione simile a quella in cui si trovavano le reggenze nordafricane: era impossibile compensare il reddito delle rapine, e gli eventuali accordi e pagamenti valevano solo come corruzione personale dei rais, personaggi che tuttavia cambiavano continuamente, e di rado per morte naturale. La corruzione era impensabile nelle trattative con i francesi: questa era una differenza basilare, che poneva le Sicilie in un mondo nettamente diverso, rispetto a quello transalpino. 99 E. Lo Sardo, Napoli e Londra nel XVIII secolo. Le relazioni economiche, Jovene, Napoli 1991, cit. p. 360. 100 Galiani, Opere, op. cit. (nt. 67), p. 719. 101 Lo Sardo, op. cit., nt. 104, p. 362. V. Oltre la metaÁ del secolo 279 13. Il minuetto diplomatico dei francesi Il MeÂmoire di Vergennes venne steso proprio nel pieno delle trattative ufficiali degli anni 1769-1777, iniziate sotto Tanucci e continuate dal Sambuca. Ma su questo argomento centrale della politica estera del regno di Napoli di quegli anni torneremo piu avanti in maniera piu diffusa. Per ora basti accennare all'atteggiamento d'insofferenza del Segretario di Stato francese per i comportamenti assunti da Tanucci: «il n'aurait d'autre appui pour leur garantir ses EÂtats que celui de l'Espagne, qui sera toujours insuffisant», e «si le Roi de Naples renonce aux traiteÂs, il fait une deÂclaration de guerre» 102. Salvo poi a rifiutar il progetto napoletano di trattato commerciale, ricevuto, tra la fine del 1777 e i primi del 1778. In quel momento ± a dire di Ferdinando Galiani ± «si manifestoÁ subito di quanta poca sinceritaÁ erano state le offerte di prontezza del conte di Vergennes»: «non volle piu sentirne parlare. Mai non ho avuta comunicazione di quali precise parole si fosse servito quel ministro per distogliersi dal venire ad una conclusione, che si trovava essersi sbilanciato a promettere. Solo mi fu detto in generale aver egli risposto che le occupazioni della guerra ardente coll'Inghilterra gl'impedivano di applicarsi ad altri oggetti» 103. Come nei minuetti, la diplomazia francese faceva un passo avanti ed uno indietro: questo era il movimento apparente, mentre quello reale si svolgeva lungo le coste meridionali. Rispetto alla nuova posizione assunta in politica estera da Louis XVI, l'idea di fondo concepita da Broglie, e diretta a realizzare un'unione intima delle corone borboniche, appariva veramente arcaica: se dal protettorato spagnolo le Sicilie fossero passate sotto la sfera d'influenza austriaca, per gli interessi francesi la questione non sarebbe cambiata afA.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi de Naples de n'eÃtre tenu aÁ aucun des traiteÂs contracteÂs par les Rois ses preÂdeÂcesseurs, cit. nt. 80, p. 122r. 103 F. Galiani, Breve racconto di quel che eÁ a mia notizia rispetto al Trattato di navigazione e commercio colla Francia, pubblicato da Diaz, L'abate Galiani, cit. in nt. 73, p. 909. 102 280 R. Tufano, La Francia e le Sicilie fatto. Non si vede perche Vienna avrebbe messo a rischio il cuore centroeuropeo della sua politica per un vecchio sfogo di pelle che creava un sia pur forte prurito alle sue estremitaÁ meridionali. La strategia s'inquadrava in una logica globale: da Fleury in poi, l'idea che la Francia non avesse da operare una politica d'accrescimento territoriale s'era andata pian piano imponendo. La monarchia francese doveva trarre la propria supremazia in Europa dal ruolo di arbitro tra le nazioni europee, in una continua ricerca di un equilibrio politico. La ricchezza dello Stato e le bonheur dei sudditi erano oramai legati al tesoro del commercio marittimo e coloniale. Liberata la Francia dai conflitti continentali, la sua classe dirigente avrebbe dovuto solamente incrementare e proteggere ogni attivitaÁ commerciale nazionale, per via diplomatica o manu militari. In un percorso governativo lungo piu di un trentennio, tre ministri degli esteri ± Choiseul, d'Aiguillon e Vergennes ± dimostrarono di non essere «meglio disposti d'animo verso Tanucci, e verso le Sicilie». E in Francia la leggenda nera sul ministeÂriat di Tanucci continuoÁ anche in anni piu lontani e in contesti politici oramai notevolmente mutati. L'11 floreale dell'anno quarto della Rivoluzione francese, nel ricordare i rapporti franco-napoletani negli anni Settanta, con il tono requisitorio della damnatio memoriae, fu scritto: «Il n'a jamais existe des TraiteÂs de commerce entre la France et Naples. Les francËais, au contraire, longtemps avant la ReÂvolution furent constamment exposeÂs aux vexations les plus reÂvoltantes dans les ports des Deux Siciles. Nos consuls meÃmes se virent deÂpouilleÂs d'une partie de leurs privileÁges par la malveillance du premier ministre Tanucci. [...] Cependant l'ancien gouvernement fit proposer en 1772 aÁ celui de Naples par le Baron de Breteuil un traite de Commerce qu'on regardait comme l'unique moyen de mettre un frein aÁ la malveillance de Tanucci, et de soustraire les marchandises aux droits excessifs dont elles eÂtaient graveÂes. Mais ce ministre despote parvint par son influence aÁ empeÃcher l'ouverture de cette neÂgociation» 104. 104 A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 5, Du deÂpoÃt des relations exteÂrieures le 11 floreÂal an 4me (pp. 304r-5v). V. Oltre la metaÁ del secolo 281 Le nazioni forti, quando hanno realizzato una posizione dominante sul commercio dei paesi deboli, contraggono una specie di habitus ad esercitare quella coazione, e giudicano un'offesa da punire con le armi i tentativi di sottrarsi a quella dipendenza. EÁ una legge che ebbe vigore costante durante l'Antico Regime e fu contraddetta soltanto da pochi intellettuali cosmopoliti, ad esempio da Rousseau 105. Uomo di un genio esemplare, dimostrato anche in questa occasione: egli non cadde nell'inganno di giudicare che fosse una realtaÁ abortiva e contro natura ogni forza vitale, di ogni singolo e di ogni popolo, ossia che fosse in genere da condannare la tendenza della vita ad esser vissuta. Questi idioti ostracismi sono scelte moralistiche in realtaÁ molto nocive, poiche servono a nascondere la veritaÁ ed a confondere le menti, in base alla (ben fondata) convinzione che quanto piu le idee diventano astratte, metafisiche, confuse, tanto piu si prestano ad essere eterodirette, ossia strumentalizzate. Il collaudo sperimentale sottrae le vittime ai santoni, che possono dominare le menti solo rendendole inerti mediante l'oppio delle posizioni non dimostrabili. Il sacerdote Antonio Genovesi trasse dalla stessa linfa culturale, circolante nella vecchia quercia europea, un realismo ideale simile a quello di Rousseau. Il maestro comune fu Machiavelli. Il Ginevrino, ligio e fedele al suo realismo ideale, comprese che dalla concretezza dello Stato, quando eÁ (come era in Francia) espressione di un patto sociale liberamente condiviso, nasce anche la superiore concordia globale, ossia la valutazione fraterna delle esigenze vitali presenti ed incoercibili in ogni uomo, dovunque si trovi a vivere. Il problema del terzo millennio eÁ la globalitaÁ, ed eÁ tanto piu sentito da ciascun popolo quanto piu la religiositaÁ metafisica si sia 105 «Considerando i nostri bei discorsi e i nostri orribili modi di procedere, tanta umanitaÁ nei princõÂpi e tanta crudeltaÁ nelle azioni, una religione cosõ dolce e una cosõ sanguinaria intolleranza, una politica cosõ saggia nei libri e cosõ dura nella pratica, dei capi cosõ benefici e dei popoli cosõ miserabili, dei governi tanto moderati e delle guerre tanto crudeli, a mala pena si riesce a conciliare queste strane contraddizioni: e la pretesa fraternitaÁ dei popoli europei sembra solo un termine derisorio, usato per esprimere ironicamente la reciproca animositaÁ»: Jean-Jacques Rousseau, Scritti sull'Abate di Saint-Pierre, in Idem, Scritti politici, a cura di Maria Garin, vol. II, Laterza, Bari 1971, p. 324. 282 R. Tufano, La Francia e le Sicilie tradotta in religione civile. Questa eÁ l'idea di Rousseau. PercioÁ la transizione attraverso il culto della famiglia e poi una fase d'imperialismo nazionale costituiscono un percorso obbligato, imposto dal senso innato della concretezza, che si soddisfa, si sazia, e chiede di piuÂ, ossia postula ulteriori esigenze coerenti, piu ampie e piu alte: ma cioÁ avviene solo se alla base di tutto sono posti sentimenti autentici, non falsitaÁ. La caduta di Tanucci s'iscrive nel trend di lunga durata, che per alcuni, non marginali, aspetti di carattere economico internazionale qui si eÁ cercato di tratteggiare. Quel ciclo ebbe inizio nel 1739, quando si tentoÁ di avviare per le Sicilie una politica di recupero dell'imprenditoria commerciale (anche con la prammatica del 1740 per il richiamo degli ebrei). La reazione contro il Supremo Magistrato del Commercio, espressa da un voto del Parlamento di Palermo, fu giaÁ un momento della opposizione che poi il partito siciliano avrebbe esercitato contro Tanucci e che prevalse totalmente solo alla fine del 1776. La `tutela' economica sulle Sicilie, esercitata dal governo francese ± influenza che era chiara a Tanucci e fu da lui limpidamente espressa nella citata lettera a Cantillana (21 giu. 1766) ± fu un motivo costante ed ineluttabile, che ebbe le sue origini ai tempi di Francesco I: fu richiesta dalla strategia del re Cristianissimo orientata verso est e diretta a creare un ponte tra la Francia e la Porta ottomana. Alleanza con Venezia e soggezione delle Sicilie: questi furono i capisaldi di quella politica. Di qui la protezione alla pirateria nordafricana, i reiterati tentativi di riconquistare il regno di Napoli dopo il crollo dell'estate 1528. Allora il fallimento della spedizione francese del Lautrec e subito dopo il passaggio di Andrea Doria dalla parte di Carlo V, nell'autunno di quell'anno, indussero Francesco I a potenziare i vincoli con la potenza ottomana. L'influenza diplomatica poteva di piu di quanto non si realizzasse con gli interventi armati. D'altra parte, lo stesso Carlo III, dopo la caduta del governo tanucciano, ch'egli non seppe evitare, si rese conto di doversi occupare di piu della `vile' materia commerciale. Nel 1778 Cadice, dov'era concentrata la piu importante colonia di case mercantili fran- V. Oltre la metaÁ del secolo 283 cesi, fu privata di un netto privilegio, la gestione quasi esclusiva sul commercio con le colonie. In seguito i ministri di Carlo III soppressero i vantaggi fiscali goduti da alcune manifatture francesi e, nel 1782, fu adottata una nuova tariffa doganale che intendeva proteggere le manifatture spagnole 106. Nel periodo che corre tra la Dichiarazione americana d'indipendenza (4 luglio 1776) e l'anno 1783, Francia e Spagna fecero fronte comune contro l'Inghilterra, con il pretesto di sostenere gli insorti delle tredici colonie d'oltre Atlantico. Ancora prima del suo ingresso in guerra, avvenuto nell'aprile 1779, la Spagna aveva infatti deciso quella politica di appoggio alle rivendicazioni antinglesi. Dal 1776 al 1777 il conte d'Aranda, ambasciatore spagnolo in Francia, aveva rimesso a Vergennes tre milioni di lire tornesi, destinate alle societaÁ di Caron de Beaumarchais che rifornivano mercanzie ai rivoluzionari americani 107. In seguito la guerra fu sostenuta finanziariamente in Spagna dal progetto di FrancËois Cabarrus: anche in questo caso con la compartecipazione massiccia di capitali francesi 108. 14. Conclusioni: obbligati a non uscire dal medio evo Prendere piena coscienza e dimostrare con documentazione inedita la tesi che la pressione economica e commerciale francese fu una costante quasi obbligata, indotta dal trovarsi il Mezzogiorno sulla via d'acqua piu gelosa per la corte parigina, eÁ uno dei punti d'arrivo cui siamo pervenuti. Sono cosõ smentite le affermazioni di critici poco attenti, secondo cui sarebbe presente nella storiografia qui condivisa e sviluppata la tendenza a giudicare valide tutte le idee ed iniziative che provenivano dalla Francia, mentre sarebbe errato, passatista ed irrazionale tutto cioÁ che si rifaceva alla tradizione spagnola. Esaltare lo spagnolismo come se fosse amor di patria eÁ una forma di fideismo che si puoÁ spiegare solo come residuo di una mera 106 Cfr. Zylberberg, Une si douce domination, cit. (cap. I, nt. 47), p. 87 ss. Cfr. P.C. De Beaumarchais, Oeuvres compleÁtes, Laplace, Sanchez et Cie, Paris 1876, vol. VII, p. 202. 108 Cfr. Zylberberg, op. cit. (cap. I, nt. 47), p. 265 ss. 107 284 R. Tufano, La Francia e le Sicilie ortodossia. Le ricerche di cui qui sono pubblicati i risultati si collocano nella corrente interpretativa che giudica attivo e propulsivo il modello di sviluppo franco-inglese, dei cui benefici sviluppi l'Europa si eÁ avvalsa moltissime volte, da Poitiers in poi. Molti dati di fatto confermano la razionalitaÁ di quel paradigma. Non a caso fu adottato anche in Spagna, in Italia ed altrove dai gruppi culturalmente piu progrediti. Non c'eÁ dubbio che esso si eÁ imposto nel mondo intero ed ancora oggi vale dovunque, tranne che dove ci si ammazza per motivi in gran parte astratti. Siamo in attesa che contro quel modello ne emerga un altro migliore, o comunque piu gradito alle popolazioni che lo hanno adottato: ma non pare che questa soluzione sia in vista. PercioÁ, rendersi conto di dove i caratteri della civiltaÁ francese provengono non eÁ gratuito per noi come, ad esempio, studiare le origini delle idee dei talebani. EÁ storia nostra; che oltretutto, per contrapposizione, illumina molti limiti della civiltaÁ subalpina, che ancora in parte sussistono. EÁ necessario risalire ai decenni di transizione tra evo antico e medio. Fu allora che la civiltaÁ franca vide consolidarsi le sue basi, e Parigi divenne la capitale di un regno, che poi sempre piu s'identificoÁ con un modo ben preciso di pensare la collettivitaÁ, come portatrice di valori comuni e condivisi. EÁ stato dimostrato di recente da Ajello che la sopravvivenza della metafisica nella forma diabolica annulloÁ in parte il progresso realizzato dalla logica parigina nel secolo dodicesimo, che fondoÁ i progressi della conoscenza sul dubbio, sulla dialettica, sulla discussione tra tesi diverse. La sconfitta della magia celeste, ossia della Predestinazione, intesa come forza coattiva ed invincibile, aveva lasciato un certo spazio alla magia nera. Il colpo definitivo anche a questa seconda assurditaÁ fu inferto nel 1580 da Montaigne, giurista e magistrato capace di concepire il diritto come un segno delle condizioni esistenziali e non come una loro camicia di forza, cucita non si sa bene da chi. Infatti, contemporaneamente, Bodin fu per la validitaÁ della magia. Resi esperti dall'operare giornaliero, furono magistrati e medici i riformatori francesi che, a partire dal Cinquecento, segnarono alla metaÁ del Seicento, quando morõ Cartesio, il culmine di un processo iniziato circa mezzo millennio prima, cioeÁ quando Roscel- V. Oltre la metaÁ del secolo 285 lino da CompieÁgne e poi Abelardo negarono ogni valore giuridico alla magia celeste. Per Robert Mandrou, quando Dio e Satana cessarono d'intervenire nella vita ordinaria degli uomini, questa nuova concezione restituõ al genere umano ed alla natura un'autonomia che la confusione ammessa in passato tra naturale e soprannaturale rendeva impossibile 109. Mandrou scrisse che tale traguardo «fu un risultato raggiunto dal funzionamento globale della macchina giudiziaria della monarchia (francese)». PercioÁ Ajello coglie in fallo Voltaire da cui non correttamente fu sostenuto (nel Dictionnaire philosophique), che la «filosofia da sola» aveva guarito gli uomini da questa «abominevole chimera e aveva insegnato ai giudici a non bruciare gli imbecilli» (ad vocem «Bouc»). In quella tesi antifilosofica eÁ presente la polemica del philosophe contro il profilo tradizionale delle scienze. Ajello invece giustamente ha sostenuto che nessuna scienza in Francia aveva agito da sola: «fu filosofica l'opera dei giuristi e dei magistrati che trassero dalla loro esperienza professionale e dal dibattito in corso in Francia tra consuetudini e diritto romano, tanto da riconoscere come mere abitudini le (pretese) strutture mentali ontologiche» 110. Le prove a sostegno di quest'affermazione sono nelle biografie di Montaigne, di Descartes, di Montesquieu e di alcuni altri, che segnarono con le loro opere il percorso della civiltaÁ europea. La sostanziale differenza tra la struttura costituzionale della nazione d'Oltralpe da un lato, di quella spagnola e dell'Italia meridionale dall'altro, fu ad ogni pie' sospinto richiamata negli scritti diplomatici o di politica internazionale di parte francese come la radice del discrimen ch'essi operavano tra nazioni policeÂes e non. La Francia e l'Inghilterra erano state molto prima del secolo XVIII modelli di efficientismo politico ed economico da seguire. Come tra i secoli XIII e XIV, Tommaso d'Aquino e Marsilio da Padova si erano trasferiti a Parigi per trovarvi un ambiente adatto ai loro studi, 109 Magistrats et sociers an France au XVIIe sieÁcle. Une analyse de psycologie historique, Plon, Paris 1968. 110 Ajello, EreditaÁ, cit. cap. I, nt. 24, p. 354. 286 R. Tufano, La Francia e le Sicilie cosõ durante tutto l'evo moderno i migliori intellettuali d'Europa affluirono a Parigi per gli stessi motivi; ma nel Settecento gli spiriti sensibili di Montesquieu e di Voltaire guardavano Oltremanica. Era dunque nella percezione della superioritaÁ costituzionale della Francia e dell'Inghilterra la vera ed unica giustificazione delle logiche prima di dominio (durante gli anni di Luigi XIV), e, dopo la metaÁ del secolo, d'influenza culturale e di controllo politico. Durante le fasi che abbiamo descritto, a queste logiche s'ispirarono le iniziative tardomercantilistiche e le strategie estere francesi: erano le stesse operazioni che a Napoli i contemporanei avvertivano come privazione del proprio mare Mediterraneo, a loro estraneo e da non affrontare, al massimo da contemplare. Al piu ± come descriveranno nel loro epistolario da Parigi a Napoli (e viceversa) due protagonisti di quelle vicende, Tanucci e Galiani ± del Mediterraneo ai napoletani ed ai siciliani toccava fare un uso timido e minore, cioeÁ quello della navigazione sotto costa, con feluche capaci di salvarsi chiedendo soccorso ai remi, quindi capaci di procedere contro vento, nella direzione preclusa ai legni di maggior tonnellaggio, che erano attrezzati soltanto con le vele. La differenza tra le due forze di trazione sul mare, la muscolare e la eolica, fornisce un'immagine concreta dello stato d'inferioritaÁ cui la marineria meridionale era stata per secoli condannata dalle circostanze avverse: fu costretta a restare nel medio evo. Questa condizione di disagio era la conseguenza di un circolo vizioso complessivo, da cui fu difficile uscire, poiche la concorrenza delle economie piu progredite vi si opponeva. 287 VI LA CORTE DI NAPOLI PROBLEMI E PROTAGONISTI DEGLI ANNI SETTANTA 1. Breteuil a Napoli: l'inizio della diplomazia «libertina» Di recente eÁ stato dimostrato che, a metaÁ del secolo dei Lumi, tra i ceti dirigenti delle maggiori nazioni europee emerse un corpo diplomatico dotato di solidarietaÁ interna, e che in quel gruppo venne a maturazione una nuova idea dell'Europa politica. Coscienti della loro speciale posizione rispetto ai ceti dirigenti nazionali, i ministri presso le corti straniere formavano un ambiente capace di elaborare idee proprie. All'interno della loro specifica specializzazione professionale era possibile, spesso necessario, trasgredire alle istruzioni o alle linee direttive imposte dalla politica centrale. I diplomatici possedevano propri codici deontologici, che si formavano e si adattavano alle varie realtaÁ di corte 1. Tuttavia il loro spirito unitario era utile agli interessi dei loro committenti ± monarchi, ministri, partiti nazionali e fazioni di corte ± e una conversazione con un ministro di un'altra potenza poteva rivelare piu di un sofisticato atto di spionaggio. Ovviamente questa vita intima alla diplomazia non puoÁ trasparire dagli atti ufficiali che ci pervengono. Spesso, il vero gioco diplomatico non era condotto nei luoghi immaginati come deputati ad elaborare le decisioni del potere, ma nei corridoi dei palazzi, nelle sfarzose feste in costume, presso i tavoli da gioco, persino nelle alcove. Uno degli artefici di quello stile diplomatico fu l'ambasciatore francese a Napoli, Louis-Auguste Le Tonnelier, barone di Breteuil, arrivato nella capitale partenopea nel luglio del 1772, e richiamato a Parigi nello stesso mese del 1774. Egli era un personaggio politico di alto profilo nella Francia della seconda metaÁ del Settecento. Nipote dell'abate de Breteuil, cancel1 Un'ottima messa a punto della «sociologia» diplomatica eÁ l'opera di BeÂly, op. cit. (cap. I, nt. 13). 288 R. Tufano, La Francia e le Sicilie liere del duca d'OrleÂans, inizioÁ la sua carriera come militare. Notato da Louis XV, sicuramente per gli uffici del duca di Choiseul, del quale era amico e fedele, fu dapprima inviato a Copenhague e, nel 1758, come ministro plenipotenziario, a Colonia e in Russia (1760-1763). In seguito fu nominato ambasciatore in Svezia (1763-1767), in Olanda (1767-1769), a Vienna (1770), a Napoli (1772-1774), e poi di nuovo a Vienna (1774-1783). Tanucci scrisse che quest'ultima promozione fu la ricompensa per aver destabilizzato lo politica delle Sicilie. Iniziato al Secret du Roi il 26 febbraio 1760, egli impersonoÁ, fino alla partenza per Napoli, la diplomazia parallela 2, tanto da esserne uno dei principali agenti. SembroÁ che la nomina nella capitale delle Sicilie fosse stata per Breteuil una sorta di punizione, inflittagli da Louis XV perche scoperto appartenere al partito di Choiseul 3. In quegli anni, per un 2 Cfr. la lettera di Broglie a Louis XV del 26 feb. 1760, pubblicata da G. De Raxis de Flassan, Histoire geÂneÂrale et raisonneÂe de la diplomatie francËaise, depuis la fondation de la monarchie jusqu'aÁ la fin du reÁgne de Louis XVI, 2ë ed., Paris 1811, t. VI, p. 289. 3 Cfr. la lettera di Broglie a Louis XV del 17 mar. 1771, pubblicata da AntoineOzanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 2ë vol., let. n. 355: «J'ai vu hier en arrivant aÁ Versailles M. le baron de Breteuil; il m'a paru peÂneÂtre de la plus vive douleur. Il m'a communique la lettre qu'il a eu l'honneur de Lui eÂcrire, ou il expose les raisons qui rendent sa preÂsence et ses services beaucoup plus utiles aÁ Vienne qu'ils ne pourraient l'eÃtre aÁ Stokolm. J'ose espeÂrer que Votre Majeste daignera y avoir eÂgard [...]» e la risposta del re del 18 marzo: «J'ai recËu la lettre du baron de Breteuil. C'eÂtait moi uniquement qui avais imagine de l'envoyer en SueÁde dans ce moment-ci, comme plus au fait qu'un autre; il n'y ferait pas le bien que j'en attendais. Je n'y pense plus. A l'eÂgard de Vienne, si c'eÂtait un triomphe pour le parti Choiseul, il n'y irait pas non plus [...]», in Boutaric, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 1ë vol., p. 419, në CCCXLVI. Tre giorni dopo Vergennes fu nominato ambasciatore in Svezia, malgrado Breteuil «avait opeÂre le miracle de la reÂunion de la cour avec notre parti et qui, ayant la confiance geÂneÂrale, aurait pu rendre les plus grands services» (Broglie a Louis XV, 29 settembre 1769, in AntoineOzanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 2ë vol., lettera n. 322). Poi, il 30 giugno 1771, d'Aguillon aveva detto al Breteuil che il principe Louis de Rohan era stato nominato ambasciatore a Vienna al suo posto, assicurandogli che il re gli avrebbe offerto la «premieÁre grande ambassade vacante» (A.A.EÂ., Correspondance politique, Autriche, vol. 316, f. 393), lasciandogli credere che sarebbe stato destinato a Londra (su questo affare, cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 2ë vol., le lettere n. 374, 376, 377). Ma durante l'estate del 1771 scoppioÁ uno scandalo provocato dal segretario del conte de Guines, ambasciatore a Londra e cugino di Breteuil. Tort de la Sonde aveva accusato l'ambasciatore d'aver speculato su fondi inglesi, approfittando d'informazioni strettamente confidenziali. Pare che lo stesso Breteuil avesse chiesto al d'Aiguillon e VI. La corte di Napoli 289 diplomatico che era stato titolare all'ambasciata di Vienna, ogni trasferimento che non fosse un posto nel governo centrale sarebbe stato una capitis deminutio. Come vedremo, con ogni probabilitaÁ la sede napoletana non fu casuale. Certo eÁ che ± come i fatti seguenti provarono ± l'influenza francese nel Mezzogiorno d'Europa fu oggetto di una partita decisiva, che si giocoÁ allora proprio nelle Sicilie; appare comprensibile la strategia d'inviare sul posto un diplomatico aggressivo, sfrontato, incline ad un certo avventurismo e pronto a tutto per recuperare il suo credito che appariva in declino. Bisognava tentare il tutto per tutto, se si voleva recuperare un'influenza che per un verso, quello austriaco, appariva sfuggente e per un altro verso, quello spagnolo, era da Tanucci condizionato da difficoltaÁ tali, da apparire quasi offensive per la grandeur francese. Il PreÂcis des instructions donneÂes aÁ M. le baron de Breteuil par M. le duc d'Aiguillon, datato 1 maggio 1772, insisteva sul tema del Patto di Famiglia, sulla successione delle Due Sicilie, sul ruolo di Maria Carolina e sugli affari dei gesuiti di Corsica. Le istruzioni erano state inviate da Broglie al re, che a margine vi aveva aggiunto alcune sue disposizioni. Nel paragrafo relativo alla Compagnia di GesuÂ, alla richiesta di Broglie e di Breteuil di conoscere le reali intenzioni del re sui problemi della restituzione d'Avignone e dell'estinzione della Compagnia, Louis XV scriveva: «Nous n'avons plus de JeÂsuites en France depuis ma deÂclaration. Peu m'importe qu'ils soient eÂteints ou non. Mais l'Espagne le deÂsire et mon ambassadeur aÁ Rome est autorise aÁ seconder celui d'Espagne» 4. E si premurava d'avvertire Breteuil affinche evitasse di seguire in queste materie le idee di Choiseul, avvertendolo che «les principes [de] Choiseul sont trop contraires aÁ la reÂligion et, par contre-coup, aÁ l'autorite royale». E, quando Broglie e Breteuil chiedevano un ina Louis XV di mantenere l'ambasciata al cugino, per smentire le accuse di la Tort, cfr. J. de Witte, Journal de l'abbe de VeÂri, t. I, Paris 1933, pp. 278-80, J.N. Moreau, Mes souvenirs, t. 2, Paris 1901, pp. 125-42, SeÂgur, Au couchant de la monarchie. Louis XVI et Turgot, Paris 1909, p. 207-16. 4 Il PreÂcis in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, Supplements, vol. 5, ff. 13-5. 290 R. Tufano, La Francia e le Sicilie dirizzo preciso sul Patto di Famiglia, il re chiudeva seccamente ogni apertura di discorso, ordinando a Breteuil di non intromettersi «de ce qui ne le regarde pas». Con questo viatico l'ambasciatore era arrivato a Napoli il 2 luglio 1772, accompagnato dalla figlia, AngeÂlique-Elisabeth, e dal neo-genero, Louis-Charles-Auguste Gouyon conte di Mantignon, che morõÂ, di lõ a poco, in un tragico incidente di caccia 5. Al seguito v'erano Henri Gouguet, segretario, e il marchese Marc-Marie Bombelles, consigliere d'ambasciata 6. Nel corso dei due anni di vita napoletana, l'ambasciatore francese ± definito dal Tanucci «brulotto, intraprendente, e intrigante», che «non facendosi mai carico ne dei fatti, ne della ragione, si mette in tutto e nel discorso passa subito ad inveire» ±, fu uno dei protagonisti della scena politica 7. La sua attiva presenza a Napoli ± come denunciava Tanucci ± d'agente d'intrighi, di leghe e di complotti eÁ testimoniata dal fitto carteggio ch'egli intratteneva con Versailles. Nella capitale delle Sicilie, a partire dagli anni Settanta, la conquista del ``corazoÂn'' della regina divenne il primo impulso per carriere molto rapide e prestigiose; ed a sfruttare queste occasioni non erano solo i nazionali, ma anche i diplomatici stranieri, per ragioni di Il conte di Mantignon era nato nel 1755 e morõ a Napoli nel 1773. La giovane coppia si era sposata in aprile, e il contratto di matrimonio era stato firmato a Versailles dal re e dalla famiglia reale. Era questa la ragione per cui la partenza di Breteuil era stata differita. Per Broglie, il genero di Breteuil era «un des meilleurs partis du royaume», cfr. lettera a Louis XV del 22 mar. 1772, in Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 2ë vol., let. n. 388. 6 Henri Goguet fu ammesso al Segreto il 24 luglio del 1771, con la paga di 2.000 lire tornesi annue, cfr. A.N., K 157, në 46, Louis XV a Broglie, A CompieÁgne 24 luglio 1771. Secondo Breteuil, giunto a Napoli Goguet si dedicoÁ «aÁ tous les exceÁs de la passion la plus effreÂneÂe pour le jeu», cfr. A.A.EÂ., Personnel, 1 seÂrie, t. 35, ff. 386-98. Marc Marie marchese di Bombelles (1744-1822) entrato in servizio statale nel 1757, partecipoÁ alla guerra dei Sette anni. In seguito prestoÁ servizio, a titolo di privato, per Breteuil, che seguõ in Olanda (1767-1769), a Napoli (1772-1774), ma come consigliere d'ambasciata. Fu ministro plenipotenziario a Ratisbona (1775), ambasciatore a Lisbona (1785-1788), poi a Venezia (17891791). Con la rivoluzione si dimise dall'incarico e fu uno degli agenti piu importanti dell'emigrazione. Dopo la morte della moglie, fu ordinato prete, divenendo vescovo di Amiens nel 1817 (A.A.EÂ., Personnel, 1 seÂrie, t. 9, f. 266-95). Fu iniziato al segreto alla partenza per Napoli, con la gratifica di 3.000 lire tornesi. 7 Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23, a Losada, 26 lug. 1774. let. në 340. 5 VI. La corte di Napoli 291 carriera (l'inteÂreÃt) e per affari internazionali (la foi) 8. Di lõÂ, nei tardi anni Settanta, ad opera specialmente degli ambasciatori spagnoli e torinesi, si diffuse una gran mole di rivelazioni sulla pericolosa mistura di sesso e di potere nella corte napoletana e sui costumi dei regnanti. Alcune di quelle affermazioni furono tanto ben documentate e talmente gravi da far nascere il timore che la coppia reale finisse per esser destituita. Precocemente rispetto a questa gravissima vicenda, giaÁ nell'ottobre del 1774 Tanucci scriveva al Losada: «Grazie doviamo alla Divina Providenza per averci liberati dall'ambasciatore BreteuõÈll. Oltre l'insofferenza, e irritabilitaÁ estrema, e iraconda, e maldicenza continua con ogni genere di persone, si scoprõ gran cabalista, qual egli non difficoltava di manifestarsi, e professarsi; aveva giaÁ cominciato a praticar la cabala colle femine, per esse si metteva negli affari, e giaÁ aveva spesse conferenze colla Regina, la quale ha totalmente preso; e, secondo li documenti della Termoli, con mostrarsi disgustata, e continuamente querelandosene, ha soggiogato il buon marito, il quale conosce, soffre, e compiace per quieto vivere. Sia detto questo a V. E. colla dovuta riserva. Io l'avrei volentieri tenuto in seno, anche perche confidatomi dal Confessore del Re, col quale la M. S. si spassiona, se non mi sentissi vicino a finire, e al dover prima di finire metter questa veritaÁ in notizia d'un amico del Re Padre, che possa farne il piu discreto uso. La Regina aveva giaÁ data la sua confidenza a BreteuõÈll. Beata cotesta Corte [ossia quella di Spagna], ove non usa il francesismo di farsi gli affari colle femine! 9» La notizia, fornita con tanta precauzione, era chiaramente diretta alle orecchie del re Carlo, di cui Jose Miranda Ponce de LeÂon, duca di Losada, era stato il piu intimo e fedele tra gli amici d'infanzia. Era l'unica persona che, vivendo giornalmente insieme al re, poteva parlare in assoluta confidenza al sovrano, assicurare il segreto ed evitare il pericolo di uno scandalo, da molti atteso, ma che Tanucci stesso voleva evitare: volontaÁ dimostrata dall'aver scelto il duca come destinatario della confidenza. Come si sa, la corti vivono di 8 9 Cfr. infra, par. 6, Guerra dei sessi e potere nella «cour de Naples». Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23, let. në 464, 18 ott. 1774. 292 R. Tufano, La Francia e le Sicilie questa materia torbida, eÁ il loro pane quotidiano, e molti spagnoli aspettavano rivelazioni di quel genere, per dimostrare la folle leggerezza, la frivola superficialitaÁ, la scandalosa mancanza di gravitaÁ del modo di vivere italiano, che invece era stato esaltato anche troppo dalle defunte regine: prima da Elisabetta e poi, per breve tempo, ma ancor piu intensamente, da Maria Amalia 10. Il nuovo ambasciatore francese a Napoli, il barone di Breteuil, era uomo di cui Tanucci intuitivamente diffidava, anche perche il suo stile di vita era stato sempre, anche da giovane, l'opposto di quello che il francese ostentava. E questi si riveloÁ, alla fine, non solo un libertino entrato in sospetta «confidenza» con la regina, ma un pericoloso «gran cabalista». Tardi lo statista toscano si rese conto che quelle «cabale» avevano uno scopo molto grave dal punto di vista non solo internazionale ma anche personale: la sua rovina. Quando Breteuil era in procinto di chiudere la sua fase napoletana ed era in attesa di altra destinazione, Tanucci fu spinto a denunciare i suoi sospetti sulla tresca regale e superoÁ i comprensibili indugi ed ogni riserva. Il motivo piu attendibile di questa imprudenza eÁ che solo cosõ poteva scongiurare l'eventuale pericolo d'un ritorno a Napoli del francese. Costui, infatti, rimpatriando, si aspettava la probabile nomina al piu alto grado del governo francese: la prima Segreteria di Stato. Se non fosse riuscito in quell'impresa, il ritorno in una sede tanto fortunata e (per vari motivi) gradita, sarebbe stato probabile. Ma nella competizione, alla fine, il diplomatico fu sconfitto dal suo antico rivale di carriera, il conte di Vergennes. Proprio in questo caso la destinazione napoletana si sarebbe realizzata e Tanucci, comunque, la aveva evitata. Sulle circostanze del siluramento di Breteuil, l'abate de VeÂri offre una testimonianza interessante, se sfrondata da alcuni elemen10 Il brillante carteggio tra Maria Amalia e Tanucci, conservato in vari legajos dell'Archivo General de Simancas, eÁ stato trascritto da Pablo VaÂzquez GestaÂl, e saraÁ a breve da lui pubblicato, nel quadro di una collaborazione italo-spagnola. Il giovane storico galiziano eÁ specificamente esperto della vita di corte, come ha dimostrato nel suo pregevole El espacio del poder. La corte en la HistoriografõÂa modernista espanÄola y europea, Universidad de Valladolid, Valladolid 2005. VI. La corte di Napoli 293 ti rivelatori dell'eccesso di narcisismo dell'autore. Per il posto di ministro degli Affaires eÂtrangeÁres il nuovo re di Francia aveva da scegliere tra due candidati: il nostro ambasciatore (che era amico di Choiseul), e Vergennes, ambasciatore in Svezia. VeÂri assicura di aver personalmente fatto pendere la bilancia in favore del secondo, convincendo Maurepas che Breteuil era ambizioso, pericoloso e «d'une droiture peu assureÂe»: «Je sais qu'il passe pour avoir plus de talent que M. de Vergennes: soit! Quoique je doute qu'il en ait de veÂritable, mais la droiture de M. de Vergennes vous rassure sur le deÂfaut d'harmonie. Ce sera votre affaire aÁ vous de suppleÂer ses lumieÁres puisque vous ne voulez pas prendre ce deÂpartement comme je vous conseillais. Vous trouverez chez lui une grande connaissance de deÂtails, un travail assidu et la droiture d'intentions 11». La testimonianza di Soulavie aggiunge altri elementi per la comprensione dei criteri di scelta del nuovo ministro, e tra questi spicca l'equilibrio di Vergennes nei confronti dell'alleanza con l'Austria. Da questa fonte sappiamo, quasi a convalidare la validitaÁ del giudizio di VeÂri, che «Ce fut le Roi lui-meÃme, sans aucune influence de M. de Maurepas, qui l'appela au ministeÁre; Mme AdeÂlaõÈde y contribua. Les meÂmoires du feu Dauphin l'ayant indique d'ailleurs comme un politique pacifique, sage et eÂleve dans la connaissance des inteÂreÃts de la maison de Bourbon, le Roi, ferme dans sa reÂsolution d'opposer un tel personnage aux partis et aux intrigues que la Reine, Marie-TheÂreÁse, sa meÁre, et l'Empereur s'efforcËaient d'eÂtablir en France, deÂpeÃcha lui-meÃme deux courriers avant l'arriveÂe de M. de Maurepas» 12. Dunque era stato il re in persona a decidere contro Breteuil. Questo intervento fa supporre che il moscerino messo da Tanucci nell'orec11 Journal de l'abbe de VeÂri, pubblicato a cura di J. De Witte, Paris 1928-30, vol. I, pp. 106-8 (corsivo aggiunto). 12 J.L. Soulavie, MeÂmoires Historiques et Politiques du ReÁgne de Louis XVI, Paris An X (1801), t. I, p. 285, e t. II, pp. 159-60. Sulla scelta in funzione anti-austriaca di Vergennes, cfr. anche Mercy-Argenteau, Correspondance SecreÁte avec l'empereur Joseph II et le Prince de Kaunitz, Paris 1884, t. I, p. 80. 294 R. Tufano, La Francia e le Sicilie chio di Losada abbia compiuto il suo segretissimo volo fino al re di Francia, o che almeno fosse entrato nelle sue stanze piu intime. Non era volatile da mandare in giro, specialmente da parte di chi conosceva le doti di Carlo (per altro ben note). Il figlio di Elisabetta Farnese era uomo molto pio, timorato di Dio fino alla superstizione, nei rapporti con l'altro sesso era estremamente controllato, gelosissimo custode della morale, del prestigio, del rigore: valori intesi in una versione del tutto tradizionale, spagnolesca. Il buon nome, l'immagine un po' greve, la serietaÁ e la severitaÁ caratterizzavano l'intera sua corte; credibilitaÁ che, da quei punti di vista, aveva subõÂto una falla profonda con Leopoldo De Gregorio e con la Castropignano, entrambi di recente coattivamente rispediti a Napoli da Carlo, nonostante la sua singolare tendenza a sostenere il proprio punto di vista, anche quando era palesemente sbagliato. I comportamenti irreprensibili sul piano dell'etica e del costume erano al primo posto nella deontologia del re: collocazione del tutto comprensibile nella mente di un uomo che vedeva il mondo fatto apposta per fargli mettere in mostra lo splendore della sua regalitaÁ e la sua sovrana magnanimitaÁ. Era la logica di Pangloss, tutt'altro che singolare nei decenni finali dell'Antico Regime: ad esempio, secondo la ben nota immagine ironica di Voltaire, si riteneva che la forma del naso fosse stata creata cosõ per sostenere gli occhiali. Il primato del prestigio (insieme a ben piu validi motivi di politica internazionale) indussero il re di Spagna a salvare piu tardi l'immagine pubblica di Ferdinando IV e di Maria Carolina da uno scandalo internazionale che sarebbe stato particolarmente inglorioso (ma forse utile) per la dinastia. Dal canto suo, l'imperatrice d'Austria, per motivi politici, avrebbe preferito Choiseul o Breteuil. Tuttavia, Vergennes non dispiacque a Maria Teresa, con la sola riserva per i rapporti che lo legavano alla casa di Rohan, da lei odiata per via dell'incidente diplomatico che Louis de Rohan, il famoso «cardinal collier», aveva provocato nel periodo della sua ambasciata a Vienna 13. 13 Mercy-Argenteau, Correspondance SecreÁte avec Marie-TheÂreÁse, Paris 1875, t. II, pp. 187-8. VI. La corte di Napoli 295 2. Due protagonisti, tra libertinismo e politica: Breteuil contro Tanucci La scelta di Vergennes quale primo Segreterio di Stato del re di Francia piacque ed incuriosõ gli ambienti della corti di Spagna e di Napoli, come testimonia una lettera inviata da Tanucci a Grimaldi il 5 luglio 1774: «V. E. mi fa la grazia di comunicarmi il nuovo Teatro, che ha aperto nella sua Corte il giovane Monarca nella Sua Francia colla mutazione totale del Ministero, e mi fa l'altra di spiegarmi il carattere che V. E. medesima scoprõ in Annover di Vergennes, quando era problematica l'union di quella Corte colla Spagna. Dio voglia ch'egli abbia conservata quella savia opinione di fortificar l'unione, la quale, se salvoÁ li francesi nell'ultima guerra, presentemente dal grado di utile eÁ passato a quel di necessaria. Furon poco fa li soli Inglesi che ordiron di negare il Dritto delle Genti sulla frivola controversia per d'Eon; ma li divisori della Polonia calpestan totalmente tutti li vincoli della societaÁ. Non eÁ piu sicura l'Europa, e l'Asia dalle incursioni dei Goti, dei Longobardi, dei Vandali, dei Tartari. Tutta quella barbarie sovrasta alle nazioni culte, innocenti, morigerate, religiose, quando saraÁ colla Regina Imperatrice spenta in quelle parti la religione. Talento, e applicazione di Vergennes anche dal nostro Ludolf mi veniva scritta, quando egli era ambasciatore di Francia alla Porta. Ludolf, per compiere il carattere, diceva trovarvi qualche poco presuntuosa l'ostinazione nelle sue opinioni, la quale, se non si eÁ moderata cogli anni, e con qualche disgrazia che l'indecente suo matrimonio gli portoÁ, potrebbe nuocere agli affari nell'alto Ministero, nel quale eÁ tanto necessaria quella docilitaÁ, che Salomone chiedeva a Dio per ben governare li suoi popoli» 14. Per Tanucci, specialmente in quel momento, l'aggettivo «frivolo» era quasi sinonimo di «barbaro», indicava comunque qualcosa di nettamente contrario a «cultura, innocenza, morigeratezza, religione». In una lettera del 14 giugno 1774 a Losada (come vedremo) aggiunse a questi caratteri negativi la perfidia greca e l'inganno sopraffino di Sinone. Miscuglio luciferino cui egli contrapponeva la «convenevole misura» umanistica, ossia la trasformazione dello status quo in deon14 Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23 (corsivi aggiunti). 296 R. Tufano, La Francia e le Sicilie tologia, secondo lo stile di Baldassar Castiglione e di monsignor Della Casa. Il Galateo di quest'ultimo, secondo lui, era stato inviso a Giannone, che lo aveva stravolto, perche trascinato dal suo «spirito libertino e britanno». Cosõ lo statista aveva scritto oltre vent'anni prima, il 13 febbraio 1751 15, ed ora, nel 1774, riceveva di quelle idee l'ennesima, dolorosa conferma. I francesi avevano adottato il modo di pensare britanno guardando oltre Manica, e percioÁ avevano nettamente voltato le spalle all'Italia. Egli stesso stava per farne le spese. In linea generale, secondo Tanucci, a quella epocale e disastrosa deviazione non poteva esservi che un rimedio: la «docilitaÁ», dote fornita da Dio stesso agli uomini di Stato «per ben governare». Non eÁ necessario compiere nessun volo di fantasia per vedere, dietro questa netta contrapposizione di valori, il conturbante profilo di Maria Carolina. La capacitaÁ di ponderare senza impazienze, era la dote di Carlo di Borbone che Maria Carolina aveva messo, con un crescendo impressionante, a dura prova. La intellettuale intimitaÁ della regina con Ferdinando Galiani non aveva certo aiutato la giovane regina alla prudenza, che in genere non faceva parte dell'educazione impartita alle figlie di Maria Teresa. La difficoltaÁ di rapporti tra suocero e nuora era ovvia: lei possedeva tutti gli aspetti caratteriali che erano odiosi al re di Spagna. In primo luogo, il gusto delle novitaÁ e del gioco intellettuale, la vivacitaÁ e la spregiudicatezza: per Carlo erano offese alla `gravitaÁ' insopportabili. Leggendo la serie (a volte giornaliera piu che settimanale) dell'Epistolario tanucciano, si nota che solo dopo aver sofferto la stagione del terremoto politico palermitano (che esamineremo), ossia dopo aver sopportato tutto il seguito delle rivolte siciliane, lo statista grafomane comprese che Breteuil era un suo nemico, non generico, ma specifico. Prima, osservando quei comportamenti, si fece distrarre da altri aspetti, che erano piu mondani e di corte, e che egli vide come espressione di un carattere poco diplomatico. Forse in Breteuil il riuscito tentativo di realizzare una certa intimitaÁ con la regina fu 15 Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Jovene, Napoli 1976, pp. 247-8. VI. La corte di Napoli 297 soltanto lo strumento gradevole della sua vera missione a Napoli: distruggere l'apparato dell'influenza spagnola nel regno italiano, sistema aggrappato ad un gancio molto solido, Tanucci. In realtaÁ lo scontro si estendeva ad una contrapposizione di stili e di modi di vivere, che era stata innescata dalla cultura francese fin dal sedicesimo secolo e che si fondava sulla dialettica tra ortodossia e critica. Indubbiamente Roma era la capitale della prima, Parigi della seconda. Passando dal tema serio della teoresi (non eÁ questo il luogo dove trattarlo) al gusto mondano della prassi, il contrasto era tra la «frivolezza» francese e la «gravitaÁ» spagnola. Il colto letterato toscano possedeva un ingegno agile, dunque incline piu a mordere che a masticare. Ma non gli mancava uno stomaco robusto, atto a ruminare ed a digerire anche le pietre. Alcune forti esperienze esistenziali si erano sovrapposte a quel gusto giovanile e naturale incline alla spigliatezza, per cui esso si era fuso con una tendenza assai piu pesante, addirittura plumbea, al moralismo. Aveva agito su di lui la formazione giuridica, che eÁ causa, in chi non ha dote di scetticismo e d'ironia, di una pesantezza paralizzante; quella «rogna» (cosõ scrisse) gli era stata trasmessa da Giuseppe Averani. Contro quella `malattia' aveva cercato di reagire giaÁ a Pisa con tutte le sue forze: poi era riemersa specialmente attraverso il contagio letterario. La causa piu energica della trasformazione `seriosa', subõÂta quando era giaÁ maturo, venne dalla naturale idiosincrasia che in ogni spirito autentico e schietto nasce da una carriera politica, quando essa eÁ sfortunata e subordinata, ossia quando si eÁ costretti a vivere da cortigiano: allora o ci si piega o ci si spezza. Tanucci si era piegato, non si era spezzato. Una realtaÁ oscena aveva agito nell'appesantire, ed in effetti nel render piu cauto il suo estro brillante: la constatazione di quanto fossero futili quei valori mondani, di quanto fossero volgari e vuoti quegli interessi spirituali ed universali in ogni momento vantati ed insozzati, di quanto fosse intessuta di finzioni la vita apparentemente splendida e disgraziata di quei servi umilissimi, vestiti da padroni 16. Il disgusto che la sua fondamentale e robusta 16 Per cogliere questi aspetti del carattere di Tanucci eÁ necessario leggere alcune 298 R. Tufano, La Francia e le Sicilie moralitaÁ gli suggeriva, lo aveva condotto a ritornare sui suoi passi. Non completamente, peroÁ. A condurlo verso una sintesi nuova fu la formidabile conoscenza della letteratura classica. Essa costituiva per lui un patrimonio che (al contrario di quanto era avvenuto in Montaigne, uomo dotato di ben diverse doti teoretiche) non gli dava scetticismo e leggerezza, anzi lo ancorava a qualcosa di solido. Il compromesso tra le due tendenze fu singolare e fu la `cifra' del suo stile: il suo spiritello mordace fu frenato, ingabbiato in una paludata veste umanistica. Unione spuria che, sfortunatamente, lo spinse contro la cultura illuministica: i philosophes, per essere integralmente realisti e pragmatici, dovevano attentamente spogliarsi di tutti i fronzoli, anche se non fossero ammennicoli, ma sostanza; per demolire il tono ieratico della vecchia cultura, dovevano armarsi d'ironia, che da sempre eÁ lo strumento capace di rimuovere le piu tenaci scorie dell'ipocrisia. Ma ritorniamo dalla descrizione dei personaggi ed all'esame dei problemi. Se si considera quanto erano forti, profondi, radicati nel commercio, nella navigazione e nella politica orientale, oltre che nell'economia, gl'interessi francesi per il periplo delle coste meridionali, ci si rende conto che la contrapposizione tra l'ironica leggerezza volterriana e la plumbea gravitaÁ umanistica nascondeva altre due coppie di atteggiamenti dialettici: binomi che, a loro volta, riguardavano due aspetti contrapposti della realtaÁ specificamente italiana. Per un verso l'empirismo ed il problematicismo illuministico si collocavano contro il dogmatismo, e questa era a sua volta legato alla difesa dello status quo. Per un altro verso la libertaÁ di pensiero ed il liberismo afrancesado agivano contro gli interessi economici francesi, protezionisti in patria e liberisti all'estero. A parte il contrabbando, che era piu facile da praticare proprio dalla Provenza verso il Mezzogiorno, il commercio, grande e piccolo, di quella nazione non poteva fare a meno di costeggiare la Calabria e lettere scritte da lui prima e durante il suo approccio ed apprendistato nella corte borbonica e pubblicate con la consueta intelligenza e finezza da Imma Ascione, Al servizio dell'infante duca. Bernardo Tanucci alla corte di Carlo di Borbone nell'estate del 1733, in «Frontiera d'Europa», anno VI, 2000, në 1, pp. 37-144. VI. La corte di Napoli 299 di passare attraverso lo stretto di Messina. Le reti create per gli scambi in frode dei dazi erano minute, ed avevano reso quelle coste quasi domestiche. Percorrendo i fianchi della Corsica si sarebbero potute evitare le insidie dell'alto Tirreno; ma la parte bassa di quel mare e lo Jonio non potevano in nessun modo essere aggirati. Il commercio francese verso l'oriente aveva il suo polmone nel Sud, e rischiava la morte per asfissia se quella via fosse stata bloccata: a parte quest'ipotesi remota, ogni nuova vischiositaÁ giuridica generava nei naviganti e mercanti francesi un'asma insopportabile, e Tanucci di quel diritto era un maestro, anzi un professore. Rievocando i motivi della scelta di Breteuil per l'ambasciata francese a Napoli, Tanucci aveva scritto che «ne Londra, ne l'Haya lo vollero, ne Vienna. A noi si propinoÁ dal capriccioso Choiseul per mezzo del suo penitente Grimaldi» 17. Il che equivaleva a dire che, con Breteuil a Napoli, Tanucci si era ritrovato a «navigare» tra una «Scilla Choiseul» e un «Cariddi Grimaldi». Ancora nel mese di maggio del 1774, lo statista toscano, malgrado il cardinale Bernis l'avesse avvertito, non aveva pienamente chiara la situazione politica francese: con la morte di Louis XV, gli choiseulistes, fedeli alla nuova regina, erano rientrati in gioco, proprio in virtu della protezione che Vienna accordava loro. Il loro uomo di punta era proprio lo sgradito ospite francese, illuminista e libertino, di cui ci stiamo occupando: «Non credo risuscitabile Choiseul in Francia. Non intendo come lo tema il cardinale Bernis. Questo nostro Breteuill eÁ amico grande di Choiseul, che V.S. illustrissima suppone tanto amato dallo stesso Bernis. Non era Choiseul amico della femina ultima; questo forse eÁ il suo solo merito. Penseranno bene Mauperas ed Aiguillon il tenerlo lontano» 18. E, in quello stesso mese, Tanucci aveva scritto al re Cattolico, che, nella lotta politica condotta all'interno del circuito delle corti euro215. 17 Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23, a Catanti, 10 mag. 1774, let. në. 18 Ivi, a Centomani, 4 giu. 1774, let. në. 260. 300 R. Tufano, La Francia e le Sicilie pee, le «cabale» che ordivano contro di lui Breteuil e Wilzeck avevano come contropartita l'ambasciata viennese per il francese e l'ingresso della figlia di Maria Teresa nel Consiglio di Stato delle Due Sicilie: «Li colori piu neri contro me sono stati quelli che sono stati usati dal ministro di Vienna e dall'ambasciatore di Francia, che ora sono collegatissimi per l'interesse privato dell'Ambasciatore che aspira all'Ambasciata di Vienna. Il duca d'Aiguillon ha risposto persuaso. Non ho veduto come di Vienna abbia risposto. Forse non saraÁ la risposta nelle settimanali, ma nella mensuale che vien per corriere espresso. Certamente Wilsek ha perorato sullo stile dell'Ambasciatore» 19. Poi, nel giugno del 1774, il ministro napoletano si era reso conto che il clima politico in Francia era mutato, e che Breteuil era in predicato di divenire primo ministro: «Umilio li fogli di Roma che Alfani spera ora superflui per la mutazione avvenuta in Francia, ond'eÁ qui capitata una fregata del Re per portare in Francia questo suo Ambasciatore colla figlia vedova di Mantignon, e il parto della medesima. Par che abbia a divenir qualche cosa di piu del ministero dell'Illustrissimo, dicendo le lettere di Caraccioli in buona vista e confermandolo tale il tenor della lettera scrittagli dal duca d'Aiguillon con questa fregata» 20. «Abbiamo qui una fregata di Francia venuta a prendere questo ambasciatore colla figlia, vedova di Mantignon, e col parto fresco della medesima. GiaÁ era destinato da piu mesi a questo viaggio, ma le lettere venute di laÁ, dopo la mutazione della scena, aggiungono che questo baron di Breteuill entreraÁ, probabilmente, nel nuovo vortice di quel ministero» 21. «Qui abbiamo uno che tra due giorni va a quella fornace, cioeÁ il barone di Breteuil, che eÁ riuscito quale all'Haya misto di Achille e di Ulisse per non dir Sinone. Caraccioli lo mette tra i possibili e predicati dalli congetturanti di Parigi» 22. «Questo ambasciatore, caldo 19 Ivi, al Re Cattolico, 10 mag. 1774, let. në. 219. Ivi, al Re Cattolico, 7 giu. 1774, let. në. 269. 21 Ivi, a Grimaldi 7 giu. 1774, let. në. 266. 22 Ivi, a Grimaldi 14 giu. 1774, let. në. 276. Sinone, personaggio importante delle vicende troiane, messo in valore da Virgilio, eÁ sinonimo di perfidia greca, in quanto inventore e protagonista dell'inganno contro la cittaÁ (l'introduzione del cavallo nelle mura). 20 VI. La corte di Napoli 301 e intrigante, se ne va giovedõ in una fregata mandatagli dal Re suo. Il corpo diplomatico lo ha dichiarato intrattabile. Tale lo qualificano li stessi suoi francesi e lo stesso console di quella nazione. A me eÁ toccato soffrirlo con una dose di pazienza che si puoÁ solamente avere dopo 40 di ministero e 76 di etaÁ. Dicono che eÁ creatura di Choiseul. Veramente egli ne ha le furie, ma non ne ha la mente» 23. Tra i meriti che il francese poteva annoverare nel suo cursus honorum figurava anche una calda raccomandazione di Maria Carolina alla sorella regina di Francia: «Anche qui si eÁ detto, che la Regina abbia raccomandato in Francia alla Sorella Regina Breteuil. Io lo credo, perche egli con gran franchezza ebbe qui lunghe conferenze colla Regina. Una lunga che ne ha avuta col Re produsse a me l'ordine di una specie di contentamento, e di elogio da scriversi al nuovo re Illustrissimo. Forse speroÁ Breteuill di entrar con questo nel nuovo ministero» 24. 3. I pertinenti giudizi di Breteuil Una lettura comparata tra la politica «ufficiale», la diplomazia segreta e la descrizione degli avvenimenti in corso, dimostra che l'azione di Breteuil nella corte napoletana s'ispiroÁ al doppio gioco tra la fedeltaÁ alla corona e quella al progetto degli choiseulistes. Insomma, aiutare l'Austria per servire la Francia. Destinato dalla malevolenza del suo re ad un posto di terza fila nel teatro politico dell'Europa settecentesca, Breteuil cercoÁ di rimettersi in corsa per le sue ambizioni. Per far cioÁ egli utilizzoÁ tutto l'armamentario di rappresentanza e di spionaggio appreso durante il lungo tirocinio nelle corti del NordEuropa. Il vero obiettivo della sua azione era eliminare il primo ministro napoletano, unico ostacolo alla presa del potere assoluto di Maria Carolina, sorella della futura regina di Francia. Tanucci non ebbe chiaro il fatto che gli aspetti caratteriali rivelati in modo evidente ed indiscutibile dal comportamento di Bre23 24 Ivi, a Losada, 14 giu. 1774, let. në. 277. Ivi, a Losada, 5 lug. 1774, let. në. 308. 302 R. Tufano, La Francia e le Sicilie teuil, in primo luogo le tendenza all'intrigo («alla cabala») ed al libertinismo, non erano soltanto espressioni di una stile cortigiano, acquisito con la carriera ed in parte coerente con inclinazioni personali e costituzionali. Il 6 settembre del 1774, Scrisse a Losada: «V. E. nella riverita lettera, della quale mi ha onorato nel dõ 15 d'agosto, pensa colla solita saviezza che non saraÁ buono per noi il ritorno di Breteuill. Non eÁ solamente veemente, e violento: eÁ o incapace, o insofferente d'un discorso ragionato, e placido, ma ancora eÁ portatissimo all'intrigo, alla cabala, e a mettersi in tutto con aria d'imporre e d'estorquere quel che intraprende. Con questo suo oggetto ei si mischiava negli affari del Governo, e dei particolari, e frequentava le case anche dei togati, e dei curiali, promettendo, e intimorendo. Egli eÁ cosõ dato a questo tenor di vita, che crede lodevole, e in conversazione anche meco ha vantato quel che similmente ha fatto nelle altre Corti, e particolarmente in Pitemburg, raccontandomi i dialoghi, che ha fatti colla Regnante Zarina, per li quali vi eÁ nato qualche sospetto, ch'egli possa essere stato una delle tante cagioni, che han prodotto in quella Signora l'avversione ai francesi» 25. Forse l'astuto diplomatico accentuava le manifestazioni di un carattere prepotente, narrava i precedenti successi ottenuti grazie a quel suo modo naturale di essere (prima che di agire), per nascondere la strategia molto lucida che intendeva perseguire. Con ogni probabilitaÁ, quel suo temperamento era stato uno dei coefficienti che avevano indotto il governo di Parigi a preferirlo per Napoli, dove si riteneva fosse necessario usare le maniere forti contro Tanucci. Questi si mostrava indocile e riottoso; e lo era non tanto per natura (la forma mentis machiavelliana lo induceva a meditare), quanto perche convinto che, per l'economia meridionale, la via di ripresa e di riscatto, passava attraverso il contenimento dell'invadenza francese. Di tutto questo si era reso conto con qualche ritardo. 25 Ivi, let. 401. Il riferimento ai «togati e curiali» appare non casuale se si pensa che proprio contro di loro stava per esplodere la rivoluzionaria iniziativa di riforma tanucciana, di cui anche da altre considerazioni eÁ stato di recente ipotizzato (sulla base di copiosa documentazione), un intento anche punitivo nei confronti delle magistrature centrali: cfr. Pier Luigi Rovito, L'immutabilitaÁ dell'antico. Uomini e vicende dell'arretratezza meridionale, Vereja edizioni, Benevento 2009, pp. 349-89. VI. La corte di Napoli 303 Segni autentici della strategia adottata dall'ambasciatore francese sono nei suoi documenti personali, ossia redatti per dar conto al governo parigino. Nel corso delle pagine seguenti useremo, percioÁ, gli occhi dell'ambasciatore per leggere la vita politica napoletana di quegli anni. «Depuis un an que j'ai l'honneur d'eÃtre ambassadeur aÁ la Cour de Naples, j'ai borne mes deÂpeÃches au courant des affaires, et je n'ai rendu aucun compte de l'eÂtat geÂneÂral de ce Royaume. J'ai peu parle du Roi et de la Reine. Je n'ai rien dit de leurs courtisans, ni des ministres. J'ai voulu me donner le temps de fixer mon opinion sur tous ces objets, et en connaõÃtre les deÂtails» 26. Cosõ Breteuil al duca d'Aiguillon (7 settembre 1773), nella lettera d'accompagnamento ad una sua ampia relazione sulla corte napoletana. Il MeÂmoire dell'ambasciatore francese fa l'histoire-cabale e l'histoire-portrait di quella corte nel periodo che va dall'istituzione della Reggenza fino al 1773. Questo testo va, peroÁ, integrato con un altro memoriale anonimo, le Observations sur le Royame de Naples et de Sicile, datate 1774 e provenienti da Napoli. Negli Archives quest'ultimo documento si trova nell'ordine subito dopo la relazione Breteuil e, dietro l'apparenza di un'asettica analisi socio-istituzionale del Regno, esso critica la mancanza di un indirizzo riformistico nella politica napoletana. Una ragione evidente per la quale i due documenti possono considerarsi come due facce della stessa medaglia eÁ individuabile nel movente politico che li ispira, ossia il tentativo di mostrare che il governo di Bernardo Tanucci era arcaico e desueto. Una seconda ragione riguarda, invece, la destinazione d'uso di essi: mentre il MeÂmoire di Breteuil appartiene al dominio dell'informazione segreta, il secondo documento eÁ rivolto ad un pubblico piu vasto del mondo diplomatico-politico. Sul modello costruito dai MeÂmoires di Louis de Rouvroy, duca di A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂe 1773, (pp. 81-101r-v). Il MeÂmoire eÁ datato Naples 7 set. 1773, ed eÁ allegato ad una lettera (datata Naples 8 set. 1773) inviata al duca d'Aiguillon, per il tramite di M. De La Borde, «premier vallet de Chambre du Roy». 26 304 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Saint-Simon, il documento di Breteuil si concentra esclusivamente sulla nozione di «cabala», quale costruzione sociale provvisoria che opera negli ambienti cortigiani e ai vertici dell'amministrazione statale al fine d'ottenere vantaggi per i propri aderenti. Le reti di cabale, o di clans e partiti, se partono dalla sommitaÁ della casa reale, tuttavia lasciano intravedere migliaia d'individui (ministri, diplomatici stranieri, potenti burocrati, alti magistrati, finanzieri, gran signori, gente di qualitaÁ, militari e prelati) che si uniscono o si dividono attorno ad esse. Le Observations combinano, invece, le configurazioni generali del MeÂmoire (come la coesistenza bi-generazionale e bi-nazionale al potere delle Sicilie di Carlo III e di Ferdinando IV, o il quadro di riferimento delle influenze politiche internazionali diviso tra Spagna e Austria) con l'analisi delle forze socio-politiche e socio-religiose in campo nel loro rapporto dialettico, con la realtaÁ economico-commerciale delle Due Sicilie e con quella socio-istituzionale, con i problemi politici irrisolti. Breteuil mette al centro delle sua histoire cabale/portrait l'idea etno-centrica della coesistenza di due realtaÁ nazionali in forte contrasto nel regno meridionale: la siciliana e la napoletana. La conflittualitaÁ tra le due nazioni, ch'egli paragona a quella esistente in Gran Bretagna tra inglesi e scozzesi, diviene il motore di ogni combinazione politica possibile, e i gruppi nobiliari, le loro fedeltaÁ e clientele etno-centriche sono al centro della sua analisi politica. Il vero potere eÁ, per Breteuil, nelle mani delle dinastie mandarinali ± in questo caso dei siciliani ± che lavorano per abbattere il governo spagnolo di Tanucci. Nel suo testo Breteuil racconta dell'esistenza di due cabale, corrispondenti all'asse bi-generazionale della regalitaÁ ispano-napoletana. In cioÁ, esso differisce dallo schema coevo di Broglie-Favier, dove la configurazione del potere monarchico era invece trigenerazionale: re di Spagna/re di Napoli/erede al trono di Napoli. Un'altra differenza fondamentale rispetto all'analisi di Broglie riguarda la previsione di Breteuil circa la trasformazione della famiglia reale di Napoli in una coppia cripto-monarchica (Maria Carolina e futuro amante). Per quel che riguarda la decodificazione dei conflitti di VI. La corte di Napoli 305 potere Breteuil utilizza lo schema capacitaÁ/incapacitaÁ di governo. Ma vediamo piu da vicino la descrizione della casa del re di Napoli offerta dall'ambasciatore francese. Breteuil conferma che il partito del re di Spagna a Napoli aveva giaÁ iniziato il proprio processo di decadenza con l'emergere della cabala della duchessa di Castropignano, proprio intorno agli anni Cinquanta. Antonio Genovesi nella sua Autobiografia racconta che i Castropignano erano notoriamente tra le famiglie piu corrotte e venali del Regno. Il marito, Francisco Evoli, «teneva mano ad alcune furberie che si commettevano nelle promozioni militari», la moglie, Zenobia Revertera, cercava «di tutto vendere per cioÁ che appartiene a magistrati del governo civile». Tuttavia la duchessa, godeva di un grande ascendente sulla regina, Maria Amalia, ben vista da tutti, per cui «si credeva dal pubblico» che essa fosse «oppressa» dalla «dominazione di questa ambiziosa e avara donna» 27. Forse la giovane etaÁ della regina, l'educazione aulica e formale ricevuta, ed il clima di generoso ed astratto idealismo in cui anche Carlo viveva, costituirono i fattori che fecero cadere la regina in una trappola ordita molto attentamente. La doppiezza della duchessa, che riusciva a mostrarsi la piu religiosa, devota, pia e timorata di Dio, scrupolosissima dama della corte, faceva un'incredibile presa sulla giovane ed inesperta regina sassone. Pur travolti nel 1754 da un grosso scandalo, che costoÁ loro il confino, le qualitaÁ della duchessa permisero alla famiglia Castropignano di esercitare un grande potere nella vita pubblica napoletana, e di giungere ad influenzare, anche se indirettamente, l'educazione e la formazione del futuro re di Napoli. Breteuil e Tanucci testimoniano che l'aio del re, Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro, aveva pagato la Revertera per quel posto d'educatore. Infatti, quando Carlo di Borbone salõ sul trono madrileno, lascioÁ nelle mani del principe di San Nicandro il compito di curare l'educazione dell'erede. 27 A. Genovesi, Autobiografia, in Autobiografia e Lettere, a cura di Gennaro Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 40-1. 306 R. Tufano, La Francia e le Sicilie 4. Ferdinando secondo Breteuil: un'educazione mostruosa Quali furono gli effetti di questa educazione e dell'ambiente di corte sul giovane re di Napoli? Disastrosi, secondo Breteuil. Se «le Roi de Naples a les meilleurs qualiteÂs de l'aÃme: il est doux, compatissant, porte aÁ la justice, et de l'abord le plus facile», e se «ce Prince a recËu de la nature une conception aiseÂe qui l'aurait rendu susceptible de l'eÂducation la plus rechercheÂe, et la plus avantageuse aÁ son rang dans tout les genres», purtroppo il principe di San Nicandro «ne fut pas meÃme capable de s'associer pour l'eÂducation de son pupille des personnes en eÂtat de suppleÂer son peu de geÂnie et son ignorance». Il risultato conseguito fu devastante per l'immagine interna ed esterna della regalitaÁ napoletana («le Roi de Naples n'a pas recËu un seul principe de gouvernement, ni aucune instruction politique des affaires du dehors»), e la descrizione degli effetti educativi, cioeÁ la singolare e quasi mostruosa fisionomia psicologica di Ferdinando IV, collima perfettamente con quella (qui giaÁ utilizzata, e non meno pertinente) di Giacomo Casanova e con le testimonianze di molti altri contemporanei. Tra queste, ad esempio, spicca il giudizio di un personaggio d'eccezione, l'imperatore Giuseppe II. Per l'austriaco, il cognato napoletano era un uomo privo di coerenza, vittima «dell'infame educazione ricevuta», e sempre in bilico tra il tradizionalismo del padre e l'antiformalismo lazzaronesco. Andava in giro seguito da «due o tre grossi cani, che hanno il privilegio di entrare dappertutto, di dormire su tutti i mobili ± che tanto a Portici quanto a Napoli sono effettivamente superbi e di gusto eccellente ± e di riempire con le loro sozzure tutte le camere». E poi, Ferdinando «non solo detesta[va] leggere, ma quasi piu ancora coloro che lo fanno». Scrisse del re di Napoli l'ambasciatore francese, «on ne a lui donne aucune des premieÁres ideÂes, ni meÃme le maintien exteÂrieur de son rang. On lui a laisse prendre un deÂgouÃt pour toute espeÁce de geÃne qui lui fait supporter trop impatiemment la moindre repreÂsentation, et qui l'a trop eÂcarte des eÂtiquettes habituelles, que la VI. La corte di Napoli 307 deÂcence et le respect du troÃne en rendent inseÂparable. Ce Prince, ne affable, en aurait conserve tout le charme, si son caracteÁre avait eÂte maintenant aÁ cet eÂgard dans des bornes eÂclaireÂes par le devoir de sa position; mais, abandonne sur ce point au peu de retenue de la jeunesse, il est devenu d'une familiarite sans mesure, et sans distinction, dont la plupart de ceux qui l'approchent abusent trop souvent, et d'ou il suit neÂcessairement un ton souvent peu fait pour la cour d'un grand Prince, ainsi qu'un choix des personnes aussi peu faites pour l'habiliter» 28. Per Breteuil, Ferdinando conosceva la lingua tedesca e quella francese, e giurava che qualche volta il re di Napoli gli aveva rivolto la parola in queste lingue. Tuttavia egli fu persuaso ad usare esclusivamente la lingua del suo paese, «de manieÁre qu'il ne parle meÃme presque jamais le bon italien, mais le napolitain, qui est un patois que le bas peuple seul parle». Il perche di una cosõ perfida manipolazione dell'erede al trono, viene individuata da Breteuil nel bisogno di tenere il futuro re in uno stato di sudditanza psicologica verso i suoi cortigiani: «on doit croire que l'objet des entours de son enfance, en le reÂduisant aÁ l'usage de ce meÂchant langage, a eÂte de le tenir davantage dans leur deÂpendance» 29. Ma, coll'andare degli anni, questo piano non ha sortito alcuno effetto. Anzi, una volta raggiunta l'etaÁ della ragione, Ferdinando reagõ con il prendere «dans la plus grande aversion tout ceux qui y ont eu une partie directe». Purtroppo, il giovane re si eÁ alla fine circondato di gente peggiore di quella che l'aveva allevato: «n'a appele aupreÂs de lui que les jeunes gens les plus livreÂs aÁ la dissipation». E Sannicandro, anziche avvertirlo e correggerne le cattive attitudini, «s'est preÃte par faiblesse autant que par ambition aÁ tout ce qui pouvait eÂcarter le Monarque de l'application, du travail, et des connaissances 28 29 MeÂmoire cit. in nt. 26, p. 83v. Ivi, p. 84r. 308 R. Tufano, La Francia e le Sicilie qui en inspirent le gouÃt. On n'a pas cherche aÁ lui donner celui de la lecture, ni de ces entretiens qui eÂtendent les ideÂes et meÁnent aux reÂflexions. On n'a preÂsente aÁ l'ardeur de sa jeunesse que la chasse, la peÃche, le ballon; enfin, tous les exercices du corps les plus violents» 30. Ne migliore parte nella sua educazione aveva presa l'unico individuo della corte napoletana libero da impegni di partito o di ceto e fedele al re padre: cioeÁ Bernardo Tanucci. Allo statista toscano si debbono gli unici due capolavori dell'educazione politica del re di Napoli: l'anticlericalismo e il misogallismo: «M. de Tanucci s'est borne aÁ lui donner de l'aversion pour Rome, et en geÂneÂral de l'inquieÂtude sur le systeÁme eccleÂsiastique, qui depuis longtemps, n'est pas assureÂment fort aÁ redouter, et est bien aujourd'hui dans la deÂpendance du pacte de famille. Mais, ce que Sa Majeste napolitaine sait le moins, c'est ce qu'elle a droit d'attendre aÁ tous eÂgards, ou ses obligations, comme le Prince de la maison de Bourbon. Ses ideÂes sur ce point ne sont gueÁres fixeÂes que sur le Roi d'Espagne, son peÁre, ce ne sera pas ma faute, si elles ne s'eÂtendent pas davantage sur l'origine de sa grandeur et sur plus solide appui». «Le gouÃt que le Roi de Naples a montre depuis quelques anneÂes pour le militaire, bien dirigeÂ, aurait pu aiseÂment retirer ce Prince avec grande utilite de son inattention et inapplication aux choses essentielles; mais au lieu de profiter de ce germe heureux, pour le deÂvelopper avec avantage, on a trouve le moyen de n'en faire qu'une pueÂrilite destructive en tout sens pour le vrai militaire; eÂgalement nuisible aux finances du Roi, et aÁ la deÂcence exteÂrieure de la cour. On construit aÁ grands frais dans les maisons de plaisance de sa Majeste des petites forteresses, ou le service et un sieÁge ne sont retraceÂs que par des enfantillages. On eÂtablit des campements, de manoeuvres, et des attaques du meÃme genre, au lieu de se servir pour perfectionner son gouÃt naissant pour les exercices et la discipline militaire, du ReÂgiment des Gardes Italiennes et Suisses ou des autres corps qui composent la garde habituelle de la ville de Naples, le Roi a creÂe pour son amusement guerrier un corps des cadets d'abord de 30 Ivi, p. 84v. VI. La corte di Napoli 309 cent jeunes gens pris sans distinction d'eÂtat, et porte ensuite aÁ preÂs de quatre cent de la meÃme espeÁce» 31. Breteuil spiega che il re ha inoltre creato un gruppo di quattrocento marinai, «d'abord sous le nom de Liparotes, et ensuite sous celui de Volontaire royaux de la Marine». Inoltre, «les hommes qui composent ce petit corps sont choisis pour la taille sur toute l'armeÂe, et sont d'une grande beaute» 32. Nonostante il re di Spagna abbia disapprovato la creazione di questo battaglione, cioÁ non ha impedito a Ferdinando di costruire degli stabili per avere questi due corpi vicini, e gli «chef des maisons les plus considerables se sont dispute les plus petits emplois dans ces deux corps». Inoltre, vestendo il Re abitualmente l'una o l'altra uniforme, «la cour a pris et conserve toujours l'air d'un quartier geÂneÂral» 33. Di fronte ai dissesti che queste spese apportano all'erario regio, «M. de Tanucci a l'air d'en geÂmir souvent, mais il ne met pas le meÃme empressement a faire sentir les conseÂquences de ce surcroõÃt de deÂpense inutile. On peut croire qu'il n'est pas faÃche que le Roi preÂfeÁre les exercices militaires au soin geÂneÂral du gouvernement» 34. A questo punto Breteuil inserisce un argomento di grande importanza sul ruolo che Tanucci gioca nel regno di Napoli: «Il est certain que sa Majeste sicilienne le lui [cioeÁ Tanucci] a abandonne absolument. Elle consideÁre et respecte dans la personne de ce Ministre l'homme de confiance du Roi son PeÁre, et ses volonteÂs ce Prince est tellement accoutume a croire que le droit de deÂcision appartient aÁ M. de Tanucci, qu'il ne se permet pas le plus leÂger eÂcart des vues de son ministre» 35. Anche se ± aggiunge l'ambasciatore francese ±, a volte, da atti e parole detti da Ferdinando, si comprende ch'egli inizia a maltollerare il ministro: 31 32 33 34 35 Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, pp. 85-86v. p. 86v. p. 86v-87r. p. 87r-v. p. 87v-88r. 310 R. Tufano, La Francia e le Sicilie «il perce quelquefois des choses, et des mots qui peuvent faire croire que Sa Majeste verra sans peine, et a meÃme une sorte d'impatience pour le moment de se saisir de son autoriteÂ: de sorte qu'on ne peut gueÁre juger ce prince avant l'eÂpoque ou la mort du M. de Tanucci l'aura rendu aÁ tous les droits de sa couronne et de son raisonnement» 36. Secondo Breteuil, Ferdinando avrebbe dovuto trovare un ministro che «en sut assez le langage, et qui voulut assez lui en apprendre la marche pour ne le pas fatiguer d'abord des deÂtails inutiles, et lui rendre le travail agreÂable»: ma intorno a Ferdinando non si vedono personaggi di quella caratura 37. Il ritratto che Breteuil fa del San Nicandro eÁ impietoso, e spiega l'ascesa del personaggio con l'appartenenza alla cabala dei Castropignano, che imperoÁ a Napoli dopo la caduta di Montealegre 38. La «segreta amicizia» tra il San Nicandro e la duchessa di Castropignano era stata giaÁ notata da Tanucci nel 1760, in occasione di «un discorso fattomi in gennaro da S. Nicandro di non far grande opposizione ad un affare della Duchessa, in aria di avvertirmi a non mi tirar l'odio della Regina» 39. 5. Origini della crisi etica: l'influenza dei Castropignano (1746-1766) Il nome dei Castropignano rievoca l'emergere delle debolezze antiche e strutturali nel governo delle Sicilie, difficoltaÁ pregresse che erano state in parte attenuate, in parte nascoste dalla protezione generosamente esercitata da Elisabetta Farnese sul regno del suo figlio prediletto. Merito di quella regina, e fattore d'ordine per il Mezzogiorno era stato in primo luogo un certo controllo da lei eser36 Ibidem. Ivi, p. 88r. 38 «Mais le Prince de Saint Nicandre, trop au dessous par ses talents d'un emploi si distingueÂ, et n'y eÂtant parvenu qu'aÁ l'aide de l'intrigue et de beaucoup d'argent distribue aÁ la Duchesse De Castropignano qui avait alors tout pouvoir sur le creÂdit preÂpondeÂrant de la Reine d'Espagne» (ivi, p. 83r-v). 39 Tanucci a Losada, Portici 18 nov. 1760, in Tanucci, Epistolario, vol. IX, 1760-61, a cura e con introd. di Maria Grazia Maiorini, Storia e Letteratura, Roma 1985, let. në. 82, p. 117. 37 VI. La corte di Napoli 311 citato nella scelta dei collaboratori di Carlo, in secondo luogo la prosecuzione delle linee teoriche e programmatiche create e sperimentate fino al 1736 da Jose PatinÄo (uscito definitivamente di scena in quell'anno), e poi impersonate ed intelligentemente impostate dai suoi allievi ed ex collaboratori. L'influenza di quel grande statista, riconosciuta dalla storiografia spagnola, non riesce ancora ad illuminare le vicende del governo napoletano nel primo decennio del regno borbonico, nonostante la grande mole di documenti in questi ultimi anni pubblicati. Poi, la fase 1746-1766 (dalla morte di Filippo V al motõÂn di Squillace) mise in luce l'incapacitaÁ delle Sicilie di stare in piedi senza una protezione esterna specifica e disinteressata, essendo la fisionomia del Mezzogiorno giaÁ da molti decenni segnata come regione ad economia coloniale. EÁ singolare che questa dipendenza dalla Spagna di Elisabetta e di PatinÄo dal 1734 al 1746 sia trascurata da certa storiografia che, mentre esalta il potere dei re cattolici, non valuta la profonda differenza tra le personalitaÁ di tre sovrani che ebbero ben poco in comune sul piano della politica di governo e che espressero linee molto diverse, in gran parte divergenti: FilippoV (di cui sono da distinguere le due fasi precedente e seguente il matrimonio con la Farnese), Ferdinando VI e Carlo III. Si esalta il potere spagnolo, ma non se ne valuta la direttiva che era e non poteva che essere incerta e molto oscillante; si discredita il riformismo napoletano degli anni 1735-1746, e si trascura che fu possibile grazie alla copertura internazionale spagnola. Forse per mero nazionalismo, si celebra (errore che fu compiuto giaÁ da Michelangelo Schipa) la fase successiva al 1746, senza tener conto delle testimonianze coeve che dichiarano e dimostrano un'involuzione gravissima, un calo verticale delle speranze e delle forze morali, fattori involutivi faticosamente contrastati soltanto dall'ottimismo programmatico di Genovesi (che realizzava cosõ l'ideale propulsivo della sua funzione pubblica, ma era gravemente scoraggiato e che, come Celestino Galiani, morõ disperato), dal lavoro compiuto della cultura critica e dissenziente da lui seminata e coltivata, e dal rigore alquanto antiquato, politicamente poco integrato, culturalmente prevenuto e mal ag- 312 R. Tufano, La Francia e le Sicilie giornato di un uomo spigoloso, ma amante del bene pubblico come Bernardo Tanucci. La fase che indichiamo come caratterizzata dall'influenza disastrosa dei Castropignano eÁ cronologicamente databile in rapporto alla disgrazia politica di Montealegre, ed eÁ dimostrata da parecchie fonti contemporanee, oltre che dal nostro Breteuil. Tanucci segnalava continuamente i movimenti politici, la rete di clientele, la corruzione e la venalitaÁ di quel clan, dal quale dipendevano tutte le distorsioni e le irrazionalitaÁ della vita politica e specialmente della corte napoletana, in primo luogo una finanza di espoliazione e senza controllo, la caduta verticale di ogni difesa e tutela degli interessi pubblici. Politica che si riveloÁ disastrosa dopo il 1759 anche in Spagna, proseguõ quasi per inerzia fino al 1766, poi crolloÁ in seguito alla rivolta popolare, che insegnoÁ al re di non fidarsi dei suoi vecchi collaboratori, scelti malissimo anche dall'ingenuitaÁ della regina. La regina sassone era stata conquistata dalla Castropignano con il parlare «di religione, di miracoli, di vita celestiale, di monaca di Capua, di quella dello Splendore, del padre Savastano». Infatti l'amica consigliera e falsa bigotta seguõ la coppia regnante in Spagna, dove aveva «molto accumulato, Dio sa come». Un anno piu tardi, la morte di Maria Amalia fece scrivere a Tanucci che «la disgrazia» occorsa a Carlo comportava comunque il «bene» di vedere finire «quella stizza» che il re nutriva verso «l'insolente e malcreata Castropignano, la quale, secondo tutte le lettere di cotesta corte, era il vero diavolo della casa e la vergogna della Spagna e dell'Italia» 40. Scaricata subito e «con insulto» anche dall'ambasciatore francese, con la cui nazione aveva vecchie relazioni quasi oscene (sostanzialmente da spia, secondo quanto emerge dai documenti segreti francesi), la Castropignano ritornoÁ a Napoli, dove «mostr[oÁ] di volersi godere quel bene che [aveva] acquistato colle [sue] `onorate' fatiche, celebri in Italia e Spagna» 41. Il ritorno a Napoli segnoÁ il declino del suo potere: «ha qualche amico» ± notava Tanucci ± e «tra questi sono 40 41 Ivi, Tanucci a Iaci, Portici 25 nov. 1760, let. në. 98, p. 142. Ivi, Tanucci a Iaci, Portici 11 nov. 1760, let. në. 67, pp. 103-4. VI. La corte di Napoli 313 li due capi di corte S. Nicandro e Riccia, che a lei devono le piazze loro; eÁ credibile che le abbiano comprate, ma convien loro dissimularlo» 42. Se, di questa potente famiglia, il culmine del successo corrisponde alla crisi delle riforme avvenuta nel regno con la fine della stagione montealegrina, la sua caduta, nel 1766, coincise con l'ascesa politica di Tanucci all'interno della Reggenza. Nel 1750 l'ambasciatore piemontese Ludovico Solaro di Monasterolo aveva segnalato l'esistenza di due partiti che si contendevano l'influenza delle decisioni politiche nel regno napoletano: quello spagnolo del duca di Miranda, compagno d'infanzia e amico inseparabile del re Carlo, e quello vicino alla Francia della Castropignano, amica di Maria Amalia. Il savoiardo descrisse i due schieramenti come «due fazioni [...] tendenti ognuna di esse a distruggere l'altra, onde prevedo molte turbolenze in questo picciolo mare, che diviene assai burrascoso» 43. Leopoldo De Gregorio fu nominato segretario d'Azienda nel 1753 anche grazie alla intercessione di questo clan, e la sua nomina segnoÁ l'apogeo del potere dei Castropignano. Secondo un ampio memoriale inedito, redatto in quegli anni da un anonimo molto addentro alle vicende curiali, «La Regina aveva lasciato prendere alla duchessa di Castropignano tanto ascendente sopra il suo spirito che il marchese Fogliani per mantenersi crede doversi attaccare a questa dama e divenne suo cortigiano, per modo che [...] niente si fece che per volontaÁ della Regina e per il parere del duca e duchessa di Castropignano [...] Il duca Miranda medesimo, che sino allora aveva sostenuto il partito spagnuolo, fu strascinato per il torrente dalla parte del favore, e la corte di Napoli si vide governata a piacere del principe d'Aragona e del duca e duchessa di Castropignano, principali confederati della Regina. Essi tentarono tosto di allontanare il marchese Fogliani per sostituirgli una loro creatura: ma il Re, che si pentiva internamente di aver lasciato prendere tanta autoritaÁ alla Regina, fu sordo alle insinuazioni di questa Principessa. Il Ministro, d'altra parte, diffidando 42 43 Ivi, Tanucci a Iaci, let. 67 e 98, cit. supra, nelle nn.tt. 40 e 41. A.S.T., mazzo 9, 15 dic. 1750. 314 R. Tufano, La Francia e le Sicilie della costanza del suo Padrone e vedendo troppo tardi che egli s'era lasciato soggiogare senza avere bastante coraggio ne bastanti risorse in se stesso per scuotere il giogo, avrebbe desiderato di vedersi scaricare il fardello troppo pesante per lui e di rimpiazzare il principe di Ardore nella sua imbasciata in Francia. Egli sentiva d'altra parte che, nel disordine estremo in cui eran gli affari, sarebbe stato bisogno di un ministro di una capacitaÁ superiore e che egli non era nel caso» 44. Queste ultime affermazioni, ed in genere la diagnosi dell'anonimo, che era un afrancesado, coincidono perfettamente con i penetranti giudizi coevi, espressi da un amico personale di Tanucci, il senatore Lionardo Del Riccio, in alcune lettere da Napoli nel 1751, recentemente pubblicate da Raffaele Iovine 45. Quando Antonio Genovesi rifiutoÁ l'incarico d'istitutore dei due figli dei duchi di Castropignano, il governo francese riuscõ ad introdurre in quella famiglia un suo agente segreto, tale La Tour 46. Questi, entrato nell'intimo della Castropignano (Zenobia Revertera), pote spiare la corte di Napoli e divenne uno strumento di pressione in favore della Francia. La coerenza di questi giudizi, provenienti da fonti diverse, portano ad una conclusione ormai certa: la caduta di Montealegre e la crisi della sua politica si risolsero in un governo che, lungi da dimostrare «una capacitaÁ superiore» a quello precedente, segnoÁ un'involuzione cui incominciarono a porre rimedio, dopo la partenza della coppia regnante per Madrid, la forte volontaÁ e la tenacia di Bernardo Tanucci. Carlo, tuttavia, dimostroÁ appieno la sua inesperienza politica strutturando la Reggenza in modo da concedere un potere paraliz44 B.N.N., ms. I C 16. Su questi due ultimi documenti, piu volte segnalati da Ajello, I filosofi e la Regina, cit. cap. IV, nt. 67, e La parabola settecentesca, nel vol. misc. Il Settecento, Electa Napoli. XY. 45 Cit. in cap. IV, nt. 73. 46 L'episodio relativo a Genovesi eÁ raccontato nella sua Autobiografia, in Autobiografia e Lettere, a cura di Gennaro Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 38-39. Inoltre, l'abate salernitano racconta dello scandalo che aveva coinvolto il duca per le forniture all'esercito, compito al quale egli era addetto, e dell'episodio dell'esilio della Minervino, amante di Losada, nipote di Francesco Ventura, invisa alla Revertera (rispettivamente alle pp. 40-1 e 39-40). Per l'espion La Tour, cfr. A.A.EÂ., Naples, Correspondance politique, vol. 5, 1750, f. 168 e passim. La spia in casa Castropignano eÁ segnalata anche dall'ambasciatore spagnolo: A.G.S., leg. 5857, ff. 127 e 161. VI. La corte di Napoli 315 zante ad aristocratici siciliani e napoletani che erano privi di senso dello Stato e capacissimi di sacrificare la razionalitaÁ della pubblica gestione agli interessi loro e dei loro amici. La Reggenza divenne il luogo in cui il particolarismo irrazionale ed asociale diventava norma di Stato. L'eccezionale competenza di Maria Grazia Maiorini, qui piu volte chiamata in causa, subisce spesso una sorte di eclissi degli storici che vogliono costruire sintesi preconcette, senza aver letto le carte di archivio e senza tener conto di chi ha lavorato per anni nel pubblicarle, annotandole con cura ed intelligenza. In definitiva, fu reso vano il vantaggio delle Sicilie di avere al vertice della Reggenza e come uomo di fiducia del Re un intellettuale colto, dotato di rigore e disposto ad impegnarsi per migliorare l'andamento della disastrata macchina statale. Nell'attivitaÁ del governo una fortuna anche maggiore fu poco utilizzata ed in gran parte dissipata: l'insegnamento di Genovesi, che tuttavia si diffuse su un altro piano, quello della societaÁ e della cultura media ed alta. Insomma, neanche allora le condizioni furono propizie a realizzare l'obiettivo, da secoli ripetutamente mancato: l'inserimento delle Sicilie in Europa come soggetto di diritti, non come luogo di sottosviluppo ed oggetto di sfruttamento e di arbõÂtri. 6. Guerra dei sessi e potere nella cour de Naples: Maria Carolina Ad un tratto della sua relazione sulla corte napoletana Breteuil prefigurava la futura chiave di volta dell'intero sistema di governo delle due Sicilie, sostenendo che alla caduta di Tanucci «la Reine aura, si elle le veut, la principale partie de l'autorite», giacche «tout annonce et prouve son ascendant sur le Roi» 47. L'uomo di Choiseul s'affrettava a rassicurare i suoi destinari, aggiungendo un fine ritratto psicologico, tutto teso a dimostrare l'innocuitaÁ di Maria Carolina per la Francia: «Rien ne montre que cette Princesse en ferait un mauvais usage, ni qu'elle ait encore les deÂsirs de l'ambition. Elle se borne aujourd'hui aÁ 47 A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂe 1773, ms. cit. (nt. 26), pp. 88r-91v. 316 R. Tufano, La Francia e le Sicilie obtenir des petites graÃces pour ses entours, et ne parait pas chercher aÁ entrer dans les objets les plus importants» 48. CosõÂ, nei primi anni settanta, i lineamenti principali del ritratto di Maria Carolina erano stati giaÁ fissati dalla diplomazia francese. Tuttavia essi s'induriranno in seguito, via via che la regina, molto prima del grande trauma del 1799, diverraÁ oggetto di una vera e propria campagna d'opinione sulla scena europea. Furono proprio le recriminazioni della Francia, che temeva l'autonomia delle Sicilie dal proprio condizionamento marittimo ed economico ± a seguito del nuovo indirizzo anglofilo in politica estera intrapreso intorno alla metaÁ degli anni ottanta dal governo napoletano ± a convincere del tutto Floridablanca a chiedere la detronizzazione della regina di Napoli, cosõ come era giaÁ accaduto nel 1772 a Carolina Matilde di Danimarca. Di questa vicenda recoÁ testimonianza autorevole il fratello di Maria Carolina, Leopoldo, il granduca di Toscana 49. I due fratelli Asburgo, dal canto loro, erano ben consapevoli dell'indipendenza della sorella rispetto le loro indicazioni politiche, e ne constatavano una vivacite di carattere, causa del malgoverno siciliano 50. 48 Ivi, p. 90v. Su questa vicenda cfr. la ricostruzione ben documentata di Ajello, I filosofi e la regina, cit. (cap. IV, nt. 67), I parte, p. 406 e ss. Ivi per la reazione di Carlo III. 50 «Pour moi j'avertis, je conseille et je preÃche la Reine autant que je puis, mais je crois que cela ne fait gueÁre d'effet. Elle est trop vive et de trop premieÁre impression, soupcËonne trop et en meÃme temps se confie trop facilement aÁ tout plein de gens qui ne le meÂritent point, et en abusent»: Leopoldo a Giuseppe, 11 giugno 1786, in Joseph II und Leopold von Toscana, Ihr Briefwechsel von 1781 bis 1790, a cura di Alfred Ritter von Arneth, BraumuÈller, Wien 1872, vol. II, p. 28. Uguale dinamiche comportamentali segnalava il Breteuil: «la reine a de l'esprit, et assez de culture. Son caracteÁre est doux, bienfaisant et ouvert: mais cette dernieÁre qualite est peut-eÃtre plus la suite de l'indiscreÂtion que de la franchise. Ses amitieÂs pour les Dames qui l'approchent le plus sont variantes, mais pendant leur dureÂe, la Reine ne connaõÃt aucune borne aÁ sa confiance. Et son choix dans ce sentiment, trop peu conduit par la reÂflexion, l'a souvent compromise. Cette Princesse le sait, le dit, mais n'apprend pas meÃme par de cruelles expeÂriences a modeÂrer l'exceÁs de sa confiance, ou aÁ la mieux placer» (A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂe 1773, ms. cit. (nt. 26), p. 90rv). E il 12 aprile 1788 Giuseppe II segnalava all'ambasciatore Thugut: «J'y vois avec peine les deÂsordres qui reÁgnent aÁ Naples, et les chagrins ineÂvitables qu'en doit ressentir la Reine, mais aÁ ce mal il n'y a pas de remeÁde, car il prend sa source dans le moral et en grande partie dans le physique de la Reine» (Joseph II und Leopold von Toscana, Ihr Briefwechsel von 49 VI. La corte di Napoli 317 Non molto tempo fa, indagando sulle ragioni della mancanza d'interesse della storiografia del Novecento per la corte napoletana della fine del Settecento, Raffaele Ajello, in un saggio finalmente chiarificatore del regno di Ferdinando IV, della figura della regina e dei rapporti tra intellettuali e potere, aveva individuato alcuni intralci che si frapponevano alla piena e chiara comprensione delle dinamiche socio-politiche che precedevano la crisi finale dell'antico regime nel regno meridionale 51. Un primo ostacolo era subito nato con il grande trauma del 1799, a seguito delle pesanti accuse che contro la figlia di Maria Teresa d'Austria furono avanzate in modo unanime dai memorialisti contemporanei e dagli storici di poco successivi. Gorani, Cuoco, Lomonaco, Michelet, Colletta ± per citarne solo i maggiori ± con le loro feroci critiche erano apparsi talmente estremi e duri nei giudizi sulla regina, da sembrare totalmente accecati dal furore ideologico del clima postrivoluzionario. Nel corso dell'Ottocento, la montante sensibilitaÁ nazionale italiana aveva compiuto il resto della demolizione, creando un ulteriore intralcio per la serena analisi di quella vicenda. Requisitoria pienamente avallata da Benedetto Croce che riconobbe intelligenza e vivacitaÁ in quella donna, ma che denunzioÁ l'incapacitaÁ ad incanalare quelle doti verso la pubblica utilitaÁ. La regina non era in grado di concepire lo Stato in modo moderno, avendo in testa un guazzabuglio d'idee diverse, sempre disposte a piegarsi di fronte a pulsioni di origini tutt'altro che intellettuali. A parziale rettifica di tutto si aggiunse nel corso del Novecento l'abbandono della storia diplomatica, l'attrazione per lo studio della cultura illuministica e una nuova sensi1781 bis 1790, cit. supra, p. 174). Ma giaÁ nel 1773, Breteuil testimoniava che i rapporti tra Maria Carolina e il fratello non erano buoni: «la Reine conserve un grand respect, et beaucoup d'attachement pour l'ImpeÂratrice sa meÁre, tant que l'ImpeÂratrice vivra, ses vues et son creÂdit seront aÁ ses ordres. Mais elle est bien loin de ce sentiment pour l'Empereur son freÁre. Elle n'estime ni son coeur, ni son esprit. Elle croit que l'une et l'autre ne connaissent que le mouvement de son inteÂreÃt. Elle est persuadeÂe que l'ambition de l'Empereur le compromettra plus souvent qu'elle ne le servira» (A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂeÁ 1773, ms. cit. (nt. 26), p. 90v). 51 Ajello, I filosofi e la regina, cit. (cap. IV, nt. 67), parte I e II. 318 R. Tufano, La Francia e le Sicilie bilitaÁ verso gli aspetti storici strutturali e sociali, e ± non ultima ± la tendenza femminista a rivalutare o giustificare l'opera dei piu famosi personaggi storici del gentil sesso. Ai precisi e ben documentati giudizi di Ajello, va aggiunto un rilievo su una piu sfumata difficoltaÁ che oggi si frappone alla demolizione degli idola storiografici nati sulla scorta della leggenda nera di Maria Carolina. Questo ostacolo eÁ creato dalla mentalitaÁ ed emotivitaÁ contemporanee relativamente al rapporto tra sessi. In un tempo che colloca cosõ in alto i valori femminili e chiede riservatezza e libertaÁ per la sfera del privato femminile, riesce piu difficile giudicare una donna di potere anche sulla base della sua condotta intima. E si tende a diffidare inconsapevolmente di chi, invece, esprime giustamente una stima complessiva della biografia d'una regina del Settecento. Eppure il giudizio storico sulla regina di Napoli deve avere consapevolezza della sensibilitaÁ europea del tempo, fortemente caratterizzata da un esplicito antifemminismo e da una crisi dei valori del legittimismo monarchico. Semmai occorre distinguere nel coacervo pubblico/privato della vita di una regina l'uso ideologico e politico che della sua intimitaÁ si fece. Inoltre, bisogna tenere presente che nel corso della seconda metaÁ del Settecento andava presentandosi nel mondo occidentale una nuova semantica dei sentimenti, con l'emersione prepotente di una nuova sintesi di plaisir e amour 52. Alla fine del secolo dei Lumi, l'amour passion iniziava ad essere visto come felicitaÁ coniugale, che esigeva l'inclusione della sensualitaÁ in un processo di reciproca formazione della forma psichica e spirituale 53. Di lõ a poco, la semantica dell'amore troveraÁ la forma del Romanticismo, contro il vecchio codice matrimoniale in uso tra i ceti elevati, che puoÁ essere stigmatizzato nella formula di Montaigne: «un bon mariage, s'il en est, refuse la compagnie et les conditions de l'amour» 54. 52 Particolarmente efficace il tentativo di sintesi di questi temi della matura cultura dell'etaÁ dei Lumi su una scala comparata europea di N. Luhmann, Amore come passione, Laterza, Bari 1985 (trad. ital), alla quale rimandiano anche per gli approfondimenti bibliografici. 53 Ivi, spec. le pp. 128 ss.. 54 Montaigne, Essais, Gallimard (BibliotheÁque de la PleÂiade), Paris 1950, p. 952. VI. La corte di Napoli 319 Il rifiuto di Tanucci per l'introduzione nella corte napoletana di costumi francesi («beata cotesta Corte, ove non usa il francesismo di farsi gli affari colle femine»), fondato sui presupposti della sua cultura umanistica, procedeva di pari alle reazioni di altri paesi e di altre letterature verso i modelli francesi 55. A Versailles e negli strati piu alti di quel paese, la liberazione dei rapporti sessuali era progredita a tal punto, ch'essa andava contro l'ormai matura tendenza europea di una possibile integrazione di amore e sessualitaÁ 56. In Europa l'esempio della regnante napoletana fu tutt'altro che isolato. Accanto a lei si collocavano Caterina di Russia, Carolina Matilde di Danimarca, Maria Luisa di Parma, moglie di Carlo IV di Spagna, e le altre sorelle Asburgo, poste sui troni di Parma e di Parigi. Proprio quest'ultimo caso, dimostra in maniera inconfutabile che la campagna d'opinione pubblica contro Maria Antonietta, prima e dopo il 1789, mantiene come repertorio di base due figure obbligate. La prima ha i contorni di marca politica: la regina eÁ una straniera che vuole trarre vantaggi per il suo paese d'origine, approfittando della debolezza di Luigi XVI. La seconda, nata da un pettegolezzo di corte, intende pescare nell'immaginario collettivo i motivi della repulsione morale verso la regnante: a fronte della notoria impotenza del marito, la regina eÁ una donna la cui sessualitaÁ eÁ capace di tutte le dissolutezze 57. GiaÁ nel 1775 la stessa Maria Antonietta 55 La lettera di Tanucci a Losada, Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. IV, nt. 23, let. në. 464, giaÁ cit. supra, nt. 9. 56 Á E la tesi di Luhmann, che condividiamo in linea generale. La contemporanea letteratura francese abbonda di esempi di questo genere (Laclos, de Sade etc.). Ci piace qua citare quello della madame d'EÂpinay, donna straordinariamente intelligente e sensibile. Dettagli su questa materia si possono cogliere nelle sue lettere ad un uomo di uguale spirito, Ferdinando Galiani (La signora d'EÂpinay e l'abate Galiani. Lettere inedite (1769-1772) e Gli ultimi anni della signora d'EÂpinay. Lettere inedite all'abate Galiani, ambedue con introduzione e note di Fausto Nicolini, rispettivamente Laterza, Bari 1929 e 1933). 57 Su Maria Antonietta, cfr. il classico ed insuperato S. Zweig, Maria Antonietta, Milano, Mondadori 1984 (trad. it., la prima edizione in lingua tedesca eÁ del 1932). Come nel caso del regno governato da Maria Carolina, studiato da Raffaele Ajello (ma che andrebbe analizzato anche dopo il 1786, termine ad quem scelto dallo storico napoletano, ed oltre il quale si muove la ricerca della giovane Cinzia Recca), il quadro francese ed internazionale appare oggi molto piu chiaro grazie a nuove letture offerte da alcuni storici statunitensi sulle responsabilitaÁ rivoluzionarie dell'immagine scandalosa della regina, a 320 R. Tufano, La Francia e le Sicilie confidava alla madre che nelle canzoni satiriche che andavano moltiplicandosi in Francia lei era diventata persino lesbica 58. Poi, le argomentazioni sulla sessualitaÁ anomala della regina saranno sfruttate politicamente sino al parossismo e all'inaudito da HeÂbert, con la produzione davanti il tribunale repubblicano della testimonianza del figlio di otto anni, che accusa la madre regina di giochi incestuosi 59. Le analogie del caso della regina francese con quelle della sorella napoletana sono sconcertanti, per non pensare a possibili contaminazioni, proprio a partire dalla costruzione di portraits da parte dei diplomatici stranieri. Le immagini di ambedue hanno poi finito per contribuire al processo di degradazione della percezione collettiva della regalitaÁ durante gli ultimi anni dell'antico regime. Nei primi anni settanta la coppia regale ancora non eÁ arrivata ai quei livelli di crisi che Ferdinando IV descriveraÁ al padre in una famosa lettera dalla forte carica di umorismo involontario 60. Per Breteuil, «leurs MajesteÂs vivent dans la meilleure intelligence, et sont reÂciproquement assez occupeÂes des attentions capables de la maintenir, sans qu'aucun sentiment bien vif en soit le fondement». EpperoÁ, mentre Maria Carolina, se non dissimula gelosia, tuttavia tenta d'allontanare con ogni mezzo le amanti del marito dalla corte, il paziente Ferdinando eÁ costretto a provvedere per il rinnovo delle partire dalla ``feminist history'' (L. Hunt, C. Thomas, S. Maza e J. Revel). Il punto della situazione storiografica, cui si rimanda anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, in V.R. Gruder, The question of Marie-Antoinette: The Queen and Public opinion before the Revolution, in «French Historical Studies», 2002, n. 16, pp. 269-298. Cfr., ancora, l'importante studio sull'austrofobia in Francia alla vigilia della rivoluzione di T.E. Kaiser, Who's afraid of Marie Antoinette? Diplomacy, Austrophobia and the queen, in «French History», 2000, n. 14, pp. 241-71, mentre sul ruolo politico svolto dalla regina di Francia, cfr. J. Hardman, French politics 1774-1789 from the accession of Louis XVI to the fall of the Bastille, Londra 1995, pp. 198-215 ed il giaÁ cit. M. Price, Preserving the monarchy: the comte de Vergennes, 1774-1787, Cambridge 1995 e Id., The fall of the French monarchy. Louis XVI, Marie-Antoinette and the baron de Breteuil, Cambridge 2002, pp. 7-17. 58 Maria Theresia und Marie Antoinette, Ihr Briefwechsel, a cura di Alfred Ritter von Arneth, BraumuÈller, Leipzig-Paris-Wien 1866, p. 211. 59 Cfr. J. Revel, Maria Antonietta, in Dizionario critico della rivoluzione francese, a cura di FrancËois Furet e Mona Ozouf, Bompiani, Milano 1988, p. 389. 60 Ajello, I filosofi e la regina, cit. (cap. IV, nt. 67), parte I, p. 422. VI. La corte di Napoli 321 lenzuola della moglie ad un continuo movimento di promoveatur ut amoveatur dei suoi amanti: «Ce n'est pas qu'on puisse croire que son coeur souffrit de ses infideÂliteÂs: mais son amour propre en serait blesseÂ, et elle [Maria Carolina] connaõÃt assez le caracteÁre napolitain pour ne pouvoir se dissimuler qu'elle se trouverait dans l'abandon le plus absolu, si le Roi avait pour elle des neÂgligences assez marqueÂes et des recherches du meÃme genre pour une autre femme. Au reste, touts ces calculs n'empeÃchent pas la Reine de se laisser aller aÁ des coquetteries. Il y a trois ans qu'elles eÂtaient en faveur d'un jeune eÂcuyer, nomme Gualingui. L'indiscreÂtion de ses bonteÂs pour ce jeune homme, ne permit pas au public de les ignorer longtemps, et bientoÃt le Roi fut assez instruit des bruits publics, pour en parler aÁ la Reine. Cette princesse vint aiseÂment aÁ bout de donner aÁ ces propos les couleurs de la noire calomnie, et pria le Roi d'eÂloigner le jeune homme qui en eÂtait l'objet. Cette princesse en faisant ce sacrifice, veilla cependant aÁ la fortune de son favori, et l'a fait placer Lieutenant colonel d'un ReÂgiment de Cavalerie. A la suite de cet eÂveÂnement, la Reine a eÂte quelque temps sans montrer de preÂdilections pour personne, mais depuis un an, elle l'a fixeÂe sur un officier du corps des cadettes, nomme Don Louis Galeotta, homme de qualiteÂ, et freÁre cadet du Duc de la Regina. Son gouÃt pour ce jeune homme est conduit avec trop peu de meÂnagement pour laisser des doutes sur son sentiment. Depuis six mois, la Reine l'a fait faire Colonel, et nommer aÁ une place de Majordome de semaine, qui le lie journellement dans l'inteÂrieur de la Cour. La figure de ce jeune homme, ni son esprit n'ont rien de fort piquant. Son maintien, et son langage commencent aÁ devenir celui d'un favori» 61. 61 In fatto di abitudini e di «gouÃt» personale, «Le Roi en a deÂjaÁ manifeste de peu conformes aux moeurs conjugales. Mais qui n'ont eu aucune suite. Sa Majeste s'est occupeÂ, il y a un an, de Madame la Marquise de Santo Marco, femme du Capitaine de ses Gardes, et dame du Palais. La reine s'est apercËue de ce gouÃt, et n'a eu aucune peine aÁ l'arreÃter. Le Roi lui a tout avoueÂ, et lui a sacrifie cette femme de qualiteÂ, de manieÁre aÁ ne pas donner sitoÃt envie aÁ d'autres de courir le meÃme danger. La Reine a eÂloigne sans aucune mesure Madame de Santo Marco de toutes les occasions particulieÁres ou sa place et sa naissance lui donnent le droit d'eÃtre inviteÂe aÁ la Cour. On ne lui a laisse que la liberte de faire son service, mais Madame De Santo Marco, pour se soustraire aux deÂgouÃts trop publics qu'elle eÂprouvait, s'est relieÂe quelque temps aÁ la campagne. Madame de Santo Marco est d'une figure, et surtout d'une taille fort distingueÂe, elle n'eÂtait pas dangereuse par son esprit, mais elle 322 R. Tufano, La Francia e le Sicilie A questo punto, Breteuil inizia a parlare di Maria Carolina: «ce quelle m'a dit plusieurs fois aÁ ce dernier eÂgard, m'a fait voir plus de gouÃt pour le repos, que pour l'activiteÂ, qu'exige la preÂpondeÂrance»; [ma poi aggiunge] mais cela peut tenir aux affections du moment» 62. E ne fa il ritratto psicologico: «La reine a de l'esprit, et assez de culture. Son caracteÁre est doux, bienfaisant et ouvert: mais cette dernieÁre qualite est peut-eÃtre plus la suite de l'indiscreÂtion que de la franchise». [Inoltre] «Ses amitieÂs pour les Dames qui l'approchent le plus sont variantes, mais pendant leur dureÂe, la Reine ne connaõÃt aucune borne aÁ sa confiance. Et son choix dans ce sentiment, trop peu conduit par la reÂflexion, l'a souvent compromise. Cette Princesse le sait, le dit, mais n'apprend pas meÃme par de cruelles expeÂriences aÁ modeÂrer l'exceÁs de sa confiance, ou aÁ la mieux placer» 63. Breteuil attacca il nodo gordiano dei rapporti di Maria Carolina con la sua famiglia: «La Reine conserve un grand respect, et beaucoup d'attachement pour l'ImpeÂratrice sa meÁre, tant que l'ImpeÂratrice vivra, ses vues et son creÂdit seront aÁ ses ordres. Mais elle est bien loin de ce sentiment pour l'Empereur son freÁre. Elle n'estime ni son coeur, ni son esprit. Elle croit que l'une et l'autre ne connaissent que le mouvement de son inteÂreÃt. Elle est persuadeÂe que l'ambition de l'Empereur le compromettra plus souvent qu'elle ne le servira» 64. Di grande interesse eÁ la descrizione di cioÁ ch'ella pensa di Giuseppe II. E per quel che riguarda la Francia, Breteuil si propone di giocare sul carattere della Regina, mostrandole molta attenzione, e solletipouvait le devenir pour la sante du Roi, par sa mauvaise conduite»: A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂeÁ 1773, ms. cit. (nt. 126), p. 88r-v. 62 Ivi, p. 90r. 63 Ivi, p. 90r-v. 64 Ivi, p. 90v. VI. La corte di Napoli 323 cando la sua vanitaÁ: «je crois que ses dispositions aÁ notre eÂgard meÂritent d'eÃtre cultiveÂes». Tuttavia, sostiene Breteuil: «J'ai meÃme remarque que le blaÃme qu'elle y donne est plutoÃt l'effet de la vanite qui veut faire voir ses reÂflexions, que celui du deÂsir de les mettre aÁ profit. Au reste, elle y trouverait une opposition treÁs deÂcideÂe dans la preÂpondeÂrance du M. De Tanucci, mais ce n'est pas laÁ ce qui la retient. La Reine hait et meÂprise ce Ministre. La protection du Roi d'Espagne qui le soutient, lui est treÁs importune, et sa prudence ne sait pas assez le cacher» 65. 7. Tanucci: limiti dello statista e della corte, secondo Breteuil Dopo la descrizione dei reali di Napoli, Breteuil si sofferma sugli uomini della corte e del governo napoletano. Il centro del suo discorso eÁ subito conquistato dalla critica ai modi di gestione del potere ed alle tecniche di governo dell'uomo piu rappresentativo della classe dirigente napoletana, ed anche percioÁ molto discusso ed oggetto di critiche mavevoli: Bernardo Tanucci. «[...] Le marquis De Tanucci ne porte jamais aÁ ce conseil d'eÂtat aucune affaire ni du dedans, ni du dehors, qui en meÂrite le nom. Jamais on n'y a lit une seule deÂpeÃche des ministres dans le cours eÂtrangeÁres. Le Marquis de Tanucci ne traite les affaires de ce genre qu'avec le Roi. Quant aux affaires de l'inteÂrieur, le marquis de Tanucci suit la meÃme forme, si elles sont de son DeÂpartement et ont de l'importance». A livello istituzionale, spiega Breteuil, il Consiglio di Stato ± l'organismo voluto da Carlo per disciplinare il periodo della Reggenza ± «n'a un veÂritable effet que sur le deÂpartement des secreÂtaires d'eÂtat». Ma, anche lõÂ, il giudizio di Tanucci «sur ceux de ses confreÁres est toujours preÂpondeÂrante», anche se «il est vrai que ses confreÁres ne sont gueÁres capables d'en avoir une qui meÂrite grande attention» 66. E a questo 65 66 Ivi, p. 91r. Ivi, p. 92r. 324 R. Tufano, La Francia e le Sicilie punto del suo racconto, l'ambasciatore francese prende a parlare dei consiglieri e dei segretari di Stato. Vale la pena riportarne l'intero brano, che eÁ una testimonianza autorevole ± se sfrontata da alcune punte d'estrema malizia, necessaria a convalidare l'importanza dell'histoire cabale ch'egli crea ± sugli attori della vita politica napoletana: «Ils sont quatre, y compris M. de Tanucci. Ils ont chacun un jour de la semaine pour rendre compte au conseil des affaires de leur deÂpartement. M. De Tanucci a son jour comme les autres pour la forme. Il n'y parle jamais que des miseÁres dans ses diffeÂrents deÂtails [...] Le Prince di Jaci reÂunit aÁ la charge de Conseiller d'Etat, celle de Capitaine geÂneÂral des armeÂes, et de colonel des Gardes Italiennes. Sa place de Capitaine geÂneÂral lui fit partager une partie de l'autorite militaire avec le Ministre de la Guerre, mais il n'a aucun creÂdit sur l'esprit du Roi. On a souvent porte des plaintes contre lui, avec succeÁs et fondement. C'est un homme avide, d'un caracteÁre violent, vindicatif et impeÂrieux. Il ne reÁgne jamais entre lui et le M. De Tanucci qu'une intelligence apparente. Au reste, rien ne prouve mieux l'oisivete des hommes dans ce pays, que la carrieÁre brillante que celui ci a parcouru. Il n'a nulle instruction, et preÁs que point de connaissance des affaires, quoi qu'il ait eÂte 18 ans ambassadeur en Espagne, et qu'il se soit trouve honore de ce caracteÁre et de la confiance du Roi de Naples pendant la longue maladie de Ferdinand six. M. le Prince de Jaci fait profession d'attachement aÁ la France. C'est un homme de 78 ans. Le Marquis de Saint George, qui a eÂte ambassadeur en France sous le nom de Prince d'Ardore, est plein de reconnaissance pour le Roi, et un homme treÁs vertueux, sans geÂnie, sans creÂdit, et sans connaissance des affaires. Il a au moins 76 ans, et est plus vieux que son aÃge. Le Prince de Camporeale, reÂunit aÁ sa place de conseiller d'eÂtat, celle de PreÂsident du Conseil de Sicile. C'est un tribunal qu'il tient dans sa maison, et qui prononce en dernier ressort sur les appels des sentences rendues par les tribunaux supeÂrieurs de Sicile. Cet emploi est treÁs lucratif, et devrait lui donner autant d'influence que de consideÂration. Mais sa paresse et son incapacite en livrent l'exercice aÁ des subalternes malfameÂs. Cet homme a plus de 80 ans, et touche au terme de sa carrieÁre. Don Antonio Del Rio, ministre de la guerre, plus qu'octogeÂnaire, a l'inertie de la caduciteÂ. Ses commis deÂsolent et pillent le militaire sous son nom. Le Marquis Don Carlo De Marco est secreÂtaire d'eÂtat, de graÃce, justice et affaires VI. La corte di Napoli 325 eccleÂsiastiques [...] Ce ministre a geÂneÂralement la reÂputation d'un homme juste, bienfaisant et deÂsinteÂresseÂ. Il a peu d'esprit, et est sans nerf. Il meÂrite le reproche d'avoir trop envie de plaire, et de se laisser subjuguer par les sollicitations des grands, ou du creÂdit ce que ce caracteÁre entraõÃne neÂcessairement d'irreÂgulariteÂs dans son administration, il a l'adresse de persuader qu'elles sont l'ouvrage d'une autorite supeÂrieure, et autant qu'il peut, il deÂsigne sous ce jour le Marquis De Tanucci, avec lequel il est brouilleÂ, et aÁ qui doit son eÂleÂvation. Le Marquis Don Juan De Goyzueta, secreÂtaire d'eÂtat de l'azienda et du commerce, et surintendant des finances, c'est le ministre le plus expeÂditif et le plus laborieux qu'il y ait aÁ cette cour. Il ne vit que dans son cabinet, et se vante de n'avoir jamais sa besogne arrieÂreÂe d'une semaine aÁ l'autre. Sa manieÁre de traiter est franche et loyale. Souvent en butte aÁ la haine et aÁ la jalousie de M. De Tanucci. Il a le courage de lui reÂsister. Il blaÃme ouvertement l'ascendant qu'il a pris, censure l'usage qu'il en fait, et ne dissimule pas qu'il le souffre impatiemment. Le roi de Naples aime M. De Goyzueta, parce qu'il le trouve et l'a trouve deÁs son enfance toujours preÃt aÁ lui fournir tous le moyens peÂcuniaires qui pouvaient satisfaire ses fantaisies connues et inconnues, et surtout celles qui eÂprouvaient des contrarieÂteÂs de la part de M. de Tanucci. Le marquis de Goyzueta a de l'esprit naturel, mais aucune espeÁce de connaissance dans l'administration. Son talent se borne aÁ de l'activite et de l'exactitude dans son travail. Le deÂbut de sa fortune a eÂte d'eÃtre commis dans le bureau de la guerre aÁ Madrid. Le murmure contre l'avidite de sa femme, paraõÃt eÃtre aussi fondeÂ, qu'il est geÂneÂral. On lui impute les manoeuvres les plus avilissantes pour satisfaire son insatiable avarice. Elle vend tout: et cela est au point qu'il n'est gueÁre possible qu'elle n'ait son mari pour complice. Le marquis De Goyzueta a beaucoup d'ambition. Bien de gens croient qu'il succeÂdera aÁ M. le Marquis de Tanucci. Le Roi de Naples l'aime, et il a des protecteurs puissants aÁ Madrid. Il me fait souvent de grandes protestations de son profond respect pour la France, et du deÂsir qu'il a d'y faire assez connaõÃtre son attachement pour meÂriter la protection du Roi. Je le crois sinceÁre, et je lui reÂponds en conseÂquence. Le Marquis Cavalcanti n'est pas secreÂtaire d'Etat, ma sa place de Lieutenant de la Chambre des Comptes lui donnant beaucoup d'autoriteÂ. Je le placerai ici. C'est un homme fort instruit des lois et des affaires inteÂrieures. Il a toute la consideÂration de sa place, et celle d'un homme d'esprit, applique et honneÃte. Il est toujours en opposition 326 R. Tufano, La Francia e le Sicilie avec le marquis de Tanucci, et a beaucoup d'appui aÁ la cour de Madrid. Je le regarde comme le plus capable parmi ceux qui ont part aÁ l'administration, et le plus fait pour jouer un roÃle principal. La vanite a eu peu trop de droits sur lui» 67. Dopo questa descrizione, Breteuil si sofferma a fare il ritratto di Tanucci. Ancora una volta rimandiamo all'efficace ed elegante documento diplomatico: «Le M. De Tanucci joint au titre de SecreÂtaire d'Etat, le deÂpartement des affaires eÂtrangeÁres, de la maison du Roi, les Postes, la place de secreÂtaire de la Reine, les biens allodiaux de la maison Farnese, les TheÂaÃtres. Ce ministre a porte dans l'administration l'eÂrudition, l'enteÃtement, les formes, et les subtiliteÂs d'un professeur. C'est un homme heÂrisse de toutes les difficulteÂs scolastiques, qui ont fait la base de son premier meÂtier, et dont les vieux preÂjugeÂs deÂfavorables aÁ ses vues n'ont pu eÃtre suffisamment corrigeÂs par sa position. On peut dire, quant aÁ ses principes sur les puissances avec les quelles Naples a des relations, qu'il hait l'Autriche, craint l'Angleterre, qu'il a eu de l'animositeÂ, et conserve de grandes preÂventions contre la France. Qu'il envisage la Sardaigne comme rivale, qu'il a opinion de Venise, qu'il a horreur et meÂpris pour Rome, et qu'il ne meÂnage l'Espagne que par respect et encore plus par besoin du monarque qui la gouverne. Le M. De Tanucci est au moins aÃge de 76 ans, quoique sa sante soit forte, et sa teÃte encore bonne, son aptitude au travail n'est plus la meÃme. Cependant, il tient fort aÁ sa place, et parait tous les jours plus jaloux de son autoriteÂ. Malgre cela il parle sans cesse de se retirer, mais il n'y a aucune apparence qu'il sache jamais se faire cette justice. Il attire plus que jamais les affaires aÁ sa personne, preÂfeÁre de les cumuler, aÁ la satisfaction de les voir terminer. Rien n'est dans l'activite convenable. Tout languit. Le M. De Tanucci est ne sans geÂnie, mais il a de la finesse dans l'esprit, et a eÂte de bonne heure livre aÁ l'eÂtude, avec une excellente meÂmoire il parle et eÂcrit avec graÃce et preÂcision. Quant aÁ son caracteÁre, on pourrait se dispenser d'en parler, parce qu'il est connu depuis longtemps. Et qu'il y a plus de mal a en dire que de bien. Il est faux, et ment sans pudeur, pour peu que de mensonge soit utile aÁ ses vues. Sa faveur et la suÃrete de sa position lui ont donne une peÂtulance qui permet difficilement la 67 Ivi, pp. 91r-96v. VI. La corte di Napoli 327 discussion, cependant la fermete lui en impose, quand on ne lui la lui montre qu'avec meÂnagement pour sa vaniteÂ. Au reste, le M. de Tanucci a la reÂputation d'eÃtre deÂsinteÂresseÂ, et je crois qu'il la meÂrite, quoiqu'il ait acquis de grands biens en Toscane: mais son eÂconomie, et la graÃce treÁs consideÂrable dont il jouit depuis longues anneÂes, ont pu suffire aÁ ces acqueÃts. L'avidite de sa femme qui le gouverne absolument, ajoute tous les jours beaucoup aÁ sa fortune, et pourrait donner des doutes sur son deÂsinteÂressement. Cette femme concilie les dehors d'une pitie eÂdifiante, avec une cupidite sans borne. Ce qu'elle retire des emplois, des digniteÂs, et d'autres graÃces dont son ascendant sur son mari, la fait disposer, forme un objet immense. Md. de Tanucci voudrait porter son freÁre le Marquis Catanti, ministre de Naples aÁ Turin, aÁ l'adjonction de son mari. On dirait? Que depuis quelques mois, M. de Tanucci s'est livre aÁ ce projet de l'ambition de sa femme, et qu'il en a tente le succeÁs en Espagne, mais infructueusement. Et ce qu'on dit de M. De Catanti, prouve que le Roi d'Espagne a eu raison de ne pas proteÂger cet arrangement. Malgre cela, je ne doute pas que Mad.me De Tanucci n'engage son mari aÁ des nouvelles tentatives [...]. L'art de M. De Tanucci et sa marche la plus ordinaire entre son maõÃtre et le Roi d'Espagne est de forcer le premier a faire ses volonteÂs, en les faisant adopter au Roi son PeÁre, ou d'excuser les choses faites sans approbation du Roi d'Espagne, sur la volonte fort et preÂcipiteÂe de son fils. C'est ainsi que ce vieux Ministre se joue de ses deux maõÃtres dans tout ce qu'il rencontre d'obstacles aÁ ses vues, de part ou d'autre» 68. A questo punto Breteuil fa un osservazione interessante, sostenendo che di tutti i Segretari di Stato solo De Marco eÁ nazionale. EÁ il pretesto per attaccare la nobiltaÁ napoletana, per sostenere la presenza in atto d'una cabala ordita dal ceto dirigente siciliano, l'unico in grado di garantire la governabilitaÁ del paese, ed in ultimo, per screditare la capacitaÁ di governo di Tanucci, reo di non aver neppure immaginato delle ipotesi di sviluppo per il regno meridionale: «Le Marquis de Tanucci dans une aussi longue carrieÁre ministeÂrielle, aurait pu rendre un service bien important aÁ ce Royaume, si pourtant son attention sur les veÂritables vues d'un administrateur, et presque 68 Ivi, pp. 93r-94v. 328 R. Tufano, La Francia e le Sicilie d'un fondateur, il eut pense aÁ la reforme des moeurs et aux encouragements qui donnent du ressort aux hommes, et au geÂnie. Mais il laissera peu de choses preÁs le Royaume dans l'eÂtat ou il eÂtait, lorsqu'il en a pris l'administration, parce qu'il a plus reÂgi en eÂconome, qu'il n'a gouverne en homme d'eÂtat, et parce qu'il est trop vieux aujourd'hui pour les grandes speÂculations qui changent les formes vicieuses, ou tiennent en activite celles qui peuvent donner au gouvernement l'action et l'eÂclat dont il est susceptible» 69. Nella descrizione che fa da contrappunto alla mancanza di ogni stimolo riformatore della classe dirigente napoletana, Breteuil delinea quello che saraÁ un topos classico della letteratura sul Meridione d'Italia: un paradiso abitato da poveri diavoli 70. 69 Ivi, p. 97v. «Le Royaume des Deux Siciles devrait eÃtre la puissance preÂpondeÂrante de l'Italie. Son eÂtendue, la fertilite de son sol, la rarete et la richesse de ses productions, les nombres de ses ports, sa situation heureuse pour le commerce, la paix dont il jouit, depuis preÂs de 40 ans, auraient duà le rendre un des eÂtats le plus peupleÂ, et le plus florissant d'Europe» (p. 98r). Purtroppo, secondo Breteuil, nulla si eÁ fatto per liberare i redditi dello Stato impegnati negli arrendamenti: «m. de Tanucci ne s'est jamais occupe de les retirer, et n'a eu sur cela que des ideÂes qui s'eÂvaporent dans la conversation» (p. 98r-v). Se solo il Re di Napoli ritornasse proprietario delle dogane, allora cesserebbe il contrabbando, il resto potrebbe essere investito nella flotta (composta allora da «deux vaisseaux de guerre, deux freÂgates, huit chebecs, quatre galeÁres, et six galliotes»), sõ da impedire «les insultes que l'Angleterre peut d'un moment aÁ l'autre renouveler» (pp. 98v-99r). E si chiede Breteuil come mai la Spagna non abbia mai pensato a fortificare il Regno (p. 99r-v). Altri passaggi salienti della relazione riguardano la drammatica situazione socio-istituzionale (pp. 96v-101v). La nobiltaÁ partenopea eÁ «livreÂe aÁ la barbarie, et aÁ l'ignorance qui suivent les temps de trouble, a eÂte bien des anneÂes sans ambitionner les premieÁres places, et n'aurait pas eÂte capable de les remplir. Elle affectait d'ailleurs l'indeÂpendance, et entraõÃnait des liaisons suspectes qui devaient bannir la confiance. Elle est soumise aujourd'hui, et ne conserve plus rien des vieux preÂjugeÂs qui la rendaient si preÃte aux mouvements. Elle connaõÃt le prix du creÂdit et de l'autoriteÂ, mais le genre de l'eÂducation publique et particulieÁre, est peu propre aÁ faire sortir les talents naturels, et ne donne ni les connaissances, ni l'application neÂcessaire aÁ l'exercice des grandes places.». L'ambasciatore francese paragona la nobiltaÁ napoletana a quella russa, che egli aveva conosciuto 15 anni prima: «la vanite des titres, du faste le plus mal entendu, et dirige tous les pas de la jeunesse napolitaine, sans que rien puisse la rappeler au raisonnement, ou aÁ la neÂcessite du travail. Le militaire ne repreÂsente pas assez de deÂbouche». I giudizi di Breteuil sulle attitudini militari della nobiltaÁ meridionale, sull'educazione militare di Ferdinando IV e sullo scontro politico in atto tra Napoli e Sicilia erano stati giaÁ utilizzati nell'ottimo saggio di A.M. Rao, Esercito e societaÁ a Napoli nelle riforme del secondo Settecento, in «Studi storici», a. 28 (1987), lug.-set., pp. 623-77. Si paragoni quest'ultima notazione dell'ambasciatore sulla mancanza d'interesse della nobiltaÁ partenopea verso la carriera militare con il tema, ricor70 VI. La corte di Napoli 329 Alla fine della sua relazione Breteuil sostiene l'impossibilitaÁ di una previsione su chi saraÁ il successore di Tanucci, ne quando lo statista pisano lasceraÁ il timone del governo del regno: «On pense en geÂneÂral que l'opinion du Roi d'Espagne fixera celle du Roi son fils, et qu'il lui fera prendre une eÂtrangeÁre. La nation donnerait peut eÃtre aÁ ce choix la preÂfeÂrence sur les nationaux, mais je crois la Reine treÁs opposeÂe aÁ ce systeÁme, et le Roi peu porte aÁ l'adopter. Au reste je n'imagine pas que ce Prince s'occupe souvent de cette reÂflexion. Il est trop dissipe pour preÂvoir» 71. rente nelle lettere di Tanucci del 1774, della «militarizzazione» della corte partenopea, cfr. ad indicem. Per quanto riguarda l'amministrazione civile Breteuil aggiunge che tutti i ruoli sono occupati da persone di ceto piu basso, giacche «le preÂjuge ne permet pas aux gens de qualite de s'y destiner», di modo che «les charges de cour sont la seule ressource de l'eÂmulation et de l'ambition». Degli uomini che rivestono incarichi a corte dice Breteuil: «il y a quatre grandes charges de la cour: celle de grand maõÃtre de la Maison du Roi est occupeÂe par M. le Prince de Belmonte Ventimiglia; celle de grand eÂcuyer par M. le Prince De Stigliano, de la Maison Colona; celle de grand chambellan, par le Prince de la Riccia, et, enfin, celle de Capitaine des gardes du corps par le marquis De Santo Marco. Ces quatre personnes ne meÂritent de consideÂrations, que celle qui est attacheÂe aÁ leurs places. Le grand maõÃtre de la Reine, le Prince de la Scalea, est un homme qui ne manque pas d'instruction, ni d'esprit, mais qui n'a de vues que celle de son plaisir et de son repos. Le Prince de la Cattolica, grand eÂcuyer de la Reine, est un homme deÂvore d'ambition qui se croit propre aÁ tout, et preÂtend ouvertement aux emplois les plus importants. Il a eÂte plusieurs anneÂes ambassadeur en Espagne. Peu deÂlicat sur les moyens d'arriver aÁ ses vues, il y met plus de suite et d'adresse qu'on ne devrait l'attendre de son air eÂpais, et de son caracteÁre peÂtulant». Un posto a parte Breteuil dedica al principe di Marsiconuovo, ch'egli considera come « celui de tous le courtisans qui montre le plus d'ambition dans ce moment»: «il est gouverneur et lieutenant de police de cette ville, sous le titre de ReÂgent de la Vicarie. C'est un homme remuant, d'une grande cupiditeÂ, de peu d'esprit, et sans instruction. Il en impose par ses relations, par son activiteÂ, et par une tournure plus aiseÂe qu'on ne l'a ordinairement aÁ Naples». Le sue ambizioni lo portano a tentare di sostituire Tanucci, ma Breteuil non lo crede capace, soprattutto dopo che il conte di Aranda, di cui lui eÁ nipote e «fort proteÂge», eÁ caduto in bassa fortuna alla corte madrilena. Poi Breteuil inizia a parlare del duca di Gravina: «(...) fils du Cardinal Orsini, est de tous les courtisans, celui aÁ qui le Roi marque le plus de bonteÂ. Ce n'est pas un homme de beaucoup d'esprit, mais il est sage, et a des principes d'honneur et de vertu. Son ambition serait de succeÂder aÁ M. le Marquis Caracciolo dans l'ambassade aupreÁs du Roi, et je crois qu'il fera tout ce qui pourra deÂpendre de lui pour faire obtenir ici aÁ cet ambassadeur une place convenable, mais qui lui fasse quitter son ambassade». E un posto particolare egli dedica a Caracciolo: «quant au Marquis Caracciolo tout le monde pense qu'il a de l'esprit et de l'acquit. On le nomme comme capable de succeÂder au Marquis De Tanucci. Mais le Roi de Naples ne le connaõÃt pas. Il n'y a point d'amis, point de parents aÁ la Cour, et le Roi d'Espagne a des preÂventions contre ses maximes sur la religion. Il n'y a nulle apparence qu'il arrive au MinisteÁre» (p. 100v). 71 Ivi, p. 101r. 330 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Ma nell'ultimo passo della sua relazione, l'ambasciatore lascia intravedere uno squarcio di una realtaÁ politica in fieri. EÁ necessario che la classe dirigente francese conosca i nuovi protagonisti di un processo politico in atto, i cui esiti potrebbero diventare imprevedibili sul piano interno e su quello internazionale: «Je ne dois pas passer sous silence les Siciliens. Ils forment aÁ la cour un corps de nation treÁs distinct, et toujours en rivalite avec les Napolitains. Il est impossible d'eÃtre plus anime l'une contre l'autre, que le sont ces deux nations, quoique reÂunis sous une meÃme autoriteÂ. Mais le siciliens sont dans ce moment les plus forts aÁ la cour. Outre qu'ils ont entre eux un systeÁme suivi, et de reÂunion pour leurs inteÂreÃts, il faut convenir qu'ils ont aussi en geÂneÂral une meilleure eÂducation et plus d'esprit naturel, joint aÁ une grande activite» 72. Pietro Beccadelli Bologna e Reggio, principe di Camporeale, Giuseppe Bonanno Filangieri, principe di Cattolica, Salvatore Naselli, dei principi di Aragona, Emanuele Giuseppe Ventimiglia, principe di Belmonte, Stefano Reggio e Gravina, principe di Aci, erano gli uomini indicati da Breteuil come «les plus forts aÁ la cour de Naples», come a dire i piu fieri avversari della politica tanucciana in Sicilia e a Napoli. L'uomo di punta del gruppo sembrava essere il principe di Camporeale, presidente della Giunta di Sicilia e padre del successore di Tanucci. Nei decenni precedenti egli aveva acquistato in seno al Consiglio di Reggenza un profilo da arbitro tra i due schieramenti che si erano venuti a creare dentro l'organismo (Tanucci, Reggio ed Aci, da una parte, e S. Nicandro, Centola, Sangro, dall'altra), divenendo il massimo esponente dell'azione politica della nobiltaÁ siciliana. Notava lo storico Francesco Renda che il Camporeale, nella sua qualitaÁ di presidente della Giunta di Sicilia, ebbe nei fatti il governo dell'isola: «in pochissimi casi il Tanucci riuscõ a spuntarla, e ad avere il sopravvento» su di lui 73. Francesco Barbagallo ± peraltro poco preciso nella cronologia del biografato ± 72 73 Ivi, p. 101r-v. F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale, cit. (cap. VII, nt. 2). VI. La corte di Napoli 331 ha scritto del Camporeale ch'egli era «d'ingegno modesto, culturalmente sprovveduto, di carattere fiacco ed insicuro», e che si serviva della sua rilevante posizione politica solo per «modesti» intrighi e per tentare d'accrescere il suo patrimonio personale; ma ha trascurato di ricordare il ruolo da lui assunto tra il 1750 e il 1751 alla corte di Vienna, e che con il figlio fu uno dei protagonisti dello sganciamento del regno di Napoli dalla sfera d'influenza spagnola 74. Da Napoli a Palermo, il gruppo d'interesse costruito attorno al Camporeale aveva come punto di riferimento il di lui cugino, l'abate Alfonso Airoldi, giaÁ segnalatoci dal BeÂrenger nella sua relazione sulla caduta di Tanucci, come «confideur et le conseil de tous les siciliens» 75. Un fratello dell'abate, Stefano, dal 1772 presidente della Gran Corte civile e criminale, era giaÁ stato presidente del Tribunale del Concistoro (1761) e presidente del Tribunale del Real Patrimonio (1770). Di lui aveva detto il marchese Caracciolo a Ferdinando Galiani (20 dic. 1781): «Il Papa del foro siciliano eÁ il presidente Airoldi, barbaro ed ignorante come tutti gli altri, peroÁ scaltro, souple, immorale, indifferente al sõ ed al no [...]» 76. I fatti successivi dimostreranno che Breteuil aveva indovinato appieno la sua previsione. Su Maria Carolina (vedi il ritratto ch'egli ne aveva dato: indipendente, pericolosa, ma non troppo, amante dell'adulazione, legata alla madre, ma non al fratello Giuseppe) occorreva fare presa. Mettere sempre un favorito filo-francese accanto a lei sarebbe stata una garanzia. E magari un ministro non spagnolo. Sicuramente Breteuil, piu di Broglie (che diffidava di Maria Caro74 F. Barbagallo, Camporeale, Pietro Beccadelli Bologna e Reggio, principe di, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 1974, vol. 17, pp. 584-85. Sulla famiglia cfr. F. San Martino de Spucches, Storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1924), Scuola tip. «Boccone del Povero», Palermo 1924, vol. II, pp. 193-6. 75 Cfr. infra, cap. VII, par. 4. 76 Riportato in B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, seconda ediz. riveduta, serie seconda, Gius. Laterza e figli, 1943, p. 106 nt. 2. 332 R. Tufano, La Francia e le Sicilie lina, e la riteneva troppo austriaca), aveva la sensibilitaÁ di capire che le donne di casa Asburgo avrebbero detenuto il potere in Europa per i prossimi anni. Mediante la lettura dei documenti redatti da Breteuil abbiamo visto descritta in atto la cabala della regina, di cui l'ambasciatore francese eÁ narratore e allo stesso tempo co-autore. Restava da capire quando, dove e come sarebbe avvenuto il «renversement des alliances» del regno di Napoli. E poi, i siciliani della regina, come si sarebbero mossi? Di lõ a pochi giorni, una prima risposta sarebbe arrivata da Palermo, sotto le forme di una strana rivolta difficile a leggersi, sospesa come fu la cittaÁ tra manifestazioni di fanatismo religioso, di vero furore popolare e di manifesta regõÂa teatrale nel momento della «cacciata del vicere». Dopo Tanucci, Fogliani era l'altro uomo piu rappresentativo del «partito spagnolo» nel regno, amico da sempre di Carlo di Borbone. La sua «cacciata» dalla capitale siciliana agli occhi degli osservatori esterni sembrava preludere al congedo definitivo della Sicilia dalla Spagna. Era il vero definitivo finis Hispaniae? 333 VII LA CADUTA DI TANUCCI: SICILIE ASBURGICHE? DALLA RIVOLTA DI PALERMO ALL'INTRIGO 1. La «fiera guerra» siciliana diventa guerriglia urbana (1773) «Preturi, malatia, esposizioni,/Medicu, tagghiu, petra, midicini,/Mastranzi, granni, nichi, afflizioni,/Vari, libaÁni, curuni di spini,/Cira, vuti, viaggi, orazioni,/Dijuni, pedi scausi, disciplini/Rusarii, litanii, cumunioni,/Armi bianchi, pistoli e carrubbini./Carzara, focu, tri casi, scausuni,/Cavallaria, suldati, paisani,/Spati, scupetti, sciabuli, cannuni,/Palazzu, fora sinnacu e Fogliani,/Frusta, tumultu, porti, bastiuni,/Ripari, parlamenti, guardiani,/Cunsuli, mastri, nobili, garzuni/Armi, runni, badagghi e milinciani/». CosõÂ, in due curiose canzoni di pochi versi erano elencati in cadenze metriche gli avvenimenti che avevano messo a soqquadro la capitale della Sicilia dal 14 settembre 1773 e per tutto il mese successivo 1. Nel giro di pochi giorni, a Palermo gli organi istituzionali ed amministrativi regi vennero spazzati via, l'esercito fu sconfitto senza battaglie ne spargimento di sangue, il vicere costretto a fuggire, imbarcato su una scialuppa, mentre al suo posto venne istituito un governo provvisorio, con a capo l'arcivescovo della cittaÁ 2. Secondo alcuni testimoni diretti (in particolare il marchese di 1 Cit. in F.M. Emanuele e Gaetani marchese di Villabianca, Diari della cittaÁ di Palermo dal secolo XVI al XIX, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, vol. XVI, Luigi Pedone Lauriel, Palermo, 1875, p. 108. 2 Cfr. Apologie de son excellence Monsieur le Marquis de Fogliani, ci-devant vice-roi de Sicile, avec les causes de la dernieÁre reÂvolution de la Ville de Palerme, Amsterdam 1774 (la copia, qui utilizzata in A.G.S., Estado, leg. 6109); Emanuele e Gaetani, in op. cit. nt. 1, voll. XV-XVI; G.E. Di Blasi, Storia cronologica del VicereÂ, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, Stamperia Oretea, pp. 629-30; N. Caeti, La cacciata del vicere Fogliani, in «Archivio storico siciliano», n.s., aa. Palermo 1909, XXXIV (1909), XXXV (1910), XXXVI (1911); F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale (17341816), in Storia della Sicilia, vol. VI, SocietaÁ editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1978, p. 233-8; G. Giarrizzo, Illuminismo, in Aa.Vv., Storia della Sicilia, Palermo 1990, vol. IV (ora anche in Id., La Sicilia dal Cinquecento all'UnitaÁ d'Italia, in V. D'Alessandro - 334 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Villabianca, di fede aristocratica) quel tumulto era stato «disciplinato» ed «esecutu cu gran rispettu a lu nomu Reali» (don Pietro Scarpuzza, ecclesiastico dalla sensibilitaÁ popolare): contraddizione palese e che la corte spagnola si guardoÁ bene da prendere sul serio. Infatti le modalitaÁ di svolgimento della rivolta sembrarono a chiunque, in un tempo, strane e sconcertanti 3. E tali apparvero anche agli osservatori stranieri. Per Breteuil, sebbene «quoique personne de plus consideÂrable ne paraisse l'avoir excite [le mouvement populaire], il est bien difficile de croire, qu'il n'y ait sous le feu des gens au dessus du peuple». Il disarmo delle truppe, quello dei bastimenti ormeggiati nel porto, la custodia della cittaÁ eseguita con meticolositaÁ dai privati, la forte carica simbolica e rituale dei pochi saccheggi effettuati lasciavano intendere che un tale comportamento «n'appartient, ni aÁ la populace, ni aux mouvements subits de la fureur». La causa era sicuramente tutta scritta nelle «veÂxations du sous ordre», al quale l'etaÁ avanzata e la «paresse» del vicere aveva abbandonato gli affari dell'amministrazione. Tuttavia, per l'ambasciatore francese il vero oggetto del conflitto non era la mera conquista del «Palazzu», luogo fisico di un intreccio inestricabile d'interessi speculativi che erano cresciuti attorno all'annona palermitana e che avevano il motore nel vicere e nella sua segreteria. Nella sua analisi ritornava, piuttosto, il tema del nazionalismo siciliano: il motivo di coagulo delle aspettative rivoluzionarie era sicuramente riposto nel repubblicanesimo dei «siciliens», nel loro anti-legittimismo, le cui radici pescavano nella diversitaÁ socio-istituzionale dell'isola rispetto al continente, che li portava «aÁ se croire pluÃtot reÂpublicains, qu'entieÁrement soumis aÁ des loix monarchiques». La «cacciata» di Fogliani era, dunque, un episodio della «fiera guerra» (cosõ l'aveva definita G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all'UnitaÁ d'Italia, Storia d'Italia diretta da G. Galasso, vol. XVI, Utet, Torino 1989. 3 Emanuele e Gaetani, Diari della cittaÁ di Palermo, cit. (nt. 1), vol. XX, p. 218 e P. Scarpuzza, Vera storia di la sollevazioni accaduta a Palermu lõ 19 e 20 settembre 1773. Poema sicilianu, in B.C.P., ms. 4. Qq.A18, Canti 44-45. VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 335 Tanucci) in corso tra le due nazioni 4. Con l'affronto subito dal vicere la regalitaÁ borbonica era stata desacralizzata. Il protagonista apparente di quella vicenda era dunque stato il popolo palermitano, guidato dai capi delle corporazioni artigiane. Da qualche tempo, il vicere era la causa dei malumori popolari, che dilagavano a seguito del rincaro dei prezzi annonari e dell'inasprimento della pressione fiscale. Ancora il poeta popolare Scarpuzza riferisce che il popolo palermitano «cussõ pubblicamenti di lu bonu Fogliani murmurava», immaginandolo al centro di intrighi e di complotti per il controllo dell'istituzione annonaria cittadina: «D'undi ni veni, chi quantu si fa'/a Palermu da Prituri, Capitani,/e tutti l'autri; pri quantu si sa'/si fa' cu l'interventu di Fogliani./Addunca eÁ una solenni veritaÁ,/chiddu, ch'eÁ `n vucca di li paisani:/chi quantu li Preturi annu esecutu,/eÁ statu di Fogliani dispunutu/Fogliani fuÂ, chi l'aperturi/fici pagari a tanti puviromini./Fogliani fu lu veru protetturi/di Giorgio, di tant'autri galantomini,/chi di la paci foru destrutturi/di tanti famigghieddi, e di tant'omini./Fogliani fu di lu famusu Rini/sustegnu, a di lu celebri Gazzini/» 5. Ma l'ossessione della folla per un «complot de famine», organizzato dai rappresentanti del potere politico napoletano, lasciava intravedere la silente apparizione sulla scena della «cacciata» dell'intera classe dirigente della cittaÁ. Secondo un testimone di quella parte (ancora il marchese di Villabianca), quest'ordine cittadino era stato leso dal «dispotismo [...] usato dal duca Fogliani in tutti quasi i corpi amministrativi della cittaÁ di Palermo», politica che aveva portato ad una degradazione della mastra senatoria di Palermo. Fogliani vi ammetteva gente ogni anno che era «di freschi natali e per lo piu oscurissimi» e che «non era capace di declinare un atomo dai voleri di detto principe», venendo a costruire una nuova feudalitaÁ di clientele, al cui 4 Riguarda i tumulti di Palermo quasi tutta la corrispondenza diplomatica tra Breteuil e il duca d'Aiguillon in A.A.EÂ, Naples, Correspondance politique, voll. 96 (1 mag.-31 dic. 1773), 97 (1 marz.-31 dic. 1774). In particolare, le citazioni nel testo corrispondono alle lettere: Naples, 2 ott. 1773 (vol. 96, ff. 145r-146v); 9 ott. 1773 (vol. 96, ff. 152r-157r). 5 Scarpuzza, ms. cit. (nt. 3), canti 44-45. 336 R. Tufano, La Francia e le Sicilie interno i pretori riferivano direttamente al vicere «per non soggiacere essi all'ingiuria della negativa di lor conferma nel pretorato che si era introdotto biennale» 6. Il giudizio del Villabianca sull'operato del vicere combaciava perfettamente con l'opinione espressa da Tanucci per tempo (28 settembre 1773) al re Cattolico sul disordine che fu poi causa dei tumulti: ulteriore prova sia di una profonda e realistica esperienza della dialettica politica, sia di una vigilanza intelligente che lo statista era in grado di realizzare. Da piu mesi giungevano a corte notizie sicure di un Fogliani «attaccato di negoziazioni di grani», parziale nella concessione delle «tratte», con al suo servizio un cameriere «mischiato in tutti li partiti d'olio, cacio, carboni, carni, colli tre mercanti Gazzini, Giorgio, Guasto». Questi tre «monopolisti» del commercio annonario, «favoriti e protetti dal vicere», «da poveri che erano, pervenuti a ricchezze considerabili». Ancora piu grave la colpa di aver scelto pretori «li piu docili alle sue mire» e quella di un assoluto «arbitrio» nella scelta di togati e «dignitaÁ ecclesiastiche»: «tanto, che essendo caduto nell'odio della plebe per li cari prezzi dei viveri, lo era anche di tutti li generi di persone» 7. Il punto d'attacco della «cacciata» del vicere era stato la malattia e la morte del pretore di Palermo, il principe del Cassaro, scelto dal popolo come l'eroe popolare che lottava contro Fogliani e le sue clientele: «Appena la notizia nisciu/incerta ancora, chi Fogliani avia/a Cassaru giaÁ elettu, un'murmuriu/si'ntisi pri Palermu, chi dicõÂa:/allegramenti, lu tempu spiddiu/di li nostri mjserij; e ripitia/cu centu, e milli vucchi unitamenti,/Cassaru eÁ lu Preturi, allegramenti./Vurria aviri d'Apelli lu pinzeddu/pr'imprimiri ddi beddi attigiamenti/di ddu mastricchiu, di du puvireddu,/ch'annu mangiatu pani scarsamenti./Unu ittava lu vecchiu cappeddu,/e poi lu ripigghiava prestamenti,/e lu ittava arreÂ, facendu festa,/ch'era di giaÁ passata la tempesta/» 8. 6 Emanuele e Gaetani, cit. (nt. 1), vol. XVI, p. 218. In Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1776), regesti a cura di Rosa Mincuzzi, Ist. per la storia del Risorgim. ital, Roma 1969, pp. 837-840. 8 P. Scarpuzza, ms. cit. (nt. 3), canti 56-57. 7 VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 337 Nella sua opera di risanamento dell'enorme debito accumulato dall'annona cittadina, Cassaro aveva dato garanzie personali alla Tavola cittadina per un prestito frumentario di 40.000 scudi e aveva costretto i precedenti colleghi a fare altrettanto per l'olio e il formaggio. La malattia e la morte, avvenuta dopo un intervento chirurgico effettuato dal litotomista di fiducia di Fogliani, aveva aperto lo scontro tra la capitale e il rappresentante del governo napoletano. 2. Tanucci golpista? Come rivela la lettura dell'Epistolario di Tanucci, per buona parte dell'anno 1774 le attivitaÁ di Bernardo Tanucci furono concentrate sugli esiti della rivolta palermitana. La vicenda, gravida di pesanti conseguenze, rafforzava la sua tesi politica di fondo diretta ad abbassare ai minimi termini il potere del «magnatismo», dacche «in tutta la storia delle nazioni [...] le braccia fanno e sostengono i governi, non le pompe di pochi splendidi», ed eÁ «guadagno al governo il poter colli suoi atti conciliarsi una parte del popolo, la quale diventa soldato e sbirro e forza contro li malumori». La clamorosa conferma palermitana di quei criteri aveva fatto scaturire nel ministro l'idea di rispondere con mezzi politici nuovi ed inconsueti alla crisi in atto nel regno di Sicilia 9. Egli intuiva con chiarezza che dietro la rivolta di Palermo si celava una vera rivoluzione politica, pur non avendo una piattaforma ideologica dichiarata ed un gruppo dirigente chiaramente individuabili. Lo scontro s'iscriveva (secondo Tanucci) in una fase delicata degli equilibri di potere a Napoli, come un episodio della «fiera guerra» tra le due «nazioni» del regno, che «arde[va] ferocemente» da tempo, e si era infiammata agli inizi degli anni '70. Se il fuoco rivoluzionario fosse dilagato oltre Monreale, Agrigento, Marsala e Mazara del Vallo, cioÁ avrebbe permesso ai nemici interni ed esterni, stretti intorno alla regina austriaca, d'avviare immediatamente l'o9 La prima citazione eÁ tratta dalla lettera di Tanucci a Carlo, 31 gen. 1775, la seconda da Tanucci a Carlo, 11 agosto 1767, in Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1776), cit. (nt. 7), rispet. alle pp. 943-4 e p. 399. 338 R. Tufano, La Francia e le Sicilie perazione che avrebbe provocato lo sganciamento del regno meridionale dalla tutela spagnola. SiccheÂ, mentre i primi mesi dell'anno furono dedicati alla gestione prudente della vita politica isolana, dopo il Parlamento di Cefalu (luglio) e durante le ferie dell'anno giudiziario (23 settembre), lo statista casentinese varoÁ la prammatica sulla motivazione delle sentenze. Pur non rinunciando affatto al crudo realismo ch'egli aveva adottato come metodo di governo nei decenni precedenti, egli ritornava a vestire l'armatura della sociologia genovesiana, volgendosi questa volta contro le magistrature della capitale partenopea, altro corno del «magnatismo». La repentina, quanto sorprendente inversione di marcia testimonia che Tanucci aveva raggiunto una piena consapevolezza della larghezza e del respiro della crisi in atto. Sette anni dopo il motõÂn d'Esquillace, un'altra rivoluzione esplodeva nei domini di re Carlo, dimostrando che non tutto funzionava al meglio nella strategia di governo attuata dal re e secondo cui erano stati scelti i suoi collaboratori. Fogliani era il frutto specifico di quella logica. Come la prima, cosõ la seconda delle due rivolte ebbe un clamore ed effetti che andarono ben oltre gli ambienti nazionali, creoÁ echi governativi quanto meno europei. I «santiuffizii» della diplomazia inglese e francese ± fonti di continua disperazione per il ministro ± alimentarono una campagna d'opinione, che diffuse nel continente la sensazione che le basi del regno di Napoli non erano solide, poiche esplodevano in Sicilia le contraddizioni di una monarchia che si fondava su due «patriottismi» mal amalgamati, e che aveva rinunciato a percorrere la strada delle «riforme». Quest'ultima parola aveva significati quasi `magici' durante la fase matura dell'illuminismo: quel sortilegio si eÁ poi tradotto spesso nelle reformationes in peius, di cui, in molti settori che ci sono assai vicini, scontiamo ancor oggi le conseguenze. Tanucci, intellettuale molto consapevole della propria originalitaÁ, odiava, come tutte le altre mode, anche quelle idee. La sua visione sociale nasceva dal razionalismo machiavelliano, non dal pietismo di origine agostiniana ed isidoriana. Egli dubitava fortemente di ogni idealitaÁ astratta; era certamente un realista con propensioni all'empirismo: due premesse VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 339 indispensabili se si vuole essere idealisti senza equivoci, senza finzioni e senza produrre disastri. PercioÁ pensava che bisognasse agire sulle cause sociali, individuare i catalizzatori politici dell'esplosione antigovernativa e provvedere subito a contenere la frana, con un intervento di chirurgia politica, molto piu preciso di quello che il litotomista di Pasquale aveva effettuato sul disgraziato pretore di Palermo. Ma la storiografia sui tumulti di Palermo non si eÁ di molto aggiornata. Al di laÁ del convincente lavoro di sintesi di Francesco Renda (che al tumulto dedica poche pagine, ma del quale coglie le premesse e la portata politica, le conseguenze sociali e gli esiti politici), le messe a punto piu recenti nulla aggiungono alla comprensione di quella vicenda. L'analisi del tumulto va sicuramente riaffrontata con una lettura piu attenta alla contesa che si era aperta attorno alle regole scritte e non scritte che organizzavano il gioco sociale nella capitale siciliana. Quello che ancora manca eÁ una storia del Senato di Palermo e dell'inedito ruolo che la capitale siciliana aveva giocato per tutto il secolo dei «lumi», accogliendo aristocratici e «piccole corti» emigrate dalle province, in un continuo ed inesorabile processo di depotenziamento delle altre realtaÁ urbane 10. 10 Dal canto suo, Francesco Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale (1734-1816), cit. (nt. 2), intuisce che dietro i protagonisti apparenti della rivolta si poneva il «baronaggio» siciliano, in contrasto con il governo tanucciano. Le esemplificazioni utilizzate dal Renda ci restituiscono una vita politica contrassegnata da conflitti tra categorie dicotomiche (assolutismo borbonico/feudalitaÁ siciliana, nazionalismo siciliano/nazionalismo napoletano, Spagna/Austria), all'interno di una prospettiva unilineare dell'evoluzione dello Stato moderno nella Sicilia ultra pharum. Seppure l'odierno senso comune storico ha una diversa consapevolezza della pluralitaÁ delle vie che sono state percorse dalla societaÁ meridionale verso un'organizzazione statuale di tipo «burocratico», tuttavia lo storico siciliano ha il merito d'individuare i reali problemi attorno ai quali si scatena la rivolta: il problema della gestione dell'eversione dell'asse gesuitico in Sicilia, la rivalitaÁ montante tra le due Sicilie e i corrispettivi «partiti», nonche alcune delle variazioni intervenute nel sistema politico internazionale. Di recente una lettura dei tumulti eÁ stata compiuta da S. Laudani in Rivolte, conflitti politici e sistema annonario nella Palermo del '700, in «MEFRIM», në 112, a. 2000, fasc. 2, pp. 669-86, e ora in ``Quegli strani accadimenti'': la rivolta palermitana del 1773, Viella, Roma 2005. L'autrice propone per questo caso uno dei modelli di spiegazione del conflitto praticato dalla storiografia internazionale giaÁ a partire dalla seconda metaÁ degli anni settanta (segnatamente S.L. Kaplan), e sembra accettare la tesi di parte palermitana che ipotizzava un complotto politico, ordito da esponenti del governo napoletano (compreso Tanucci), e diretto a scacciare Fogliani dall'isola. L'attento esame della corrispon- 340 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Uno degli errori piu frequentemente commesso dagli storici del tumulto eÁ di aver utilizzato alcune testimonianze coeve, rilasciate da chi era «esterno» ai fatti e non informato. Una cronaca in particolare ha stabilito una matrice narrativa e un punto di riferimento per la storiografia successiva: il Diario storico dell'infelice occorso seguõÂto in Palermo contro il vicere duca Giovanni Fogliani de Aragona, e de' successi altresõ dei tumulti, mossi dalla bassa plebe nell'anno 1773 di Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca. La narrazione degli eventi scivola su due binari paralleli. Su uno scorre il resoconto freddo e minuziosamente analitico dei fatti, sull'altro l'autodifesa delle classi dirigenti palermitane, che ex post teorizzavano l'esistenza di un incredibile complotto politico organizzato contro il vicere Fogliani dal governo napoletano e dai suoi esponenti in Sicilia (Tanucci, Filangieri, Targiani, il principe di Pantelleria). EÁ stato un tardo rigurgito dell'antinapoletanismo del secondo Settecento. In realtaÁ, le prime istintive reazioni di re Ferdinando alla notizia di quanto succedeva nella capitale isolana sembrano invece dimostrare ch'egli aveva subito intuito le responsabilitaÁ dei siciliani presenti a corte. Inventore, ideologo e divulgatore di questa tesi filo-nobiliare ed anti-governativa fu soprattutto il giaÁ citato marchese di Villabianca, autore di ben venticinque volumi in folio sulla storia della cittaÁ di Palermo ± che coprono l'arco cronologico 1743-1802 ± nonche di svariati altri manoscritti su memorie patrie. Secondo Gioacchino Di Marzo, curatore della prima edizione di quell'opera, le cronache del marchese affrontano la vita cittadina «con tanta ricchezza di notizie e sõ minuti particolari di storia in una molteplicitaÁ sõ ammirabil di cose, da non darsi lavoro di simil natura che meglio renda e fino al piu intimo lo stato e la vita di Palermo per tutto quel tempo, e in molta parte ancora della Sicilia» 11. denza politica (tra cui, appunto, le lettere del primo ministro del regno) e di quella diplomatica internazionale, presenta un quadro piu complesso delle ragioni e delle forze che hanno dato vita all'evento. 11 «PeroccheÁ ivi per lo spazio di ben sessant'anni giorno per giorno eÁ ragguagliato di quanto avvenne, non sol di pubblici e segnalati fatti, ma pur di famigliari e privati, e di VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 341 Il marchese apparteneva ad una famiglia dell'aristocrazia capitolina, e nel 1775 ottenne la nomina a senatore della cittaÁ. Era una carica cui egli aspirava da tempo, come testimonia una vanitosa nota autobiografica apposta alla descrizione del tumulto. In quella sede egli ammette d'essersi guadagnato il posto ai vertici dell'amministrazione cittadina per i servigi resi alla «patria» con la penna, descrivendo i fatti accaduti in due anonimi memoriali, che erano stati allegati alle prime relazioni ufficiali del Senato di Palermo e della Deputazione del Regno per il governo napoletano. In quelle pagine, come in quelle del Diario, veniva affermata la totale estraneitaÁ della nobiltaÁ palermitana nel tumulto, si metteva in rilievo l'assoluta non spontaneitaÁ del moto e se ne addossava paradossalmente la regia ai napoletani Filangieri, Targiani e Pantelleria 12. Ricevuti i due memoriali, il principe di Camporeale, intento a stilare la consulta della Giunta di Sicilia per le prime provvidenze necessarie a sedare la rivolta, «fece aneddoti e curiositaÁ di ogni genere: e peroÁ vi si notano e ampiamente rapportano gli atti regii e viceregii, le prammatiche, le ordinazioni, i bandi ec., e i parlamenti, i donativi, le grazie, i possessi de' vicereÂ, de' ministri del regno, dei senati e degli uffiziali della cittaÁ, le nomine e promozioni a dignitaÁ ecclesiastiche e secolari, le regie concessioni di titoli e di ordini equestri, le investiture o le alienazioni di feudi; e poi le mete de' viveri, le pubbliche feste, gli spettacoli, le accademie, le fondazioni o abolizioni di chiese, case, instituti e di ogni maniera pubbliche opere; e poi le disavventure di tumulti, tremuoti, carestie, le infestazioni d' masnadieri e i continui supplizii, gli sponsali o le morti d'individui di nobili famiglie, o d'illustri uomini, ed ogni altra cosa piu o meno degna di alcun ricordo, piu o meno attevole a rendere l'aspetto de' tempi»: G. Di Marzo, Prefazione a Emanuele e Gaetani, op. cit. in nt. 1, vol. XII, Palermo 1874, p. VI. 12 «E perche in tali epistole non si potea parlar con franchezza, come portava la bisogna, dell'alta persona del duca Fogliani e di altri soggetti in particolare e ministri, che credevansi cagione degli sconcerti, in venerazione del primo a causa della sua dignitaÁ, e in riguardo ai secondi pe' lor caratteri di autoritaÁ, si fecero arrivare alla corte due lettere anonime in forma di due compite allegazioni, con le quali si dileguarono, per quanto fu possibile, le fitte ombre de' seguõÂti eccessi, difendendo con evidenti ragioni ed irrefragabili monumenti la causa palermitana [...] Tutto quello che venne esposto nelle di sopra mentovate difese fatte dall'anonimo, appunto ritrovasi nel contesto di questa nostra storia ed altresõ nelle sue annotazioni; giacche puoÁ dirsi essere state forgiate le dette lettere sulle notizie di queste carte, o almeno la somma di esse essersi presa da quest'opera, siccome mi assicuroÁ colui, che ebbe luogo di consultarle. Sicche io credo dover tornar pregevoli e niente discare in avvenire queste memorie»: in Emanuele E Gaetani, op. cit. (nt. 6), vol. XVI, Palermo 1875, p. 10 e nt. 1. 342 R. Tufano, La Francia e le Sicilie festa all'arrivo di questi due esposti, chiamandoli li cani corsi, che guardan la patria dalle fauci de' lupi» 13. 3. Il disagio del sistema: segni di distacco di Tanucci dal `suo' Re Le due scosse, del 1766 a Madrid e del 1773 a Palermo, erano scricchiolii preoccupanti di un sistema di governo che procedeva, in fatto di cultura e di coscienza della sovranitaÁ popolare, quasi al buio. Se quel dato di fatto lo si vuole presentare in una versione meno drastica, si puoÁ dire che la sovranitaÁ non era illuminata da gran luce di pensiero. Tanucci, pur ammirando profondamente la Francia quando ragionava a mente fredda (com'eÁ stato dimostrato limpidamente da del Bianco 14), era tuttavia portato fuori strada dal suo nazionalismo culturale di stampo umanistico e dimostrava spesso uno spirito antifrancese che aveva piu origine politica che storica, era espressione dell'uomo di parte piu che di cultura. Inoltre, neanche lui era capace di diagnosi lucidissima sull'illuminismo ed in genere sulla svolta teoretica di fine Settecento; era uomo molto ben dotato di strumenti intellettuali e culturali, ma di formazione paleogiuridica. Sarebbe interessante, mediante un'attenta analisi condotta sul suo immenso carteggio (l'Epistolario, la maggiore impresa diretta a raggiungere questo fine, promossa da Mario D'Addio, offre materiali cospicui e si avvia ad essere la piu ricca ed importante tra le fonti per la storia del Mezzogiorno nel Settecento), osservare e documentare quante volte, in quali occasioni e con quale ritmo crescente si verificoÁ che il re Carlo non seguisse i consigli di Tanucci, tanto che essi finirono sprecati. EÁ stato notato, mediante un'analisi molto fine, da un storico che dello statista pisano eÁ uno dei maggiori esperti, ch'egli soffrõ una cocente delusione giaÁ nel 1763, quando il re non riuscõÂ, pur avendo impegnato il suo prestigio, a mantener in vita in Spagna l'exequatur, che aveva faticosamente introdotto, sulla base 13 Ibidem. Lamberto Del Bianco, Ragioni, LumieÁres, prassi di governo nell'Epistolario di Bernardo Tanucci, nel vol. misc. Bernardo Tanucci nel terzo centenario della nascita, 1698-1998, Edizioni ETS, Pisa 1999, pp. 66-70. 14 VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 343 del modello napoletano, con prammatica del 18 gennaio 1762, ritirata diciotto mesi dopo 15. A differenza di molti altri politici, Tanucci si muoveva in base ad una visione complessiva (solo in parte invecchiata), da studioso e da competente raffinato della storia e del divenire dei valori umani, e non era disposto a tradire quelle idee ed a barattarle per conservare ad ogni costo il potere. In questa volgaritaÁ, ancor oggi tanto frequente, egli non cadde mai, anche se fu costretto ad adattarsi continuamente alle esigenze della corte. L'Epistolario permette di documentare il suo continuo disagio, la sua refrattarietaÁ alla contaminazione politica, che pure fu indotto ad accettare, essendo stato cooptato da quell'ambiente. Sentendosi vicino al tramonto del suo `ministero' e `servizio' (com'egli lo chiamava), le divergenze tra le sue idee e quelle del re crebbero e furono molto chiare, stridenti in particolare durante la rivolta palermitana. Alcuni fattori dalla politica spagnola emersero da quegli avvenimenti e non fecero di certo crescere la fiducia dello statista nel comportamento del Re: di lui era stata palese la tendenza a manifestare un culto quasi trascendente ed astratto della sua sovranitaÁ, mal sorretto da una scarsa capacitaÁ di diagnosticare rapidamente il valore delle persone. Come era capitato, ad esempio, quando aveva dato appoggio e ricchi emolumenti ad Ottavio Bajardi, un personaggio tanto modesto quanto presuntuoso, che aveva ardito addirittura prendere il posto di Celestino Galiani. Carlo era solito concepire amicizie adamantine con uomini privi di ogni valore ed essere con essi eccessivamente generoso; e poi s'impuntava, anche per dare segno di rigore morale e di prestigio, nel difendere ad oltranza quelle scelte errate. Con un minimo di cautela, si sarebbero potuti evitare quegli sprechi e quei, sempre troppo tardi, ripensamenti. Ad esempio, Fogliani non aveva nessuno dei «talenti» necessari a chi dovesse ricoprire posti di grave responsabilitaÁ. La fine ingloriosa che fece, facilmente prevedibile, sarebbe stata ammessa, da chiunque l'avesse nominato, come un errore, cui mettere rapido riparo. Il re, 15 Del Bianco, ivi, pp. 115-25, ed in part. le pp. 121-2. 344 R. Tufano, La Francia e le Sicilie invece, s'intestardõ a difendere il suo protetto, mettendo in un vicolo cieco se stesso e la monarchia napoletana. Allora probabilmente Tanucci si convinse che fosse il caso di procedere con maggior indipendenza di giudizio rispetto al suo sovrano. Poco dopo la rivolta palermitana, i dispacci emanati alla fine del 1774 e che imponevano alle maggiori magistrature napoletane l'obbligo di motivare le sentenze sulle leggi furono, sul piano teorico oltre che politico, gesti molti indicativi di questa nuova linea piu indipendente. Se si prescinde dalle scarse possibilitaÁ che quella riforma, nelle condizioni in cui il Regno ed il suo governo si trovavano, fosse realmente attuata, e se si valuta l'importanza del gesto in se e per seÂ, emerge subito un aspetto che deve far riflettere: fu un'iniziativa di eccezionale significato, intelligente e rivoluzionario. In sintesi si trattava di chiedere alle magistrature di render palesi i ragionamenti mediante cui arrivavano ad ogni delibera, d'imporre ad essi d'indicare le norme «espresse e letterali» su cui ogni decisione era basata, escludendo esplicitamente ogni mediazione dottrinale. Disporre che le sentenze cosõ motivate fossero pubblicate a cura e spese pubbliche, in modo che ogni avvocato e cittadino potesse conoscerle e regolarsi per l'avvenire, significava capovolgere due schemi costituzionali tra loro strettamente connessi. La ratio della riforma era che il potere giudiziario deve dar conto di cioÁ che fa, ossia di come opera, non solo al potere esecutivo, ma al pubblico, che eÁ titolare della sovranitaÁ. Crollava cosõ la visione della giustizia come proveniente da alto loco, da fonti quasi metafisiche, arcane, trascendenti e misteriose. Tramontava la sovranitaÁ come autoritaÁ deduttiva e non induttiva, ossia proveniente dall'alto e non dalla societaÁ. Sul piano logico ed ideale, il passo era rivoluzionario. Ed erano concezioni non solo lontanissime dalla mentalitaÁ del re di Spagna, ma addirittura con essa sostanzialmente inconciliabili, per non dire ostili. Per avere un'idea di quale altezza raggiungesse la visione maiestatica di Carlo, e quanto essa fosse estesa, quella mitologia terrena va commisurata ad un dato visivo: alle misure faraoniche delle regge da Carlo fatte costruire, in particolare quella di Caserta, e porre a confronto le dimensioni esagerate, quasi mostruose VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 345 (ad esempio, il diametro delle colonne frontali di quel palazzo), alla miseria delle popolazioni meridionali. Lo sperpero egli riteneva fosse la cornice indispensabile, appena sufficiente a dare un segno vago dei valori assoluti dal re impersonati. La grandezza doveva apparire aliena rispetto alla statura consueta dei piu grandi palazzi costruiti per gli aristocratici piu ricchi. Quelle dimensioni dovevano essere almeno decuplicate, e l'opera (grazie all'artificio di cascate e di corsi d'acqua, alimentati da arditi acquedotti) doveva dare il segno di come la natura fosse felice di essere assoggettata a quella enorme, incommensurabile ``signorõÂa''. Che egli fosse, in sostanza, un ignorante, e che nulla avesse fatto per dirozzare il primitivo livello della sua cultura, non gli passava neppure lontanamente per la mente. Ancora piu di questo aspetto della sua personalitaÁ, si puoÁ dire che per Carlo la parola ``novitaÁ'', se non era sinonimo di ``disgrazia'', poco mancava che lo fosse. Quando Elisabetta Farnese, avendo avuto notizia dell'iniziativa napoletana diretta a realizzare una codificazione carolina, scrisse il 6 settembre 1741 al figlio re di Napoli per averne notizia, Carlo si affrettoÁ a rispondere (nel suo francese alquanto approssimativo): «pour ce qui regarde au Codice des loix du Royaume, le diroy aÁ vostre M[ajesteÂ] qu'on ne le fait poin pour suprimer les loix ancienes du Royaume, mais seulement pour les mettres toutes en bon ordre, comme on aÁ fait plusieures foix dans les gouvernements passeÂes» 16. Non era neanche sfiorato dal sospetto che quelle leggi fossero contraddittorie, spesso desuete, e che le volontaÁ da esse espresse fosse quasi sempre del tutto teorica, inutile, 16 La lettera fu citata da Ajello in Legislazione e crisi del diritto comune nel regno di Napoli: il tentativo di codificazione carolino, poi in Arcana juris, cit. (cap. VI, nt. 13), p. 98 («il tentativo di codificazione carolino [commentoÁ Ajello], disconosciuto dal re alla cui gloria era destinato, si poteva considerare a quel punto fallito sul nascere»), poi nella ``voce'' Giuseppe Pasquale Cirillo del «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. XXV, 1981, p. 799. Citazione esatta, poiche l'intera frase si ritrova, alla stessa data e con riferimento allo stesso leg. 2612 dello Archivo HistoÂrico Nacional, alle pp. 223-4 di Carlo di Borbone, Lettere ai sovrani di Spagna, III, 1740-1744, a cura e con varie introduzioni di Imma Ascione, oltre alle due generali di Raffaele Ajello e di Pere Molas Ribalta, Ministero per i beni e le AttivitaÁ culturali, Roma 2002 (nella nuova, ampia serie ricostruita dalla Ascione, la lettera ha il numero 827, mentre Ajello indicoÁ il numero archivistico della lettera ancora inedita, ossia il 118, interno a quel legajo). 346 R. Tufano, La Francia e le Sicilie perche non applicata. La risposta di Carlo fu sincera: non aveva la benche minima intenzione d'innovare. Il programma della giunta era diverso, moderatamente ambizioso. Com'eÁ ovvio, se le intenzioni iniziali fossero state di ristampare le vecchie leggi cosõ come erano state giaÁ pubblicate, non si sarebbe parlato di un Codice (parola usata da Carlo giaÁ nel 1741) e poi di Codex nell'edizione a stampa di Elia Serrao (Neapoli, 1789, in due volumi); non sarebbe neanche nato il problema di quale lingua usare, dubbio che fu pessimamente risolto scrivendo le nuove norme in latino (piu tardi fu aggiunta la traduzione italiana); innanzi tutto, nel testo poi edito, le norme erano nuove, e sempre riscritte ex novo, non riportate nelle vecchie forme. Quindi non si fece e non s'intendeva fare un riordinamento e una ristampa (detta consolidazione). Le giunte impegnate in quella sine cura lavorarono (anzi finsero di lavorare) durante non meno di tre decenni. Le istituzioni, specialmente se comportano onori, nascono spesso senza carico di funzioni, solo per sopravvivere sine die. I dispacci che nel 1774 imposero la motivazione delle sentenze sconvolgevano l'intero sistema, colpivano il difetto dell'apparato vigente, anche piu del Codice, nel suo centro, perche imponevano comportamenti pratici, effettivi ai giudici, non agivano sulle forme astratte, ma sulle azioni, ed avevano la pretesa di creare una giurisprudenza quale ancor oggi la intendiamo e secondo una ratio che in Inghilterra funzionava giaÁ alla fine del secolo XII 17, e che in Francia fu imposta dalla Rivoluzione. Insomma, i dispacci del 1774 non sarebbero stati comprensibili nell'ottica carolina. 4. Il significato della caduta di Tanucci fu anche epocale? Sulla caduta di Tanucci molto eÁ stato scritto e, seguendo il metodo adottato quasi in tutto il libro, si preferisce qui far parlare i testimoni coevi. Il 25 novembre 1776 il diplomatico francese Laurent BeÂrenger ± che fin dal 1767 fu, a fasi alterne, secreÂtaire e charge des affaires presso l'ambasciata di Francia a Napoli ± comunicava al mi17 Sul tema, Ajello, EreditaÁ, op. cit. (cap. II, nt. 24), cfr. nell'indice dei nomi «Enrico II Plantageneto». VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 347 nistro degli affari esteri, conte di Vergennes, alcune riflessioni sull'allontanamento di Bernardo Tanucci dal governo delle due Sicilie e sugli scenari politici che si sarebbero probabilmente aperti di lõ a poco 18. Ma il BeÂrenger, non credeva alle notizie ufficiali che prove18 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100 (sei ultimi mesi del 1776), L. BeÂrenger a Vergennes, Paris, 25 nov. 1776, p. 320 e ss. Nato nel 1726, Laurent BeÂrenger fu secreÂtaire di Louis-Auguste Le Tonnelier, barone di Breteuil, a Pietroburgo (1760-1763), charge d'affaires in Russia (1763-1765), poi a Vienna (1767-1767), seÂcretaire del visconte di Choiseul, ambasciatore a Napoli (1767-1771). Poi, alla partenza del diplomatico (avvenuta nell'ottobre del 1771), rimase charge d'affaires, fino all'arrivo di Breteuil (2 lug. 1772), quando riprese le funzioni di secreÂtaire. Nobilitato nel gennaio 1776, rientroÁ in Francia dopo la caduta di Tanucci. In seguito, dal 1779 al 1785, fu secreÂtaire dell'ambasciatore francese in Olanda. TerminoÁ il suo cursus honorum nell'amministrazione degli esteri francesi nel 1792, in qualitaÁ di ministro plenipotenziario a Ratisbona, dove si trovava fin dal 1786: cfr. A.A.EÂ., Personnel, PreÂmieÁre seÂrie, t. VII, ff. 77-170. Nella diplomazia europea le «secreÂtaire d'ambassade» apparteneva ai ruoli degli Affaires eÂtrangeÁres, perche era di nomina reale. Egli si distingueva dal «secreÂtaire de l'ambassadeur», che veniva scelto e stipendiato dal capo della missione diplomatica, sfuggendo cosõ ad ogni forma di controllo governativo. Sulla distinzione, cfr. A. van Wicquefort, L'ambassadeur et ses fonctions, Amsterdam 1730, p. 68 (la prima edizione del volume a L'Haye nel 1676). Questo funzionario, quasi mai di origini nobili e scelto esclusivamente tra gli uomini di lettere (scrittori, o ecclesiastici o giuristi), durante il Settecento era divenuto la figura centrale delle missioni diplomatiche, dove svolgeva compiti che l'ambasciatore di solito riteneva ingrati, quali la preparazione, la redazione e la cura degli atti e di memorie. Dietro questa tendenza si poneva, in realtaÁ, il fenomeno della crescente affermazione tecnico-burocratica del governo, che avveniva per mezzo di uffici costituiti da funzionari che venivano nominati direttamente, organizzati gerarchicamente e dipendenti da un'autoritaÁ sovrana, con l'obiettivo di razionalizzare non solamente le attivitaÁ esecutive, ma anche quelle di osservazione delle realtaÁ sociali, economiche e politiche dei paesi dove si svolgevano le missioni. Durante il secolo solo pochi ambasciatori iniziarono a provenire dal ruolo dei funzionari (cfr. C.G. Picavet, La carrieÁre diplomatique en France au temps de Louis XIV (1661-1715), in «Histoire, eÂconomie et socieÂte», 1923, pp. 389-96 e J.P. Samoyault, La situation sociale du personnel des bureaux des Affaires eÂtrangeÁres sous Louis XV, in «Revue d'histoire diplomatique», 1969, pp. 97-117). Nel racconto di quest'anni eÁ apparso necessario porre in evidenza la stretta connessione tra politica interna e politica internazionale, a lungo sottostimata dalla storiografia del Mezzogiorno d'Italia, legata alla tradizione ideologico-politica risorgimentista ed alle sue lunghe ± e, spesso, carsiche ± derive. Per far cioÁ abbiamo tentato di ricostruire la vita politica della nazione meridionale attraverso la sua contestualizzazione in scenari politici internazionali, utilizzando la prospettiva offerta dall'esistenza di un «sistema internazionale di corte». Non eÁ il caso di ripercorrere l'intera tradizione storiografica meridionale, nei suoi vari modi ± diplomatici, positivistici, idealisti, marxistici, neo-illuministici ± di vedere l'oggetto storico dello Stato meridionale prima e dopo la partecipazione all'impero spagnolo. Ci basti qui notare che, nel caso della ricostruzione e del racconto degli ultimi anni di governo del ministro Tanucci, la storiografia a lungo manca di alcuni elementi, che invece oggi sono da ritenere primari. 348 R. Tufano, La Francia e le Sicilie nivano dalla corte napoletana ed alle dichiarazioni rilasciate dallo stesso statista pisano, che tendevano ad avvalorare la tesi dell'abbandono dei compiti governativi per stanchezza e per il sopraggiungere di un etaÁ troppo avanzata. Egli, invece, sosteneva di aver visto, nel corso della sua lunga missione presso la corte partenopea, «preÂparer le changement de sceÁne». Ai suoi occhi esperti di maturo diplomatico, le volontarie dimissioni si presentavano come un velo pietoso dietro cui si voleva celare la rovinosa caduta di uno statista ancora lucido, valido e combattivo, come Tanucci, dal vertice delle due Sicilie. E per BeÂrenger, il mistero di quella fine era tutto scritto nel copione «d'une intrigue puissante et habilment conduite», ch'egli s'apprestava a raccontare 19. Nel 1774 Breteuil aveva scritto al ministro francese d'Aiguillon che Laurent BeÂrenger era «le plus ancien des secreÂtaires d'ambassade», e che «y joint l'avantage d'avoir eÂte charge d'affaires dans les cours les plus importantes». Oltre ad aver svolto compiti amministrativi, di ghost writer, di osservatore della societaÁ, delle istituzioni e della vita politica dei paesi oggetto delle sue missioni, egli aveva dunque maturato una buona esperienza proprio sul campo della negoziazione. La sua carriera era stata peroÁ ostacolata da «une trop grande delicatesse, qui ne lui permit pas d'abandonner M. le vicomte de Choiseul dans un moment ou il avait ici quelque embarras» 20. Infatti era rimasto fedele al gruppo di potere di EÂtienne-FrancËois comte de Stainville, e poi duc de Choiseul che, con madame Du Barry, con i principi di Conty, si erano disputati corte e governo in Francia dal 1758 al 1770. Il Duca era stato «le Ministre preÂpondeÂrante» durante oltre un ventennio di politica difficile, caratterizzata dall'accesa dialettica tra la corte ed i Parlamenti, artefici, tra l'altro, dell'azione contro i Gesuiti, di cui lo stesso Choiseul fu ritenuto responsabile, anche se cercoÁ di discolparsene. Jean Egret ha scritto che, durante quegli anni, «la lutte contre les A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100, L. BeÂrenger a Vergennes, Paris, 25 nov. 1776, p. 320 e ss. 20 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 97 (1 mar./31 dic. 1774), Breteuil a d'Aiguillon, Naples 9 apr. 1774, p. 29r. 19 VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 349 Parlements devint, de plus en plus, la grande affaire du reÁgne» di Francia. Il duca de Choiseul non era ostile ai «pouvoirs intermeÂdiaires», ma al fatto che le loro pretese diventavano sempre piu inaccettabili: egli riteneva assurdo che «la Constitution» della Francia potesse esser «changeÂe par des folies et par une reÂsistance ridicule» dei «premiers Magistrats». Era arrivato a minacciare le maniere forti da parte del re: «Cent hommes de ses trupes [...] seront suffisants pour aneÂantir avec une pieÁce de quatre livre de balles le gran feu parlamentaire» 21. Questo era il tono dello scontro politico francese in quei decenni. Con la disgrazia politica di Choiseul, BeÂrenger era rimasto bloccato a Danzica per sei lunghi anni 22. La nota informativa di questo diplomatico su Tanucci eÁ redatta con lo stile asciutto che era tipico delle notizie riservate, e si rivolgeva ad un ministro che, avendo trascorso tutta una vita agli affaires eÂtrangeÁres, conosceva bene i propri uomini, le loro aspettative di carriera e 21 Jean Egret, Louis XV et l'opposition parlementaire, Colin, Paris 1970, pp. 137-9. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 97 (1 mar./31 dic. 1774), Breteuil a d'Aiguillon, Naples 9 apr. 1774, p. 29r. Il 3 dic. 1758 fu nominato segretario di Stato per gli Affari esteri il duca di Choiseul (titolo portato dopo il 2 ago. 1758 dal conte di Stainville) a seguito della rinuncia di Bernis, divenuto cardinale. Divenne ministre d'EÂtat, e le sue attribuzioni al governo variarono nel corso degli anni. Governeur di Touraine (27 lug. 1760), il 28 ago. 1760 ricevette la Surintendance geÂneÂrale des postes. Alla morte del maresciallo di Belle-Isle, divenne segretario di Stato della Guerra, incarico che conservoÁ sino alla sua disgrazia politica, avvenuta nel 1770, e che cumuloÁ con gli Affari Esteri e con la Marina, alternandosi in questi dipartimenti con il cugino, conte di Choiseul. Quest'ultimo, titolato duca di Praslin dal 1762, resse gli Affari Esteri dal 13 ott. 1761 al 10 apr. 1766, ed in seguito la Marina. Sugli Choiseul, cfr. R. Butler, Choiseul, Father and Son, Oxford 1980. Sulla rottura tra Louis XV e i cugini Conty, cfr. J. Woodbridge, La conspiration du prince de Conti (1755-57), in «Dix-huitieÁme sieÁcle», t. 17, 1985, pp. 97-109; sui partiti di corte e sul ruolo giocato da Jeanne BeÂcu, contessa Du Barry, favorita del re, cfr. su tutti M. Antoine, Louis XV, Fayard, Paris 1989, passim. Sulle posizioni assunte in politica estera dalla fazione Choiseul, cfr. oltre i giaÁ citati Butler e Antoine, cfr. il vecchio, ma ancora utile A. Bourguet, Le duc de Choiseul et l'alliance espagnole, Paris 1906. Noto l'odio di Tanucci verso il partito degli Choiseul, cfr. ad esempio la lettera a Squillace del 1 aprile 1766: «[...] so per indubitato che e il duca di Choiseul e il duca di Praslin sono due grandissimi nemici dei Borboni di Spagna e delle Sicilie, e non so quanto siano amici dei Borboni di Francia. Erano certamente nemici del morto Delfino e sono stati una delle cagioni della di lui morte». In realtaÁ il Delfino di Francia, nato il 4 settembre 1729, era morto di tubercolosi il 20 dicembre 1765, e i reali dissapori tra lui e gli choiseulistes dipendevano dalla resistenza che il figlio di Luigi XV opponeva ai provvedimenti contro i gesuiti: cfr. Antoine, op. ibidem cit. Ma sulla politica degli choiseulistes nei confronti del regno di Napoli, al centro della vicenda qui narrata, si veda piu avanti. 22 350 R. Tufano, La Francia e le Sicilie di promozione sociale (l'argent), la loro osservanza politica (la foi), e financo la loro intimitaÁ (l'amour). Queste tre molle dell'animo umano da sempre erano state la lente privilegiata con cui si guardava agli uomini addetti all'apparato degli esteri. E poi, i vertici della diplomazia francese subivano ancora lo smacco inferto dal d'Eon e dalla sconcertante scoperta del doppio canale diplomatico, chiamato «Secret du Roi», per non avere ancora la mente irretita dalle maglie sottili della diffidenza 23. Le ipotesi sostenute dal BeÂrenger risultano sicuramente affidabili, se non nella precisione dell'analisi politica, almeno sotto il profilo delle buone intenzioni che animavano l'informatore. Egli spiegava a grandi linee il perche della soluzione di continuitaÁ di un lungo governo, che si era snodato lungo un arco temporale di quarant'anni, tenendosi sempre fedele alla dinastia dei Borbone di Spagna, piu che ai Borbone di Francia o ai Patti di famiglia. Il successore di Bernardo Tanucci, Giuseppe Beccadelli-Bologna, marchese della Sambuca, era stato nominato alla prima Segreteria di Stato malgrado un dato di fatto: «sa nomination deÂplaise aux napolitains», che «voyent avec peine les grandes charges, et les grands emplois de la cour passer aÁ leurs rivaux» siciliani 24. Era proprio «l'animosite entre les deux nations», «quoique marqueÂe avec moins d'eÂnergie est aussi forte que celle qui a longtems regne entre les anglois et les Ecossais», che aveva prodotto la rivoluzione nel governo delle due Sicilie 25. Sul piano interno al regno «le deÂvouement de M. de la Sambuca aÁ ses compatriotes [...] a beaucoup contribue aÁ son eÂleÂvation» 26. Questa 23 Sulla clamorosa vicenda che vide protagonista a Londra l'agente segreto e diplomatico Charles-GenevieÂve de Beaumont, al secolo cavalier d'EÁon (1728-1810), cfr. M. AntoineD. Ozanam, Correspondance secreÁte du comte de Broglie avec Louis XV (1756-1774), 2 voll, C. Klincksieck, Paris 1956-1961, passim. Sullo strano personaggio indichiamo solamente le opere che ci appaiono piu credibili: F. Gaillardet, La CheÂvalieÁre d'EÁon, Paris 1866; J. Buchan Telfer, The strange career of tre chevalier d'EÁon de Beaumont, Londres 1885; O. Homberg e Jousselin, Un aventurier au XVIIIe sieÂcle, le chevalier d'EÁon, Paris 1904; Pinsseau, L'eÂtrange destineÂe du chevalier d'EÁon, Paris 1945. 24 A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100 (sei ultimi mesi del 1776), L. BeÂrenger a Vergennes, Paris, 25 nov. 1776, p. 320 e ss. 25 Ivi. 26 Ibidem. VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 351 ± assicurava BeÂrenger ± avraÁ come effetto di rinsaldare attorno alle sfere governamentali i «siciliens», che «qui souvent diviseÂs entre eux par des inteÂreÃts particulieres», e che «ne manqueront jamais de se reÂunir pour leur inteÂreÃt commun» 27. E forniva i nomi dei cortigiani, ch'egli vedeva come le menti dell'intrigo: «Le grand maõÃtre, le grand eÂcuyer, le Cap.ne geÂneÂral, sont les chefs de le parti, la princesse d'Yaci, femme du dernier en est le centre, et elle est dirigeÂe par l'abbe Airoldi, le confideur et le conseil de tous les siciliens» 28. Sono gli stessi nomi che Tanucci citava ironicamente a Viviani in due lettere del 3 marzo e del primo aprile 1777, indicandoli come i responsabili della congiura ordita contro di lui, e ch'egli apostrofava con il titolo di «Ingrati innumerabili»: Giuseppe Emanuele Ventimiglia e Statella, principe di Belmonte, il principe di Jaci e consorte, Giovanni Fogliani d'Aragona, il marchese della Sambuca, l'ambasciatore austriaco presso la corte napoletana, ed «altri pochi miei fratelli ed amici» 29. Per quel che riguarda le preoccupazioni della politica estera francese, BeÂrenger rassicurava il suo ministro che il Sambuca non avrebbe goduto di quell'indipendenza dalle regole del Patto di famiglia, che invece aveva avuto il suo predecessore. Opinione condivisa, come vedremo meglio in seguito, anche dall'ambasciatore Clermont d'Amboise, che dal 31 maggio del 1776 si trovava a Napoli, per il quale «il y a tout lieu d'espeÂrer que ce nouveau MinisteÁre produira une reÂvolution avantageuse aÁ tous les eÂgards» 30. Diagnosi per altro 27 Ibidem. Ibidem. 29 Bernardo Tanucci a Luigi Viviani, in . Viviani Della Robbia, Bernardo Tanucci e il suo piu importante carteggio, Sansoni, Firenze 1942, vol. II, Lettere, 3 mar. 1777, p. 422, e 1 apr. 1777, p. 427. 30 Jean-Baptiste-Charles-FrancËois de Clermont d'Amboise, poi marchese di Reynel (1728-1792), era stato ambasciatore a Lisbona dal 1769. Venne nominato ambasciatore a Napoli in sostituzione di Breteuil. Nel febbraio 1776 prese congedo dalla corte di Versailles, per giungere a Napoli il 31 maggio 1776. Della moglie, Antoinette de Moustier, la d'EÂpinay aveva scritto a Ferdinando Galiani: «elle a une naõÈvete plaisante et un petit air 28 352 R. Tufano, La Francia e le Sicilie quasi ovvia, poiche era nota l'appartenenza di Sambuca al `partito' austriaco della Regina. Gli avvenimenti politici successivi daranno pienamente ragione alle diagnosi di questi due diplomatici. 5. Conclusioni: la Francia dominava sia nella tesi sia nell'antitesi EÁ altrettanto naturale che la reÂvolution avvenuta nel regno meridionale al vertice del suo governo procurasse un immediato incremento di vantaggi alla politica commerciale francese. Si rinsaldava cosõ anche sul piano formale quello squilibrio di potenzialitaÁ e di mezzi materiali che si era creato nei secoli della dominazione straniera e che, in seguito all'indipendenza del Mezzogiorno, si era cercato di correggere. Infatti, gran parte delle richieste che la corte francese non era riuscita a soddisfare durante i governi di Montealegre e di Tanucci, nel giro di pochi mesi dopo il 1776 trovarono una soluzione: dal pagamento delle ingenti somme dovute ad alcune case commerciali francesi per la famosa causa sui grani di Marsiglia, all'eliminazione della tassa sull'estrazione delle merci dal regno di Napoli su bastimenti stranieri, fino a giungere alla riformulazione (vantaggiosa per la Francia) del trattato di commercio, al quale avevano da anni lavorato Tanucci e Domenico Caracciolo 31. La lettura della corrispondenza diplomatico-consolare dimostra l'entusiasmo della Francia per quel che andava guadagnando in termini di bilancio commerciale con il regno di Napoli 32. Le ragioni profonde di questo brusco mutamento nella politica interna ed estera delle due Sicilie sono state fin qui analizzate, e d'humeur treÁs original» (Gli ultimi anni della signora d'EÂpinay. Lettere inedite all'abate Galiani (1773-1782), a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari 1933, 5 sep. 1774, p. 118. Galiani rispose cosõÂ: «Je suis ravi de la destination du chevalier de Clermont ici: rien ne pouvait, plus que cela, me deÂdommager de la perte de M. de Breteuil. Sa femme ne me ragarde pas. Je n'ai plus de dents pour des choses aussi croquantes. Elle trouvera ici de quoi bouder aÁ son aise; mais, pour lui, il est tellement mon ami, je l'aime si tendrement, que je regarde comme un vrai bonheur pour moi de le posseÁder ici» (Galiani a madame d'EÂpinay, in L'abbeÁ F. Galiani, Correspondance, par Lucien Perey et Gaston Maugras, Calman LeÂvy, Paris 1881, vol. II, p. 349, 24 sep. 1774). 31 Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100, passim. 32 Ivi, passim. VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 353 costituiscono lo sfondo del cambiamento di scena. CioÁ che si svolse sul palcoscenico del governo fu solo l'epifenomeno della vicenda. La pressione dei «siciliani» di Sambuca a sostegno della regina austriaca costituõ l'immagine pubblica, esteriore di uno scontro che era stato, nei suoi tempi e nei suoi contenuti di ben piu ampio significato. La strategia del nuovo Regno, a rigor di logica, non poteva che esser diretta a sottrarre almeno in parte l'economia del Mezzogiorno alla tutela francese: dialettica sostanziale che aveva avuto inizio con l'indipendenza, aveva percorso tutto il cammino della militanza ministeriale di Tanucci, anche se egli ne era diventato protagonista oltre vent'anni piu tardi del 1734. La relativa libertaÁ internazionale ottenuta allora sarebbe stata mera forma, se non fosse stata accompagnata dalla coscienza degli interessi economici `nazionali'. Nella gestione politica centrale e nella societaÁ nacque infatti gradualmente un nuovo impegno di efficienza diretto a recuperare la produttivitaÁ ed il benessere collettivo. Di qui il manifestarsi di sentimenti nazionali, la cui presenza eÁ stata rilevata e messa in luce dagli storici come una novitaÁ; ma questo fenomeno costituisce la regola in ogni comunitaÁ che sia libera di esprimere i suoi interessi. Come si eÁ visto, invece, all'inizio della parabola storica tracciata in questo libro, l'indifferenza per le sorti dei due regni era pressoche nulla ed ogni partecipazione all'andamento del governo era assente, era sostituita da una quasi totale indifferenza e passivitaÁ. Questa novitaÁ era dunque una conseguenza naturale. EÁ da rilevare come un carattere specifico della storia meridionale del Settecento che la strategia nazionale avviata da Montealegre, e fu dotata del sussidio di strumenti scientifici internazionali, teorizzata da intellettuali come Celestino Galiani, Bartolomeo Intieri ed Antonio Genovesi. Tanucci, per motivi politici personali, giudicoÁ negativamente quella fase, ma poi adottoÁ una strategia simile proprio in quanto contrastava la politica economica francese e mostrava di adeguarsi al complesso teoretico-pratico di quel modello. PercioÁ la Francia fu contemporaneamente amata ed odiata, secondo una compresenza e divergenza di sentimenti che caratterizzano l'intera storia meridionale (come fu rilevato alla fine dell'Ottocento dai pregevoli studi di 354 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Croce) e che risalivano, nello loro matrici teoretiche, addirittura al Medio Evo: al crollo prima della magia celeste nel secolo XI e XII e poi della magia nera nel XVI e XVII 33. EÁ necessario ribadire l'esistenza in questa trama dei fatti storici, di un tessuto unitario, omogeneo e forte, secondo cui si eÁ realizzata la fisionomia della civiltaÁ europea e che da secoli fino ad oggi la caratterizza. Infatti se non si tiene conto di questa linea interpretativa, ormai consolidata e comune a tutte le storiografie occidentali, la congerie delle iniziative politiche e degli avvenimenti non disegna alcun profilo fruibile; la storia medievale e moderna non eÁ comprensibile, ed il modello di sviluppo, adottato da tutte le democrazie evolute ed oggi chiaramente vincente, si presenta come un caso fortuito e non come il risultato di un lavoro che ebbe inizio dopo il crollo della civiltaÁ antica, sulle rinnovate basi poste dalla sensibilitaÁ e dalla religiositaÁ cristiana: che eÁ realtaÁ storica, non dogmatica. Nel 1776, alla fine (apparente) dell'antica e perdurante ambivalenza di odio e di amore verso la Francia, l'eccessiva disponibilitaÁ verso gli interessi del commercio transalpino fu il prezzo che la corte napoletana meridionale pagoÁ ai discendenti di Luigi XIV per l'aiuto che essa aveva offerto all'Austria fin dal 1756, allo scopo di sottrarsi alla travolgente spinta prussiana. Ma, in seguito a quel cambiamento, gli equilibri dell'Europa non potevano sopportare il fatto che il legame Parigi-Madrid si prolungasse al centro del Mediterraneo occidentale, seguendo una linea quasi circolare, attraverso la Sicilia ed il Mezzogiorno continentale, fino alle porte dello Stato Pontificio e, sull'Adriatico, anche piu a nord di Roma. Quel cerchio appariva, per il momento, innocuo, ma non poteva non preoccupare chi da esperto, conosce l'estrema mutabilitaÁ degli equilibri storici. La presenza a Madrid di un re che di certo non mostrava eccessi d'intraprendenza e di combattivitaÁ, non attenuava l'immagine e la prospettiva preoccupante, in cui, infatti, era sempre pronta ad inserirsi la potenza navale inglese. 33 Per un profilo d'insieme di questi fenomeni, si rinvia alla piu volte citata e recente monografia di Ajello, EreditaÁ medievali, cit. (cap. I, nt. 24). VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 355 La caduta di Tanucci, avvenuta il 27 agosto del 1776, fu in correlazione con il licenziamento del filo-francese ministro degli esteri di Carlo III, Girolamo Grimaldi (7 novembre 1776), sostituito con il golilla Floridablanca, che per piu di un decennio reggeraÁ il timone della governo spagnolo. L'intero contesto occidentale registroÁ proprio in quegli stessi anni grandi rivolgimenti, addensatisi nell'arco di un quinquennio e avvenuti sotto la spinta delle rivoluzioni ± quella americana soprattutto ±, delle guerres des farines e dei sempre piu acuti conflitti politici che andavano sviluppandosi ovunque. Per rispondere alle domande sulla logica intima di queste novitaÁ bisogna guardare a scenari politici piu ampi di quelli regnicoli, osservare il complicato sistema internazionale delle corti. D'altronde, lo stesso Tanucci, in una lettera del febbraio 1774, aveva confessato di avvertire la morsa sempre piu soffocante del rapporto parentale-pattizio con la Francia. Questa nazione svolgeva un'azione di pesante influenza nei processi di formazione della volontaÁ politica in Spagna e a Napoli, ed era altrettanto determinante nella costruzione di ogni decisione politica: «Fatti, educati, abituati li francesi alla cabala, e pieni d'orgoglio e della superbia nativa, ministri andando alle Corti portano cabala, ambizione e presunzione di mettersi in ogni affare anche interiore delle nazioni, ad quas. Non fanno della Spagna altro uso che quello che lor vien fatto per loro proprio interesse. E con pochissima cura di coprirsi, fanno quanto possono contro la Spagna e Appendici, formando complotti con qualunque lor serva all'interesse del giorno, anche colli ministri delle Corti, naturalmente contrarie ai parenti. Da Madrid a Parigi il re di Spagna non ha amico che il re di Francia. Lo stesso avviene al re delle Sicilie, di laÁ dall'isola dell'Elba e del Varo» 34. Il suo giudizio andava oltre l'attacco sferratogli congiuntamente dalla regina, dal partito filo-austriaco e dai diplomatici francesi che risiedevano a corte. Tanucci avvertiva il carattere arcaico di quegli assetti oppressivi, inconciliabili con i fermenti d'impazienza che venivano 34 Ad Azara, da Caserta, 19 feb. 1774, in Tanucci, Epistolario 1774 (cfr. supra cap. V, nt. 29), let. 82. 356 R. Tufano, La Francia e le Sicilie dal basso, dai popoli non piu disposti ad essere condotti passivamente al pascolo, come greggi. Un'immagine di questo genere era riflessa anche dal conflitto che si era aperto drammaticamente il 14 settembre del 1773 a Palermo nelle forme di uno «strano accadimento» rivoltoso. I dispacci del 1774 che avevano imposto la motivazione delle sentenze agli insindacabili patriarchi posti a difesa dell'Antico Regime, erano stati, in sostanza, un gesto (forse maldestro), ma di chiaro significato costituzionale. Esso eÁ illuminato dalla riforma Maupeou, iniziata a Parigi, tre anni prima, e proprio in quelle settimane conclusa con il totale fallimento, ossia con un'integrale restaurazione. Anche quell'iniziativa era stata animata da un'energia generale e nascosta, che potremmo dire `tellurica', e che aveva qualcosa in comune con gli altri sommovimenti indicati. Deporre dalla loro carica 167 tra i piu alti magistrati di Parigi, confiscarne gli uffici legalmente ricoperti, non indennizzarli ed esiliarli (107 in tutta la Francia, e 60, i meno ostili, «envoyeÂs dans leurs terres»), fu un provvedimeno che alcuni giudicarono «une reÂvolution compleÁte et sourde», altri «une atteinte aux maximes anciennes et aux lois du Royaume». In base a quel precedente sarebbe stato possibile «aneÂantir toutes les lois» 35. Gli apologisti della riforma rilevavano che i magistrati non erano, come in Inghilterra, i rappresentanti del popolo, «puisque nous ne les nommons point et ils ne nous rendent pas compte». I magistrati, avendo comprata la carica, «ils n'eÂtaient vraiment sensibles qu'aÁ leurs propres inteÂreÃts» 36. Infine, in quel modo, fu per qualche anno abolita la venalitaÁ delle cariche, poiche i nuovi magistrati, scelti da Maupeou, non furono tenuti a sborsare nulla. In realtaÁ proprio i meccanismi della sostituzione rivelarono le maggiori difficoltaÁ. Quasi contemporaneamente all'emissione a Napoli dei dispacci sulla motivazione delle sentenze, la riforma del cancellier Maupeou fu abolita, in seguito alla morte di Luigi XV ed alla constatazione che non era possibile capovolgere il sistema mediante un semplice meccanismo legislativo. Ma la sensazione che 35 36 Egret, op. cit. (cap. V, nt. 19), pp. 178-9. Ivi, p. 211. VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 357 bisognasse «bouleverser» tutto fu molto chiara. Era stato palese il rifiuto da parte del governo francese di un'amministrazione della giustizia che si attribuiva poteri arcani. Maupeou aveva interpretato cosõ esigenze sociali e culturali generalizzate. Ferdinando Galiani e madame d'EÂpinay commentarono quegli avvenimenti come il segno di una crisi delle mentalitaÁ sociali, il crollo della «TheÂologie de l'admnistration» 37. Avvenimenti in apparenza non cruenti furono avvertiti come uno scossone formidabile, che aveva fatto giaÁ temere lo scoppio di una rivoluzione e che indusse molti benestanti ad uscire da Parigi ed a soggiornare nelle case di campagna. La d'EÂpinay scrisse: «je vois les esprits moins disposeÂs aÁ la violence qu'aÁ la desertion. Nombre de gens pensent seÂrieusement aÁ s'expatrier» 38. L'Antico Regime oscillava in tutt'Europa sotto i colpi che proprio il pensiero francese, anche piu di quello inglese, aveva dato a quella vecchia e fatiscente costruzione. Per queste ed altre ragioni, gli anni 1773 e 1774 furono non solo decisivi per le sorti politiche di Tanucci, ma anche uno dei momenti piu delicati di un ciclo politico che presto avrebbe trascinato lo Stato borbonico, e gran parte dell'Europa, nel crollo di un assetto sociale ed istituzionale millenario. Anche la diplomazia piemontese, francofona e spesso francofila, per ovvie ragioni molto attenta agli interessi transalpini, nella rovina di Tanucci aveva visto precise responsabilitaÁ francesi. L'ambasciatore a Napoli, Incisa di Camerana, entrato in servizio a Napoli nel febbraio 1775, aveva laconicamente commentato che «nella presente circostanza la Spagna nulla sa ricusare alla Francia» 39. Egli confermava cosõ le capacitaÁ diagnostiche della diplomazia torinese che a sud delle Alpi era diventata nell'ultimo secolo la piu matura dal punto di 37 Cfr., nel cit. vol. L'Abbe F. Galiani, Correspondance, a cura di L. Perey et Gaston Maugras, Calman LeÂvy, Paris 1881, vol. I, p. 375 (Madame d'EÂpinay a Ferdinando Galiani, 11 avril 1771). Sulla riforma Maupeou resta fondamentale la sintesi del citato Egret (cap. V, nt. 19). 38 Ivi, I, p. 383, Madame d'EÂpinay a Ferdinando Galiani, 11 avril 1771. 39 La testimonianza dell'ambasciatore piemontese Incisa di Camerana (a Napoli dall'11 feb. 1775) eÁ stata utilizzata da R. Ajello, I filosofi e la regina, cit. (cap. IV, nt. 67). La cit. eÁ in I parte, p. 426. 358 R. Tufano, La Francia e le Sicilie vista tecnico, la piu obiettiva, ed anche la piu sensibile agli interessi generali delle popolazioni italiane. La «douce domination» della Francia sulla Spagna si ripercuoteva in un analogo effetto, meno dolce e specificamente economico, sull'Italia in generale e sul Mezzogiorno in particolare. Ma erano tempi in cui, aspra o dolce che fosse, ogni dominazione appariva insopportabile. Proprio dalla Francia provenivano all'Italia due modelli a prima vista di segno opposto, ed in realtaÁ fondamentalmente coerenti: un forte pensiero critico, ed un efficientismo economico che non guardava a mezzi pur di assicurarsi il massimo successo. Erano impulsi paralleli, ma si ponevano come cause di reazioni molto diverse. L'osservatore dei fatti storici deve cogliere sia il parallelismo sia il contrasto, sia la coerenza sia la contraddizione: eÁ importante che sappia far emergere la logica della coerenza, che spesso eÁ la stessa della contraddizione, e colga l'architettura dell'insieme, che eÁ sempre un accordo di pieni e di vuoti, di linee orizzontali e verticali. Limitarsi ad ammucchiar pietre ± fuor di metafora a presentare fonti ed a descrivere meri fatti ± eÁ lavoro che, se eÁ eseguito con scrupolo e con specifico interesse alla oggettivitaÁ, eÁ filologico, non storiografico. Per concludere, Ferdinando Galiani ± genio eccelso, ma sregolato e piu intuitivo che razionale (irrazionale nel senso che era del tutto privo di una linea di coerenza morale) ± comunicoÁ alla d'EÂpinay alcuni suoi pensieri da cui eÁ evidente che aveva capito molto di cioÁ che sarebbe avvenuto nei due prossimi decenni. Non si riferiva alla Rivoluzione, che non previde, ma all'assetto europeo ad essa successivo. In primo luogo comprese che la guerra contro «le despotisme de la Robe», combattuta da secoli, non sarebbe stata vinta. «Il y aura despotisme partout, mais despotisme sans cruauteÂ, sans goutte de sang reÂpandu. Un despotisme de chicane e fonde toujours sur l'interpreÂrtation des vieilles lois, su la ruse et l'astuce du Palais et de la Robe; et ce despotisme ne visera qu'aux finances des particulieres. Hereux les robins, alor qui seront nos mandarins!» 40 40 Ivi, p. 388, 27 avril 1771, alla medesima. VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche? 359 Ma pensava che, al di laÁ del dispotismo legale e dello studio delle vecchie leggi, avremmo avuto in Europa un sistema giuridico del tutto nuovo: «Pour la jurisprudence, toutes les nations de l'Europe auront un code particulier, et les lois romaines seront aneÂanties». Se Tanucci avesse conosciuto questa previsione, ne avrebbe tratto un incremento quasi letale del suo non lieve pessimismo. Intanto ± osservoÁ Galiani con il consueto acume ± «aÁ force de disputer su l'Esprit des lois», cioÁ che avraÁ valore per «chaque nation» saraÁ «l'esprit de la constitution»: ossia il culto civile de «l'ordre essentiel». INDICE DEI NOMI * * I nomi sono in tondo se presenti nel testo, in corsivo se indicati nelle note: se compaiono in entrambi i luoghi non eÁ ripetuto il numero in corsivo. Abarca y Bolea, Pedro Pablo, conte d' Aranda, 237, 283, 285, 329 Abelardo, Pietro, 27, 227, 235, 285 Acaya, Gian Giacomo, dell', barone di Segine, ingegnere militare, 132 Achille, eroe omerico, 300 Acquaviva, Giovan Girolamo, XIV duca d'Atri e Grande di Spagna, 57, 67, 125, 128, 129, 131 Acquaviva di Conversano, famiglia, 128, 129 Acquaviva, Giulio, 128 Acquaviva, principe d', v. De Mari, Carlo Acton, Giovanni, 203, 211, 260, 266, 268, 274 Adalberone di Laon, vescovo, 44 Afan de Rivera, Pedro, duca di AlcalaÁ, vicere di Napoli, detto anche `don Perafan' o Parafan, 177 Aiguillon, Emmanuel-Armand de Vignerot du Plessis de Richelieu, duca d', ministro degli Affari Esteri francesi, 243, 245, 280, 288-9, 299, 300, 303, 348 Ajello, Raffaele, 5, 10, 14, 19, 31-2, 4-2, 45, 46, 56, 59, 84, 93, 109, 112, 123, 156, 177, 189, 191, 192-3, 198, 203, 217, 219, 226, 227, 238, 248, 252, 266, 268, 271, 275, 284-5, 296, 314, 316, 317, 318-20, 345, 346, 354, 357 AlabruÂs Iglesias, Rosa Maria, 152, 153, 160 Alberoni, Giulio, cardinale, 10, 217, 221 Alciato, Andrea, 27 Aldimari, Biagio, 127 Alessandro VIII, Pietro Vito Ottoboni, papa, 104, 139 Alighieri, Dante, 78, 195 Alker, Hayward R. jr., 165 Almirante de Castilla, v. Cabrera, Juan TomaÂs EnrõÂquez, de Althann, Michael Friedrich d', cardinale e vicere di Napoli, 56, 112, 177, 191, 192, 193 AÂlvarez de Toledo, Fernando, duca d'Alba, vicere di Napoli, 92 AÂlvarez de Toledo, Pedro, marchese di Villafranca, vicere di Napoli, 44, 46, 47, 48, 51, 52, 56, 109, 110, 115, 119 AÂlvarez Osorio Gomez de Avila y Toledo, Antonio Pedro, marchese di Astorga, vicere di Napoli, Amelot, Michel-Jean, barone de Brunelles, marchese de Gournay, ambasciatore francese, 185, 186 Anastasio, Filippo, vescovo di Sorrento, 141, 143-5, 153 AndreÂ, Louis, 151 Andreu, Francesco, 124 AngioÁ, casa d', 71, 73 AngioÁ, duca d', v. Filippo V Angyal, Andras, 167 Aniello, Tommaso, detto Masaniello, 45, 67, 69, 70, 71, 88, 100, 103, 108, 116, 123, 125 Antoine, Michel, 230-1, 232, 243, 244, 246, 288, 290, 349-50 Antoni, Carlo, 25 Aragona, casa d', 71, 160 Aragona, principe di, v. Naselli Salvatore. Aranda, conte d', v. Abarca y Bolea Pedro Pablo Arcos, duca d', v. Ponce de LeÂon, Rodriguez Argento, Gaetano, 99, 145, 205 Arigliano, duchi d', 74 364 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Arneth, Alfred Ritter, von, 316, 320 Aron, Raymond, 60 Asburgo-Lorena, famiglia reale, 11, 156-7, 160, 190, 241, 245-6, 316, 332 Ascione, Imma, 53, 54, 67, 176, 266, 298, 345 Ashby, William Ross, 167 Assante, Franca, 201, 265 Atri, duca d', v. Acquaviva Giovan Girolamo Attendolo, Ambrogio, ingegnere, 132 Aumont, duca d', 243 Avellino, principe di, v. Caracciolo, Marino Francesco Azara, Giuseppe Nicola, 231, 355 Bacon, Francis, 42, 227 Baczko, Bronislaw, 80 Bajardi, Ottavio, 347 Baker, Keith Michael, 151 Ballesteros y Beretta, Antonio, 12 Barometro, Raffaele, 130 Barrio Gozalo, Maximiliano, 238 Bartolomeo di Capua, 129 Baudrillart, Alfred Henri Marie, 12, 34-5, 42, 136, 182, 183, 186, 189, 217, 219 Baviera, Giuseppe Ferdinando Leopoldo, principe di, 43 Beccadelli-Bologna, Giuseppe, marchese della Sambuca, 279, 354-7 Beccadelli-Bologna e Reggio, Pietro, principe di Camporeale, 324, 330-1, 341 Becher, Johann Joachim, 189 BeÂcu, Jeanne, contessa Du Barry, 243, 245, 348, 349 Bedmar, marchese di, v. La Cueva y Benavides, Isidor. BeÂly, Lucien, 10, 62, 205, 217, 229, 246, 287 Benavides, Francisco, conte di Santisteban del Puerto, vicere di Napoli, 54 Benavides y Aragon, Manuel de, conte di Santisteban del Puerto, 242 Benigno, Francesco, 103, 108, 109, 111, 123, 124 BeÂrenger, Jean, 17, 190 BeÂrenger, Laurent, 331, 346, 347-9, 350-1 Bernal, Antonio Miguel, 174 Bernis, de Pierre, FrancËois-Joachim, cardinale de, 299, 349 Bertalanffy, Ludwig, von, 167 Bertelli, Sergio, 192 Bevilacqua, Piero, 170 Biersteker, Thomas J., 165 Biscardi, Serafino, 8-9, 15, 20-1, 41, 73, 77, 84-9, 93, 98, 105, 108, 112, 135, 141-2, 144-8, 150, 153, 163, 189-91 Bisignano, principe di, v. Sanseverino Carlo Maria Bissy, conti di, 243 Bloch, Marc, 3 Bloufflers, Louis FrancËois de, maresciallo di Francia e duca , 138 Blouin, Louis, signore di La Vienne, valletto di Luigi XIV, 138 Bobbio, Noberto, 166 Bodin, Jean, 158, 284 Bohr, Niels, 32 Bombelles, Marc-Marie, 290 Bonanno Filangieri, Giuseppe, principe della Cattolica, ambasciatore napoletano in Spagna, 231, 329, 330 Bonaparte, Napoleone, 23, 24, 26, 33 Bonaparte, Carlo Luigi Napoleone, Napoleone III, 23, 24 Boncompagni-Ludovisi, Giovanni Battista I, principe di Piombino, 57, 67, 125 Borbone, casa dei, 66, 75, 150, 196, 245, 329 Borbone-Conti, principi, 348, 349 Borgia di Valmezzana, Giuseppe, 198, 268 Boulainvilliers, Henri, conte di, 58, 59 Bourgeois, EÂmile, 151 Bourguet, Alfred, 349 Boutaric, Edgard, 229, 232, 288 Brambilla, Elena, 92 Brancaccio, casa, 79 Brancaccio, Giovanni, togato siciliano e Segretario d'Azienda di Carlo di Borbone, 23, 41, 45, 60, 192, 195, 210, 222, 280 Brancaccio, Giovan Francesco, IV marchese di Pietracatella, 92 Braudel, Fernand, 93 Indice dei nomi Breteuil, AngeÂlique-Elisabeth, Le Tonnelier, figlia del barone, 290 Breteuil, Louis-Auguste Le Tonnelier, barone di, 11, 233, 243, 267, 280, 28791, 296, 299-307, 309-312, 315, 316-7, 320, 321, 322-3, 326-32, 334, 335, 347, 348, 349, 351, 352 Broglie Charles-FrancËois, conte di, chef du cabinet secret di Luigi XV, 13, 229-32, 238, 240-49, 280, 288, 289, 290, 304, 331, 351 Broglie, Victor-FrancËois, II duca di, 230 Bromley, John Selwyn, 220 Buchan Telfer, John, 354 Buondelmonti, Francesco Maria, 204 Burckley, Walter, 167 Butler, Rohan, 353 Cabantous, Alain, 170 Cabrera, Juan TomaÂs EnrõÂquez, de, XI Almirante di Castiglia, 124, 151, 154, 157, 159 Caillois, Roger, 212 Calabria, duca di, 66, 125 Campolieto, duchessa di, moglie di Tiberio Carafa, 74 Cancila, Orazio, 196, 200, 268, 273 Cancila, Rossella, 103 Cantelmo, Giacomo, cardinale e arcivescovo di Napoli, 70 Cantelmo, Restaino, II principe di Pettorano, VII duca di Popoli, IV duca di Belvedere e Grande di Spagna, 69, 70 Cantillana, Giuseppe Baeza y Vicentelo, conte di, ambasciatore napoletano a Parigi, 250, 262, 263, 282 Capece, Giuseppe, fratello del marchese di Rofrano ed ambasciatore dei congiurati di Macchia presso la corte di Vienna, 73, 76 Capecelatro, Francesco, 124 Capefigue, Jean Baptiste Honore Raymond, 25 Capua, Bartolomeo di, principe della Riccia, 129 Capuana, seggio di, 67, 130 365 Caracciolo, Carmine Nicola, V principe di Santo Buono e duca di Castel di Sangro, Grande di Spagna, ambasciatore spagnolo a Venezia e vicere del PeruÁ, 57, 125, 128, 130-5 Caracciolo, Domenico, vicere di Sicilia, 203, 250, 329, 331, 352, 358 Caracciolo, famiglia, 126 Caracciolo, Giulio Cesare, 90, 109 Caracciolo, Marino, III principe della Torella, 129 Caracciolo, Marino, IV principe di Santo Buono, 130 Caracciolo, Francesco Marino, III principe di Avellino, 57, 66, 125-26, 127, 130 Carafa, Antonio, generale e maresciallo di campo di Leopoldo I, 74 Carafa, Fabrizio, II principe di Chiusano, padre di Tiberio, 74 Carafa, Gregorio, priore della Roccella, 67, 125 Carafa, Marzio, VII duca di Maddaloni, 126 Carafa, Tiberio, III principe di Chiusano, 20, 55, 62, 63, 64, 67, 68, 69, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 80, 81, 82, 83, 87, 91, 92, 97, 218 Carbajo Isla, MarõÂa Francisca, 162 Carducci, GiosueÂ, poeta, 79, 264 Carignani, Giuseppe, 124 Carlo di Borbone, re di Napoli e III come re di Spagna, 10, 15, 179, 198, 203, 206-8, 213-5, 218, 219, 223, 233, 238, 241-2, 245-6, 248, 249-53, 259, 266, 269, 276, 278-79, 282-3, 291, 294, 296, 298-9, 300, 304-5, 308-15, 316, 323, 332, 336-8, 342-8, 356 Carlo II, d'Austrias, re di Spagna, 2, 7, 15, 17, 20, 37, 43, 55, 63, 65, 66, 68, 74, 77, 78, 94, 99, 100, 118, 121, 129, 156, 158, 174, 217-8 Carlo III d'Asburgo (poi VI come imperatore), 8, 154, 156, 161, 190, 192, 199, 272 Carlo IV, re di Spagna, 322 Carlo V, imperatore, 44, 48, 51, 67, 72, 92, 132, 249, 282 366 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Carlo VIII, re di Francia, 18, 211 Carlo Magno, re di Francia, 19, 25 Carolina Matilde di Hannover, regina di Danimarca, 316, 318 Carnap, Rudolf, 32 Carpio, De Haro y GuzmaÂn Gaspar Mendez, VII marchese del, vicere di Napoli 67 Cartesio, v. Descartes Casini, Simone, 28 Cassaro, principe del, v. Gaetani e Leanza Cesare Cassirer, Ernst, 2 Castel, Charles-IreÂneÂe, detto l'abbe de SaintPierre, 8, 281 Castellaccia, duca della, v. Spinelli, Francesco Castiglione, Baldassar, 296 Castiglione, principe di, v. D'Aquino, Tommaso Castrillo, GarcõÂa de Haro-Sotomayor y GuzmaÂn, conte di, vicere di Napoli, 126 Castropignano, duca di, v. D'Evoli Francesco Castropignano, duchessa di, v. Revertera Zenobia Castropignano, famiglia, 305, 310, 311, 313, 314 Caterina II, imperatrice di Russia, 319 Cattaneo, Domenico, principe di San Nicandro, 247, 248, 305, 306, 310 Cavaciocchi, Simonetta, 174, 201 Cavazza, Silvano, 157 Cazes, Louis, 220 Celenza, Caracciolo, Francesco, duca di, 87 Centomani, Gaetano, 231, 299 Cernigliaro, Aurelio, 51, 59, 109 ChacoÂn Ponce de LeÂon, Juan, visitatore generale, 124 Chamillart, Michel, 176 Chapman, Sara E., 35 Charbonnier, Georges, 60 Chassignet, Francesco, 73 Chaussinand-Nogaret, Guy, 57, 59 Choiseul, CeÂsar Gabriel, conte di, duca di Praslin, ministro degli Affari Esteri e della Marina, 231, 233, 243, 349 Choiseul, EÂtienne-FrancËois, duca di, conte di Stanville, ministro d'EÂtat, governeur di Touraine, segretario di Stato di Guerra, degli Affari Esteri e della Marina, 230-1, 233-4, 243, 246, 250, 280, 288-9, 293, 294, 299, 301, 315, 347-9 Choiseul, partito di, 11, 230, 242, 288, 299, 301, 349  lvaro, de, 151 Cienfuegos, A Cirillo, Giuseppe Pasquale, 252, 345 Clark, George, 220 Clemente XI, Gianfrancesco Albani, papa, 152 Clodoveo, re dei Franchi, 19 Cohen, Deborah, 1 Coirault, Yves, 61, 66, 131 Colapietra, Raffaele, 110 Colbert, Jean-Baptiste, marchese di Torci, 35, 43, 61-2, 68, 136, 137, 140, 141, 142, 143, 183 Colbert, Jean-Baptiste, 169, 175-6, 185, 189 Colbert, famiglia, 138. Colletta, Pietro, 248, 321 Collins, James B., 176 Comparato, Vittor Ivo, 70 Conclubet, Andrea Casimiro, marchese d'Arena, 128, 129 CondeÂ, Luigi II di Borbone, IV principe di, 103 Confuorto, Domenico, 67, 126, 127, 128-9 Contegna, Pietro, 196, 272, 275 Contino, Elvira, 204 Coppini, Romani Paolo, 202, 208 Cornette, JoeÈl, 17, 91 Coronas Vida L. J., 162 Corsini, Bartolomeo, vicere di Sicilia, 199, 208, 272 Coxe, William, 219 Cozzetto, Fausto, 117 Cremades GrinÄaÂn, Carmen Maria, 220 Croce, Benedetto, 6, 20, 31, 33, 72, 166, 214, 218, 248, 317, 331, 354 Crouzet, FrancËois, 174 D'Addio Mario, 208, 238, 342 D'Alembert, Jean Baptiste Le Rond, 42 Indice dei nomi D'Alessandro, Vincenzo, 334 D'Alessio, Silvana, 109 D'Andrea, Francesco, 9, 20, 53, 54, 67, 70, 71, 73, 83, 87, 145, 176, 177, 190 D'Aquino, Tommaso, Grande di Spagna, VI principe di Castiglione, di Feroleto e di San Mango, duca di Nicastro e conte di Martirano, 2, 57, 66, 125 D'Avalos del Vasto, famiglia, 127 D'Avalos del Vasto, Casa, 127 D'Avalos, Andrea, principe di Montesarchio, 67, 74, 125, D'Avalos, Francesco, principe di Troia, 67, 125 D'Avalos Giovanni, II principe di Troia, 67, 125 D'Avalos d'Aquino Mendoza, Cesare, VIII marchese del Vasto 127 D'Avalos d'Aquino Mendoza, Ferdinando Emanuel, marchese di Pescara, 127 D'Avalos del Vasto, Diego Francesco Emanuel, VII marchese del Vasto e marchese di Pescara, 127 D'Avalos d'Aquino Mendoza, marchese del Vasto D'Eon, chevalier, Charles-GenevieÁve-LouisAuguste-AndreÂ-TimotheÂe d'EÂon de Beaumont, agente segreto e diplomatico, 295, 349 D'EstreÂes, CeÂsar, cardinale, 139 D'EstreÂes, Victor-Marie, marchese di Cúuvres, poi duca, 143 D'EstreÂes, FrancËois, ambasciatore, 139 D'EstreÂes, Jean, 126 D'Evoli, Francesco, duca di Castropignano, 87, 317 Daniel, Ute, 1 Davenant, Charles, 178, Dawson, John Philip, 236 De BavieÂre, Charlotte Elisabeth, duchessa di OrleÂans, 137 De Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron, 283 De Castro, ConcepcioÂn, 179 De Charmont, monsieur, corrispondente francese da Napoli, 154 367 De Clermont d'Amboise, Jean-BaptisteCharles-FrancËois, marchese di Reynel, 351, 352 De Cristofaro, Giacinto, avvocato e matematico, 54 De Francesco, Antonio, 14, 21, 22, 33 De Gregorio, Leopoldo, marchese di Squillace, ministro, 234, 237, 238, 252, 257, 258, 294, 311, 313, 338, 349 De Guevara, Inigo Velez, 105 De Janson, v. Forbin-Janson Toussaint de De La Borde, Valet de Chambre, 303 De Lacerda, Luis Francisco, duca di Medina-Celi, 60, 61, 62, 63, 64, 68, 77, 78, 136, 140 Del Curatolo, Elia, 272 De Lancina, Rodriguez, 220 De Mari, Carlo, II principe d' Acquaviva, 68 De Mauro, Oronzio, amministratore della Dogana di Napoli, 205 De Moustier, Antoniette, moglie di JeanBaptiste-Charles-FrancËois de Clermont d'Amboise, 351 De Pontchartrain, Louis, 138, 176 De Pontchartrain, famiglia, 35 De Ponte, Giovan Francesco, 100 De Poussemothe de l'Estoile, Jean-Baptiste, cavaliere di Graville, espion, 62 De Raxis de Flassan, G., 288 De Rosa, Luigi, 84, 103, 173 De Rouvroy, Louis, duca di Saint-Simon, 34, 35, 57, 59, 61, 66, 94, 131, 136-7, 140, 303-4 De Sade, Donatien Alphonse FrancËois, detto il marchese, 319 De Salas Y Quiroga, Jacinto, 219 De Thiard, Anne-Claude, marchese di Bissy, 205 De Tiberiis, Giuseppe, 268 De Witte, J., 289, 293 De' Medici, Giuseppe, principe di Ottajano, 63, 66, 125 Del Bagno, Ileana, 53 Del Bianco, Lamberto, 205, 277, 346, 347 Del Curatolo, Elia, 199, 272 Del Giudice, Domenico, principe di Cella- 368 R. Tufano, La Francia e le Sicilie mare e duca di Giovinazzo, ambasciatore spagnolo a Venezia e vicere della Vecchia Castiglia, 57, 67, 125, 130 Del Giudice, Francesco, cardinale e vicere di Sicilia, 35, 67, 140 Del Riccio, Leonardo, 207, 251, 314 Delille, Gerard, 130 Della Casa, monsignor Giovanni, 296 Dennis Hussey, Roland, 220 Descartes, ReneÂ, 41, 42, 284-5 Desmaretz, Nicolas, 176 Desmarets, Yves-Marie conte di Maillebois, 243 Dewey, John, 32 Di Blasi, Giovanni Evangelista, 337 Di Capua, Giovan Battista, principe della Riccia, 129 Di Costanzo, Fulvio, marchese di Corleto, 100 Di Donato, Francesco, 44 Di Franco, Saverio, 53, 100 Di Marzo, Gioacchino, 340 Di Sangro, Carlo, principe di Sansevero, 73 Di Sangro, Giovan Francesco, principe di Sansevero, 87 Diaz, Furio, 256, 262, 279 Dickson, Peter G. M., 178 Diderot, Denise, 42 DomõÂnguez Ortiz, Antonio, 220 Doria, Andrea, 282 Doria, Paolo Mattia, 64, 65, 75, 77, 278 D'Ossun, Pierre Paul, 276-7 Du Barry, contessa, vedi BeÂcu, Jeanne. Duby, Georges, 44 Durand de Distroff, FrancËois-Michel, 232 Edelmayer, Friedrich, 157 Egido, TeoÂfanes, 150, 160 Egret, Jean, 226, 348, 356, 357 Elias, Norbert, 34 Elie, Paul, 2 Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V, regina di Spagna 10, 13, 39, 135, 178, 196, 197, 198, 199, 206, 213, 214, 217, 218, 250, 251-2, 292, 294, 310, 311, 345 Ellis, Harold A., 58 Emanuel, Diego Francesco, 127 Emanuele e Gaetani, Francesco Maria, marchese di Villabianca, 333, 334, 335, 336, 340, 341 Enciso Recio, Louis Miguel, 150, 152, 173, 174, 175 Enrico II Plantageneto, re d'Inghilterra, 346 Ensenada, marchese di, v. Somodevilla y Bengoechea ZenoÂn EÂpinay, Louise Tardieu d'Esclavelles, marchesa d', 226, 319 Escalona, duca di, v. Fernandez Pacheco de Acuna Giovanni Emanuele, marchese di Villena 61, 62,140, 141, 142, 152 Espagne, Michel, 3 Eugenio di Savoia, 73 Falletti, Giacinto, presidente della Camera della Sommaria poi reggente del Collaterale, 146 Favier, Jean-Louis, 13, 229, 230, 238, 304 Federico II di Svevia, 2, 44, Federico II, re di Prussia, 243, 245 Federico, Giovanni, 169 Fenicia, Giulio, 92 Ferdinando II, d'Aragona, detto il Cattolico, 19 Ferdinando IV, re delle due Sicilie, 242, 247, 248, 249, 291, 294, 301, 304-10, 317, 320, 328, 340, 355 Ferdinando VI, re di Spagna, 199, 220, 223, 311 Ferlito, Manuela, 248 FernaÂndez AÂlvarez, Manuel, 92 Fernandez De Medrano, Giuseppe, presidente della Gran Corte di Sicilia, 185, 187 Ferrante, Matteo, avvocato fiscale, 205 Fichte, Johann Gottlieb, 25 Filangieri, Serafino, arcivescovo di Palermo, 340, 341 Filippo I di Borbone, duca di Parma, 246 Filippo II, re di Spagna, 48, 92, Filippo III, re di Spagna, 110 Filippo V, duca di AngioÁ e re di Spagna, 17, Indice dei nomi 21, 33-4, 39, 42, 60, 65-6, 68-9, 77, 85, 112, 116, 128, 130-2, 136, 138, 140, 143, 145, 150, 152-3, 156, 158-9, 1778, 181, 182, 183, 185, 187, 196, 197-8, 199, 206, 217-8, 219, 221, 222, 226, 231, 234, 246, 250, 270, 311 Filomarino, Ascanio, arcivescovo di Napoli, 103 Finocchietti-Faulon, Giuseppe, 214 Fitou, Jean-FrancËois, 34 Flammermont, Jules, 230, 243 Fleischmann, Anselm Franz, von, consigliere di Carlo VI, 192, 193, 206 Fleury, AndreÂ-Hercule de Gerardo, vescovo di Cambrai e cardinale de, 279 Fleury, Claude, 19 Floridablanca, conte di, v. MonÄino Jose Fogliani, Giovanni, 11, 12, 207, 251, 257, 313, 332-38, 340, 341, 343, 351 Fontenelle, Bernard Le Bovier, 42 Forbin-Janson, Toussaint, de, cardinale, 98, 132, 136, 140, 141, 143, 145 Fraggianni, NicoloÁ, 198, 199, 272 Francesco I di Valois, re di Francia, 210, 265, 282 Frangipane, Rosario, togato, 14 Furet, FrancËoise, 59, 176, 319 Fuscaldo, marchese di, v. Spinelli, Giovanni Battista II Gadda, Carlo Emilio, 27-8 Gaetani e Leanza, Cesare, principe del Cassero e marchese di Sortino, barone di Ministeri, Bamini, Casalotto, Sant'Andrea e Chiusa, 336-7 Gaillardet, Frederic, 350 Galasso, Giuseppe, 67, 69, 72, 92, 101, 103, 104, 117, 334 Galiani, Celestino, 193, 196, 206, 252, 311, 343, 353 Galiani, Ferdinando, 203, 226, 249, 254-6, 258-63, 268, 274, 277, 279, 286, 319, 331, 351, 357-9 Galilei, Galileo, 27 Gallo, Fausta, 14 Gallucci de l'Hopital, Paul FrancËois, mar- 369 chese di Chateaneuf, ambasciatore, 205, 276 Gambacorta, Gaetano, principe di Macchia, 51, 61, 65, 66, 68-70, 83, 127-8, 133, 139 GaÂmez AmiaÂn, Aurora, 162 Gangemi, Maurizio, 201-2 GarcõÂa Sanz, Angel, 162 GarcõÂa-CaÂrcel, Ricardo, 13, 180, 219 GarcõÂa-Gallo de Diego, Alfonso, Garin, Eugenio, 227 Garin, Maria, 282 Garofalo, Domenico, Preside di Calabria Ultra, 146 Gazzini, mercante palermitano, 335-6 Gellner, Ernest, 30 Genovesi, Antonio, 42, 173,193, 199, 204, 206, 207, 210, 262-3, 267, 268, 272, 281, 305, 311, 314-5, 353 Gentile, Giovanni, 264 Geoffroy, Auguste, 244 Georgine, cantante svedese, amante del duca di Medina-Celi, 61 Gerardo, vescovo di Cambrai, 44 Giacomo II Stuart, re d'Inghilterra, 92 Giannone, Pietro, 9, 15, 65, 71, 75, 77-8, 81, 119, 123, 145, 192, 196, 205, 209, 265, 272, 296 Giano, divinitaÁ romana, 23 Giarrizzo, Giuseppe, 333 Giorgio, mercante palermitano, 335-6 Giovanni d'Austria, 67, 125-6 Giovanni da Parigi, v. Jean de Paris Giovinazzo duca di, v. Del Giudice Domenico Girard, Albert, 222 Giuseppe II d'Asburgo, imperatore, 190, 306, 316, 322 Godevini, Domenico, 98 Gojosso, Eric, 116 GoÂmez-CenturioÂn JimeÂnez, Carlos, 10, GonzaÂles Enciso, AgustõÂn, 173 GonzaÂlez Mezquita, MarõÂa Luz, 151 Gouguet, Henri, 290 Gouyon, Louis-Charles-Auguste, conte di Mantignon, 290, 304 Gramont, Antoine Charles, duca di, 62, 67. 370 R. Tufano, La Francia e le Sicilie GraciaÂn, Baltasar, 155 Granito, Angelo, 124 Graville, cavaliere di, v. De Poussemothe de l'Estoile, Jean-Baptiste, 62 Gravina, Gian Vincenzo, 9, 145 Gray, John, 32 Gregorio XIV, NiccoloÁ Sfondrati, papa, 149 Grice-Hutchinson, Marjorie, 175 Grimaldi, Costantino, 198, 206, Grimaldi, Girolamo, 231, 234, 250, 277, 295, 299-301, 355 Grimaldi, Gregorio, 198, 268 Grimani, Vincenzo, cardinale, 73 Grossi, Paolo, 26-7 Gruder, Vivian R., 324 Guascone, Salvatore, togato, 184 Guasto, mercante palermitano, 336 Guerci, Luciano, 256 Guerra y Sandoval, Juan Alfonso, 155 Gugliemo d'Orange, statoldo delle Province Unite e III come re d'Inghilterra, 18, 158, 221 Guglielmo III, re di Svezia, 230 Guines, conte di, 288 Guisa, Enrico II di Lorena, duca di, 103 Guymard, Charge d'Affaires, 205 GuzmaÂn de Montealegre, Jose JoaquõÂn, marchese e poi duca di Salas, segretario di Stato, 193, 196, 198-9, 203-8, 214, 251, 257, 263-4, 268, 271-2, 274-7, 310, 312, 314, 352-3 GuzmaÂn y Pimentel, Gaspar de Olivares, conte-duca, 124 Haas, Ernest B., 167 Habermas, JuÈrgen, 176 Harcourt, Henry-Claude, duca d', 35, 183 Harrach-Rohrau, Aloys Thomas Raimund, conte d', 193 Haupt, Heinz-Gerhard, 4 Hazard, Paul, 28, 228 Herder, Johann Gottfried, 25 HernaÂndez SaÂnchez-Barba, R. J., 220 Himmelfarb, Gertrude, 32 Hintze, Otto, 3 Hobson, John Atkinson, 167 Holland M.L.-W., 137 Homberg, Octave, 354 Hopital, v. Gallucci Hotman, FrancËois, 81, 228 Hospital, Michel de, 271, 272 Hume, David, 227 Hunt, Lynn, 318 Iggers, Georg G., 11 Imbruglia, Girolamo, 262 Incisa di Camerana, Giulio Vittorio, ambasciatore piemontese, 12, 358 Innocenzo XI, papa, Odescalchi Benedetto, 104, 138 Intieri, Bartolomeo, 193, 196, 252, 263, 353 Iovine, Raffaele, 204, 207, 251, 314 Israel, Jonathan Irvine, 32, 162 Jackson, Richard A., 58 Janson, cardinale, v. Forbin-Janson, Toussaint, de JargleÂ, Ernest, 137 Jean de Paris, 27 Jùergensen, Jùrgen, 32 Jouhaud, Christian, 152, 154-5 Jousselin, Fernand 354 Jover Zamora, Jose MarõÂa, 157, 220 Kamen, Henry, 162, 217, 219 Kammerling Smith, David, 187, 188 Kant, Immanuel, 32 Kantorowicz, Ernst Hartwig, 44 Kaplan, Morton, 165 Kaplan, Steven, 343 Kaunitz-Rietberg, Wenzel Anton, von, 246, 293 Keers, ambasciatore d'Inghilterra, 223 Keohane, Robert O., 165 Knight, Carlo, 248 Kocka, JuÈrgen, 4 Kurzweil, Eduard, 230 La Cueva y Benavides, Isidor, V marchese di Bedmar, vicere di Sicilia, 35 La TreÂmoõÈlle, Marie Anne, de (detta madame des Ursins), 136, 137, 138, 186 Indice dei nomi La TreÂmoõÈlle, Joseph Emmanuel, cardinale, 136, 137, 142, 143, 145, 148 Labatut, Jean-Pierre, 58 Laclos, Choderlos, de, 323 Ladero Queseda, Miguel AÂngel, 162 Lanza GarcõÂa, RamoÂn, 163 Larcando Laco (pseudonimo di CalaÁ Carlo), 70 Laudani, Simona, 343 Lavisse, Ernest, 25, 103, 104 Le Roy Ladurie, Emmanuel, 34, 57, 137, 138 Le Tellier-Louvois, famiglia, 138 Lebow, Richard Ned, 157 Lenin, Vladimir, 167 Le Paige, Louis-Adrien, giurista, 226 Leopoldo I d'Asburgo, imperatore, 75-6 Leopoldo, Granduca di Toscana e II come Imperatore, 320 LeÂvi-Strauss, Claude, 60, 167 Lieberman, Victor, 4 Ligresti, Domenico, 179 Lo Sardo, Eugenio, 281 Locke, John, 45,46, 192, 241 Longnon, Jean, 58 Longo, Giacomo, 14  lvarez, Alejandro, 157 LoÂpez A LoÂpez-CoÂrdon Cortezo, MarõÂa Victoria, 220 Losada, v. Miranda Lo Sardo, Eugenio, 278 Los BalbaseÂs, marchese di, v. Spinola, Filippo Antonio Losito, Francesco Saverio, 236 Louvois, FrancËois Michel, Le Tellier, marchese di, ministro di Luigi XIV, 176 Loyseau, Charles, 81, 228 Lucarelli, Sonia, 166 Luhmann, Niklas, 319 Luigi XIII, re di Francia, 18, 58 Luigi XIV, re di Francia, 2, 4-7, 12-4, 17-8, 21, 23-8, 34-5, 37-43, 45, 55-61, 65-8, 70-71, 73, 75, 77-8, 83, 87, 91, 93, 95, 99, 103-4, 113, 116, 121-64, 175-77, 182-3, 189, 210, 217-8, 221-2, 229, 235-6, 267, 285, 354-5 Luigi XV, re di Francia, 91, 221, 223, 226, 371 229-32, 234, 242-3, 245-6, 259, 288, 299, 349, 357 Luigi XVI, re di Francia, 11, 226, 242, 279, 289, 293-5, 300-1, 319 Luhmann, Niklas, 318-9, 322, 323 Luongo, Dario, 41, 83-4, 86, 141, 142, 144, 146, 148, 149, 189 Lynn, John Albert, 91 Maccarano, Domenico, 70 Macchia, principe di, v. Gambacorta, Gaetano Machado, Consalvo, consigliere, 141 Machiavelli, NiccoloÁ, 158, 261, 264, 268, 281 MacIntyre, Alasdair, 32 Maffi, Davide, 92 Maillebois, conte, v. Desmarets, Yves-Marie 243 Maintenon, 136, 137, 138, 139, 186 Maiorini, Maria Grazia, 248, 252, 310, 315 Malamud, Carlos, 175 Mandrou, Robert, 34, 139, 285 Mantelli, Roberto, 84 Mantignon, conte di, v. Gouyon LouisCharles-Auguste Maometto II, 106 Maravall Casesnoves, Jose Antonio, 75, 155, 220 Marcin, Ferdinand, conte di, 35, 140, 183 Maria Elisabetta d'Asburgo-Lorena, arciduchessa d'Austria, 231 Maria Amalia di Sassonia, regina di Napoli poi di Spagna, 251, 292, 305, 310, 312-3 Maria Antonietta, regina di Francia, 11, 227, 231, 242-43, 319, 320 Maria Barbara di Braganza, prima moglie di Ferdinando VI di Spagna, 218 Maria Carolina d'Asburgo-Lorena, regina di Napoli, 11, 203, 233, 242, 260, 268, 274, 289, 291, 294, 296, 301, 304, 315, 316-22, 331-2, 352, 356 Maria Luisa Gabriella, prima moglie di Filippo V, 217 Maria Luisa di Parma, moglie di Carlo IV di Spagna, 319 372 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Maria Teresa, imperatrice, 241-42, 246, 293-4, 296, 300, 317 Marsilio da Padova, 2, 285 Masaniello, v. Aniello Tommaso. Mastellone, Pietro Paolo, eletto del popolo, 63 Mastellone, Salvo, 70-1, 128 Maugras, Gaston, 226, 352, 357 Maupeau, ReneÂ-Nicolas-Charles-Augustin de, cancelliere di Francia, 226 Maurepas, Jean-FreÂdeÂrc PheÂlippeaux, conte di, 293, 299 Maza, Sarah, 151, 319 Mazzarino, Giulio Raimondo, cardinale, 24-5, 28, 124 Mazzoni Toselli, Ottavio, 78 Medina-Celi, v. De Lacerda, Luis Francisco, duca di Meinecke, Friedrich, 10, 31 MeneÂndez Pidal, RamoÂn, 150, 157, 220 Menotti, Roberto, 166 Mercy-Argenteau, Florimond Claude, conte di, ambasciatore, 243-44, 293-94 Mesnard, Pierre, 220 Messina, Pietro, 111 Mettam, Roger, 176 Michelet, Jules, 24-5, 317 Migliaccio, Aniello, 136, 149-50 Milano, Giacomo, marchese di San Giorgio, 128-29 Miletti, Marco Nicola, 54, 55, 66-7, 69, 71, 96, 104, 126-29 Minard, Philip, 169, 186 Mincuzzi, Rosa, 340 Minervini, Pantaleo, 65 Miranda, Jose Ponce de LeÂon, duca di Losada, 290-1, 294 Miro, Vincenzo, 141 Moioli, Angelo, 84. Molas Ribalta, Pere, 345 Moltke von, Konrad, 11 MonÄino, JoseÂ, conte di Floridablanca, 92, 223, 224, 237, 316, 355 Montagu, Charles, cancelliere inglese, 178. Montaigne, Michel Eyquem de, 25-6, 27, 42, 81, 227, 284, 288, 302, 322. Montanari, Giuseppe Ignazio, 79 Monte, Antonio, 132 Montealegre, v. GuzmaÂn de Montealegre Jose JoaquõÂn Monteleone, duchessa di, v. Pignatelli Giovanna, 67, 125 Montenero, marchesi di, 74 Montesarchio, famiglia, 67, 125 Montesarchio, principe di, v. D'Avalos Andrea Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La BreÁde e di, 172, 212, 214, 235, 285-6 Montmorency, principessa di, 243 Moreau, Jacob Nicolas, 289 Morgenthau, Hans J., 165 Morineau, Michel, 171 Morlino, Leonardo, 166 MoÈser, Justus, 25 Mousnier, Roland, 44, 45, 75, 81, 228 MunÄoz Perez J., 175 Muratori, Ludovico Antonio, 29, Musi, Aurelio, 29, 57, 70, 75, 82, 93, 109, 113, 116, 117, 130 Mussolini, Benito, 31 Muto, Giovanni, 84 Nadel, Siegfried F., 167 Napoleone, Bonaparte, 23-4, 26, 33 Napoleone, Luigi, III, 23-4 Naselli Salvatore, principe di Aragona, 317, 334 Nef, John U., 174 Nefetti, Francesco, 202 Neurath, Otto V., 32 Nicolini, Fausto, 128, 160, 226, 258, 323, 356 Nicolini, Nicola, 67 Nieri, Rolando, 202, 208, 277 Nocera, duchi di, 74 O' Connor, Maura, 3 Oexle, Otto Gehrard, 44 Oliva Melgar, Jose MarõÂa, 220 Olivares, conte-duca, v. GuzmaÂn y Pimentel, Gaspar de, 124 Indice dei nomi OnÄate, conte di, v. Velez de Guevara, InÄigo OrleÂans, duchessa d', v. De BavieÂre Charlotte Elisabeth OrleÂans, Filippo II, duca d', 91, 221, 288 Orsini, Flavio, principe degli, 136 Ossuna, vicereÂ, v. TeÂllez-GiroÂn, Juan, II duca di, 110 Ottajano, principe di, v. De' Medici, Giuseppe Otto, Hintze, 3 Ozanam, Didier, 220, 230, 231, 232, 244, 288, 290, 350 Ozouf, Mona, 320 Pacheco Fernandez, Giovanni Emanuele, duca di Escalona e marchese di Villena, 140-2, 152 Pacheco Tellez Giron, Giovan Francesco, duca di Uceda, 63, 141 Paganini, Gianni, 32 Pallante, Giovanni, 198, 210, 266-8 Palmieri, Giuseppe, 278 Paolucci, Andrea, teatino, 124 Parker, David, 58 Parrot, David A., 91 Pasquier, EÂtienne, 81, 228 Pastor, Ludwig, von, 104, 138 PatinÄo, JoseÂ, 39, 180, 198-9 Pepe, Gabriele, 93 Perey, Lucien, 226, 350, 357 PeÂrez Aparicio, Carmen, 153 PeÂrez Picazo, MarõÂa Teresa, 150, 151 Perlongo, Ignazio, 14 PeÂronnet, Michel, Petris, Loris, 272 PheÂlippeaux, v. Maurepas PhiloxeÁne, Louis, marchese di Puyzieulx, ambasciatore, 205 Piano Mortari, Vincenzo, 226 Picavet, Camille Georges, 351 Pietracatella, marchesi di, 87 Pii, Eluggero, 42 Pignatelli Andrea Fabrizio, 67 Pignatelli Giovanna, duchessa di Monteleone, 67, 125 Pignatelli, NiccoloÁ, 67 373 Pilati, Renata, 46, 51, 109, 268 Pinsseau, Pierre, 354 Piola Caselli, Fausto, 84 Piombino, principe di, v. Boncompagni-Ludovisi, Giovanni Battista I, Pirenne, Henri, 3 Pizzo, Antonietta, 62, 69 Pomeau, ReneÂ, 221 Ponce de LeÂon, Rodriguez, duca d'Arcos, vicere di Napoli, 124 Pontchartrain, Louis, de, cancelliere, 35, 138, 176 Popoli, duchi di, 74 Poussin, eÂspion, 94 Price, Munro, 11, 320 Pulido Bueno, Idelfonso, 39 Puyzieulx, v. PhiloxeÁne Quevedo, Francisco, de, 155 Radente, Francesco, 191, 192-3, 206 Raillard, Giacomo, 127 Rak, Michele, 78 Ranke von, Leopold, 11 Rao, Anna Maria, 29, 328 Recca, Cinzia, 319 Reinach, Joseph, 71 Renan, Ernest, 31 Renda, Francesco, 330, 333, 339 Revel Jacques, 319-20 Revertera Zenobia, duchessa di Castropignano, 87, 294, 305, 309, 311, 313, 314 Rialp, marchese di, v. Vilhena Perlas, Ramon Ribot GarcõÂa, Luis Antonio, 76 Riccia, principe della, v. Di Capua, Giovan Battista Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, cardinale, 17, 25 Richet, Denis, 45 Ricuperati, Giuseppe, 64-5, 75, 77, 78, 81 Ringrose, David R., 162 Rinuccini, Alessandro, banchiere toscano, 204, 252, 263 Rivero RodrõÂguez, Manuel, 92 Rizzo, Mario, 92 Rofrano, marchese di, 76 374 R. Tufano, La Francia e le Sicilie Rohan, Enrico I, duca di, 158 Rohan, Louis, principe di, 288, 294 Romano, Ruggero, 170-1, 209, 262, 265 Roscellino da CompieÁgne, 284-5 Rota, Ettore, 23-5 Rousseau, Jean-Jacques, 8, 123, 213, 281-2 Rouvroy, Louis de, v. Saint-Simon Rovito, Pier Luigi, 53, 101, 109, 302 Rowlands, Guy, 35, 90 Ruffo di Bagnara, moglie del principe di Santo Buono, 131 RuigoÂmez De HernaÂndez, MarõÂa Pilar, 220 RuõÂz IbanÄez, J. J., 92 Russell, Bertrand, 32 Russo, Carla, 69, 248 Sabatelli, Carlo, zio di Pietro Giannone, 64-5 Sabatini, Gaetano, 84, 92, 103, 104, 162 Saint-Pierre, detto l'abbe de, vedi Castel Charles-IreÂneÂe Saint-Simon, Louis de Rouvroy, duca di, 34, 35, 57, 59, 61, 66, 94, 131, 136, 137, 140, 186, 308 Salomone, 295 Salvemini, Biagio, 15-6, 170-1, 173, 262 Sambuca, marchese della, v. Beccadelli-Bologna, Giuseppe Samoyault, Jean Pierre, 351 San Giorgio, marchese di, v. Milano, Giacomo San Giorgio, principi di, 74 Sansevero, principe di, vedi Di Sangro Giovan Francesco Sanseverino, Ferrante, d'Aragona, principe di Salerno, 72 Sanseverino, Carlo Maria, ottavo principe di Bisignano, 57, 67, 125 Santisteban del Puerto, conte di, v. Benavides, Francisco, vicere di Napoli, 54 Santisteban del Puerto, conte di, v. Benavides y Aragon, Manuel, 219, 242, 248 Santo Buono, principe di, v. Caracciolo, Carmine Nicola Sapienza, Valeria, 57 Sauvel, Tony, 236 Scarpuzza, Pietro, 334-336 Schaeper, Thomas J., 175 Schaub, Jean-FreÂdeÂric, 13, 33, 175 Schipa, Michelangelo, 67, 101, 111, 124, 125, 315 Scott, Hamish, 10, 11 Seco Serrano, Carlos, 220 Segur, Pierre de, 229, 289 Senellart, Michel, 2 Serra di Gerace, Livio, 67 Serrao, Elia, 350 Sestan, Ernesto, 43 SieyeÁs, Emmanuel-Joseph, 79, 228 Simms, Brendan, 10 Sinone, 295, 299 Smith, Anthony, 3, 30 Smith, Jay M., 176 Smith, Michael Garfield, 167, Solaro di Monasterolo, Ludovico, ambasciatore, 317. Solimena, Francesco, 156 Somodevilla y Bengoechea, ZenoÂn, marchese di Ensenada, ministro spagnolo, 234 Soulavie, J.-L., 293 Spadaro, Carmela Maria, 93 Spedicato, Mario, 152 Spinelli Francesco, duca della Castellaccia, 73. Spinelli, Giovanni Battista II, marchese di Fuscaldo, 129 Spinola e Colonna, Carlo Filippo Antonio, marchese di Los BalbaseÁs, 17, 66, 90, 126, 179-88 Squillace, marchese di, vedi De Gregorio Stefano di Lorena, Gran duca di Toscana, 241 Sternhell, Zeev, 31 Storace, Giovan Vincenzo, Eletto del popolo, 52 Subrahmanyam, Sanjay, 32, Suppa, Silvio, 78 Taine, Hippolyte-Adolphe, 31 Tanucci, Bernardo, marchese, 9, 11-2, 57, 201-2, 203, 207-8, 211, 231-5, 238, 242, 247, 249-68, 273, 274, 280, 282, Indice dei nomi 375 286, 291-3, 294-300, 301-5, 308-15, 318-9, 323-54, 356-60 Targiani, Diodato, 341 Taylor, Charles, 32, TeÂllez-GiroÂn, Juan, II duca di Ossuna, vicereÂ, 110 Tiquet, charge d'Affaires a Napoli , 205 Tocqueville, Charles-Alexis-Henri-Maurice CleÂrel de, 25, 90-1, 226 Toledo, v. AÂlvarez de Tommaso d'Aquino, 2, 27, 285 Tommaso di Savoia, 103, 124 Torcia, Michele, 29 Torci, ministro di Luigi XIV, v. Colbert, Jean-Baptiste, marchese di Torella, principe della, v. Caracciolo, Marino Torrecuso, marchesi di, 74 Tort de la Sonde, 288 Tortarolo, Edoardo, 32, Troia, principe di, v. D'Avalos Francesco Tufano, Roberto, 21, 26, 29, 57, 188 Tutini, Camillo, 111 Venturi, Franco, 29 Verde, Marino, 111 Verga, Marcello, 29, 30 Vergennes, conte di, ambasciatore, 11, 268, 269, 270, 271, 274, 276, 279-80, 283, 288, 292-5, 320, 347, 348, 350 VernieÂre, Paul, 29 Vico, Giambattista, 64-5, 75, 77, 81, 128, 147, 275 Vilhena Perlas, Ramon, marchese di Rialp, 112 Villafranca, marchese di, v. AÂlvarez de Toledo, Pedro Villari, Rosario, 92 Villena, marchese di v. Escalona, duca di, Visceglia, Maria Antonietta, 16, 117, 170, 171, 173, 262 Viviani Della Robbia, Enrica, 351 Viviani, Luigi, 355 Volpe, Giocchino, 18 Voltaire, FrancËois-Marie Arouet de, 4, 25, 42, 43, 221-2, 285-6, 294 Uceda, duca di, v. Pacheco Tellez Giron, Giovan Francesco Ulisse, 300 Ungarelli, Giulio, 28 Ursins, Madame, v. La TreÂmoõÈlle, Anne Marie, principessa Walker, Geoffrey J., 177 Wallerstein, Immanuel, 167 Waltz, Kenneth N., 165-6 Weber, Max, 58, 60 Werner, Michael, 3 Whitworth, Charles, 178 Wight, Martin, 167 Wolff, Larry, 30 Woodbridge, John D., 349 Wright, Quincy, 168 Valignani di Cepagatti, Federico, 268 Van Wicquefort, Abraham, 347 VaÂsquez GestaÂl, Pablo, 10, 292 Vasto, marchese del, v. D'Avalos Cesare Velez de Guevara, InÄigo, conte di OnÄate, vicereÂ, 100 Ventimiglia e Statella, Giuseppe Emanuele, principe di Belmonte, 329, 331, 351 Ventura, Francesco, reggente del Collaterale, Caporuota del Sacro Regio Consiglio, membro della Regia Camera di Santa Chiara e Presidente del Supremo Magistrato del Commercio, 99, 196, 205-7, 214, 272, 274, 314 Yun Casalilla, BartolomeÂ, 162 Zabala Y Lera, Pio, 220 Zilli, Ilaria, 84 Zimmermann, Benedict, 4 Zoli, S., 29 Zotta, Silvio, 52, 101 Zweig, Stefan, 319 Zylbergberg, Michel, 13, 33, 175, 222, 224, 283 NOVEMBRE 2015