Ventiquattro dipinti di Caravaggio Il Caravaggio in un ritratto a matita opera di Ottavio Leoni (1621) a cura di Valerio Varriale Ragazzo con canestro di frutta Il Ragazzo con canestro di frutta, è databile al periodo1593-4 ed è conservato presso la Galleria Borghese. Si tratta di una delle prime opere romane, realizzata quasi sicuramente dopo il cosiddetto Bacchino malato anch’esso presso la Borghese. Ambedue i dipinti, infatti, facevano originariamente parte della collezione di Giuseppe Cesari detto il Cavalier D’Arpino, uno dei protagonisti della pittura romana dell’epoca presso il quale il giovane pittore lombardo aveva lavorato per qualche mese producendo soprattutto nature morte per i collezionisti. Nel 1607, con il pretesto di un porto d’armi abusivo, i dipinti vennero sequestrati al pittore romano per ordine di papa Paolo v Borghese, e subito incamerati nella collezione del nipote, l’appassionato collezionista d’arte cardinale Scipione Borghese. L'immagine è quella di un giovane venditore, un fruttaiolo dai riccioli scuri e dallo sguardo languido, che si protende dal fondo di una parete scura e ci offre il suo canestro di frutta. Proprio quest'ultimo può essere considerato il vero centro della rappresentazione: la resa del rustico cesto di vimini, la brillantezza e la verità dei frutti fanno riferimento alla tradizione fiamminga, ma anche a quella leonardesca e lombarda, per la minuziosa attenzione ai particolari della realtà. In mezzo a questa esplosione di vitalità, rappresentata dai frutti e dalla bellezza del giovane venditore, l’appassire di alcune delle foglie sembra ricondurre anche questa rappresentazione al tema cristiano della vanitas: la caducità, la temporaneità della vita e di tutte le cose secondo la lettura che qualche decennio fa ne diede il critico Maurizio Calvesi ma anche secondo la valutazione di un contemporaneo del Caravaggio, il cardinale Ottavio Parravicino, il quale ritrovava nelle opere del lombardo un significato “in quel mezzo tra il devoto e il profano”. Il modello è forse Mario Minniti, il giovane pittore siciliano conosciuto dal Caravaggio all’inizio delle sue vicende romane. A dispetto della tradizione che voleva il Caravaggio abituato a creare le sue figure direttamente sulla tela, in questo caso, secondo gli studi più recenti, abbiamo tracce consistenti di disegno sotto la pittura. Nel venditore di frutta alcuni hanno voluto vedere una rappresentazione della figura dello Sposo del biblico Cantico dei Cantici, altri quella dell’antico Vertumno, arcaica divinità romana collegata al ciclo della vegetazione. A sinistra, Ritratto del cardinale Scipione Borghese di Gian Lorenzo Bernini A destra, Ritratto di Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, di Ottavio Leoni La venditrice di frutta (1580), conservata presso la Pinacoteca di Brera a Milano, opera del cremonese Vincenzo Campi, ben rappresenta l’attenzione dei pittori lombardi verso i dati della realta’ Venditrice di pollame, frutta e verdure (1564) opera del pittore fiammingo Joachim Beuckelaer Canestra di frutta Lo sviluppo successivo della ricerca del pittore nell’ambito dlla natura morta è costituito dalla famosissima Canestra di frutta, detta anche La Fiscella (1595-96 ca). L’opera regalata dal cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte al cardinale Federico Borromeo, che il Manzoni avrebbe fatto protagonista dei suoi Promessi Sposi, venne ceduta nel 1607 all’Accademia Ambrosiana ed è tuttora conservata nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Si tratta della prima vera natura morta della pittura italiana, una semplice cesta di vimini ricolma di frutta appoggiata su un tavolo e non collegata ad alcuna figura come invece accadeva ancora per l’opera della Galleria Borghese. È da sottolineare l’eccezionalità della cosa nell’ambiente culturale italiano che, a differenza di quello fiammingo, presupponeva la superiorità a priori della pittura di figura, in specie della cosiddetta pittura di storia (delle opere, cioè, dedicate alle storie di santi e monarchi) rispetto alle nature morte. Nella Lettera sulla pittura a Teodoro Amideni scritta nel periodo 1620-30 al fiammingo Dirk van Ameyden, il marchese Vincenzo Giustiniani riportò che il Caravaggio ebbe a dire « che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure». Il cardinale Borromeo, grande intenditore di libri e d’arte, apprezzò grandemente quest’opera e scrisse che «Questa canestra la fece in Roma Michelangelo da Caravaggio e avrei voluto accompagnarla con un’altra simile, ma poiché nessuna raggiungeva la bellezza di questa e la sua incomparabile eccellenza, rimase sola». Sullo sfondo di una parete chiara ed astratta il pittore ci presenta un’immagine di raro equilibrio e si diffonde nell’analisi di ogni dettaglio degli elementi che costituiscono questa rappresentazione. L’effetto di profondità dell'immagine è accentuato dal lieve sporgere del canestro al di fuori del tavolo. Si tratta del punto più alto raggiunto dal Caravaggio durante la sua prima fase romana: il congiungimento della tradizione lombarda, leonardesca e fiamminga del dipingere dal vivo e dello studio della realtà, con lo studio della classicità, sia di quella ricreata da discepoli di Raffaello come Giovanni da Udine nelle decorazioni naturalistiche della loggia di Psiche alla Farnesina, sia di quella antica esemplata dai resti degli antichi mosaici romani, i cosiddetti emblemata, che ricreavano vivaci nature morte e animali per decorare i pavimenti delle ricche dimore patrizie. Ancora una volta, la mela perforata dal baco che campeggia al centro A sinistra, mosaico romano, a destra, festoni vegetali dipinti da Giovanni da Udine nella decorazione della Loggia di Psiche della composizione, le foglie e gli acini d’uva che pendono vizzi, sembrano alludere al trascorrere del tempo e al contrasto tra pienezza di vita e disfacimento di tutte le cose. In alto a destra, Natura morta del Maestro di Hartford, autore dietro il quale, secondo Federico Zeri, sarebbe da riconoscere l’attività giovanile del Caravaggio presso il Cavalier d’Arpino A sinistra, Jan Brueghel, Cesto di fiori e vaso di fiori National Gallery of Art Washington Dc In basso a destra, una tipica composizione floreale secentesca di Mario Nuzzi, detto Mario dei Fiori, I musici Il famoso I musici, appartiene al Metropolitan Museum of Art di New York. Si tratta forse della prima opera realizzata dal Merisi per il cardinale Del Monte, quando, intorno al 1595, era ospite a Palazzo Madama del coltissimo prelato appassionato d’arte e di musica. Il dipinto, ricco di fascino e di mistero, venne citato nel 1642 nella biografia redatta dal Baglione il quale fece riferimento a modelli ritratti dal vivo e lo definì Musica di alcuni giovani. Un gruppo di ragazzi, abbigliati all’antica, viene colto nel momento che precede l’inizio di un concerto: a destra uno di essi, di spalle, ha appoggiato il suo violino e sta studiando uno spartito, al centro un secondo ragazzo, dall’aria trasognata, sta accordando il suo liuto, mentre dietro di essi se ne intravede un terzo che guarda verso di noi reggendo un corno e nel quale si è voluto vedere un autoritratto del pittore. I tre sono affiancati, sulla sinistra, da un Eros alato e munito di faretra, intento a staccare dei grappoli d’uva bianca e nera. La composizione appare ispirata alle immagini dei bassorilievi antichi e la stessa figura dell’Eros pare rifarsi agli amorini vendemmiatori dei sarcofagi della tarda antichità ( come nel caso del sarcofago di Giunio Basso e in quello di Costantina). Del resto la congiunta presenza simbolica di musica e vino nei dipinti venne codificata dall’erudito Cesare Ripa nella sua Iconologia (1593) perché : “ il vino si pone, perché la Musica fu ritrovata per tener gli Uomini allegri, come fa il vino, e ancora perché molto aiuto dà alla melodia della voce il vino bianco, e delicato; però dissero gli antichi scrittori vadino in compagnia di Bacco”. Così pure per quanto riguarda la presenza del Cupido il Vasari, descrivendo nelle sue Vite un dipinto nel quale tre belle donne con strumenti simboleggiavano la musica, aggiunse “accanto alle donne è un Cupido senz’ale, che suona un gravicembalo, dimostrando che dalla musica nasce amore, ovvero che amore è sempre in compagnia della musica, e perché mai non se ne parte, lo fece senz’ale” Il cattivo stato di conservazione dell’opera impedisce di decifrare, caso unico nel repertorio caravaggesco, il contenuto degli spartiti che probabilmente riaffermavano la connessione musica- amore che costituisce il motivo centrale di questo dipinto. Il calco del sarcofago di Giunio Basso (Museo della Civilta’ Romana) Suonatore di liuto Il Suonatore di liuto, (1595 ca) è esposto nel Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Vi è rappresentato, a mezza figura, un giovane androgino, dagli occhi dolci e le labbra leggermente dischiuse a intonare un canto. Il ragazzo indossa una tunica bianca e sta suonando un liuto. Dinanzi a lui, sul tavolo, è una caraffa di vetro con fiori nella quale si riflette la luce di una finestra, un violino in perfetta prospettiva e alcuni spartiti musicali. Tra questi si nota, in particolare, quello di un madrigale del 1539 del compositore parigino Jacob Arcadelt dal titolo Voi sapete ch’io v’amo. Nel 1642 il Baglione scrisse che il Caravaggio dipinse per il Cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte “un giovane che suonava il Lauto, che vivo , e vero il tutto parea con una caraffa di fiori piena d’acqua (...) E questo fu il più bel pezzo che facesse mai”. La studiosa Franca Trincheri Camiz, alla quale si deve l’individuazione dei brani musicali relativi agli spartiti raffigurati nelle opere caravaggesche, ha proposto di identificare il giovane, che nei secoli successivi venne lungamente scambiato per una donna, con il castrato Pedro Montoya all’epoca cantore della Cappella Sistina. L’esaltazione della bellezza efebica associata all’armonia del canto e della musica facevano parte della cultura raffinata dei committenti dell’artista. Palazzo Madama, al tempo abitazione del cardinale Del Monte, fiduciario del Granducato di Toscana, alchimista, giocatore, esponente del partito filo-francese, era un luogo riservato a elitari cenacoli culturali con una apposita camera della musica. L’alto prelato, che conosceva e proteggeva alcuni dei più importanti musicisti dell’epoca, si vantava di essere egli stesso esperto di “chitarriglia et canto alla spagnuola”. Agli intrattenimenti musicali partecipava anche il nobilissimo dirimpettaio, il marchese Vincenzo Giustiniani banchiere, discendente dalla dinastia genovese dei signori dell’isola di Chios, il quale, a dispetto delle informazioni del Baglione, fu forse il vero committente di quest’opera intesa come rappresentazione del concetto di Armonia condiviso dai partecipanti al cenacolo. Tale concetto era stato codificato dall’erudito perugino Cesare Ripa nella sua Iconologia, apparsa una prima volta nel 1593 priva di illustrazioni e successivamente, a partire dal 1603, corredata con immagini. Anni dopo, nel 1628, a conferma della sua profonda passione per l’arte musicale, il Giustiniani avrebbe scritto un Discorso sopra la musica de’ suoi tempi che viene considerato come uno dei primi testi di storia della musica. Il tema del concerto, di schietta ascendenza veneta, rappresentazione del desiderio di bellezza e di armonia come accordo tra le parti, venne trattato da Tiziano nel Concerto di Palazzo Pitti e nel Concerto campestre del Louvre, quest’ultimo attribuito a Tiziano come a Giorgione. Nel Suonatore di liuto, presso la Galleria Sabauda a Torino, opera di Antiveduto Gramatica, amico di Caravaggio e protetto del cardinale Del Monte, è visibile sul tavolo una chitarriglia spagnola In alto a sinistra, la raffigurazione dell’Armonia codificata da Cesare Ripa nella sua Iconologia A destra, il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte ritratto da Ottavio Leoni In basso a sinistra, il Concerto (1510-12) variamente attribuito a Giorgione o a Tiziano Riposo dalla fuga in Egitto Il Riposo dalla fuga in Egitto, una delle tele più celebri della Galleria Doria Pamphilj a Roma che originariamente fece parte della collezione di Olimpia Aldobrandini. Si tratta di un olio dipinto su tovaglia di lino di Fiandra dipinto intorno al 1595, dopo la rottura con il Cavalier d’Arpino, quando era ospite di monsignor Fantin Petrignani. L’immagine è riferita a quello che G. C. Argan definiva il “motivo religioso-sociale del rivelarsi del divino nelle persone, nelle cose più umili”. Mentre la Vergine e il Bambino sono dolcemente assopiti ai margini di un bosco, un angelo di rara bellezza, dalle ali d’aquila, appare a Giuseppe e con il suo violino intona una lode alla Vergine. Il santo, seduto sulle masserizie e quasi attonito, gli regge lo spartito e dietro un albero si intravede la presenza muta ed innocente di un asino. Sullo spartito retto da Giuseppe leggiamo le note d’inizio del mottetto Quam pulchra et quam decora, opera del musicista fiammingo Noel Bauldewijn, collegato con il biblico Cantico dei Cantici. La modella che impersona Maria pare essere la medesima della Maddalena convertita, esposta anch’essa presso la Galleria Pamphilj. Il pittore accentua il colore rosso dei capelli della donna, la stessa modella utilizzata per la Maddalena penitente della Galleria Doria Pamphilj, con evidente richiamo a quelli della Bella Sulamita, l’amata cantata dal Cantico dei cantici, “Il tuo capo si eleva come il Carmelo/e la chioma del tuo capo sembra di porpora;/un re è incatenato dalle tue trecce!” La precisa descrizione del paesaggio, sulla scia della tradizione veneta e lombarda di Lotto, di Savoldo, e del Campi, è un caso unico nella pittura caravaggesca. Si è fatto notare che, come nel Cristo risorto di Piero della Francesca o nel Temporale di Giorgione, il paesaggio si scinde secondo caratteristiche opposte: a sinistra, presso il santo, esso è spoglio, fatto di sassi e terra, mentre a destra, presso la madre e il figlio, la natura fiorisce e ai piedi di Maria vediamo il tasso barbasso, simbolo antico della Terra Promessa. L’allusione è alla storia prima e dopo l’avvento del Salvatore, alla corrispondenza tra Vecchio e Nuovo Testamento, al passaggio dalla morte alla resurrezione e dalla caduta alla grazia. Ma oltre al dono divino della salvezza, il dipinto, comunque collegato a quella poetica degli affetti già espressa da pittori del XVI secolo quali il Barocci, pare suggerirci la rappresentazione di un’umanità affannata e stanca, colta qui nel suo torpore quasi animale, che scopre un balsamo agli affanni e alle fatiche dell’esistenza: il dono supremo della musica, dell’armonia, dell’arte. In alto a sinistra, anche nella Resurrezione di Piero della Francesca, il paesaggio è ripartito secondo un significato di morte e rinascita In alto a destra, la misteriosa raffigurazione della Tempesta dipinta da Giorgione In basso a sinistra, la Maddalena penitente presso la Galleria Doria Pamphilj In basso a destra, il Riposo durante la fuga in Egitto di Federico Barocci (1570/73), conservato presso la Pinacoteca Vaticana, è un esempio di quella poetica degli affetti tesa a far breccia nel cuore dei fedeli I bari La tela del Kimbell Art Museum di Fort Worth in Texas raffigurante I bari è databile al 1595. Si tratta di una delle opere del Caravaggio più apprezzate e imitate dai suoi seguaci nel corso del XVII secolo e che nel 1672 fu accuratamente descritto dal biografo Giovan Pietro Bellori. Realizzata probabilmente per il cardinal del Monte, passò poi ai Barberini e ai Colonna di Sciarra. Nel 1899, a causa della sua gravissima situazione economica, Maffeo Barberini-Colonna di Sciarra, principe di Carbognano, incluse l’opera nel gruppo di beni che mise in vendita. Della tela si persero le tracce e quasi un secolo dopo toccò al grande esperto inglese sir Denis Mahon di ritrovare in Svizzera l’opera del Merisi che nel 1987 venne acquistata dal museo texano. Attorno ad un tavolo vediamo tre personaggi: a sinistra, un bel giovane pallido ed elegantemente vestito di scuro si concentra sulle carte che tiene nella mano, sul lato opposto, un altro giovane, dagli abiti chiassosi illuminati dalla luce che taglia trasversalmente la scena, sta protendendosi nervosamente con il braccio sinistro sul tavolo mentre con la mano destra, nascosta dietro la schiena, sta estraendo una carta falsa dalla cintura. Alle spalle del primo giovane, un terzo personaggio sbircia le sue carte e le indica silenziosamente al compare con un cenno della mano. I due lestofanti hanno abiti colorati e pretenziosi che da alcuni particolari, vedi la consunzione delle maniche, la sommarietà della confezione, o i polpastrelli che fuoriescono dai guanti bucati del baro che suggerisce il punteggio, lasciano intuire le miserie delle loro vite. Il giovane alla moda, concentrato sulle sue carte, non ha saputo leggere tutto questo prima di accettare il gioco, non si accorge del raggiro che sta subendo ora e neppure della minaccia potenziale costituita dall’aguzzo pugnaletto che pende al fianco del suo avversario. Sul lato sinistro del tavolo, a sporgere verso lo spettatore, un’altro brano di natura morta: una tavola da tric-trac o tavola reale, l’attuale backgammon, con sopra tre piccoli dadi e il bussolotto per lanciarli. Si tratta di una ripresa del tema morale dell’ingenuo raggirato dai manigoldi come nel caso della Buona ventura, in cui un giovane sprovveduto, sedotto dallo sguardo amiccante di una zingarella, si fa sfilare un anello dalle dita si tratta di vere e proprie rappresentazioni teatrali a sfondo morale, un teatro delle passioni e dei caratteri che avrebbe avuto molto seguito soprattutto in Europa settentrionale. La buona ventura, (1595 ca) Roma, Musei Capitolini Sopra, Valentin de Boulogne, Soldati che giocano a carte (1622) A destra, Una rappresentazione di piazza in un’incisione del XVII secolo Sotto,:Wouters Pietersz Crabeth il giovane I bari (XVII secolo) . Bacco coronato da pampini Il Bacco coronato di pampini della Galleria degli Uffizi a Firenze, databile al 1595/96 e realizzato su una tovaglia in lino di Fiandra, raffigura un giovane vestito all’antica, sdraiato su una sorta di triclinio e con il gomito poggiato su cuscino costituito dallo stesso sacco già utilizzato per far sedere il san Giuseppe del Riposo dalla fuga in Egitto. Il ragazzo ha il capo coronato d’uva e foglie autunnali, e ci fissa, con lo sguardo un pò pesante, forse intorpidito dal vino, porgendoci un calice colmo. Sulla tavola vediamo una terrina carica di frutti in parte guasti, tra i quali notiamo della castagne e una melograna. Probabilmente il dipinto fu donato dal Del Monte a Ferdinando I de’ Medici, granduca di Toscana, intorno al 1609. L’opera venne riscoperta soltanto nel 1916 da Roberto Longhi, nei depositi degli Uffizi, in precario stato di conservazione. Anche in questo dipinto prevale l’attenzione ai particolari, alla descrizione del momento: la luminosità del volto acceso, le unghie sporche della mano che ci porge il calice, i cerchi concentrici del vino appena versato e che ancora ondeggia nella caraffa. L’apparente istantaneità dell’esecuzione è in realtà frutto di studio e di ripensamenti. È evidente il rapporto con la tradizione classica, con la figura di Bacco inteso come simbolo di Cristo: l’equazione vino-eucaristia configura questa immagine come una rappresentazione dell’offerta della salvezza. Nel 1642 Giovanni Baglione scrisse che il Merisi «Fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse». Molto s’è detto circa l’uso caravaggesco di dipingere davanti ad una immagine riflessa allo specchio, e questo ha fornito la spiegazione al fatto che il Bacco regge la sua coppa con la mano sinistra. Di recente la studiosa fiorentina Roberta Lapucci è andata oltre e, insieme ad altri colleghi americani, ha ipotizzato che gli specchi di Caravaggio fossero in realtà le parti di una camera oscura. Dalle testimonianze dei contemporanei pare infatti di capire che Caravaggio, almeno per un certo periodo della sua attività, avesse trasformato il suo studio in un’enorme camera ottica: l’artista aveva fatto un foro nel soffitto del suo studio per consentire la penetrazione di un fascio di luce e, attraverso l’uso combinato di uno specchio concavo e di una lente biconvessa, riusciva a proiettare sulla superficie della tela le immagini dei modelli. Le informazioni tecniche, a quanto sembra, gli erano venute proprio dalla frequentazione del salotto del cardinale Del Monte, crocevia dei dottiv toscani residenti a Roma. Una ulteriore prova di questi esperimenti potrebbe forse essere il fatto che, durante uno dei vari processi che funestarono la vita del pittore, la sua padrona di casa lamentò di essere stata vituperata dal lombardo e di dover essere ancora pagata «della pigione di sei mesi e di un suffitto mio di detta casa che esso ha rotto». Del resto, già nel 1568, Daniele Barbaro, scrittore veneziano e studioso di architettura, consigliava la camera oscura come ausilio per gli artisti: «Vedendo nella carta i lineamenti delle cose, tu puoi con un pennello segnare sopra la carta tutta la Perspettiva, che apparirà in quella. E ombreggiarla. E colorirla teneramente secondo la natura che ti mostrerà, tenendo ferma la carta, finché haverai fornito il disegno». Questa, secondo i sostenitori della tesi dell’utilizzo di apparecchiature ottiche durante la realizzazione del Bacco, doveva essere la reale posizione del modello La camera oscura in una stampa esplicativa del XVII secolo Giuditta e Oloferne Giuditta e Oloferne, dipinto ad olio facente parte dell’esposizione della Galeria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma e databile al periodo 1598-99 raffigura l’episodio biblico della giovane e ricca vedova ebrea Giuditta che, durante l’assedio della città ebraica di Betulia, riesce a farsi ricevere dal generale assiro Oloferne e lo decapita, mentre giace ubriaco nel suo letto, salvando il suo popolo. Secondo alcuni ad ispirare l’opera può essere stata la figura di Beatrice Cenci, giovane nobildonna romana che finì sotto la mannaia per aver asassinato il padre violento e dissoluto. Modella per la figura dell’eroina fu la cortigiana di origine senese Fillide Melandroni che appare in altre opere del pittore. Al posto dell’ancella citata nel testo biblico l’eroina è accompagnata nella sua impresa da un’anziana dai tratti grotteschi in cui il pittore recupera l’esperienza della fisiognomica leonardesca. L’opera fu esposta per la prima volta al pubblico nella mostra che Milano dedicò al Caravaggio nel 1951 al Palazzo Reale suscitando grande clamore e qualche riserva ma venne fermamente difesa dal Longhi “l’opera non tarderà ad entrare nel corpus autografo del grande lombardo”. Il dipinto, che allora faceva parte della collezione di Vincenzo Coppi, era stata recuperata dal celebre critico Roberto Longhi sulla base della segnalazione di un restauratore. La prima menzione dell’opera è nel testamento del 1632 e poi del 1639 di Ottavio Costa, nobile di Alberga che trascorse gran parte della sua vita a Roma. L’inventario descrive “ un quadro grande con l’immagine di Judit fatta da Michelangelo Caravaggio con la sua cornice e taffettà dinanzi. L’appartenenza del dipinto alla famiglia Costa è confermata dal Baglione. Contrariamente alle disposizione di Ottavio i beni non vennero mai trasferiti ad Albenga ma passarono ai parenti romani. A metà Ottocento il quadro, presentato come replica da originale, venne acquistato insieme a un blocco di dipinti rimasti invenduti ad un’asta dell’epoca dal marchese Antonio De’ Cinque Quintili avo per parte materna del Coppi. Nel 1971 lo Stato acquistò la Giuditta. Il restauro del 1999 ha fatto ritrovae le iniziali C.OC. riferite al conte Ottavio Costa. La drammatica rappresentazione della Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi (1620 ca) Firenze, Galleria degli Uffizi Leonardo da Vinci, Fisionomie di vecchi Presunto ritratto di Beatrice Cenci, attribuito a Guido Reni (1599) Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica Conversione di Saulo Rarissimo caso di opera caravaggesca non eseguita su tela è l’olio su tavola di cipresso appartenente da una collezione privata romana, la collezione Odescalchi, che raffigura la Conversione di Saulo. Si tratta della prima versione della Conversione di san Paolo che, insieme alla Crocifissione di san Pietro, vennero commissionati da monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere generale di papa Clemente VIII Aldobrandini, per le pareti laterali della sua cappella in S. Maria del Popolo realizzata dall’architetto Carlo Maderno. Il contratto, datato 24 settembre 1600, prevedeva la realizzazione di due scene su tavole di cipresso delle dimensioni di dieci palmi per otto, e la consegna delle opere entro otto mesi. Secondo il Baglione le due opere «non piacquero al padrone» e pasarono ad un altro collezionista, il cardinale marchigiano Giacomo Sannesio. Successivamente il Caravaggio realizzò le due notissime tele La crocifissione di san Pietro e La conversione di S. Paolo che ora, insieme all’Assunzione della Vergine di Annibale Carracci, adornano la cappella. Le due nuove versioni, su tela, vennero consegnate nel novembre del 1601 agli amministratori dellOspedale della Consolazione, erede delle fortune del Cerasi, morto improvvisamente sei mesi prima. Questa prima versione è caratterizzata da una vivace gestualità e teatralità: il santo sopraffatto e accecato, il cavallo sullo sfondo che si aggira terrorizzato e schiumante, il soldato che pare quasi tentare una difesa e Gesù che discende dal cielo sorretto da un angelo. Fu forse questo eccesso di concitazione che spinse la committenza al rifiuto, oppure, come sostengono altri, fu la necessità di una maggiore adesione letterale alla narrazione avangelica che non fa riferimento all’apparizione di Cristo ma parla soltanto di una luce divina: «Or avvenne che, mentre era in cammino e si avvicinava a Damasco, all'improvviso una luce dal cielo gli folgorò d'intorno.. » (Atti degli Apostoli cap. 9 v. 3). I tempi erano maturi per un più rigido controllo della produzione artistica da parte delle autorità ecclesiastiche: nel 1603, il cardinal vicario di Roma Camillo Borghese, che due anni dopo sarebbe divenuto papa con il nome di Paolo V, emanò un editto, detto “specimina et designationem figurarum et aliorum”, che obbligava gli artisti a sottoporre ad esame preventivo i disegni e gli abbozzi per verificarne l’idoneità. Tutto questo finì per creare problemi ai sostenitori della pittura dal vero, privilegiando i bozzetti e gli studi preventivi realizzati usando manichini e pose stereotipate. Della prima versione della Crocifissione di S. Pietro si sono perse le tracce in Spagna a partire dal XVIII secolo. In alto a sinistra, una immagine della Cappella Cerasi in S. Maria del Popolo In alto a destra, La Conversione di S. Paolo posta su una delle pareti laterali della cappella In basso a sinistra, un ritratto di papa Paolo v che fu tra i maggiori fautori del controllo della produzione artistica da parte delle autorità ecclesiastiche In basso a destra, lo Scudo con la testa di Medusa, presso la fiorentina Galleria degli Uffizi, è, insieme alla Conversione di Saulo, l’unica altra opera del Caravaggio realizzata su tavola di legno Cena in Emmaus Nel libro contabile dei Mattei, alla data del 7 gennaio 1602, viene riportato l’avvenuto pagamento di 150 scudi per un’opera raffigurante «Nostro Signore in fractione panis». Dipinta dunque nel 1601, la prima versione della Cena in Emmaus, oggi conservata a Londra presso la National Gallery, descrive l’attimo in cui finalmente il Cristo risorto viene riconosciuto dai discepoli a cui si era accompagnato in viaggio: « Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Luca XXIV,30-32). La luce penetra in profondità nella spazio della sacra rappresentazione evidenziando i personaggi con grande realismo. Al centro è il Cristo benedicente, imberbe come nei sarcofagi antichi, la cui androginia allude all’ermetica unione dei contrari. L’apostolo di sinistra fa per alzarsi dalla sedia per la meraviglia, quello di destra, che porta sul petto la coquille Saint Jacques, il segno del pellegrinaggio a Santiago de Compostela, allarga le braccia quasi a fare ala al prodigio del Cristo. Sulla tavola coperta dalla tovaglia bianca, riappare in primo piano la canestra di frutta, che sporge lievemente dal bordo, colma «d’uve, fichi, melagrane, fuori di Stagione» come annotò pedantescamente il Bellori nella seconda metà del Seicento vedendo frutta non appartenente al periodo pasquale. Assieme alla canestra troviamo il pane e il vino simboli del sacrificio di Cristo, e quella reiterazione di natura morta data dal galletto con le zampe stecchite e abbrustolite. A sinistra della rappresentazione, in piedi, è il ritratto di un oste con la cuffia sul capo, forse di quell’oste di origine lombarda che, secondo le fonti, fu uno dei primi soggetti ritratti dal Caravaggio appena giunto a Roma. Deposizione di Cristo La Deposizione di Cristo è un olio su tela che originariamente ornava il primo altare di destra di S. Maria in Vallicella, chiesa degli oratoriani di s. Filippo Neri. Il dipinto vnne commissionato da Girolamo Vittrici nel 1602, per la cappella di famiglia, e venne posto nella chiesa alla fine del 1604. Si tratta di una importante opera pubblica del pittore nella quale mostra un duplice approccio al tema sacro: da una parte l’adesione al classicismo romano, ai modi della pittura di storia, alle istanze di Carracci e dei bolognesi, e dall’altra il legame profondo con il realismo di matrice lombarda. Lo scrittore d’arte Giovanni Pietro Bellori (1613-96), avvezzo a valutare le opere secondo il metro della classicità, e spesso critico nei confronti del Caravaggio, scrisse molti anni dopo: «Ben tra le migliori opere, che uscissero dal pennello di Michele si tiene meritatamente in istima la Deposizione di Cristo nella chiesa nuova de’ Padri dell’Oratorio» Il dipinto fu requisito al tempo delle guerre napoleoniche e nel 1797 fu trasferito a Parigi. Recuperato nel 1815, non tornò a Maria in Vallicella, al cui interno si trova ora una copia ottocentesca dell’opera, e venne destinato alla Pinacoteca Vaticana. Il vertice della composizione, un triangolo di figure che scende fino al corpo di Cristo, è costituito dalle braccia di Maria di Cleofa, aperta nel gesto degli antichi oranti paleocristiani; accanto a lei sono la Maddalena con una tipica acconciatura di popolana romana, Maria anziana e muta nel suo dolore, san Giovanni. Chiude il corteo la pietosa fatica di Nicodemo, l’unico appartenente al Sinedrio che volle onorare Gesù defunto con la sua presenza, il quale si presenta a noi chino, i muscoli e le vene delle gambe gonfi nello sforzo di sostenere il corpo del Cristo. Intenso il raffronto del Merisi con la Pietà michelangiolesca, ma anche con il raffaellesco Trasporto di Cristo al sepolcro. Il braccio destro del Salvatore, che pende inerte, ha precedenti antichi, appare per la prima volta nei sarcofagi classici che raffigurano i funerali dell’eroe Meleagro e arriverà sino alla Rivoluziona francese con la Morte di Marat di J.L. David. Fondamentale, alla base della rappresentazione, quella pietra squadrata che sporge verso lo spettatore, con il suo richiamo alla simbologia della pietra angolare, riferita ad un salmo biblico poi citato nel Nuovo Testamento, cioè di Cristo prima base e sostegno dell’edificio della Chiesa. In alto a sinistra, Michelangelo, Pieta’, Roma, S. Pietro In alto a destra, Raffaello, Trasporto di Cristo al sepolcro, Roma, Galleria Borghese In alto, Simone Peterzano Deposizione, Milano, San Fedele Nell’opera del primo maestro di Caravaggio sono visibili molti degli elementi poi riutilizzati dall’artista lombardo In basso a destra, Resurrezione di Cristo, Roma, Musei Vaticani, Anche in questo arazzo fiammingo di ispirazione raffaellesca vediamo il Cristo risorto che poggia sulla pietra angolare Amore vincitore L’Amore vincitore è visibile a Berlino, dallo Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemaldegalerie. Realizzato nel per il marchese Vincenzo Giustiniani, in un inventario redatto dopo la morte del mecenate, venne catalogato come “Amor ridente in atto di dispregiare il mondo che tiene sotto con i diversi strumenti, corone, scettri e armature chiamato per fama il Cupido del Caravaggio”. Nel 1815 il dipinto fu venduto al re di Prussia Federico Guglielmo III passando stabilmente a Berlino. Nel Novecento si sono avute varie interpretazioni del dipinto, in gran parte riferite al tradizionale Omnia vincit amor et nos cedamus amori virgiliano (Egloghe X, 69) con l’Amore profano ridente che trionfa, superandole, sulle arti e virtù umane e sugli attributi dell’amore sacro. Può essere sorprendente ricordare che al contrario, al tempo del Caravaggio, le rime del poeta mariniano Gaspare Murtola, che nel 1603 dedicò all’opera del lombardo tre madrigali, facciano invece riferimento all’Amore che si mostra vincitore (forse alludendo al significato del nome del Giustiniani, Vincenzo, cioè colui che vince: Omnia vincit amor / Omnia vincit Vincentius) attorniato dagli strumenti materiali della sua potenza. L’estremo attaccamento del Giustiniani a questo dipinto ha fatto ipotizzare una rapporto più sottile tra il committente e l’opera e il fatto che il tema potrebbe essere una rappresentazione della complessa personalità del mecenate ligure. Gli oggetti raffigurati, infatti, potrebbero alludere agli interessi del marchese: strumenti e spartiti a sinboleggiare la passione per la musica, la penna, il libro e l’alloro gli interessi letterari e poetici, la squadra e il globo gli studi di astronomia e geometria, la corazza e lo scettro il retaggio nobiliare e militare della famiglia che aveva avuto il dominio sull’isola greca di Chios. Su tutto troneggia l’Eros ridente a richiamare l’ideale neoplatonico ficiniano. Come testimoniò il pittore toscano Orazio Gentileschi nel 1603, durante il famoso processo per diffamazione che contrappose Giovanni Baglione al Merisi, il Giustiniani volle commissionare anche all’accusatore, al Baglione, su un tema analogo, l’opera Amor sacro e Amor profano, oggi conservata a Palazzo Barberini. In alto a sinistra, Ritratto del Marchese Vincenzo Giustiniani In alto a destra, G. Baglione Amor Sacro e Amor Profano (1602) Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini In basso,la posa di uno degli Ignudi michelangioleschi della Cappella Sistina è stata messa in relazione con l’immagine dell’Amore Vincitore San Giovanni Battista Di questo notissimo San Giovanni Battista, appartenente alla Pinacoteca Capitolina, si è scritto molto soprattutto per chiarirne il rapporto con la copia, di minore qualità, conservata nella Galleria Doria Pamphilj. Quest’ultima era stata inclusa come originale da Roberto Longhi nella prima esposizione di tutte le opere conosciute del Merisi tenutasi nel 1951 a Milano. Tuttavia il grande studioso britannico sir Denis Mahon non riteneva che quella esposta fosse l’opera originale ed era alla ricerca di una tela della quale aveva trovato menzione tra i documenti dell’Archivio di Stato. Nel 1952, accompagnato dal direttore dei Musei Capitolini Carlo Pietrangeli, riuscì a individuare al Campidoglio, addirittura nell’ufficio del sindaco di Roma, un dipinto con la stessa immagine, offuscato dalla polvere e dalla vernice, nel quale riconobbe la mano del maestro lombardo. La tela fa parte di quel gruppo di opere che Caravaggio produsse per Ciriaco Mattei, gentiluomo di antica nobiltà capitolina legato all’ordine dei Filippini, e che comprende anche la Cena in Emmaus oggi a Londra. Commentando malignamente la capacità del Caravaggio di fare “romore” cioè di interessare i ricchi collezionisti alla novità della sua pittura, e inserendo erroneamente nella lista anche l’Incredulità di S. Tommaso commissionata in realtà dal marchese Giustiniani, Giovanni Baglione ci dice «Anzi fe’ cadere al romore anche il signor Ciriaco Mattei, a cui il Caravaggio avea dipinto un S. Giov. Battista, e quando N. Signore andò in Emaus, ed all’ora che S. Tommaso toccò co’ il dito il costato del Salvatore; ed intaccò quel signore di molte centinaia di scudi». La datazione dell’opera può essere desunta dai documenti che attestano i pagamenti del Mattei al 1602 senza che tuttavia sia specificato il titolo dell’opera. In documenti del decennio successivo, nel 1616, il dipinto venne per la prima volta messo in relazione con il nome del figlio di Ciriaco, Giovanni Battista, il quale nel 1624 decise di donare l’opera al cardinale Del Monte. Il giovanetto, dalle movenze derivate anche in questo caso dagli Ignudi della Sistina, si rivolge con grande vivacità e quasi con sfrontatezza allo spettatore mentre stringe a sé un ariete. L’assenza di una parte dei tradizionali attributi iconografici ha portato alcuni studiosi a dubitare del fatto che si tratti realmente di una rappresentazione del santo precursore di Cristo facendo persino ipotizzare la possibilità che si tratti di una raffigurazione di Isacco scampato al coltello di Abramo con accanto la vera vittima sacrificale. Maurizio Calvesi ha invece individuato nella pelle di cammello posta sopra il panno rosso un tipico attributo di S. Giovanni Battista presente anche nel dipinto con lo stesso soggetto conservato a Kansas City e nella presenza dell’ariete l’allusione al sacrificio di Cristo. Presa di Cristo Ha qualcosa di romanzesco la storia del ritrovamento di questo dipinto, tanto che nel 2005 venne narrata nel libro Il Caravaggio perduto dello statunitense Jonathan Harr. Nel 1989 la studiosa Francesca Cappelletti ritrovò nell’archivio di famiglia dei Mattei alcuni documenti riguardanti un quadro che si riteneva perduto, La presa di Cristo. Riuscì a comunicare la sua scoperta al famoso Denis Mahon e a rintracciare una pista di vendite novecentesche, sempre nell’ambito delle isole britanniche, di un Tradimento di Cristo attribuito al fiammingo Gerrit van Hontorst. A questo filone di ricerche si agiunse la scoperta, un anno dopo, di Sergio Benedetti, restauratore alle dipendenze della National Gallery di Dublino, il quale riuscì a identificare il prezioso dipinto in una tela che, da circa settanta anni, si trovava presso la comunità gesuita di St. Ignatius a Leeson Street nella capitale irlandese. Restaurata, l’opera venne infine donata alla National Gallery di Dublino. Il dipinto, infatti, era stato realizzato per i Mattei sul finire del 1602, nel 1672 era stato precisamente descritto dal Bellori e fino alla fine del XVIII secolo era rimasto nelle mani della famiglia romana. All’inizio dell’Ottocento era invece stato acquistato dal collezionista inglese William Hamilton Nisbet e, dopo essere passato per vari proprietari, era stato donato alla comunità gesuita dublinese come opera attribuita a van Hontorst. La commessa era venuta dal nobile Ciriaco Mattei, e il tema della cattura di Cristo nell’orto dei Getsemani venne scelto dal fratello, il cardinale Girolamo. La rappresentazione è frutto di una regia molto accurata: mentre a sinistra san Giovanni fugge terrorizzato, al centro Giuda bacia il Cristo il cui volto esprime la dolorosa accettazione del sacrificio. Nel contempo la spalla di Gesù viene afferrata rudemente dalla mano guantata di ferro di una delle due guardie che stanno per arrestarlo. Sullo sfondo, a destra, troviamo un autoritratto di Caravaggio stesso che assiste alla scena e la illumina reggendo una lanterna. Anche in questo caso Caravaggio non si accontente di una descrizione sequenziale dei fatti ma li concentra nel momento in cui raggiungono il loro culmine e risoluzione. Il particolare della mano ferrata dello sgherro fu grandemente ammirato dai contemporanei del Merisi. Nel Museo d’arte occidentale e orientale di Odessa, in Ucraina, è conservata una copia del dipinto. San Giovanni Battista Attualmente conservato a Kansas city, presso la Nelson Gallery, questo S. Giovanni Battista venne dipinto su commissione del nobile e banchiere genovese Ottavio Costa, personaggio collegato con la cerchia del cardinale Federico Borromeo. Uno degli usuali modelli del Caravaggio è qui ritratto drappeggiato in un ampio mantello di ispirazione classicista su un fondale di denso fogliame. Il personaggio ha gli attributi titpici del Battista: stringe nella mano destra una canna e ha i fianchi cinti da una pelle di cammello. Sulla tela sono state rilevate tracce di incisioni sull’imprimitura fresca a conferma di quanto si sapeva dell’uso del Merisi di tratteggiare sommariamente i contorni delle figure con il manico del pennello prima di iniziare a dipingerle. Nell’inventario Costa del 1639 figurano infatti la famosa Giuditta, un’Estasi di S. Francesco e un S. Giovnni Battista nel deserto. Il dipinto venne acquistato da un collezionista e portato a Malta, poi in Inghilterra e infine fu comprato negli Stati Uniti. Dopo varie teorie circa la datazione espresse da Longhi, Berenson, e altri un ritrovamento ha confermato l’ipotesi espressa dallo studioso inglese Denis Mahon. Nel 2005, infatti, una ricevuta del Caravaggio proveniente dall’ Archivio di Stato di Siena, ha consentito di situare correttamente l’opera nel periodo 1602-03. San Giovanni Battista Il San Giovanni Battista, conservato a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica a Palazzo Corsini, è da attribuirsi al periodo 1602-1603 ed è dunque in stretto rapporto con l’opera conservata a Kansas City. Così lo descrisse nel 1927 Roberto Longhi che per primo lo attribuì al maestro lombardo: «Il giovane compagnaccio che più volte aveva servito di modello all’artista siede ora scompostamente nel bosco tra tronchi venosi, la mano sulla cannuccia scortecciata e, lì accanto, la ciotola svuotata dal pennello vorticoso e infallibile come da un Velázquez di vent’anni dopo» Nell’assenza di documenti che permettano di situarlo con certezza, in generale il dipinto viene considerato coevo al san Giovanni di Kansas City per i molteplici elementi che accomunano le due realizzazioni. Passò forse ai Corsini alla metà del Settecento a seguito di una unione matrimoniale con i Barberini e venne catalogato come Caravaggio originale insieme ad altre tre tele andate perdute. Entrò a far parte dei beni dello Stato nel 1883 a seguito dell’acquisto del palazzo alla Lungara della famiglia fiorentina. Il tema del S. Giovanni Battista venne affrontato più volte dal Caravaggio. In basso a sinistra, la tela conservata presso il Museo della Cattedrale di Toledo (1598 ca) e quella molto nota, datata al 1610, presso la Galleria Borghese a Roma Sacrificio di Isacco Il Sacrificio di Isacco appartiene alla Galleria degli Uffizi, alla quale fu donato nel 1917 dal collezionista John Fairfax Murray. Nel repertorio documentario abbiamo una descrizione, sia pure imprecisa, del Bellori che ne parla come di opera realizzata per Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, insieme al ritratto del prelato oggi presso una collezione privata fiorentina. Sorta di istantanea del momento saliente in cui un angelo dai tratti apollinei ferma Abramo un attimo prima che affondi il colpo fatale nel collo di Isacco. Documenti di pagamento dei Barberini lo situerebbero nel periodo 1603-4. Realizzato in un periodo nel quale, come già nel Riposo dalla fuga in Egitto e nella Conversione Saulo, l’artista mostra di essere influenzato dalla tradizione norditaliana e più precisamente giorgionesca del paesaggio. Ritratto di monsignor Maffeo Barberini, Firenze, collezione privata Incoronazione di spine L’Incoronazione di spine, è un olio su tela esposto al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il dipinto, databile al 1604, originariamente apparteneva alla collezione del marchese Vincenzo Giustiniani ma, a seguito delle difficoltà economiche dei discendenti della nobile famiglia di origine genovese, il dipinto venne ceduto nel 1804 all’ambasciatore austriaco presso la Santa Sede per essere incluso nella raccolta d’arte dell’imperatore Francesco I. A causa delle guerre napoleoniche il dipinto poté raggiungere Vienna soltanto nel 1816. Addosso ad uno dei personaggi si nota la medesima armatura utilizzata dall’artista per la Presa di Cristo, realizzata per Ciriaco Mattei e ora a Dublino. Impossibile trascurare di riferire l’evidente riferimento compositivo di quest’opera a un precedente del Tiziano che molto probabilmente il Merisi ebbe modo di studiare negli anni della formazione: quella Incoronazione di spine, oggi conservata al Louvre, che il maestro di Pieve di Cadore realizzò nel periodo 1542-44 per la chiesa milanese di S. Maria delle Grazie. Varie in passato le tesi relative al periodo d’esecuzione di quest’opera che qualche critico voleva situare nel periodo napoletano anche se paiono da escludere acquisti del Giustiniani al di fuori del mercato romano. Tiziano, Incoronazione di spine, (1544) Parigi, Louvre Cena in Emmaus La Cena in Emmaus, della Pinacoteca di Brera a Milano, Venne eseguita dopo l’omicidio di Ranuccio Tommasoni del 28 maggio 1606 e l’inizio della fuga da Roma. Secondo le fonti più affidabili venne dipinta mentre l’artista era nei feudi dei Colonna a Zagarolo e venduta a Roma al banchiere ligure Ottavio Costa, oppure al marchese Costanzo Patrizi nella cui collezione si trovò ad essere registrata a partire dal 1624 e dove fu vista dal Bellori nel 1664. Il tema era già stato affrontato nell’opera conservata alla National Gallery di Londra ma viene qui essenzializzato e concentrato, rinunciando alla policromia del modello precedente. Gesù appare con un aspetto più convenzionale come pure i personaggi che siedono al suo tavolo. Sul bianco della tavola popolato da dense ombre anche il pasto eucaristico è più povero rispetto alla profusione della Cena eseguita per i Mattei: due pani, delle erbe e una brocca di vino. le uniche caratterizzazioni sono date dalla presenza dell’oste, nel quale riconosciamo lo stesso personaggio già apparso nella Cena londinese e della donna anziana il cui volto profondamente segnato ha qualcosa in comune con la sant’Anna della Madonna dei Palafrenieri presso la Galleria Borghese. Nella Madonna dei Palafrenieri (1606), presso la Galleria Borghese a Roma, appare a destra la figura di sant’Anna ritratta con le fattezze di un’anziana simile a quella della Cena in Emmaus Flagellazione La datazione di questa opera, che dal 1972, per motivi di sicurezza, è in deposito presso il Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, viene situata nel periodo 1606-07, data del primo passaggio a Napoli dell’artista. La committenza gli venne dalla famiglia dei de’ Franchis per adornare la cappella gentilizia che stavano realizzando all’interno della chiesa di S. Domenico Maggiore. Documenti certi datano il pagamento dell’opera al maggio del 1607. Curiosamente non esistono nelle fonti riferimenti critici alla Flagellazione che siano precedenti alla fine del XVII secolo; circostanza dovuta probabilmente al fatto che l’opera caravaggesca venne esposta tardivamente nella chiesa domenicana visto che i lavori di sistemazione della cappella non terminarono prima del 1652. Una volta visibile, ci racconta il De Dominicis, una delle fonti dell’epoca che non trascura di esercitare le consuete critiche, il dipinto « trasse a sé tutti gli occhi dei riguardanti, benché la figura del Cristo sia presa da un naturale ignobile e non gentile, come era necessario, per rappresentare la figura di un Dio per noi fatto uomo». De Dominicis prosegue dicendo che l’opera «fece rimaner sorpresi non solo i dilettanti ma i Professori medesimi in buona parte, e la fama del Caravaggio tanto altamente suonava laonde da’ dilettanti si desideravano a gara le opere sue». Gran parte della critica ha collegato il dipinto al precedente romano di scuola michelangiolesca costituito dalla Flagellazione di Sebastiano del Piombo conservata nella chiesa di S. Pietro in Montorio a Roma. Alcuni critici ritengono che il Caravaggio abbia notevolmente rimaneggiato l’opera durante il suo secondo passaggio a Napoli, nel periodo 1609-10. La Flagellazione di Cristo di Sebastiano del Piombo (1518) olio su muro, forse su disegno di Michelangelo, conservato nella prima cappella di destra della chiesa romana di S. Pietro in Montorio Amore dormiente L’Amore dormiente visibile a Firenze nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti, venne sicuramente dipinto a Malta, come attesta l’attendibile iscrizione sul retro che lo data al 1608. Il committente fu il cavaliere di Malta fiorentino Francesco dell’Antella coadiutore del Gran Maestro dell’ordine il piccardo Alof de Wignacourt. Dell’Antella fu uno dei principali artefici dell’entrata del Caravaggio nell’Ordine di Malta e si adoperò per ottenere da papa Paolo V la dispensa necessaria affinché il pittore potesse essere investito del cavalierato come sappiamo dai documenti conservati nell’Archivio Segreto Vaticano: «Beatissmo padre. Desiderando il gran maestro della sacra religione gerosolimitana d‘honorar alcune persone virtuose, e meritevoli, c‘hanno desiderio e divotione di dedicarsi al suo servigio, e della sua religione; né avendo per hora altro modo da poter più commodamente farlo. Supplica humilmente la santità vostra, che, con un suo breve, si degni di concedergli autorità e facultà, per una volta tanto, di poter decorare et ornare dell‘habito di cavaliero magistrale due persone a lui ben viste e da lui nominande. Non ostante ch‘uno di essi habbia, altre volte in rissa, commesso un‘homicidio». La figura del dio addormentato, con a fianco le sue armi, le frecce, la faretra e l’arco con la corda slegata, emerge da una densa oscurità e costituisce l’ultima citazione mitologica nella storia pittorica del lombardo. Originariamente l’ala di destra si stagliava più nettamente sul fondo oscuro. Probabilmente il dipinto simboleggia il voto di castità fatto dai Cavalieri di Malta. Alla fine del Seicento l’opera passò dai dell’Antella ai Medici Giovanni Baglione ci narra lo sfortunato epilogo della breve esperienza del Caravaggio come cavaliere: «Poscia andossene a Malta, e introdotto a far riverenza al gran maestro, fecegli il ritratto; onde quel principe in segno di merito dell‘abito di S. Giovanni il regalò e creollo cavaliere di grazia. E quivi avendo non so che disparere con un cavaliere di giustizia, Michelagnolo gli fece non so che affronto, e però ne fu posto prigione; ma di notte tempo scalò le carceri e se ne fuggì, e arrivato all‘isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo». Il Gran Maestro del’Ordine di Malta, Alof de Wignacourt, ritratto dal Caravaggio Annunciazione Opera purtroppo in cattivo stato di conservazione dipinta durante il soggiorno a Malta, nell’anno 1608, questa Annunciazione venne commissionata dal duca di Lorena Enrico II perchè adornasse l’altare della chiesa del vescovo primate di Nancy allora in costruzione . In quell’anno infatti sia il fratello Francesco che il figlio del duca, Carlo conte de Brie, si trovavano sull’isola ed ebbero la possibilità di prendere in consegna l’opera del maestro italiano. spiritualità intrisa di quiete e d’umiltà l’angelo scende dall’alto, su una nube, accompagnato dalla luce divina Nella sinistra, in ombra, tiene il giglio, mentre il braccio destro, lungo il quale corre la luce, si ferma poco sopra il capo della Vergine nel gesto eloquente della mano. In basso, la Vergine, raccolta nel suo mantello scuro, ascolta quietamente l’annuncio di Gabriele. Nel 1742 il dipinto venne spostato nella cattedrale che prese il posto della chiesa più antica; a partire dalla fine del XVIII secolo passò per vari musei finchè nel 1829 passò definitivamente al Musée des Beaux Arts di Nancy. Riscoperto nel secondo dopoguerra da critici francesi fu definitivamente riconosciuto nel 1959. Ignazio Danti, Veduta di Malta durante l’assedio del 1561, Roma, Musei Vaticani Adorazione dei pastori Databile al 1609, l’ Adorazione dei pastori fa parte delle opere esposte al Museo Regionale di Messina. Venne dipinta per la chiesa di S. Maria la Concezione poi distrutta nel rovinoso terremoto del 1908. L’opera, citata più volte dal Bellori, fu forse commissionata dal senato cittadino del comune messinese. Il dipinto è connotato da una grande essenzialità compositiva e da una iconografia marcatamente pauperistica che ha fatto ipotizzare che la commissione potesse provenire dagli ambienti degli ordini minori. Al centro della composizione, all’interno di una capanna d’assi e travi, troviamo la Vergine con il Bambino distesa in una posizione tipica delle raffigurazioni più antiche, attorno alla quale si stringono i pastori adoranti. Sullo sfondo gli animali della stalla e, a sinisra, in primo piano, una natura morta costituita da poveri oggetti: un tovagliolo, una pagnotta e una pialla da falegname Il dipinto è giunto sino a noi in precario stato di conservazione perché già nel 1670 fu sottoposto a un rovinoso intervento di restauro. Anche in questo caso, come già per il Ragazzo con la canestra di frutta della Borghese, sono state trovate tracce di disegni preparatori. F. Hogenberg, Veduta di Messina, (1599) David con la testa di Golia David con la testa di Golia venne realizzata quasi sicuramente durante l’ultimo passaggio dell’artista a Napoli (1609-10), tanto che ne venne fatta una copia per il Vicerè Juan Alonso Pimentel de Herrera. L’opera raffigura il giovane eroe che regge con mano ferma, ma con il volto atteggiato ad una pietosa commiserazione, la testa sfigurata del gigante sconfitto e decapitato. Secondo il Bellori il dipinto venne eseguito per il cardinale Scipione Borghese per accompagnare la richiesta di grazia dopo la condanna a morte comminata al Merisi per l’uccisione di Ranuccio Tomassoni. Dal 1613 figura registrato nell’inventario della collezione del prelato. Ancora il Bellori è tra i primi a parlare di un autoritratto del pittore nella testa del gigante ucciso, elemento che è stato considerato espressione del desiderio di espiazione e simbolo di autopunizione. Alcuni, più di recente, si sono spinti a considerare questo dipinto come una sorta di doppio autoritratto: il Caravaggio giovane, vincente e pieno d’energia, nella figura di David, ci sta mostrando il volto dell’artista nel momento della sua caduta. Anche qui prevale il ricorso a quella pittura semplificata che è tipica dell’ultima ultima fase del Caravaggio anche se Sgarbi rinviene nella figura del giovane eroe elementi pertinenti al periodo 1606-07. Sulla lama della spada che il giovane tiene nella destra e che pare spuntare dal buio, è visibile una serie di segni che che sono stati variamente interpretati: da alcuni come H-AS OS, sigla che riassume il motto agostiniano "Humilitas Occidit Superbiam" (l'umiltà uccide la superbia); da altri come MACO , da intendersi più semplicemente come le iniziali dell’autore seguite dal termine latino opus, opera. Se siete interessati a partecipare a visite guidate a carattere archeologico e storico artistico a Roma e provincia, consultate il calendario delle iniziative della Associazione culturale Mirabilia Urbis www.mirabiliaurbis.it