3. Cristoforo Colombo
La conquista di Costantinopoli da parte degli ottomani nel 1453 segnò la fine dell’Impero
Romano d’Oriente e rafforzò l’avanzata dei turchi nei Balcani e nel Mediterraneo orientale;
per questo motivo, oltre a quello di aggirare il monopolio veneziano del commercio delle
spezie in Europa, i mercanti dei paesi atlantici spostarono a occidente i propri traffici,
individuando quali nuove sedi per i propri commerci l’Andalusia e il Portogallo, quest’ultimo
uno dei paesi più impegnati nelle esplorazioni geografiche a fini commerciali. Durante il
regno di Enrico il Navigatore (1394-1460), venne infatti creata a Lisbona una scuola di
astronomi e cartografi di alto livello, contestualmente all’introduzione di nuove tecniche nella
costruzione dei vascelli (fu varata infatti la caravella). Dopo aver consolidato avamposti nelle
Azzorre e in Marocco, i portoghesi si spinsero fino al Golfo di Guinea e alle Isole di Capo
Verde. Dalla Guinea, dopo il 1442, cominciarono a giungere in Europa quantitativi d’oro e di
schiavi, fonte di manodopera a buon mercato. Oltre a ciò, in sintonia con gli interessi dei
mercanti europei, il paese lusitano era altresì interessato alla possibilità di raggiungere
l’Oceano Indiano senza passare per i porti del Mediterraneo orientale, ormai possesso dei
turchi. Nel 1487, Bartolomeo Diaz (1450 ca.-1500), navigando lungo la costa occidentale
dell’Africa, arrivò fino all’attuale Capo di Buona Speranza; nel 1498 Vasco da Gama (14681524 ), doppiando il Capo di Buona Speranza e attraversando l’Oceano Indiano, giunse a
Calicut in India e negli anni successivi cercò di stabilire l’egemonia portoghese nell’Oceano
Indiano. Per questi motivi, quando Colombo elaborò l’idea di raggiungere le Indie navigando
verso Occidente, gli parve naturale rivolgersi al Portogallo. Nondimeno il re Giovanni (14401495) rifiutò il proprio appoggio, considerando che il paese dovesse continuare ad impegnarsi
nella ricerca della via orientale alle Indie: il viaggio di Vasco de Gama avverrà infatti sei anni
dopo il viaggio di Colombo.
Cristoforo Colombo era un navigatore genovese (ormai gli storici sono concordi sulle sue
origini italiane) che aveva viaggiato per tutto il Mediterraneo; dopo essere giunto in
Portogallo nel 1476, aveva navigato per anni sia verso sud, raggiungendo la Guinea, sia verso
ovest, spingendosi fino all’arcipelago delle Azzorre, sia verso nord, toccando la Gran
Bretagna, l’Irlanda e la lontana Islanda. Durante questi viaggi in Atlantico Colombo maturò
una grande conoscenza dei venti e delle correnti dell’oceano. Egli, come gli scienziati del
tempo, era convinto della sfericità della terra e non pensava che a ovest, attraversate le
colonne d’Ercole, a un certo punto, il mare finisse e ci fosse l’ignoto, raffigurato spesso con
un burrone. Colombo infine conosceva la mappa che nel 1474 era stata disegnata dal geografo
italiano Paolo Toscanelli (1397-1482), contenente l’indicazione della rotta che secondo i suoi
calcoli avrebbe dovuto essere seguita per raggiungere le Indie navigando verso occidente. Ma
quel che muoveva Colombo non erano solo la scienza o le opere di Aristotele, Strabone e del
geografo Tolomeo; egli era rimasto affascinato dalla lettura del Milione di Marco Polo (12541324 ), con le sue descrizioni delle favolose terre d’Asia, delle città, dell’oro, della flora e
della fauna composta da animali mostruosi e terribili. Oltre a ciò, Colombo venne influenzato
dai racconti e dalle leggende che circolavano tra i marinai che viaggiavano da tempo sulle
rotte dell’Atlantico, tra le Azzorre e l’Islanda, dove egli probabilmente venne a sapere del
viaggio dei Vichinghi che, nell’XI secolo, avevano raggiunto la Groenlandia e si erano spinti
verso ovest, raggiungendo le terre dell’attuale Labrador.
Dopo il rifiuto del Portogallo di sostenere l’impresa, Colombo si rivolse nel 1485 alla Corona
di Spagna, allora impegnata nella guerra di “reconquista”. Il regno di Isabella di Castiglia
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(1451-1504) e Ferdinando II di Aragona (1452-1516) era un paese in ascesa, da poco
unificato (1479) e desideroso di partecipare ai traffici per mare al fine di accrescere la propria
potenza. Tuttavia il progetto impiegò anni per essere approvato: da un lato, esso appariva
economicamente molto oneroso; dall’altro, la commissione di astronomi e cartografi istituita
dalla Corte per valutare la possibilità dell’impresa aveva espresso un parere sfavorevole. Solo
dopo la definitiva sconfitta dei mori a Granada nel 1492, la Corona spagnola acconsentì a
finanziare l’impresa: il 3 agosto 1492 Colombo, nominato «Ammiraglio », come recita il
Preambolo del documento redatto dai reali, «di tutte le isole e i continenti che saranno
scoperti o conquistati per effetto della sua opera e industria », salpò dal porto di Palos, nella
Spagna meridionale, con tre caravelle (le famose Niña, Pinta e Santa Maria) e un centinaio di
uomini di equipaggio. Dopo una sosta alle Canarie, il 6 settembre il convoglio si diresse verso
occidente. Il viaggio fu più lungo del previsto: i geografi avevano infatti sbagliato il calcolo
della distanza tra l’Europa e le terre che Colombo credeva essere le propaggini dell’Asia. Ad
ogni modo, grazie agli alisei (i venti costanti della fascia tropicale che nell’emisfero nord
spirano da Nordest verso Sud-ovest), le caravelle viaggiarono a velocità regolare. Alle due di
notte del 12 ottobre 1492 un marinai dalla Pinta avvistò la terraferma .Lo sbarco avvenne in
mattinata su una terra che gli abitanti del luogo chiamavano Guanahanì e che Colombo
ribattezzò San Salvador (un’isola dell’attuale arcipelago delle Bahamas).
Il navigatore genovese era convinto di essere giunto in Asia: credette che quell’isola
appartenesse alle isole di Cipango (Giappone) e che fosse la porta per il Catai (laCina). Ma
anche altri elementi rafforzarono tale convinzione: l’aspetto degli abitanti di quelle terre, così
ospitali e così diversi nei tratti somatici dagli europei e dagli africani; la vegetazione
variopinta e lussureggiante, il clima temperato, l’abbondanza di spezie, la presenza dei
pappagalli, di cui Marco Polo aveva a lungo parlato (i quali tuttavia esistevano anche in
Africa). Ciò nonostante, dopo le prime esplorazioni, apparve evidente non esservi traccia nelle
nuove terre delle grandi città e dei palazzi descritti dal mercante veneziano; nondimeno
Colombo mantenne salda la propria idea, anche perché quelle terre erano fonte di continue
meraviglie. Quando avvistò Cuba, dove secondo gli indigeni vi erano grandi quantitativi
d’oro, il navigatore rimase meravigliato dalla bellezza del luogo, dalla dolcezza del clima e
dalla folta e variegata vegetazione: «Quest’isola è la più bella che occhi umani abbiano mai
visto. È piena di bellissime e altissime montagne, non però tanto estese e il rimanente terreno
è elevato, come in Sicilia» . Ma era la ricerca dell’oro uno dei motivi principali che
spingevano Colombo: egli si accorse che gli indigeni si adornavano con piccoli pezzi d’oro a
cui essi non sembravano riconoscer grande valore e da ciò dedusse che quelle zone
contenessero miniere aurifere, ma nei suoi quattro viaggi egli non trovò queste miniere.
Eppure in lui non si attenuò il desiderio per questo metallo, fonte per lui di ricchezza, e di
potenza per la Spagna: a partire dal secondo viaggio, la ricerca dell’oro diverrà un’ossessione,
con le conseguenze di una crescente oppressione e sfruttamento schiavistico degli indigeni. In
seguito a ulteriori esplorazioni verso sud, Colombo scoprì l’attuale Haiti (che chiamò
Hispaniola), ma non scorse tracce delle terre asiatiche. Il 16 gennaio 1493 salpò per tornare in
Europa e, dopo aver rischiato di naufragare a causa di una violenta tempesta, giunse a Palos il
15 marzo, accolto con grandi onori dai reali di Spagna.
Colombo compì altre tre viaggi alla ricerca delle “Indie”, senza mai trovare le isole di
Cipango o approdare sulle coste del Catai; anzi, andrà incontro a parecchi problemi sia con la
Corona di Spagna, sia con gli indigeni. Egli non comprese mai di avere scoperto un nuovo
mondo, tanto è vero che il nome del continente deriva da quello del fiorentino Amerigo
Vespucci (1454-1512), ossia da colui che, nel 1507, aveva per primo espresso la convinzione
che le terre scoperte da Colombo facessero parte di un continente fino ad allora sconosciuto.
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Sarà la spedizione guidata dal portoghese Ferdinando Magellano (1480-1521), tra il 1519 e il
1522 , a compiere il percorso ipotizzato da Colombo, raggiungendo le Indie navigando verso
ovest, attraversando la Terra del Fuoco e solcando l’allora sconosciuto Oceano Pacifico (così
ribattezzato per la sua calma).
Carta dei viaggi di Colombo
Uno degli aspetti più interessanti connessi alla “scoperta” di Colombo concerne l’incontro con
popolazioni del tutto sconosciute e dotate di usi e costumi completamente diversi da quelli
europei. Nei decenni successivi la colonizzazione degli spagnoli diverrà violenta (per opera
dei conquistadores), tanto da provocare la scomparsa delle grandi civiltà Inca, Maya e Azteca.
Colombo incontrò invece delle popolazioni (i taini e i caribi) meno evolute di quelle
mesoamericane o andine: tuttavia, a eccezione dei primi approcci pacifici, a partire dal suo
secondo viaggio non mancarono episodi di guerra e di crudeltà verso gli indigeni (i quali
talvolta reagirono con violenza), ma soprattutto si può dire che il navigatore genovese pose le
“basi concettuali” per la successiva conquista violenta di quelle terre. Colombo, per esempio,
non prese mai in considerazione la possibilità che in quelle terre ci fossero popolazioni con un
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proprio sovrano e con una propria religione da rispettare e riconoscere: egli, appena giunto su
una terra, prendeva possesso di essa in nome dei reali di Spagna e nel nome di Gesù Cristo.
Per certi aspetti, quindi, tale atteggiamento ha dato origine sia all’idea del “buon selvaggio”,
sia a quella del “cattivo selvaggio”. Entrambi questi punti di vista, infatti, allorché verranno
estremizzati in un senso (Bartolomé De las Casas e le buone qualità degli indios) o nell’altro
(Juan Ginés de Sepúlveda e gli indios come “omuncoli”), costituiranno la base di un
atteggiamento che oggi definiremmo razzista. Entrambi, infatti, hanno sostenuto l’idea che “il
selvaggio” vada educato secondo i valori occidentali e la religione cristiana, o perché troppo
ingenuo per conoscerli (mito del “buon selvaggio”), o perché incivile, ignorante, non molto
diverso dagli animali (mito del “cattivo selvaggio”). Partendo dalla convinzione di portare la
“vera” civiltà e la “vera” religione, Colombo nel suo diario descrisse gli indigeni come
individui semplici e ingenui (non danno valore all’oro che barattano per bagatelle e si
feriscono con le lame delle spade), ma questa semplicità è apprezzata solo perché rivela la
mansuetudine che favorirà la conquista da parte della Spagna e l’imposizione della religione
cristiana. Certamente Colombo era un uomo del suo tempo allorché esprimeva tali concezioni,
ma in questo modo apriva anche la strada a una conquista violenta. Durante il secondo
viaggio i contrasti fra gli spagnoli e gli indios vennero infatti risolti da Colombo con metodi
brutali; dunque, se come navigatore e “scopritore” Colombo si dimostrò un uomo moderno,
coraggioso, capace di ampliare i confini del mondo allora sconosciuto, egli, dal punto di vista
culturale, non si discostò dal modo di governare e di pensare dei sovrani europei del XV e
XVI secolo. L’America non poteva essere semplicemente scoperta, ma andava altresì
immediatamente “conquistata”,
SCHEDA 1
Tzvetan Todorov, La conquista dell'America e il problema dell'altro
( sintesi della parte prima Scoprire: La figura di Colombo ed il suo universo mentale )
1. Il primo personaggio presentato da Todorov è Colombo, lo scopritore dell’America,
paradossalmente mai accortosi di averla scoperta, l’uomo che per primo osò sfidare le radicate
credenze che descrivevano il tragitto tra Europa ed Asia come immenso, ed il mare popolato
di sirene e mostri di ogni tipo. I primi dubbi su Colombo li abbiamo non appena cerchiamo di
capire perché è partito, quali scopi aveva e quali teorie lo hanno convinto a lasciare la Spagna
per una terra la cui esistenza appariva ai suoi contemporanei quanto meno dubbia. Scorrendo
le pagine del suo diario di bordo, abbiamo l’impressione che Colombo abbia un unico
obiettivo nella spedizione, e cioè l’oro, e che tutto il suo agire abbia questo esclusivo fine;
citeremo due passi dal suo diario –la gamma degli esempi è sterminata, ma ci limiteremo, in
questo caso come nel resto del lavoro, ad una o due citazioni- il primo dei quali è datato 13
ottobre 1492, il giorno successivo alla scoperta: "Facevo attenzione e cercavo di comprendere
se avessero dell’oro"; e ancora: "Decise di andare all’isola che chiamavano Baneque, dove
aveva capito da informazioni ricevute che c’era molto oro" (13 novembre 1492).
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E’ però sufficiente leggere per intero i suoi scritti per accorgersi che è vero semmai il
contrario: a Colombo le ricchezze interessano in quanto ne conosce il valore di esca per gli
altri, e sa utilizzarle per tenere legati a sé i suoi uomini durante tutti i viaggi; ad essere
interessati alle ricchezze sono i suoi uomini, ma non solo i marinai, anche i gentiluomini che
lo accompagnano nei viaggi successivi e gli stessi sovrani spagnoli che hanno finanziato la
spedizione. Malgrado la controversia scoppiata poi tra gli eredi del navigatore e la Corona, a
Colombo il denaro interessava relativamente, e solo in quanto faceva parte del riconoscimento
del suo ruolo di scopritore: ciò che gli stava davvero a cuore, era la diffusione della fede
cristiana in tutto il mondo, come dice egli stesso nel febbraio del 1502: "Spero di poter
diffondere il santo nome di Nostro Signore e il Suo vangelo in tutto l’universo".
La religiosità di Colombo non è solo di facciata, ma è autenticamente vissuta, tanto che, ad
esempio, egli non viaggiava mai la domenica, e il suo bisogno di denaro è anch’esso al
servizio della diffusione del vero Dio: Colombo coltiva il sogno, in ritardo di diversi secoli, di
bandire con i denari guadagnati nelle Americhe una nuova Crociata per liberare i luoghi santi
di Gerusalemme. Questa idea è ben documentata dagli scritti personali del navigatore, e ci dà
notizie di un uomo niente affatto moderno, ed ancora legato ad un’idea ormai morta nei suoi
conterranei europei almeno dal XIII^ secolo: può suonare paradossale che l’America sia stata
scoperta da un uomo che ci è difficile definire moderno, a cui i contatti con Dio interessano
più di quelli con gli uomini, e con una forma di religiosità ancora di tipo medioevale, e che sia
proprio tale scoperta, fatta da un medioevale, a proiettarci nell’età moderna.
2. La figura di Colombo è però troppo complessa per poter essere abbracciata tutta da un
unico aggettivo: da un lato, infatti, egli subordina tutto a un ideale esteriore ed assoluto, la
religione cristiana, mentre dall’altro la scoperta della natura, l’attività in cui meglio è riuscito,
diviene per lui non un mezzo, ma un fine: per Colombo, come per noi moderni, "scoprire" è
un’azione intransitiva: "Voglio vedere e scoprire più terre possibili" (19 ottobre 1492); "Ciò
che più desiderava era, a quel che diceva, di fare altre scoperte" (riportato in Las Casas,
Historia, I, 146). Pare perfino che i profitti interessino a Colombo solo secondariamente: ciò
che conta sono le terre e la loro scoperta, e si direbbe quasi che tale scoperta sia a sua volta
subordinata al resoconto del viaggio stesso: la cosa non ci sorprenda, in un uomo che è partito
per l’ignoto per aver letto il racconto di Marco Polo.
Per conoscere meglio la controversa personalità di Colombo, è interessante è un episodio
raccontato da Las Casas nella sua Historia, in cui è riportato il diario del terzo viaggio del
navigatore: per dimostrare che la terra che aveva scoperto era il continente, e non un’altra
isola, dice infatti "Sono convinto che questa è una terraferma […]. Ciò che mi conferma
saldamente in questa opinione è questo fiume così grande, e il mare che è così dolce. Sono
anche parole di Esdra, libro IV capitolo sesto, là dove si dice che sei parti del mondo sono di
terraferma e una parte è acqua […]. Me lo confermarono anche i discorsi di molti indiani
cannibali da me catturati in altra occasione, i quali dicevano che a sud del loro paese c’era
la terraferma" (Historia, I, 138). La convinzione di Colombo si fonda dunque su tre
argomenti, cioè l’abbondanza di acqua dolce, l’autorità dei libri santi e l’opinione di altri
uomini da lui incontrati, e questi argomenti rivelano che il suo mondo si articolava in tre
sfere, una naturale, una divina ed una umana, sfere che corrispondono, niente affatto
casualmente, ai tre moventi all’origine della conquista: uno umano (cioè la ricchezza), un
altro divino (l’espansione del cristianesimo) ed infine uno legato al godimento della natura.
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Per noi queste tre sfere non possono essere messe sullo stesso piano, e per giunta Colombo, in
questa specifica circostanza, se ha ragione, ce l’ha soltanto in relazione al primo argomento,
poiché non capiva nulla di quanto gli indiani dicessero, né questi capivano lui, e per quanto
riguarda Dio, noi non consideriamo questo rapporto, come invece chiaramente faceva
Colombo, facente parte del mondo della comunicazione; questa "comunicazione" con Dio è
però assai importante nel suo mondo concettuale, come dimostra, ad esempio, il suo credere
all’esistenza del paradiso terrestre. Egli ha infatti letto, nell’Imago mundi dello scrittore Pierre
d’Ailly che il paradiso terrestre deve trovarsi in una zona temperata oltre l’equatore, e, specie
durante il terzo viaggio, continua ad annotare particolari che dimostrano il suo approssimarsi
ad esso; riportiamo un brano per noi particolarmente spassoso: "Trovai che il mondo non era
rotondo così come viene descritto, ma aveva la forma di una pera, tutta rotondeggiante salvo
là dove si trova il picciolo, che è il punto più elevato; oppure aveva la forma di una palla
rotonda, su un punto della quale fosse posata una mammella femminile; la parte dove si
trovava la mammella era la più elevata e la più vicina al cielo, ed era situata sotto la linea
equinoziale in questo mare Oceano, all’estremità dell’Oriente" (Lettera ai sovrani, 31 agosto
1498).
Questa elevazione, descritta come un capezzolo su una pera, diventa un argomento in più per
affermare che si tratta del paradiso terrestre; Colombo si comporta analogamente nel caso
delle sirene, vedendo che in realtà non si tratta di belle donne, ma rifiutandosi di concludere
che esse non esistono, e concludendo invece che in realtà non sono belle come si racconta. Il
modo con cui Colombo interpreta ciò che si trova di fronte, è analogo al modo adottato dai
Padri della Chiesa nell’interpretare la Bibbia: il senso finale è dato subito, di primo acchito, e
ciò che si cerca è il percorso che collega il senso iniziale (il significato apparente delle parole,
nel caso del testo biblico) con quel significato ultimo; egli non è affatto un empirista
moderno, poiché l’argomento decisivo non è certo dato dall’autorità, bensì dall’esperienza.
Egli sa già in anticipo cosa troverà, e l’esperienza concreta non viene interrogata per ricercare
la verità, ma semplicemente per illustrare una verità che già si possiede prima.
3. Colombo, tuttavia, non applica sempre questa strategia finalistica, e nell’osservazione della
natura rivela, come abbiamo osservato prima a proposito del suo concetto di "scoprire", alcuni
aspetti incontestabilmente moderni: egli, anzitutto, è curiosissimo, e per accorgersene è
sufficiente leggere qualche pagina del suo diario, in cui si dilunga spesso e volentieri in
elaborate descrizioni degli animali visti e dei loro comportamenti, ed anche in una situazione
assai delicata, cioè mentre la sua nave è arenata sulle coste della Giamaica, trova il tempo di
descrivere il combattimento di un pecari ed una scimmia. Se egli è molto attento agli animali
ed alle piante, lo è ancora di più a tutto ciò che riguarda la navigazione, e ciò gli permette di
compiere delle vere e proprie prodezze, scoprendo nozioni fino ad allora sconosciute, quali la
declinazione magnetica, ed inaugurando il sistema di navigazione con le stelle.
Quando però Colombo cessa di essere il navigatore o il naturalista dilettante, ecco che subito
la strategia finalistica ha il sopravvento, e tutta la ricerca serve a cercare conferme ad una
verità giù conosciuta in anticipo: egli infatti, sebbene impieghi circa un mese a raggiungere
l’America una volta lasciate le Canarie, trova già a partire dal 16 settembre gli indizi di cui è
alla ricerca, che gli indichino cioè la prossimità della terra: "Qui essi cominciarono a vedere
grande quantità d’alghe molto verdi che, come sembrava, non si erano staccate molto tempo
prima da terra"; ancora il 18, il 19, il 20 ed il 21 settembre, e poi sempre, tutti i giorni,
Colombo avvista segni della presenza della terra, malgrado essa sia ancora distante centinaia
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di miglia, tanto che vi giungerà solo il 12 ottobre: in mare, tutti i segni indicano la prossimità
della terra poiché tale è il suo desiderio. Analogamente, a terra tutti i segni rivelano la
presenza dell’oro, anche se questo non si trova; uno dei suoi corrispondenti, poi, gli aveva
scritto nel 1495 che "la maggior parte delle cose buone proviene dalle regioni molto calde,
abitate da negri o da pappagalli", e dunque non ci stupiamo che egli faccia sempre notare
l’abbondanza di pappagalli, il colore nero della pelle degli indiani e l’intensità del calore:
"Dal caldo che dice di aver provato qui l’Ammiraglio arguì che in queste Indie, e là dove si
trovava, ci doveva essere molto oro" (Giornale, 21 novembre 1492).
Si può notare lo stesso tipo di comportamento anche nella ricerca del continente: quando gli
indigeni gli dicono che Cuba è un’isola, e non il contrario, come egli invece credeva, prima
mette in dubbio l’attendibilità della testimonianza ("E poiché sono uomini bestiali, i quali
pensano che il mondo intero è un’isola e non sanno neppure cos’è la terraferma, e sono senza
lettere e memorie del passato, e non trovano altro piacere che nel mangiare e nello star con
le donne, dicevano che quella terra era un’isola […]"), e poi fa giurare a tutti i suoi compagni
che "quella era senza subbio alcuno la terraferma e non un’isola, e che, continuando a
navigare lungo la detta costa, dopo non molte leghe si sarebbe giunti a un paese abitato da
gente civile e conoscitrice del mondo […]", promettendo a chiunque avesse detto il contrario
la pena del taglio della lingua.
Questo atteggiamento non paia strano, poiché se Colombo è giunto a scoprire l’America, è
soltanto perché egli "sapeva" che essa ci doveva essere, come testimoniano Las Casas, che
dice come egli "aveva sempre pensato in fondo all’animo, quali che fossero le ragioni di
questa opinione, che […] alla distanza di settecentocinquanta leghe avrebbe finito con lo
scoprire la terra" (Historia, I, 139), e gli stessi sovrani spagnoli, che, in una lettera del 16
agosto 1494, scrivono che "quel che ci avevate annunciato si è realizzato come se l’aveste
visto prima di parlarne con noi"; se poi Colombo, nel corso del terzo viaggio, finisce per
scoprire il continente vero e proprio, ciò accade perché sta cercando quella che noi chiamiamo
America meridionale, convinto che, per ragioni di simmetria, vi debbano essere sulla Terra
quattro continenti, divisi in due coppie, la prima formata dall’Europa e dall’Africa, mentre
l’Asia è l’elemento settentrionale della seconda.
Ognuno si avvede che questo tipo di interpretazione, fondata sulla prescienza e sull’autorità
non ha nulla di moderno, ma tale atteggiamento è compensato, come dicevamo sopra, da un
altro a noi più famigliare, cioè l’ammirazione intransitiva della natura, un godimento della
natura che non obbedisce ad alcuna finalità: il verde degli alberi diviene così talmente intenso
da non essere più verde, ed ogni isola è la cosa più deliziosa che esista al mondo e "tanta era
la gioia nel vedere quella vegetazione e quegli alberi e nell’udire il canto degli uccelli, che
non avrebbe più voluto allontanarsene per fare ritorno" (28 ottobre 1492).
Per riassumere, dunque, l’osservazione attenta della natura conduce Colombo a tre diversi
esiti, cioè all’interpretazione pragmatica nel caso di questioni di navigazione,
all’interpretazione finalistica quando i segni confermano le credenze e le speranze già
possedute, e a quel rifiuto di ogni interpretazione che è l’ammirazione intransitiva.
4 Occupandoci ora, invece, della comunicazione umana, dobbiamo premettere che, a
differenza dei segni della natura, che sono associazioni stabili, i segni umani, cioè le parole di
una lingua, non collegano direttamente un suono (il significante) e l’oggetto (il referente, per
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intenderci), ma passano attraverso la mediazione del significato. Colombo, che abbiamo detto
essere più portato alla comunicazione con la natura, presta infatti un’attenzione pressoché
esclusiva ai nomi propri, cioè a quanto vi è di più simile agli indizi naturali. Egli poi, nel
corso di tutta la sua vita, dedicò al suo nome ed alla sua firma una attenzione quasi feticistica:
non solo infatti cambiò il suo cognome in Colòn (che significa ripopolatore) ed il suo nome in
Cristòbal (cioè portatore di Cristo), convinto che, come diceva Aristotele, i nomi dovessero
convenire alle qualità e agli usi delle cose, ma addirittura impone la sua firma, così complessa
che non siamo ancora giunti a penetrarne il segreto, ai suoi discendenti.
È perciò assai naturale che Colombo si dedichi con grande vigore, quasi da novello Adamo
nel paradiso terrestre, ad assegnare ai luoghi che incontra i nomi "giusti": il battesimo dei
luoghi segue l’ordine di importanza degli oggetti assegnati a quei nomi, e dunque, se la
successione è Dio, la Madonna, il re di Spagna, la regina, l’infanta erede al trono, la prima
isola è chiamata San Salvador, la seconda Santa Maria de la Concepciòn, la terza Fernandina,
la quarta Isabela e la quinta Juana. Colombo sa benissimo che quei luoghi hanno già dei nomi,
che sono in un certo senso più naturali, ma egli vuole attribuire i nomi "giusti", e
contemporaneamente, attraverso il battesimo, prenderne possesso; la sua furia nominatrice
raggiunge in certi giorni livelli incredibili: "Navigò verso est verso un capo che chiamò "Bel
Prado", a quattro leghe di distanza. Da qui verso sud-est c’è una montagna che chiamò
"Monte de Plata" […] il capo che chiamò "del Àngel" […] il promontorio che chiamò "del
Hierro" […] il promontorio che chiamò "Punta Seca" […] il capo che chiamò "Redondo", e
da lì, verso est c’è Capo Francés" (11 gennaio 1493).
Se egli pare preoccuparsi molto dei nomi propri, vediamo che invece è assai poco interessato
agli altri settori del vocabolario, e mostra la sua concezione ancora ingenua del linguaggio,
confondendo sempre i nomi con le cose che essi designano, senza che gli si riveli, per un
attimo solo, tutta la dimensione della intersoggettività, del valore reciproco delle parole, cioè
del carattere umano, e dunque arbitrario dei segni; non a caso, infatti, appena appresa la
parola indiana "cacicco", Colombo non cerca di capire che cosa esattamente significa nella
gerarchia degli indiani, ma si preoccupa di trovare a quale parola spagnola essa corrisponda:
"L’Ammiraglio sino ad allora non era stato in grado di capire se con questa parola
intendessero re o governatore. Essi usano poi un’altra parola per dire "grande", cioè
"nitayno", ma egli non capì se in tal modo chiamassero un hidalgo, un governatore o un
giudice": egli non dubita che anche gli indiani distinguano, come gli spagnoli, tra un
gentiluomo, un governatore o un giudice.
5. Una volta mostrato come gli uomini, nella concezione della comunicazione di Colombo,
non abbiano un ruolo a parte, non desta affatto meraviglia la scarsa attenzione che egli dedica
alle lingue straniere: la sua convinzione della vicinanza dell’Europa all’Asia, e dunque circa
la praticabilità della sua impresa, è anzi basata proprio su un malinteso linguistico, cagionato
dal fatto che, Colombo, mentre tutti quanti pensano, peraltro giustamente, che la distanza sia
insuperabile per via occidentale, prende come autorità un celebre astronomo arabo, che
fornisce una misura della circonferenza terrestre abbastanza esatta, esprimendola però in
miglia arabe: esse sono superiori di un terzo alle miglia italiane cui egli è abituato, e dunque
la distanza gli appare non eccessiva. Ecco ancora una dimostrazione di come Colombo non
riesca a concepire che neppure le misure siano un fatto convenzionale, così come le parole di
una lingua.
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Trovatosi di fronte ad una lingua diversa, egli non può fare altro che riconoscere che è una
lingua e rifiutarsi di credere che sia diversa, o ritenerla diversa ma negare che si tratti di una
lingua: è proprio quest’ultima la sua reazione all’incontro con gli indiani, tanto che scrive nel
suo diario, il 12 ottobre, che "A Nostro Signore piacendo, al momento della partenza porterò
sei di questi uomini alle Vostre Altezze, così che possano imparare a parlare"; in seguito
ammette che gli indiani abbiano una lingua, rifiutandosi però di crederla diversa, e
continuando a trovare nei loro discorsi parole famigliari e rimproverandoli per la loro cattiva
pronuncia.
Il risultato di tutto ciò fu che, durante il primo viaggio, vi fu una totale incomprensione fra
spagnoli ed indiani, fatto peraltro non scandaloso e che non ci sorprenderebbe affatto, se però
Colombo non pretendesse di capire quanto gli veniva detto fornendo contemporaneamente le
prove della sua incomprensione: ad esempio, egli scrive il 24 ottobre 1492: "A mezzanotte
salpai l’ancora […] per raggiungere l’isola di Cuba, che questa gente mi dice essere molto
grande ed avere molto commercio; dicono anche che in essa si trova molto oro e spezie e
grandi navi e molti mercanti", per poi aggiungere poche righe dopo "Io non conosco la loro
lingua": ciò che egli sente dire, dunque, non è altro che il riassunto dei libri di Marco Polo e
Pierre D’Ailly.
Gli esiti negativi nella comunicazione umana non sono però attribuibili solo all’ignoranza
della lingua, dato che le cose non migliorano nei rapporti con gli europei: Colombo, ad
esempio, commette sulla via del ritorno l’errore di fidarsi di un capitano portoghese,
trovandosi così con la ciurma messa agli arresti e non riuscendo, da grossolano dissimulatore
qual era, ad attirare sulla sua nave quel capitano, per arrestarlo a sua volta; egli commette gli
stessi errori circa gli individui che lo circondano, fidandosi di persone che presto gli si
rivolteranno contro e diffidando invece di quanti gli sono seriamente devoti.
La comunicazione umana non riesce bene a Colombo perché non gli interessa, così come bene
si evince da questo passo: "Neppure li capiva bene né loro capivano bene lui, e dice anche
che essi avevano la più gran paura del mondo del popolo di quest’isola. Per parlare con essi
l’Ammiraglio avrebbe dovuto fermarsi qualche giorno in questo porto, ma non lo fece, perché
voleva esplorare molte terre e temeva che il bel tempo non continuasse" (6 dicembre 1492):
in queste frasi sono espresse tutte le sue idee, a cominciare dalla sommaria percezione che
egli ha degli indiani, alla incomprensione che ha della loro lingua, fino alla preferenza che
egli ha per le terre rispetto agli uomini, uomini che sono nominati solo perché sono anch’essi,
in fondo, parte del paesaggio, come dimostra il fatto che i suoi accenni agli abitanti delle isole
sono inframmezzati alle sue notazioni sulla natura, come ad esempio in questo passo, scelto
tra un gran numero di altri: "Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di
bene e in meglio, tanto per le terre, gli alberi, i frutti e i fiori quanto per gli abitanti" (25
novembre 1492).
Gli indiani, che si presentano come fisicamente nudi, sono anche privi di ogni proprietà
culturale, e sono caratterizzati dalla mancanza di costumi, di riti e di religioni: "Questa gente
è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge" (4 novembre 1492);
l’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è, nel migliore dei casi, quello del
collezionista di curiosità, tanto che, trovando per la prima volta delle costruzioni in pietra in
occasione del suo quarto viaggio, si accontenta che ne venga staccato un pezzo per ricordo. È
naturale che questi indiani si somiglino tutti fra loro, privi come sono di ogni identità
culturale: "Vennero molti di questi abitanti, che sono simili a quelli delle altre isole, nello
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stesso modo nudi e dipinti"; la cultura degli indiani è quindi misconosciuta, ed essi sono
assimilati alla natura, venendo perciò ammirati, analogamente a quanto Colombo faceva con
le piante, i fiori e gli animali, e tale ammirazione, decisa a priori, si estende anche al campo
morale: egli, ad esempio, mai si stanca di lodare la generosità degli indiani, che danno tutto
per niente: "Diedi ad alcuni di loro qualche berretta rossa e qualche collanina di vetro che
essi si misero al collo, e molti altri oggetti di poco valore. Essi gradirono molto questi doni"
(11 ottobre 1492). Colombo non capisce che, come le lingue e le unità di misura, anche i
valori sono convenzionali, e che, in sé, l’oro non è più prezioso del vetro; sulla base di questi
scambi, però, egli conclude che gli indiani sono la gente più generosa del mondo, fornendo
così un notevole contributo al mito del buon selvaggio.
6. Dopo che abbiamo osservato come Colombo vedeva gli indiani, cerchiamo di capire se
attraverso le sue note possiamo intuire come gli indiani vedessero a loro volta gli spagnoli:
l’informazione è però, anche in questo caso, viziata dal fatto che egli ha deciso tutto a priori, e
che se il suo tono è di ammirazione, allora anche gli indiani debbono ammirarli: "Molte altre
cose mi dissero ma io non potei capir tutto, e tuttavia mi accorsi che essi guardavano ogni
cosa con meraviglia".
Colombo, nell’atteggiamento che ha verso gli indiani, non riesce a superare queste due
posizioni: o gli indiani sono degli esseri umani completi, con gli stessi suoi diritti, ma sono
visti non come uguali ma come identici, e dunque egli sbocca nell’assimilazionismo, cioè
nella proiezione dei propri valori sugli altri, oppure parte dalla differenza, ma questa viene
subito tradotta in inferiorità. Il proposito di fare adottare i costumi spagnoli alle popolazioni
indigene, pur continuamente ribadito, non viene mai giustificato, poiché è una cosa che viene
da sé, così come il desiderio di cristianizzarle; in questo secondo caso, poi, il discorso è più
complesso, e si fonda sull’equilibrio tra il dare la religione e il prendersi l’oro, equilibrio che
appare però piuttosto precario, dato che diffondere la religione presuppone che gli indiani
siano considerati, almeno di fronte a Dio, come uguali, mentre per prendere l’oro, se essi non
vogliono darlo, sarà necessario sottometterli per poterglielo prendere con la forza, ponendoli
così in una chiara posizione di inferiorità.
Colombo però, gradatamente, passa dall’assimilazionismo all’ideologia schiavista, che parte
dall’affermazione di principio della inferiorità degli indiani, anche se egli continua a fare
distinzioni, per una sorta di coerenza con sé stesso, tra indiani buoni, potenzialmente cristiani
ed indiani bellicosi da sottomettere: resta però il fatto che coloro che non sono già cristiani
non possono essere altro che schiavi, senza che esista una terza possibilità. Egli, come è noto,
fu un fermo sostenitore della schiavitù degli indiani, ma, anche quando non si trattava di
schiavi, il suo comportamento nei confronti degli indiani indica che egli li considera, in
fondo, una sorta di oggetti viventi: nella sua passione naturalistica, Colombo, vuole riportare
in Spagna esemplari di ogni genere, alberi, uccelli, animali e indiani, ma anche nel caso di
questi ultimi non si pone neanche il dubbio di chiedere il loro parere: "Dice che avrebbe
voluto far prigionieri una mezza dozzina di indiani per portarli con sé; […] il giorno dopo
dodici uomini si avvicinarono alla caravella su una barca, e furono tutti catturati e trasferiti
sulla nave dell’Ammiraglio, che ne scelse sei e rispedì a terra gli altri sei" (Las Casas,
Historia, I, 134). La cifra è già stata decisa in anticipo, una mezza dozzina, e gli individui, se
ci è permesso il gioco di parole, non contano, ma vengono contati.
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Come può dunque Colombo essere associato alla nascita di due miti apparentemente così
contraddittori, come quello in cui l’altro è il "buon selvaggio" e quello in cui, invece, l’altro è
uno "sporco cane", cioè uno schiavo potenziale? Il legame tra posizioni così diverse è dato dal
fatto che, in realtà, entrambe si fondano sul disconoscimento degli indiani e sul rifiuto di
considerarli un soggetto con i nostri stessi diritti, ma diverso da noi. Bene ha osservato chi ha
detto che Colombo, in fondo, ha scoperto l’America, ma non gli Americani.
(La sintesi è ricavata da: http://www.liceoberchet.it/ricerche/todorov/scoprire.htm)
UNIVERSITÀ DI PISA, CORSO DI LAUREA DI SCIENZE PER LA PACE
Materiali di studio per l’insegnamento di
“Europa e mondo dall’età moderna all’età contemporanea”
(prof. Marco Della Pina)
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