Lo sbarco in Sicilia
Gli Alleati, la Mafia e il Mis
Che la mafia, sconfitta sul piano militare, covasse in realtà sotto la cenere e mantenesse un suo
controllo sulla società siciliana sembra confermato dalle vicende dell'estate del 1943, in occasione
dello sbarco in Sicilia degli Alleati. La strategia militare che il Pentagono decise di attuare nel
momento in cui si decise di aprire uno nuovo fronte contro i nazi-fascisti in Italia, fu quella di
iniziare l'offensiva dalla Sicilia, sia per evidenti ragioni geografiche (per evitare l'accerchiamento da
parte del nemico), sia perché si poteva costituire una testa di ponte in Sicilia proprio sfruttando la
mafia.
E' normale che in guerra non si vada molto per il sottile. Così, la CIA contattò alcuni importanti
boss mafiosi italo-americani in carcere negli Stati Uniti, e gli offrì un patto: la libertà in cambio di
un appoggio al momento dello sbarco. Fu ciò che avvenne: alla fine della guerra molti mafiosi
americani furono liberati ed espulsi dagli Stati Uniti come "indesiderabili", con il tacito accordo che
sarebbero tornati in Italia. I casi più noti riguardarono i boss Lucky Luciano e Vito Genovese, il
quale prestò addirittura servizio per il quartier generale alleato di Nola.
Contemporaneamente, gli Alleati affidarono molte cariche, nel governo provvisorio della Sicilia
dopo lo sbarco, a noti mafiosi: Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba, Giuseppe Genco
Russo divenne sindaco di Musumeli, Vincenzo Di Carlo fu nominato responsabile dell'Ufficio per
la requisizione del grano, ecc. Ciò diede nuova e sicura autorità ai mafiosi, oltre a concrete
possibilità di arricchimento e di accrescimento del loro potere.
In questo periodo, la mafia cercò di organizzare la sua presenza, anche politica, in Sicilia,
contribuendo alla nascita del Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), formazione politica che si
prefiggeva l'indipendenza della Sicilia dal resto d'Italia e, in alcuni momenti, persino la stramba
idea di far aderire la Sicilia agli Stati Uniti.
Il MIS non fu composto solo da mafiosi, ma ebbe diverse anime e diverse adesioni. Certo, però, la
componente mafiosa, o vicina alla mafia, era molto importante. D'altro canto, i mafiosi potevano
vantare, paradossalmente, di essere stati "perseguitati" dal Fascismo, facendosene un merito, come
se il problema fosse stato politico e non criminale. Il MIS ebbe un sviluppo molto ampio dal 1943 al
1947, sia per il seguito popolare, sia perché "i responsabili del governo militare di occupazione
affidarono il 90% delle amministrazioni a politici separatisti", come denunciava la prima relazione
della Commissione parlamentare antimafia del 1972 (Tranfaglia, p. 4).
La crescita del movimento non si limitò, tuttavia, al piano legale ed elettorale. Il MIS costituì
persino un suo esercito, l'EVIS (Esercito volontario di indipendenza siciliana), nel quale militarono
banditi e mafiosi di grosso calibro. Capo dell'EVIS fu Salvatore Giuliano, e fu proprio questi a
provocare la fine dell'esperienza separatista, con la strage di Portella della Ginestra, una località
vicino Palermo, dove, "il 1 maggio 1947, si erano radunati, secondo una vecchia tradizione, i
lavoratori della zona per celebrare la festa del lavoro. In quella occasione, erano pervenuti nella
località molti gruppi di lavoratori con le proprie famiglie ed era iniziato da poco il discorso del
segretario socialista della zona quando, improvvisamente, dalle alture circostanti partirono i primi
colpi di mitra. Ci fu un improvviso clamore, quasi di gioia, perché i più ritenevano che si trattasse di
spari festosi. Poi le prime urla e quindi un confuso fuggire tra lamenti e pianti." (il racconto è
ancora tratto dalla Relazione della commissione antimafia del 1972: Tranfaglia, p. 32). Vi furono 11
morti e 35 feriti.
L'orrore suscitato in tutta Italia dalla strage provocò una reazione decisa da parte dello Stato, come
spesso sarebbe accaduto anche in seguito. Tuttavia, si decise di trovare una soluzione al problema
non proprio onorevole. Si distinsero nettamente le responsabilità del bandito Giuliano da quelle dei
politici del MIS e dei mafiosi. Si contrattò con la mafia la fine di Giuliano, che fu tradito da un suo
luogotenente (Gaspare Pisciotta), ucciso e consegnato alla polizia. Dapprima si cercò di far passare
la versione che Giuliano fosse morto in uno scontro a fuoco, ma, grazie anche ad alcune inchieste
giornalistiche, si venne infine a sapere la verità.
Quando, un paio di anni dopo, Pisciotta cominciò a far intendere di essere disposto a rivelare alcuni
scottanti retroscena, fu trovato morto nel carcere dell'Ucciardone, a Palermo, per aver bevuto un
caffè alla stricnina.
Mafia, politica e affari. 1943-91, a cura di Nicola Tranfaglia, Bari, Laterza, 1992 - La
Commissione Antimafia ha una storia molto lunga, essendo stata istituita per la prima volta nel
1963. Questo libro raccoglie una selezione dei brani più significativi delle sue relazioni e di altri
documenti ufficiali (rapporti di polizia, estratti di sentenze). Il volume e' essenziale per la
ricostruzione di alcune fasi della storia italiana, a partire dal Dopoguerra.
1943 - 14 gennaio
La Conferenza di Casablanca
ed il piano di invasione della Sicilia
Operazione “Husky”
di Claudio Li Gotti
Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 le forze Alleate britanniche, americane e canadesi
sbarcarono sulle spiagge della Sicilia, ancora controllata dalle forze dell’Asse, nell’ambito
della cosiddetta “Operazione Husky”. Nell’arco di terra tra Licata e Siracusa si riversarono
160.000 soldati; 4000 aerei da combattimento e da trasporto fornirono l’appoggio dal cielo
mentre nel mare ci furono 285 navi da guerra, due portaerei e 2.775 unità di trasporto.
Lo sbarco in Sicilia fu la seconda più imponente operazione offensiva organizzata dagli
Alleati nella seconda guerra mondiale, la più vasta in assoluto nel settore del Mediterraneo;
soltanto con l’invasione della Normandia (“Operazione Overlord”), undici mesi dopo, si
riuscì ad impiegare un numero maggiore di uomini.
Per la prima volta apparvero il DUKW, camion anfibio a sei ruote, ed il LST, mezzo da
sbarco per i carri armati. Nella fase iniziale vennero sbarcate ben sette divisioni (tre inglesi,
tre americane ed una canadese) contro le cinque sbarcate nel corso della corrispondente
fase in Normandia.
La Sicilia venne liberata in soli 39 giorni quando, il 17 agosto, le truppe Alleate entrarono a
Messina dopo aver conquistato tutte le altre importanti città (Palermo il 22 luglio, Catania il
5 agosto) e costringendo i tedeschi alla fuga verso la Calabria.
L’idea di invadere la Sicilia era emersa dapprima a Londra durante l’estate del 1942,
quando vennero fissati due importanti obiettivi strategici nel Mediterraneo per le forze
inglesi: Sicilia e Sardegna, alle quali furono assegnati rispettivamente i nomi in codice di
Husky e Brimstone.
Ma la possibilità di un invasione tutta britannica della Sicilia venne immediatamente
esclusa. Dopo aver sconfitto le truppe italo-tedesche ad El Alamein, in Egitto, e dopo il
successo dell’invasione del Marocco e dell’Algeria (novembre 1942, “Operazione Torch”),
le truppe Alleate anglo-americane si accingevano a conquistare l’Africa settentrionale. Ora
che la vittoria in Nordafrica era prossima, bisognava preparare la mossa successiva; la
Conferenza di Casablanca, chiamata in codice “Operazione Symbol”, fu organizzata il 14
gennaio del 1943 proprio per prendere una decisione comune sul da farsi.
E la risposta fu: invadere la Sicilia. La più grande isola del Mediterraneo, a 130 km dalla
costa della Tunisia, rappresentava la porta per entrare in Italia e segnare il primo attacco
alla “Fortezza Europa”; la Sicilia gettò la basi per le decisive battaglie che seguirono nel
1944.
La decisione finale non fu però facile; inglesi ed americani avevano infatti due opposte
concezioni della guerra. Gli americani, fiduciosi delle loro immense risorse materiali, erano
per un attacco frontale contro la Germania da attuarsi con un invasione della Francia del
nord attraverso il Canale della Manica; gli inglesi, consapevoli di possedere minori risorse
ma più esperti sui mari, preferivano invece un attacco meno diretto e continuare la
strategia sul Mediterraneo volta a portare fuori dalla guerra l’Italia (considerata il “ventre
molle” dell’Europa).
Alla conferenza, la rappresentanza britannica era capeggiata dal Primo Ministro W.
Churchill e dal capo di Stato maggiore imperiale, il generale sir Alan Brooke; inoltre erano
presenti l’ammiraglio sir Dudley Pound, il maresciallo di campo sir John Dill (che
rappresentava i capi di Stato maggiore inglesi a Washington) ed il futuro maresciallo della
Royal Air Force sir Charles Portal. La delegazione americana era molto ridotta ed
impreparata rispetto a quella inglese, poiché i più esperti ed importanti ufficiali di Stato
maggiore erano rimasti a Washington. Oltre al Presidente F.D. Roosevelt, erano presenti il
generale George C. Marshall, capo di Stato maggiore dell’esercito americano, l’ammiraglio
Ernest J. King, capo delle operazioni navali ed il generale H.H. Arnold, che comandava le
Forze aeree.
L’accordo che venne raggiunto a Casablanca, dopo forti contrasti tra i comandanti delle
due potenze Alleate, fu in realtà un compromesso tra le due rispettive concezioni della
guerra. A prevalere fu comunque la strategia complessiva inglese: gli americani finirono
per appoggiare le richieste inglesi di continuare le operazioni sul Mediterraneo, attraverso
l’invasione della Sicilia, in cambio dell’impegno da parte degli inglesi per un attacco diretto
sul Canale l’anno successivo.
In seguito all’accordo di Casablanca, il Generale Dwight D. Eisenhower, già comandante
delle forze Alleate in Nordafrica, ebbe il comando supremo dell’operazione Husky. Sotto di
lui, il generale Sir Harold Alexander fu designato comandante di tutte le forze di terra ed
ebbe la diretta responsabilità dei combattimenti, l’ammiraglio Andrew B. Cunningham
doveva essere il comandante delle Forze navali mentre il comando delle Forze aeree
Alleate fu assegnato al maresciallo dell’Aria Sir Arthur Tedder. Lo Stato maggiore unificato
(JPS-Joint Planning Staff) affidò ad Eisenhower il compito di formare un quartier generale
per organizzare il piano di invasione e alla fine di gennaio venne creato un gruppo di
programmazione ad Algeri che prese il nome di “Task Force 141” perché gli era stato dato
il numero della stanza dell’albergo dove ebbe luogo il primo incontro.
Vennero create due distinte unità operative che avrebbero dovuto agire in modo autonomo
in Sicilia: una orientale, britannica, chiamata “Force 545” ed una occidentale, americana,
chiamata “Force 343”. Come comandanti dell’esercito Eisenhower scelse il Generale Sir
Bernard Montgomery a capo dell’Ottava Armata inglese ed il Tenente Generale George
Patton per la Settima Armata americana; il comando navale e dell’aviazione sarebbe invece
spettato rispettivamente all’Ammiraglio Ramsay ed al vice Maresciallo dell’aria Broadhurst
per l’unità orientale, al vice Ammiraglio Hewitt ed al Generale House per quella occidentale.
Comunque i comandanti Alleati erano impegnati in nord Africa contro le truppe dell’Asse e
fino ad aprile non dedicarono molta attenzione all’Operazione Husky. Il primo tentativo di
piano proponeva atterraggi degli inglesi tra Siracusa e Gela, seguiti da una divisione
d’assalto su Catania, mentre gli americani dovevano far atterrare una divisione nei pressi
di Sciacca seguita da un’assalto su Palermo, per catturare il suo porto. Montgomery
espresse le sue preoccupazioni sul piano della force 141 direttamente al quartier generale
di Algeri, davanti ad Eisenhower ed Alexander. Egli riteneva più appropriato che gli
americani sbarcassero sulla costa meridionale per prendere gli aerodromi e rinunciassero
allo sbarco a Palermo; il comandante dell’Ottava Armata si aspettava una forte resistenza
delle forze dell’Asse in Sicilia perciò chiedeva un atterraggio iniziale più forte e più
concentrato.
Il piano di Montgomery scatenò le reazioni degli altri comandanti superiori: sia Tedder che
Cunningham erano favorevoli all’idea di sbarchi sparpagliati, mentre Patton era in collera
poiché la proposta di Montgomery avrebbe relegato le truppe americane ad un ruolo di
minore importanza, mentre gli inglesi avrebbero compiuto le imprese maggiori. Per
superare le divergenze, Eisenhower convocò un incontro tra tutti i comandanti per il 2
maggio, ad Algeri. Qui Montgomery riuscì a far valere le sue ragioni militari per far
cancellare l’operazione su Palermo e dirottare lo sforzo americano solo sulla zona di
Licata-Gela-Scoglitti. Eisenhower, rendendosi conto che la crisi doveva giungere ad una
fine, il 3 maggio prese la decisione di accettare la versione di Montgomery che poi venne
adottata come piano definitivo per la presa della Sicilia (il 13 maggio).
Nel piano, l’VIII Armata avrebbe assalito quella parte di costa situata tra Siracusa e
Pozzallo, con quattro divisioni (la 5° e la 50° del XIII Corpo d’Armata, la 1° canadese e la
51° Highland del XXX Corpo d’Armata) ed una brigata indipendente (la 231° di fanteria) con
lo scopo di catturare il porto di Siracusa e le zone di sbarco intorno a Noto e Pachino, per
poi prendere contatto con la VII Armata di Patton a Ragusa. Le forze avrebbero proseguito
verso nord per impadronirsi dei porti di Augusta e di Catania e dei campi di aviazione di
Gerbini, tutti importanti obiettivi strategici, per poi spingersi alla cattura di Messina e
isolare le truppe dell’Asse dall’Italia continentale.
La VII Armata sarebbe sbarcata nell’area del Golfo di Gela, tra Licata e Capo Scaramia, con
due divisioni del II Corpo d’Armata, la 1° (chiamata Dime Force, che doveva attaccare Gela)
e la 45° (chiamata Cent Force, che avrebbe attaccato Scoglitti), più una sotto task force
separata (Joss Force) composta da 27.000 uomini della 3° divisione guidata dal generale
Lucian Truscott (rinforzata da un battaglione di Rangers e da una rappresentanza di 900
marocchini) che doveva dirigere un attacco simultaneo contro Licata. I principali obiettivi
della Task Force americana erano il porto di Licata e i campi di aviazione di Ponte Olivo,
Comiso e Biscari, per poi prendere contatto a Ragusa con le truppe dell’VIII Armata e
proteggere il loro fianco sinistro.
Prima degli sbarchi delle due Armate erano previsti atterraggi di truppe aviotrasportate e di
alianti della 1° Brigata di sbarco aereo e dell’82° divisione aviotrasportata per ostacolare i
movimenti e le comunicazioni nemiche e per aiutare a catturare i campi d’aviazione nel
settore di Gela e l’importante ponte sul fiume Anapo a sud di Siracusa.
Le forze navali, infine, erano suddivise in due task forces (orientale e occidentale) e
dovevano appoggiare gli sbarchi delle due Armate, sostenendole con il cannoneggiamento
navale. L’imponente flotta di 3200 navi riunite per l’operazione Husky fu la più gigantesca
che si sia mai vista nella storia mondiale.
Claudio Li Gotti
Documentazione:
Carlo D’Este, Lo sbarco in Sicilia, Mondadori 1990
A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e Calabria, S.M.E. 1983
S. Rigge, La campagna d’Italia in Storia del mondo contemporaneo, vol. IV
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IL LIBRO DEL MESE - Luglio 1943: la VII armata Usa del gen. Patton sbarca
sulle spiagge di Gela, Licata e Scoglitti. Per l'Italia è l'inizio della fine
IL MAGLIO ALLEATO SULLA SICILIA:
BLITZ ESEMPLARE, VITTORIA AMARA
di PAOLO DEOTTO
"Attraverso la folla che ci dava il benvenuto, una colonna di soldati italiani marciavano su
un lato della strada con le braccia alzate sulla testa. Ne vidi uno che guardava
rabbiosamente mentre un civile gettò con gioia un cocomero sul mio sedile. Un altro
soldato camminava con le lacrime che gli scorrevano lungo la faccia… Mai avevo visto uno
spettacolo più pietoso. E i soldati italiani, mentre passavano attraverso la folla dei loro
connazionali che acclamavano i soldati di un altro paese, devono essersi sentiti veramente
amareggiati".
Chi scrive è Jack Belden, corrispondente di guerra della rivista statunitense Life. La scena
descritta, coi soldati italiani incamminati verso la prigionia e con gli italiani che acclamano
i soldati americani, fino a poche ore prima "nemici", si svolse a Giacalone, un paesino nei
pressi di Monreale. Era il 21 luglio 1943. Undici giorni prima gli anglo - americani erano
sbarcati in Sicilia, dando inizio ad una campagna che merita di essere riletta, perché troppo
spesso i testi la citano frettolosamente; eppure fu una conquista non facile, costellata
anche da non pochi errori degli Alleati, e fu l'inizio dell'attacco all'Europa per liberarla dal
nazismo.
Quanto accadde in Sicilia, sia sotto il profilo militare, sia sotto quello politico, è di grande
interesse: proponiamo quindi ai nostri lettori di incamminarci insieme sulle strade
dell'isola in quell'estate torrida, per seguire da vicino gli avvenimenti giudicati, solo poche
settimane prima, come "impossibili" da Mussolini. E per fare il nostro viaggio prendiamo
come guida Ezio Costanzo, che col suo libro Sicilia 1943 - breve storia dello sbarco alleato,
edito da Le Nove Muse Editrice di Catania, ci racconta con dovizia di particolari e ottimo
stile questa pagina basilare nella storia del secondo conflitto mondiale. La citazione
d'apertura, come tutte le altre che seguiranno, sono tratte da questo libro.
"Perché morire per Hitler?": così titolava uno dei più significativi tra i molti volantini di
propaganda diffusi in Sicilia con aviolanci dagli Alleati. Il testo proseguiva sottolineando
come nessuna Nazione avesse provocato l'Italia, né le avesse dichiarato guerra;
proseguendo in una resistenza inutile, l'Italia avrebbe avuto solo nuovi morti, nuovo
dolore, nuove rovine. Il volantino chiudeva con una frase e una domanda ad effetto: "La
Germania combatterà… fino all'ultimo italiano… nessuno ti ha chiesto se volevi questa
guerra. ma ti hanno mandato a morire. Ti hanno detto: CREDERE, OBBEDIRE,
COMBATTERE. Perché? Per chi? Per quanto?".
La propaganda alleata aveva colto nel segno: gli Alleati si apprestavano allo sbarco in una
Nazione sfiduciata, stanca dopo tre anni di una guerra che ormai non lasciava più illusioni,
con un regime che di lì a pochi giorni avrebbe pagato la colpa di aver portato il Paese al
disastro. Ciononostante, come vedremo, la campagna militare non fu per gli Alleati una
passeggiata, sia per la presenza di unità tedesche sul suolo siciliano, sia per le diverse
reazioni dei vari reparti italiani acquartierati sull'isola. Infine, una serie notevole di errori e
leggerezze da parte degli Alleati furono alla base di quella che fu definita una "vittoria
amara".
La decisione di invadere la Sicilia fu presa alla conferenza tenuta a Casablanca dal 14 al 24
gennaio del 1943. Agli inizi di quel fatale anno le sorti della guerra stavano girando in
favore degli Alleati: dopo le sconfitte in Africa le forze dell'Asse erano in gravi difficoltà
anche sul fronte russo. Di lì a poco l'epica battaglia di Stalingrado si sarebbe conclusa con
l'annientamento delle armate tedesche di Von Paulus. Per quanto ci riguardava più
direttamente, avevamo già perduto le colonie africane e la maramaldesca vittoria sulla
Francia era stata tristemente bilanciata dalla tragica avventura in Grecia, mentre diecine di
migliaia di soldati italiani cadevano in Russia. Alla conferenza di Casablanca erano
presenti solo Churchill e Roosevelt; il terzo grande, Stalin, non aveva voluto lasciare il
territorio sovietico mentre era in corso la durissima battaglia di Stalingrado.
Il dittatore di Mosca aveva però già sollecitato gli Alleati ad aprire il fronte europeo, per
alleggerire la pressione delle armate tedesche in Russia.
Se l'apertura del fronte europeo trovava concordi americani e britannici, non mancavano
però le divergenze sul dove aprirlo. Churchill sosteneva la necessità dello sbarco in Sicilia
per iniziare ad eliminare dal conflitto l'Italia, costringendo nel contempo Hitler a distrarre
forze da altri scacchieri per venire in aiuto dell'alleato Mussolini. Il primo ministro inglese
riuscì a far trionfare le proprie idee su quelle degli americani, anche perché quest'ultimi
erano arrivati a Casablanca non avendo ancora risolto le divergenze esistenti tra i loro
vertici militari. "Per il generale George Marshall, preoccupato per come stavano andando le
cose nel vecchio continente, l'attacco all'Europa nazista doveva avere come obiettivo le
coste francesi (era quello che pensava anche Stalin); l'ammiraglio Ernest J. King
considerava il Pacifico, e quindi le operazioni navali contro il Giappone, l'aspetto principale
della guerra contro le forze dell'Asse; per il generale Hap Harnold, comandante delle forze
aeree, occorreva invece bombardare senza sosta la Germania, ritenendo che il conflitto
poteva trovare soluzione solo con la potenza distruttrice delle bombe".
Trovarsi disuniti di fronte a Churchill era un invito a nozze per il primo ministro britannico,
che convinse gli Alleati della bontà dei suoi obiettivi, che "erano molto chiari: sfruttare la
supremazia africana per eliminare l'Italia dal conflitto, approfittando anche del morale
ormai a pezzi della sua popolazione, che non vedeva l'ora di uscire dalla guerra".
Verosimilmente Churchill nascondeva in queste sue argomentazioni anche il desiderio di
ampliare il dominio inglese sul Mediterraneo, pensando a una Sicilia che poteva divenire
come una seconda Malta. Sta di fatto che, come gli avvenimenti successivi avrebbero
dimostrato, ancora una volta l'ampiezza di vedute, strategiche e politiche, del primo
ministro britannico, portava alle scelte migliori.
Il 23 gennaio 1943, nella riunione dei Capi di Stato Maggiore congiunti americani e
britannici fu deciso l'attacco alla Sicilia, al quale venne dato il nome in codice di
Operazione Husky. La data dello sbarco, inizialmente prevista in modo generico "per
agosto", fu in seguito definitivamente fissata per l'alba del 10 luglio. Nella conferenza di
Casablanca furono nominati anche i comandanti che avrebbero guidato la campagna di
Sicilia e anche in questo caso gli inglesi fecero la parte del leone, assicurandosi il
comando delle tre armi: per le forze navali fu designato l'ammiraglio sir Andrei
Cunningham, comandante in capo della marina inglese in Mediterraneo; il comando delle
forze aeree fu assegnato al Maresciallo dell'Aria sir Arthur Tedder, mentre il generale sir
Harold Alexander fu nominato comandante delle forze di terra. Comandante in capo di tutte
le forze alleate impegnate nell'operazione fu nominato il generale Eisenhower, avendo
come suo vice lo stesso Alexander. Eisenhower, nel quadro della pianificazione dello
sbarco, formò due unità operative: la task force orientale (britannica) comandata dal
generale sir Bernard Law Montgomery, e la task force occidentale (americana), comandata
dal generale George Patton.
Da parte italiana e tedesca l'attacco all'Europa era ovviamente atteso e i servizi di
spionaggio erano da tempo al lavoro per capire quale sarebbe stato il luogo dello sbarco
tra i molti possibili nel Mediterraneo. Per ingannare il nemico gli Alleati attuarono una beffa
che passò alla storia, tanto da aver successivamente suggerito anche la trama di un film.
Nella tarda mattina del 30 aprile, al largo delle coste di Cadice, in Spagna, fu rinvenuto da
alcuni pescatori il cadavere di un ufficiale inglese che, dai documenti in suo possesso,
risultò essere il maggiore William Martin, dei Royal Marines britannici. Legata al cadavere,
una borsa diplomatica conteneva documenti che furono giudicati importantissimi dai
servizi segreti tedeschi, che erano stati prontamente avvisati dai colleghi spagnoli. In
particolare una lettera, inviata dal Naval War Staff al generale Alexander, parlava
esplicitamente di una imminente invasione della Grecia e di come i preparativi per lo
sbarco in Sicilia servissero solo per sviare l'attenzione degli italo - tedeschi.
L'operazione Mincement, descritta nella falsa lettera, fu presa per vera dai tedeschi, che
caddero nella trappola, come dimostrano gli ordini di Hitler, che spostò dalla Francia verso
la Grecia la 1° Divisione Panzer. L'attenzione dei comandi tedeschi si concentrò così sulla
Grecia nonché sulla Sardegna, ritenuta altro probabile obiettivo alleato.
Restò, e lo è tuttora, nel mistero la vera identità del cadavere ritrovato in mare dai pescatori
spagnoli. Pare si trattasse di un malato di mente, morto accidentalmente per affogamento
nelle acque del Tamigi. Nel cimitero della cittadina spagnola di Huelva è oggi seppellito il
cadavere dell'uomo che non è mai esistito: il maggiore William Martin, nato dalla fantasia
dei servizi segreti britannici.
Gli italiani non credettero invece alla messinscena inglese, convinti, a ragione, che la
Sicilia fosse il vero obiettivo degli Alleati; d'altra parte, a questa certezza se ne aggiungeva
un'altra, non meno allarmante della prima: l'insufficienza dei mezzi di difesa dell'isola,
unitamente al morale basso sia delle truppe sia della popolazione civile, definita
"rassegnata, agnostica, priva di volontà" in un drammatico rapporto redatto dal generale
Alfredo Guzzoni, comandante delle forze di stanza in Sicilia.
Questo rapporto, compilato un mese prima dell'invasione e riportato in appendice nel libro
di Costanzo, evidenziava anche altri problemi: le difese passive inadeguate, la carenza di
mezzi corazzati, cannoni anticarro e artiglieria in genere. Inoltre, sottolineava il generale
Guzzoni, molti soldati di stanza in Sicilia erano riservisti siciliani, che spesso si
allontanavano arbitrariamente dai reparti per far visita alle proprie famiglie. Morale basso
della popolazione, ma morale non certo migliore tra i soldati. Tutti erano "in attesa"; ma
l'attesa era soprattutto della fine della guerra. Non importa come, purché finisse.
Nel quadro delle operazioni preparatorie dello sbarco, Costanzo ci parla anche di quel
romanzato, ma mai dimostrato, contributo della mafia siciliana, che si sarebbe attuato a
opera di Salvatore Lucania, alias Lucky Luciano, criminale italo - americano, detenuto negli
Stati Uniti, ma sempre in contatto coi suoi fratelli siciliani. Fu piuttosto ad invasione
avvenuta che la mafia seppe sfruttare la situazione, piazzando molti suoi uomini nei posti
più importanti delle amministrazioni locali, da cui poter controllare soprattutto le
distribuzioni di viveri: posti chiave per arricchirsi e per riprendere posizioni di potere.
La riorganizzazione della mafia dopo l'invasione alleata è un dato di fatto dimostrabile
anche solo coi nomi di alcuni pezzi da novanta, che si ritrovarono a ricoprire cariche di
sindaco e assessore in diversi centro della Sicilia. È arbitrario voler accusare gli Alleati di
vera e propria collusione con la mafia; piuttosto, nella ricostituzione frettolosa delle
amministrazioni locali, la preoccupazione principale da parte di inglesi e americani era
quella di incaricare degli affari locali personalità antifasciste e molti dei mafiosi erano stati
emarginati dal fascismo, che aveva, peraltro invano, cercato di sradicare il fenomeno
dall'isola. Peraltro non erano certo i mafiosi ad avere grandi problemi ideali e politici; la
leggerezza e una certa ingenuità, soprattutto americane, nonché l'urgenza di ridare alle
zone invase un minimo di organizzazione civile, fecero il resto.
Abbiamo visto come i tedeschi fossero convinti che la Sicilia non era l'obiettivo alleato e in
questa convinzione restarono anche dopo la rapidissima conquista di Pantelleria,
Lampedusa e Linosa, effettuata tra l'11 e il 13 giugno, dopo intensi bombardamenti. In
particolare Pantelleria, dotata di un attrezzato aeroporto e di una stazione radar, era
importante per gli Alleati, che ne avrebbero fatto una base per il decollo degli aerei che
avrebbero appoggiato le successive azioni sulla Sicilia. La conquista delle tre isole non ha
storia, se non per la rapidità con cui si svolse, e per le sofferenze inflitte alla popolazione
civile, sottoposta a durissimi bombardamenti preparatori, gli stessi che avrebbe, di lì a
poco, martoriato le principali città sicule.
L'uso indiscriminato dei bombardamenti sulle città fu una delle caratteristiche più crudeli
della seconda guerra mondiale. Nel già citato incontro di Casablanca Roosevelt e Churchill
decisero, tra l'altro, "una campagna aerea con un'offensiva di bombardamenti più intensa
possibile… mirando soprattutto a ridurre a pezzi, oltre le fabbriche belliche, il morale della
popolazione civile". E così fu. Da quel momento per la gente non contò più nessuna
ideologia, ma la sola sopravvivenza. Dopo ogni raid aereo, le persone si sentivano
svuotate, sconfortate, prive di risolutezza".
Nei primi giorni di luglio in Sicilia erano presenti circa 260.000 soldati; 175.000 italiani e
28.000 tedeschi tra le truppe combattenti, gli altri addetti ai servizi. Le situazione
drammatica delle difese dell'isola era già stata evidenziata dal generale Roatta,
predecessore di Guzzoni al comando militare dell'isola. Parlando del prevedibile sbarco
alleato, Roatta disse che: "…(la difesa costiera) non è in condizioni di impedire lo sbarco,
ma solo in misura di ostacolarlo, di ritardarlo e di contenere per un tempo più o meno
lungo l'avversario sbarcato". Anche la superiorità aerea alleato era fuori discussione: a
fronte di 1.320 aerei disponibili dagli italiani, gli Alleati potevano contare su 2.050
bombardieri e 2.200 caccia, senza contare gli aerei dislocati in Marocco e a Gibilterra.
Infine un altro problema era rappresentato dalle divergenze tra il comando italiano in Sicilia
e quello tedesco. Le truppe tedesche erano, in teoria, agli ordini del generale Guzzoni, ma
in pratica il comandante italiano dovette indire numerosissime riunioni con gli ufficiali
tedeschi che, ancora dubbiosi sullo sbarco in Sicilia (come vedevamo, la beffa del
maggiore Martin aveva funzionato), erano comunque discordi sulle località siciliane in cui
sarebbe avvenuto quello che per loro restava un ipotetico sbarco. L'unica conclusione a
cui poté giungere il generale Guzzoni fu che lo sbarco sarebbe stato, eventualmente,
contrastabile, solo quando si fossero palesate le vere intenzioni degli Alleati. In altri
termini: stiamo a vedere cosa accadrà, poi vedremo cosa riusciremo a fare…
E quel che accade è noto: nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 una poderosa flotta anglo
americana fece rotta verso la Sicilia, già avvistata nel pomeriggio da un aereo da
ricognizione della Luftflotte. All'alba del 10 luglio, dopo che i cannoni delle navi avevano
aperto un intenso fuoco preparatorio, le forze alleate sbarcarono sulle zone previste: la VII
armata americana del gen. Patton prese terra sulle spiagge di Gela, Licata e Scoglitti,
mentre l'VIII Armata inglese del gen. Montgomery raggiunse le coste sud orientali della
Sicilia, tra Pachino e Siracusa. Sull'isola in pochi giorni sbarcarono 181.000 uomini, di cui
115.000 britannici e 66.000 americani), con 1.800 cannoni, 600 carri armati e 14.000
automezzi. Alla fine della campagna, la presenza alleata assommò a 478.000 soldati, di cui
250.000 britannici e 228.000 americani.
Solo nel golfo di Gela le forze alleate trovarono un'energica resistenza, che costò la vita a
197 soldati italiani, che non poterono peraltro impedire una conquista, che già nella
mattinata fu completata. Nelle altre zone di sbarco, anche per l'intenso bombardamento
preparatorio, inglesi e americani non trovarono alcuna resistenza seria.
"Le informazioni militari sull'invasione della Sicilia furono comunque spesso confuse e
piene di incertezze. Tanti ufficiali e soldati, dislocati nelle zone di operazioni, non
riuscirono a comprendere la reale dimensione dell'attacco angloamericano". L'intervento
delle forze aeree, sollecitato dal generale Guzzoni, non riuscì che ad arrecare danni limitati
al nemico, anche per l'intenso fuoco di contraerea.
"La potenza bellica degli americani piegò subito i fiacchi presidi italiani. Gli uomini della VII
armata (americana) occuparono in breve tempo gli obiettivi stabiliti e già nella prima
giornata riuscirono a catturare migliaia di prigionieri".
Ma il punto più debole della difesa costiera si rivelò la piazzaforte di Augusta, in teoria
invalicabile, in pratica arresasi senza combattere dopo che il suo comandante, il
contrammiraglio Leonardi, alle prime avvisaglie di sbarco ordinò di predisporre la
distruzione di tutte le batterie antiaeree e di sabotare ogni mezzo che per evitare che
cadessero in mani nemiche.
Nei primi tre giorni dallo sbarco le truppe inglesi occuparono tutta la parte sud orientale
della Sicilia. I soldati italiani si arresero a migliaia, ma molti riuscirono anche a fuggire,
dopo essersi spogliati della divisa e avere indossato abiti civili.
La conquista della Sicilia iniziava così nei migliori auspici per gli Alleati e avrebbe potuto
continuare come una marcia trionfale, tanto più considerando che i sentimenti della
popolazione civile erano fin troppo chiari, tanto da stupire il generale Patton, che nel suo
diario annotò più volte le trionfali accoglienze tributate alle truppe alleate. Ma la
disorganizzazione alleata e l'emergere di rivalità tra inglesi e americani, entrambi ansiosi di
conquistare la maggior palma di una non difficile gloria, furono all'origine di un'avanzata
lenta, che contrastò con le fulminee operazioni iniziali. In particolare i lanci di alianti e
paracadutisti furono effettuati senza un'adeguata ricognizione preparatoria e senza
disporre di carte aggiornate dell'isola, né mancarono tragici errori: oltre duecento soldati
americani caddero sotto quello che con un eufemismo veniva già allora chiamato "fuoco
amico".
Protagonista della campagna si impose, con la sua consueta irruenza, il generale Patton,
che conquistò Palermo di propria iniziativa, in pratica contravvenendo agli ordini ricevuti e
ponendo Eisenhower di fronte al fatto compiuto. In "compenso" l'altra grande città sicula,
Catania, fu conquistata dagli inglesi del gen. Montgomery.
Non mancarono, corollario crudele e inevitabile di ogni guerra, episodi di atrocità, tanto più
ingiustificabili in una situazione militare che era comunque, aldilà delle manchevolezze
degli Alleati, assolutamente definita a loro favore. Nelle campagne attorno all'aeroporto di
Biscari il capitano americano Compton ordinò la fucilazione di 36 prigionieri italiani,
catturati dopo la conquista del campo d'aviazione. Sulla scia del suo superiore, il sergente
West uccise personalmente a colpi di mitra Thompson altrettanti prigionieri italiani. Sia
Compton che West finirono davanti alla corte marziale; il secondo, condannato
all'ergastolo ma liberato dopo pochi mesi, morì in Normandia. Quanto al capitano, venne
prosciolto da ogni accusa.
Da parte tedesca, un episodio crudele si consumò a Castiglione di Sicilia, dove un reparto
di circa 40 soldati tedeschi, provenienti da Randazzo, uccise sedici civili, ferendone una
ventina, pare per rappresaglia contro l'uccisione di un loro commilitone, avvenuta nelle
campagne attorno a Castiglione.
Mentre in Sicilia le truppe angloamericane avanzavano, a Roma maturavano altri
avvenimenti: Ezio Costanzo dedica un capitolo del suo libro alla storica seduta del Gran
Consiglio del Fascismo del 24/25 luglio 1943. Il Duce, sfiduciato dai suoi stessi uomini,
scompare dalla vita politica italiana e inizia il periodo dei quarantacinque giorni di
Badoglio.
Senza dubbio gli eventi militari in Sicilia furono il colpo di grazia all'ormai vacillante regime
di Mussolini, che solo poche settimane prima aveva giudicato impossibile lo sbarco
sull'isola, munita di "poderose difese", nel famoso discorso passato alla Storia per l'errore
di chiamare la linea in cui il mare tocca la costa "linea del bagnasciuga" anziché "battigia".
Ben più gravi errori di quelli lessicali erano da attribuire al duce, ma il Maresciallo
Badoglio, nuovo capo del Governo, non ebbe la volontà o non poté (non è qui il luogo per
un'analisi) risparmiare all'Italia ulteriori lutti. La guerra in Sicilia, come nel resto del Paese,
continuò e si concluse con un altro incredibile esempio di disorganizzazione alleata, che
permise a italiani e tedeschi di passare lo stretto e riparare in Calabria quasi senza subire
perdite e con la quasi totalità dei mezzi. Molto semplicemente, nella pianificazione della
conquista della Sicilia nessuno aveva previsto la chiusura dello Stretto di Messina, che si
sarebbe potuta attuare senza problemi, data l'incontrastata superiorità aerea e militare
degli Alleati.
"… i tedeschi riuscirono la sera stessa del 17 agosto a mettere in salvo anche i mezzi
navali che avevano utilizzato per il traghettamento. L'esercito si riorganizzò rapidamente e
tutte le armi evacuate furono rapidamente disponibili per riprendere a sparare. Di lì a poco
quegli stessi soldati della Wehrmacht avrebbero dato ulteriore filo da torcere alle possenti
forze angloamericane sulle spiagge di Salerno. Gli italiani ringraziarono i tedeschi per
l'aiuto offerto alla loro precipitosa fuga. Il generale Guzzoni, il giorno stesso in cui l'ultimo
soldato tedesco mise piede in Calabria, inviò al generale Hube un messaggio di
felicitazione".
Conquistata l'isola militarmente, gli Alleati iniziarono la riorganizzazione del potere civile.
Protagonista di questo capitolo fu la controversa figura del colonnello americano Charles
Poletti, capo degli affari civili in Sicilia. Accusato di essere in collusione con la mafia,
Poletti fu, con tutta probabilità, un po' cinico e un po' ingenuo. Preoccupato di riportare
ordine con personaggi che esercitassero una reale autorità sulla popolazione, il colonnello
americano non ebbe problemi a chiamare alla carica di sindaco di Villalba il mafioso di
chiara fama Don Calò Vizzini; a Palermo fu nominato Lucio Tasca, uomo d'onore e
sostenitore del MIS, il movimento separatista. Altri due famosi capi mafia, Vincenzo di
Carlo e Giuseppe Genco Russo, ebbero rispettivamente la sovrintendenza all'assistenza
pubblica di Mussomeli e il controllo sugli ammassi del grano.
Parlavamo di ingenuità e cinismo: se nella prima gli americani sono spesso stati campioni
in politica estera, anche in quanto a cinismo non hanno mai difettato. Possiamo dire che,
se non è possibile attribuire un dolo specifico a Poletti, è però un dato di fatto che la mafia
trovò nell'invasione alleata un insperato rilancio di potere, dal quale non si sarebbe più
distaccata.
Il libro di Ezio Costanzo si chiude con una interessante appendice documentale ed è
arricchito da numerose fotografie: le rovine, le figure smagrite degli isolani che ricevono
cibo dai soldati alleati, i cadaveri abbandonati per le strade, sono il drammatico strumento
per non dimenticare cosa porta la guerra… morte, dolore, sofferenza.
Dallo sbarco in Sicilia alle Quattro Giornate di Napoli, monografia in due parti
Prima Parte
Lo sbarco in Sicilia
di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso
Premessa
Nel 1940, alla vigilia della guerra, Palermo contava oltre 400.000 abitanti per una superficie che si
estendeva su circa 1.600 ettari. Erano presenti strutture produttive e commerciali, un grande porto e
un cantiere navale che occupava tra le 800 e le 1500 persone a seconda delle commesse. Era presente
anche una piccola industria aeronautica gestita dalla Caproni-Ducrot costruzioni, un cementificio e una
miriade di piccole industrie artigiane a conduzione semifamiliare o familiare. Palermo disponeva anche
di un aeroporto militare (Boccadifalco), di un idroscalo, di varie stazioni ferroviarie: Centrale,
Marittima, Lolli, Brancaccio e Sant’Erasmo. I trasporti urbani erano assicurati da un servizio di tram e
filobus, elettrificati) che arrivavano fino ai sobborghi di Mondello (la spiaggia “bene” di Palermo) e
Monreale. Sufficienti erano anche le reti di distribuzione elettrica, del gas e una buona rete idrica e
fognaria. La rete idrica era approvvigionata da numerosi pozzi (qanat) urbani e da circa 40 acquedotti.
Anche il telefono cominciava a diffondersi tanto che si contavano già oltre 8000 abbonati. I servizi
erano pertanto in linea con quelli dell’epoca, anche se le condizioni economiche e occupazionali non
potevano dirsi ottimali, provenendo da un lungo periodo di gestione fascista, e si erano aggravate con
il rientro di molti emigranti a causa del clima di ostilità nei confronti dell’Italia di Mussolini creatosi
alla vigilia della guerra nel mondo occidentale[1]. Una città quindi, che se fosse stata inserita in un
contesto politico-economico democratico-liberale, avrebbe potuto vantare un buon tenore di vita e
contare su uno sviluppo e una espansione costante.
A seguito della dichiarazione di guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna del 10 giugno 1940, la
situazione precipitò. Iniziarono i bombardamenti. Dapprima furono gli Inglesi che tuttavia
concentravano gli attacchi su bersagli militari come il porto e l’aeroporto. Poi, a partire dal gennaio
del 1943 arrivarono gli americani che adottarono la strategia dei bombardamenti indiscriminati: rasero
al suolo interi quartieri, chiese, monasteri e non risparmiarono neanche i ricoveri, alcuni dei quali
dovettero essere murati con la calce per l’impossibilità di estrarre i cadaveri da sotto le macerie.
Particolarmente crudeli furono i bombardamenti del rifugio di piazza Settangeli e di via Lincoln, dove
rimasero intrappolati 300 bambini che usciti da una scuola vi si erano rifugiati con i loro insegnanti. Il
massimo si raggiunse il 9 maggio. Il bombardamento fu talmente violento che rase al suolo intere zone
di civile abitazioni e di alto valore artistico e costrinse alla fuga i cittadini che abbandonarono in massa
la città. Tutte le città siciliane furono colpite, riportando danni materiali e morti e feriti e dispersi.
Oltre Palermo ricordiamo in particolare Messina che, non ancora completamente ricostruita dopo il
catastrofico terremoto del 1908 che la rase al suolo in 38 secondi, fu distrutta nuovamente da 8 mesi di
bombardamenti anglo-americani. Da gennaio al agosto del 1943, migliaia di bombe caddero sulla città.
Nel caso di Messina furono usate per la prima volta bombe incendiarie come quelle poi usate a Dresda
(200.000 morti). La vita quotidiana era accompagnata dalle sirene di allarme per 8 mesi di inferno di
fuoco e macerie.
Un bombardiere B-29 "fortezza volante"
Sulle città siciliane, fu inaugurata e messa a punto dall’esercito statunitense la successione di
bombardamenti dimostrativa ed esemplare per piegare la resistenza della popolazione diventata di uso
normale negli anni a venire. In quel luglio del 1943, contemporaneamente alle colonne della VII armata
americana arrivò infatti a Palermo un gruppo di studiosi guidato dal professore Solly Zuckerman,
docente di anatomia ed endocrinologia. Il professor Zuckerman e i suoi collaboratori erano stati
chiamati dalla protezione civile britannica a collaborare alle ricerche sugli effetti delle incursioni
aeree sull’organismo umano ma ben presto il lavoro degli scienziati si indirizzò diversamente: non più
studiare il modo per limitare i danni ma piuttosto per massimizzare l’efficacia dell’offensiva aerea
contro i nemici [3].
Un bombardiere B-25 "liberator" in azione
Zuckerman per condurre i suoi studi si era trasferito in Sicilia con la sua squadra e nella sua relazione
scrive “La cattura della Sicilia rappresenta la prima opportunità che ci sia stata finora offerta per una
stima dettagliata degli effetti di una offensiva estesa e prolungata delle forze aeree alleate”.
Ecco a cosa servirono i tre anni di bombardamenti, oltre che a preparare il territorio e la popolazione
per lo sbarco degli Alleati. Avevano bisogno di cavie. [4]
Palermo bombardata
Lo Sbarco
L’idea di invadere la Sicilia era nata dapprima a Londra durante l’estate del 1942, quando vennero
fissati due importanti obiettivi strategici nel Mediterraneo per le forze inglesi: Sicilia e Sardegna, alle
quali furono assegnati rispettivamente i nomi in codice di Husky e Brimstone. Ma la possibilità di un
invasione tutta britannica della Sicilia, ovviamente, venne immediatamente esclusa. Gli Usa non
avevano piacere che il mediterraneo divenisse un protettorato inglese. Così, dopo aver sconfitto le
truppe italo-tedesche ad El Alamein, in Egitto, e dopo il successo dell’invasione del Marocco e
dell’Algeria (novembre 1942, "Operazione Torch"), ora che la vittoria in Nordafrica era praticamente
completa, bisognava preparare la mossa successiva: penetrare l’Europa; a tale scopo fu organizzata il
14 gennaio del 1943 la Conferenza di Casablanca ("Operazione Symbol"), per prendere una decisione
comune sul da farsi. Alla conferenza parteciparono il Primo Ministro W. Churchill , il generale sir Alan
Brooke, l’ammiraglio sir Dudley Pound, il maresciallo di campo sir John Dill ed il futuro maresciallo
della Royal Air Force sir Charles Portal per l’Inghilterra; il Presidente F.D. Roosevelt, il generale
George C. Marshall, capo di Stato maggiore dell’esercito americano, l’ammiraglio Ernest J. King, capo
delle operazioni navali ed il generale H.H. Arnold, che comandava le Forze Aeree, per gli Stati Uniti.
La flotta alleata in navigazione verso le coste della Sicilia
La decisione su dove aprire il “secondo fronte” di lotta all’Asse cadde sulla Sicilia dopo non pochi
contrasti tra i comandanti delle due potenze Alleate. “C’erano in ballo tre ipotesi – riporta lo storico
Salvatore Lupo [5] - la prima, auspicata dai sovietici, prevedeva lo sbarco nelle coste settentrionali
dell’Europa, la seconda puntava ai Balcani e la terza alla Sicilia. Fu scelta quest’ultima opzione per il
semplice fatto che l’Italia rappresentava l’avversario più debole”. Il “ventre molle” dell’Europa come
ebbe a definirla Churchill.
La Sicilia, la più grande isola del Mediterraneo, ad appena 130 km dalla costa della Tunisia,
rappresentava la via più breve per entrare in Italia e segnare il primo attacco alla "Fortezza Europa".
Preliminare necessario allo sbarco era tuttavia l'occupazione di Pantelleria che l'opinione pubblica
italiana, suggestionata dalla propaganda fascista, considerava una specie di Malta, una base quasi
inespugnabile. Per gli alleati era necessario conquistarla, per farne una base per la loro aviazione.
Ebbe così inizio una violenta offensiva aerea anglo-americana contro l'isola fortificata di Pantelleria,
difesa da 11.000 uomini e 180 cannoni al comando dell'ammiraglio Pavesi. Scriveva Eisenhower [6]:
“Topograficamente Pantelleria presentava ostacoli quasi spaventosi per un assalto ... Molti dei nostri
comandanti, esperti ed ufficiali di S. M., erano decisamente contrari ad uno sbarco perchè un
fallimento avrebbe avuto un effetto scoraggiante sul morale delle truppe da impegnare lungo le coste
della Sicilia”. Per tali motivi si decise di attaccare dall’alto e bombardare l’isola. Su Pantelleria, in soli
sei giorni tra il 6 e l'11 giugno 1943, furono sganciate ben 5.000 tonnellate di bombe. Pantelleria si
rivelò per quello che era in realtà: un avamposto sperduto, messo subito in ginocchio dai
bombardamenti e soprattutto senza volontà alcuna di resistere. Non ci furono perdite da parte degli
Alleati, a eccezione, secondo i racconti dei marinai locali, d’un soldato ferito dal morso di un asino.
L’unico, appunto che da asino, ancora si illudeva di poter difendere l’indifendibile sia politicamente
che militarmente.
Più di 11.000 prigionieri caddero nelle loro mani. Nei due giorni successivi anche le isole vicine di
Lampedusa e Linosa capitolarono; gli abitanti della prima, addirittura, si arresero in massa dinanzi al
pilota di un aereo costretto ad atterrare per mancanza di carburante.
Gli Alleati prevedevano di impegnare nell'operazione Husky, come veniva indicato in codice lo sbarco in
Sicilia, 2775 navi da guerra e da trasporto, 1124 mezzi da sbarco, 4000 aerei , 14.000 veicoli, 600 carri
armati, 1.800 cannoni e una quantità indefinita di munizioni, armi, vettovaglie e carriaggi, il tutto
gestito da oltre 400.000 uomini. Le forze italiane impegnate in Sicilia consistevano di circa 200.000
italiani con un centinaio di carri armati e 28.000 tedeschi con 165 carri. In realtà l’isola, nonostante il
grande numero di uomini in essa dislocati, non era strategicamente attrezzata. Mancavano le
fortificazioni, gli armamenti, i mezzi logistici ed era priva di una valida protezione antiaerea. La
superiorità degli Alleati era dunque schiacciante.
Già nella notte tra il 3 ed il 4 luglio un commando britannico tentò di sbarcare sul lido di Avola, nella
Sicilia sud orientale, ma si ritirò in buon ordine. Questo tentativo, in realtà, serviva solo per saggiare
l'efficienza della difesa, in previsione dello sbarco vero e proprio. Il giorno 9 infatti la nostra
ricognizione avvistava la flotta d'invasione in navigazione verso le coste siciliane e lo stesso giorno 9,
alle ore 22,30, 364 aerei e 12 alianti lanciavano sulle coste meridionali della Sicilia una divisione di
paracadutisti britannica. Contemporaneamente, più ad ovest, scendevano i reparti della 82a divisione
paracadutisti americana. Frattanto la flotta di invasione, al largo, si apprestava a sbarcare sulle
spiagge le proprie divisioni.
Nell’arco di terra tra Licata e Siracusa si riversarono 160.000 soldati
All'alba del 10 luglio, alle 04.45, la 7° Armata Usa sbarca sulle spiagge di Gela e l'8° Armata inglese su
quelle di Pachino e Siracusa. Un fronte costiero di 260 km, da Licata alla penisola della Maddalena
pullulava di navi, mentre dall’aria stormi di caccia bombardavano a tappeto per proteggere lo sbarco.
Fu la più imponente operazione militare fino ad allora vista nel mediterraneo. Sbarcarono 13 divisioni
di fanteria, 2 due divisioni corazzate, 2 aviotrasportate e diversi reparti speciali . A comandare
l’operazione erano i generali Bernard Montgomery per i britannici e George Patton per gli statunitensi.
Nei giorni successivi le truppe alleate avanzarono a tenaglia e si scontrano con le divisioni “Hermann
Goring” e “Livorno”, che ben presto, nonostante alcuni eroici tentatici di resistenza come a Noto e a
Cassibile, si ritirano, specie i tedeschi, nel tentativo di raggiungere lo stretto e trasbordare sulla
terraferma mentre tra le fila degli italiani tutti coloro che erano di origine siciliana, ed erano la
maggior parte, cominciavano a disertare nel tentativo di raggiungere le famiglie.
L'avanzata anglo-americana
Il 13 luglio venne occupata Augusta e il 15 Il premier inglese Winston Churchill e il presidente
americano Roosevelt lanciarono un comune appello agli italiani affinché decidessero “se vogliono
morire per Mussolini e Hitler oppure vivere per l’Italia e la civiltà”. Intanto gli Alleati conquistano
Agrigento e il giorno dopo Caltanissetta e il 22 gli americani entrano a Palermo. Trovarono una città
fantasma, distrutta, saccheggiata e abbandonata. Nelle campagne si incontravano torme di sbandati,
civili fuggiti dai bombardamenti e soldati in fuga, siciliani in massima parte, che all’avanzare delle
truppe alleate avevano disertato per raggiungere le famiglie. Fu in questo clima di sfacelo che il 25
luglio il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia Mussolini, il re ordina il suo arresto e affida a Badoglio
l'incarico di guidare il nuovo governo.
Il 27 luglio il gen. Alexander, comandante il XV Gruppo d’armate, sposta il suo Quartier Generale
dall’Africa in Sicilia. Il 5 agosto viene occupata Catania, dagli inglesi agli ordini del generale
Montgomery, e il 17 il gen. Patton entra a Messina.
L’intera operazione è durata 38 giorni e pochi giorni dopo, il 3 settembre, a Cassibile viene firmato
l’armistizio corto, un pietoso eufemismo che sta per “resa incondizionata”, l'atto con il quale il Regno
d’Italia cessò le ostilità contro le forze alleate. L'operazione ebbe inizio intorno alle 17: firmatari
furono Castellano [7], a nome di Badoglio, e Bedell Smith, a nome di Eisenhower. Alle 17,30 il testo
risultava firmato. Solo a firma avvenuta fu bloccata in extremis dal generale Eisenhower la partenza di
cinquecento aerei in procinto di decollare per una missione di bombardamento su Roma, minaccia che
aveva costretto Badoglio ad accettare la resa senza condizioni, e che senza dubbio sarebbe stata
attuata, come già era successo il 19 luglio, se il trattato non fosse stato firmato [8].
Firma di Cassibile. Castellano è in abito grigio
Harold Macmillan, il ministro inglese distaccato presso il quartier generale di Eisenhower, informò
subito Churchill che l'armistizio era stato firmato " … senza emendamenti di alcun genere".[9]
Intanto nella mattinata del 3 settembre, mentre a Cassibile si ultimavano i preparativi per la firma,
Badoglio e Vittorio Emanuele III incontravano l’ambasciatore tedesco Rahn e lo rassicurano sulla
fedeltà e la lealtà dell’Italia al Fürher.
Nel pomeriggio dello stesso 3 settembre Badoglio si riunì con i ministri della Marina, De Courten,
dell'Aeronautica, Sandalli, della Guerra, Sorice e presenti il generale Ambrosio e il ministro della Real
Casa Acquarone ma non fece cenno alla firma dell'armistizio, si limitò semplicemente a riferire che
c’erano trattative in corso.
Fornì invece indicazioni sulle operazioni previste dagli Alleati e cioè ad uno sbarco in Calabria, ad uno
sbarco di ben maggiore rilievo nei pressi di Napoli ed all'azione di una divisione di paracadutisti alleati
a Roma, che sarebbe stata supportata dalle divisioni italiane in città perché ormai l'Italia avrebbe
agevolato gli alleati contro i tedeschi.
Intanto nelle prime ore del mattino del 1° settembre, dopo il solito bombardamento aeronavale alleato
delle coste calabresi, ebbe inizio fra Villa San Giovanni e Reggio Calabria lo sbarco della 1ª Divisione
canadese e di reparti inglesi; si trattò di un imponente diversivo per concentrare l'attenzione dei
tedeschi molto a sud di Salerno, dove avrebbe avuto invece luogo lo sbarco del grosso delle truppe, la
V armata americana.
Badoglio, il re e lo Stato Maggiore, ritardarono di 5 giorni la notizia della firma di Cassibile, l’armistizio
fu reso pubblico solo alle 19:45 dell'8 settembre dai microfoni dell' EIAR che interruppero le
trasmissioni per trasmettere la voce di Badoglio, precedentemente registrata che annunciava alla
nazione la firma dell’armistizio. In realtà l’armistizio era stato già reso noto da radio Algeri alle 17.30.
Letto il messaggio, il Re, il generale e tutto lo Stato Maggiore, fecero le valigie e scapparono.[10]
L’invasione della Sicilia non fu tuttavia una passeggiata come si sperava. La resistenza italiana e
tedesca fu, nonostante l’impossibilità di impedire lo sbarco e di ricacciarli in mare, superiore al
previsto sebbene non potesse contare sull’intervento della marina e dell’aviazione italo-tedesca. Roma
e soprattutto Berlino non potevano permettersi di sguarnire gli altri fronti pertanto ai comandi militari
italiani e soprattutto tedeschi non rimase altro da fare che evitare di restare intrappolati e ripiegare
verso Messina e quindi Reggio. In totale tra morti, feriti, dispersi, prigionieri le perdite italiane
assommarono a 130.000 uomini, quelle tedesche a 37.000 uomini; fra le perdite materiali 260 carri
armati, 500 cannoni e un numero imprecisato di aerei. Gli alleati persero circa 8.000 uomini, fra morti
e dispersi, 103 carri armati, 96 mezzi da sbarco e 274 aerei. Alle crude cifre dei morti e dei dispersi
militari vanno aggiunte le stragi dei civili, la rovina delle città e delle campagne; i bombardamenti
avevano distrutto acquedotti, centrali elettriche, strade ferrate , mancava quindi l’acqua, l’energia
elettrica, i treni non viaggiavano, le campagne isterilivano, il bestiame moriva e le città erano
sommerse da cumuli di macerie. I bombardamenti avevano distrutto 250.000 abitazioni, 15.000 vani
rurali, migliaia di automezzi, strade, per non parlare del patrimonio zootecnico e di oliveti, vigneti,
agrumeti e quant’altro.[11]
Il popolo in verità quando le forze alleate iniziano lo sbarco in Sicilia, tirò un sospiro di sollievo: i
cittadini perché vedevano avvicinarsi l'ora della fine degli spaventosi bombardamenti; gli antifascisti
perché sentivano il profumo della libertà ma soprattutto gioirono i mafiosi[12] i quali capirono di poter
disporre di uno spazio di manovra che il fascismo aveva loro negato e furbamente colsero l’opportunità
di spacciarsi per antifascisti per il solo fatto di essere stati imprigionati o confinati e di mettersi a
disposizione delle truppe alleate.
Militari alleati per le strade di Augusta
Il ruolo della mafia
Tra gli storici è ancora aperta la diatriba sul ruolo avuto dalla mafia siciliana nella preparazione dello
sbarco alleato. Tale diatriba è certamente sostenuta dagli apparati mafiosi perché tendono ad
assumersi un merito e un potere che in realtà non potevano ricoprire in quel lontano 1943, perché in
Sicilia grazie al prefetto Mori, buona parte delle forze di mafia erano state confinate o incarcerate.
Anche se i capi erano rimasti liberi buona parte della manovalanza era stata inibita. A tal proposito
molti storici tra i quali Renda e Lupo sgomberano subito il campo da ogni possibile equivoco. Scrive
Lupo “La storia di una mafia che aiutò gli angloamericani nello sbarco in Sicilia è soltanto una
leggenda priva di qualsiasi riscontro, anzi esistono documenti inglesi e americani sulla preparazione
dello sbarco che confutano questa teoria; la potenza militare degli alleati era tale da non avere
bisogno di ricorrere a questi mezzi. Uno dei pochi episodi riscontrabili sul piano dei documenti è
l’aiuto che Lucky Luciano propose ai servizi segreti della marina americana per far cessare alcuni
sabotaggi, da lui stesso commissionati, nel porto di New York; ma tutto ciò ha un valore minimo dal
punto di vista storico, e soprattutto non ha alcun nesso con l’operazione “Husky”. Lo sbarco in Sicilia
non rappresenta nessun legame tra l’esercito americano e la mafia, ma certamente contribuì a
rinsaldare i legami e le relazioni affaristiche di Cosa Nostra siciliana con i cugini d’oltreoceano”. [13]
Se l’ipotesi che gli “amici degli amici” abbiano avuto un ruolo decisivo nello sbarco angloamericano in
Sicilia è da scartare, è tuttavia innegabile che gli alleati si servirono dell’aiuto di personaggi del calibro
di Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo per mantenere l’ordine nell’isola occupata e il boss
americano Vito Genovese [14], nonostante fosse ricercato dalla polizia statunitense, divenne
l’interprete di fiducia di Charles Poletti, capo del comando militare alleato.
Calogero Vizzini
Certamente gli alleati non conoscevano la realtà siciliana e di volta in volta, da paese in paese,
cercavano l’interlocutore di maggior prestigio sul piano del potere locale, che era rappresentato
invariabilmente dalla mafia, dall’aristocrazia terriera e dalla chiesa che spesso erano tra loro legate da
comuni interessi. Non a caso il nome di Calogero Vizzini fu suggerito agli angloamericani dal fratello
vescovo, e dal “Movimento indipendentista siciliano” (MIS) nelle cui fila militavano fianco a fianco
rappresentanti dell’aristocrazia terriera come Lucio Tasca, nominato sindaco di Palermo e capimafia
come Vizzini, Navarra, Genco Russo e l’allora giovanissimo, Tommaso Buscetta.
Il movimento indipendentista
Immediatamente dopo lo sbarco degli alleati prese corpo e spessore inoltre il Movimento
indipendentista. Mentre ancora nell’isola si combatteva il 28 luglio del ’43 già volantini separatisti che
invitavano a proclamare l’indipendenza della Sicilia cominciarono a circolare e il giorno dopo l’entrata
a Palermo delle truppe americane, chiesero e ottennero di essere ricevuti dal tenente colonnello
Poletti, capo dell’ufficio affari civili del governo militare alleato, per presentare formale richiesta di
poter informare i governi inglese e USA che la Sicilia intendeva essere indipendente.
Intanto, secondo quanto deciso a Casablanca su suggerimento di W. Churcill, il governo militare di
occupazione doveva evitare qualsiasi collaborazione con i partiti politici isolani, anche con quelli che si
dichiaravano antifascisti, pertanto gli alleati si affidarono ai suggerimenti del clero e dei maggiorenti
locali per nominare i nuovi sindaci che così furono in buona parte scelti tra i mafiosi o i separatisti,
come il conte Lucio Tasca, capo dei separatisti, a Palermo o Genco Russo, boss mafioso, a Mussomeli.
Vito Genovese in divisa americana con Salvatore Giuliano.
Genevose fu l’autista e l’interprete di Charles Poletti
Col passare dei mesi vista l'impossibilità di rifornire con proprie scorte la popolazione, gli Alleati
puntarono sulla riorganizzazione degli ammassi, affidandone la gestione ai grandi proprietari,
aristocratici e mafiosi, per indurre i piccoli proprietari, che in prevalenza alimentavano il mercato
nero, a contribuire all'ammasso. Si rafforzava così la posizione delle élites agrarie nel quadro
istituzionale del governo d'occupazione. Da qui l'impressione che gli Alleati tendessero a favorire i
separatisti. In realtà le nomine erano avvenute nella logica stessa del governo indiretto, e gli unici
esponenti della ristretta classe dirigente nei piccoli paesi erano proprio i mafiosi e nei grandi centri i
separatisti. Appare invece priva di fondamento la ipotesi di un pactum sceleris tra mafia e alleati per
l’occupazione della Sicilia. Il rinnovato potere della mafia nella magmatica società del dopoguerra
avrebbe però fornito al potere politico un alleato fedele alle istanze filo occidentali, di cui
probabilmente gli americani si avvalsero.
Per un approfondimento degli avvenimenti che seguirono allo sbarco Alleato in Sicilia si rimanda
all’articolo il separatismo siciliano nel secondo dopoguerra e al testo "La Repubblica di Sicilia", libro di
G. Alibrandi scaricabile dal nostro sito.
Fara Misuraca e Alfonso Grasso
marzo 2008
Note
[1] Celano Massimiliano, Tesi di Laurea, Riportato da Rossella Leonforte su La Repubblica (Palermo) del
29 Febbraio 2008
[2] I baraccati che ancora oggi sono senza casa non sono quelli del terremoto del 1908 come spesso si
ripete ma quelli dei bombardamenti del ’43. Ma su questo tutti preferiscono tacere.
[3] Celano Massimiliano, Tesi di Laurea, Riportato da Rossella Leonforte su La Repubblica (Palermo) del
29 Febbraio 2008
[4] Palermo ha goduto del dubbio privilegio di essere stata bombardata da tutti i belligeranti.
[5] Salvatore Lupo, “Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni”, Roma, Donzelli 1993
[6]D.D. Eisenhower, Crociata in Europa , Milano, 1949
[7] Giuseppe Castellano, Come firmai l’armistizio,
[8] Castellano fu costretto a firmare una resa “senza condizioni”. Fu solo in seguito concesso il
privilegio di sparare qualche colpo contro i tedeschi per dimostrare che gli italiani avevano cambiato
fronte.
[9] All’armistizio “corto” firmato il 3 settembre e che constava di soli 12 articoli e contemplava
soltanto la cessazione delle attività militari, seguì l’armistizio “lungo” firmato da Badoglio a Malta
sulla nave “Nelson” il 29 settembre (erano presenti Badoglio, Ambrosio, Roatta, Sandalli, De Courten
per l’Italiaed Eisenhower, Cunningham e altri per gli alleati). Allora ci si rese conto della eccezionale
durezza delle condizioni, il nuovo testo, composto da 44 minuziosi articoli, stabiliva che al governo
italiano veniva tolta ogni potestà. Tutto doveva passare sotto il controllo degli anglo-americani, che
imposero, addirittura, delle modifiche legislative. In pratica l’Italia perdeva ogni sovranità.
[10] Alle 19,45 di quel mercoledì 8 settembre la voce registrata scandiva alla radio : “Il governo
italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza
avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un
armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La
richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve
cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da
qualsiasi altra provenienza.”
[11] Salvo Di Mattero, Storia della Sicilia, Edizioni Arbor
[12] Prima di questi eventi la mafia era un'organizzazione malavitosa regionale. È lo sbarco alleato che
le permette di fare il decisivo salto di qualità. La mafia si conquista sul campo la fiducia degli
americani e si trasforma in una organizzazione internazionale. In un primo tempo gli unici con i quali
gli americani hanno rapporti sono gli esponenti di Cosa Nostra negli Stati Uniti, che vengono utilizzati
per sventare i sabotaggi tedeschi nel porto di New York . Poi, quando la Sicilia inizia a ricoprire un
ruolo chiave nei piani militari, viene consultata la mafia locale. L'isola era completamente sconosciuta
e servivano contatti fidati. Cosa Nostra gioca la sua partita nel migliore dei modi, al punto che nella
prosecuzione degli eventi bellici, e più avanti con la guerra fredda, sarà affiancata alla Democrazia
Cristiana e ai carabinieri in quel blocco che doveva impedire l'accesso del PCI al potere.
[13] Salvatore Lupo, “Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni”, Roma, Donzelli 1993
[14] “Vito Genovese - scrive Mack Smith - benché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in
rapporto a molti delitti compreso l'omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la guerra,
risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzò la sua
posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a rastaurarne l'autorità...”.
Mentre faceva da interprete a Poletti, una banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel porto di
Napoli, li riempiva di farina e zucchero, sottratti agli alleati e li rivendeva al mercato nero nelle città
vicine. L'atteggiamento del Governo militare nei confronti dei mafiosi fu ispirato a criteri utilitaristici
ma indubbiamente quest'apertura verso gli “amici degli amici” permise alla mafia di riorganizzarsi, di
riacquistare l'antica influenza. Aveva sempre cercato l'alleanza con il potere, anche con quello
fascista, agl'inizi, ma per la prima volta ora le veniva conferito un crisma di legalità e di ufficialità che
le consentiva d'identificarsi con il potere.
Dallo sbarco in Sicilia alle Quattro Giornate di Napoli, monografia in due parti
Seconda Parte
Le Quattro Giornate di Napoli
28 settembre - 1° ottobre 1943
di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso
Napoli e la guerra
Alla vigilia della II guerra mondiale Napoli contava circa 900.000 abitanti che, con la provincia,
arrivano a 1.750.000 [1]. Nel corso del ventennio fascista era quindi decaduta da prima a terza città
d’Italia. Il regime dittatoriale in un primo tempo aveva fatto registrare progressi in campi quali quelli
dell’edilizia e degli edifici pubblici, dell’orario lavorativo e del sistema previdenziale e
dell’alfabetizzazione. Ma il divario nord-sud crebbe vorticosamente, specialmente nello strategico
settore delle comunicazioni ferroviarie e stradali e delle opere pubbliche in genere che, salvo
eccezioni, resteranno praticamente le stesse dell’epoca giolittiana, e che troveranno un successivo
sviluppo solo con l’avvento della Repubblica.
Mussolini investì enormi risorse nella guerra coloniale per la conquista dell’Etiopia (1935-6), in cui
furono utilizzati da parte italiana i gas asfissianti. Caduto nell’abbraccio mortale col nazismo,
partecipò nella guerra civile spagnola (1936-39) ed emanò le leggi razziali (1838). Il 10 giugno 1940, il
ministro degli esteri italiano, conte Ciano, genero del “Duce”, consegnò le dichiarazioni di guerra alle
potenze occidentali. Si disse che Mussolini avesse inteso scommettere su di una rapida e vittoriosa
soluzione del conflitto per trarne vantaggio, ma il suo si rivelò un colossale e criminale sbaglio, in
quanto l’Italia, come ben presto i fatti dimostrarono, non aveva né le risorse, né la tecnologia, né
tantomeno la volontà di imbarcarsi nella tragica avventura. In effetti, Mussolini reiterò più volte la sua
irresponsabilità: assalì la Grecia, dichiarò guerra agli Stati Uniti, inviò un’armata in Russia quando già
le cose volgevano al peggio per il cosiddetto “Asse” italo-germanico.
Bombardieri americani B-29 "Fortezze volanti"
Napoli nel 1940 era del tutto impreparata alla guerra, con poche difese efficienti, tenuto conto della
sua posizione strategica per il rifornimenti all’esercito che combatteva in Africa. La difesa aerea della
città era affidata alle navi militari che si alternavano nel porto, ed alla obsoleta artiglieria
dell’U.N.P.A. (Unione Nazionale Protezione Antiaerea). Gli aerei da caccia erano pochi ed
assolutamente inadeguati a fronteggiare gli avversari. Non esisteva alcun moderno sistema di
avvistamento (il radar era sconosciuto in Italia, mentre gli alleati lo utilizzavano già da tempo).
Vennero designati dei “capi-palazzo” per il soccorso dei civili e lo spegnimento degli incendi. A partire
dalle ore serali entrava in vigore l’oscuramento col divieto di far filtrare le luci.
Un caccia italiano CR32
I bombardamenti notturni inglesi iniziarono nel novembre del 1940. I danni riguardarono soprattutto la
zona portuale e quella industriale del versante orientale della città. Alcuni di coloro che avevano perso
la casa si trasferirono nelle grotte naturali e nei tunnel cittadini. Il 18 novembre 1941, un grappolo di
bombe distrusse l’avanti-ricovero [2] di Piazza Concordia, facendo strage degli occupanti. Dal 4
dicembre del 1942, si aggiunsero i bombardamenti diurni americani, con un’incursione d’alta quota che
provocò novecento vittime. In quell’occasione, non si ebbe neanche il tempo di far suonare le sirene
d’allarme. In porto, l’incrociatore “Attendolo” fu centrato in pieno e si capovolse. Il 15 dicembre
successivo i bombardieri distrussero l’ospedale Loreto, il gasometro, i bacini di carenaggio. I devastanti
attacchi americani si intensificarono nei primo mesi del 1943, con bombardamenti a tappeto da alta
quota, effettuati da centinaia di bombardieri pesanti, mentre la caccia nemica seminava spezzoni
incendiari dappertutto. Fu distrutto il sistema d’allarme e la gente, ormai allo stremo delle forze,
veniva avvertita dell’arrivo degli aerei dai vani spari della contraerea.
Napoli sotto bombardamento
Non è possibile in questa sede elencare tutte le incursioni, ma ci preme raccontare almeno gli episodi
più drammatici. Il 28 marzo 1943 in porto avvenne un incendio sulla nave da trasporto Caterina Costa,
carica di munizioni e benzina, ed in procinto di percorrere la “rotta della morte” verso la Tunisia.
Nonostante l’evidente pericolo, la nave non venne rimorchiata al largo, ma si tentò di salvare il carico
(per ordine diretto del governo del “Duce dell’Impero”, che però se ne stava a Roma…). Non si riuscì a
controllare l’incendio, la nave saltò in aria, causando l’affondamento di altre unità navali ormeggiate
nei pressi. La città fu investita da una pioggia di fuoco, lamiere roventi e schegge che arrivarono fino a
piazza Carlo III, con migliaia tra morti e feriti. Il 4 agosto 1943 Napoli fu colpita dalle “fortezze
volanti” americane da alta quota, ininterrottamente per 43 ore, causando 20.000 morti; furono rasi al
suolo ospedali, chiese, orfanotrofi, abitazioni civili, e la basilica di Santa Chiara. Dal 6 all’8 settembre
ci furono le ultime terribili incursione americane.
Le rovine di Santa Chiara
L’8 settembre fu annunciata la resa dell’Italia, distrutta e divisa in due. Le famiglie italiane
piangevano quattrocentomila morti (per due terzi figli del Sud).
Lo Sbarco a Salerno
In concomitanza con l’annuncio della resa, l’8 settembre gli Americani diedero inizio all’operazione
Avalanche, sbarcando nel Salernitano. Ciò che restava della flotta italiana, che non era stata
impegnata a difesa della Sicilia, faceva rotta su Malta per consegnarsi agli Inglesi, come previsto nella
capitolazione, subendo la perdita della corazzata “Roma” ad opera dell’aviazione tedesca.
La corazzata Roma
La forza di invasione di 170.000 uomini attuò lo sbarco lungo ben 40 chilometri di costa alle 03.30 del 9
settembre. Nel momento in cui i soldati iniziarono a prendere terra, l'aviazione tedesca diede inizio ad
una serie di attacchi aerei, provocando gravi perdite tra le file alleate. All’alba gli alleati giunsero a
Cava de' Tirreni, dove i tedeschi concentrarono i carri armati lungo le case per tenerli al riparo dal
fuoco nemico.
A contrastare lo sbarco fu l’agguerrita divisione blindata tedesca “Hermann Goering”, che il 13
settembre sferrò il contrattacco che non riuscì per il poderoso appoggio allo sbarco dato dal’artiglieria
navale e dall’aviazione alleata. Il duro risvolto si ebbe sulla popolazione civile a causa dei
bombardamenti, apocalittici per entità, terrore ed orrore. Dal giorno 15 i tedeschi iniziarono a
ripiegare, attuando la "politica della terra bruciata", ovvero la distruzione di tutto ciò che era
impossibile portar via e la cattura degli uomini da condurre nei campi di concentramento o ai lavori
forzati. Per non lasciare il porto di Napoli nelle mani degli anglo-americani, occuparono la città.
L’ordine del Fürher specifico per Napoli prescriveva un piano sistematico di distruzione, rastrellamenti
e sterminio denominato "cenere e fango".
Tuttavia i tedeschi riuscirono ad impegnare le forze terrestri anglo-americane quasi per tutto il mese
di settembre, mentre la tragedia dei bombardamenti navali coinvolse tutta la zona interessata.
Le Quattro Giornate di Napoli
Dopo tre anni di guerra fascista, Napoli, sventrata da 107 bombardamenti, s'era svuotata, abbandonata
da intere famiglie in fuga nelle campagne. Erano rimasti i rassegnati, gli indifferenti, i fascisti, e i
disperati. Furono questi ultimi a ribellarsi, a passare dalla disperazione all'esasperazione per i soprusi
nazisti, dopo l'occupazione della città.
In agosto si era formato il Comitato di Liberazione dei Partiti Antifascisti con de Ritis, Palermo, Rodinò,
Parente, Ferri e Ingangi. Benedetto Croce riuscì a raggiungere Capri, già in mani alleate, dove iniziò la
formazione del nuovo governo.
La città era senza viveri, trasporti o qualsiasi altro tipo di servizio pubblico: vi erano 80.000
disoccupati. Gli Alleati lanciavano manifestini dagli aerei invitando il popolo a ribellarsi alle truppe
germaniche. Il Comitato di Liberazione chiedeva armi, ma il comando militare [3]esitava ad armare la
popolazione: le forze armate italiane erano in completo dissolvimento, grazie all'esempio del re d'Italia
Vittorio Emanuele III di Savoia e dei suoi degni generali che avevano pensato soltanto a mettersi in
salvo.
La rabbia dei nazisti per il fallimento del servizio obbligatorio che tentavano di introdurre, venne
espressa nel manifesto del 26 settembre emanato dal comandante Scholl, che gridava al sabotaggio e
minacciava di fucilare all'istante i contravventori:
"Al decreto per il servizio obbligatorio di lavoro hanno corrisposto in quattro sezioni della città
complessivamente circa 150 persone, mentre secondo lo stato civile avrebbero dovuto presentarsi
oltre 30.000 [3000 è un errore di stampa del manifesto, ndr] persone. Da ciò risulta il sabotaggio che
viene praticato contro gli ordini delle Forze Armate Germaniche e del Ministero degli Interni Italiano.
Incominciando da domani, per mezzo di ronde militari, farò fermare gli inadempienti. Coloro che non
presentandosi sono contravvenuti agli ordini pubblicati, saranno dalle ronde senza indugio fucilati. Il
Comandante di Napoli Scholl"
Il manifesto fatto affiggere dai Tedeschi
Il giorno dopo, il 27 settembre, ebbe inizio la caccia all'uomo: le strade vennero bloccate e gli uomini,
senza limiti di età, furono caricati con la forza sui camion per essere avviati al lavoro forzato in
Germania. L'odio contro di loro e contro i fascisti che ancora gironzolavano per la città a fianco dei
soldati tedeschi saccheggiando e portando via quanto potevano, aumentava giorno per giorno. Si
ebbero delle fucilazioni di uomini e donne che si erano opposti al saccheggio delle loro case, mentre il
generale Del Tetto completava la consegna della città all'esercito tedesco e proibiva al popolo in un
suo manifesto di assembrarsi perché in tal caso sarebbe stato costretto a dare ordine di sparare sulla
folla.
A questo punto, per i napoletani non c'erano alternative: se volevano sfuggire alla deportazione
dovevano combattere contro i tedeschi e impedire che attuassero i loro piani. Cosi, senza essere né
preparata né organizzata, scoppiò l'insurrezione di Napoli, una risposta spontanea in cui erano presenti
anche i partiti antifascisti ma senza avere quella funzione di guida che avranno invece durante la lotta
partigiana. I napoletani uscirono allo scoperto nelle prime ore del 28 settembre: erano armati alla
meglio, con vecchi fucili, pistole, bombe a mano, bottiglie incendiarie che avevano subito imparato a
costruire e qualche mitragliatrice leggera nascosta nei giorni dell'armistizio. Altre armi se le
procurarono combattendo. Tutto ciò sconcertò il comando tedesco che non si attendeva questa
reazione.
L'insurrezione
Il 28 settembre 1943 Napoli insorgeva, mobilitandosi in diversi quartieri e con intensità e
partecipazione sociale e politica diversificate, in un impetuoso slancio mirato a scacciare i tedeschi da
Napoli. Da allora, si è detto e scritto di tutto sulle Quattro Giornate. A volte si è anche taciuto, e
persino negato che avessero mai avuto luogo. Eppure i fatti sono lì, ricostruibili e ricostruiti nella loro
essenzialità e nei loro antecedenti, quali, tra gli altri, il clima instauratosi dopo l’8 settembre, le
prime violenze tedesche contro i civili, gli implacabili rastrellamenti alla ricerca dei cittadini maschi
nascosti, gli arruolamenti coatti, lo sgombero forzato della fascia costiera urbana, per non dire della
fame e degli orrori della guerra voluta dal fascismo.
La scintilla scoppiò al Vomero. Erano da poco passate le nove, quando giunse la notizia che un marinaio
era stato freddato con un colpo di pistola, mentre stava bevendo alla fontanella che si trova all’angolo
di via Girardi, proprio di fronte all’Ospedale Militare. Una decina di giovanissimi sotto i vent’anni, in
piazza Vanvitelli, si precipitarono addosso ai tre tedeschi che occupavano una camionetta, li
costrinsero a scendere ed incendiarono il mezzo. I tedeschi approfittarono di questo momento per
fuggire e dare l’allarme. Giunsero soldati in massa, ma i giovani non desistettero e si rifugiarono nel
Museo di San Martino, mentre la voce della rivolta si spandeva in città. In un attimo piovvero dalle
finestre delle case suppellettili per ostruire le strade. Gli scontri tra tedeschi e gruppi di insorti armati
si accesero nel Vomero, ma anche nella zona tra Foria, il Museo e Piazza Carlo III.
La battaglia nelle strade di Napoli
Ben presto il fuoco divampa, ed una delle aree in cui maggiormente si concentra l’azione propriamente
militare riguarda il sistema viario dei collegamenti da e per Capodimonte, con punti nevralgici al
Moiarello, al Ponte della Sanità, in via Santa Teresa. Si tratta evidentemente delle postazioni forti
dello schieramento tedesco o comunque dei principali punti di disimpegno, o di fuga, o semplicemente
di sbocco dal perimetro cittadino in direzione nord. Già nella giornata seguente, mentre il contagio
insurrezionale si espande guadagnando nuovi percorsi nella città bassa e l’adesione di frange popolari e
ultrapopolari - ma anche di significativi spezzoni di borghesi e intellettuali - altri teatri d’azione si
impongono, al corso Malta, a Poggioreale, al Vasto, in via Carbonara e in via Roma in direzione della
Prefettura e di piazza del Plebiscito.
Avvengono episodi di straordinario ardimento (come al Rione Materdei o, ancora, alla Sanità) a diretto
contatto con le pattuglie tedesche o nel corso della rischiosa azione di sminamento dei tanti edifici,
fabbriche, manufatti su cui hanno lavorato i «guastatori» tedeschi. Emergano embrionali ma funzionali
strutture organizzative dell’intero moto di rivolta antitedesco, in particolare al Vomero, attorno al
Liceo Sannazaro, e al Parco Cis in via Salvator Rosa. Ancora un giorno e mezzo di scontri, e ancora
tanto sangue versato: al Bosco di Capodimonte, alla masseria del Pagliarone in via Belvedere, in piazza
Dante, alla masseria Pezzalonga nelle campagne retrostanti la via Pigna, in via Nardones; vengono
troncate, fra le altre, le giovanissime vite di Gennarino Capuozzo, Pasquale Formisano, Filippo
Illuminato, del soldato Mario Minichini, degli studenti Adolfo Pansini e Giovanni Ruggiero.
Infine, l’episodio culminante della liberazione degli ostaggi rinchiusi nel Campo sportivo del Vomero,
che prelude in pratica all’abbandono della città da parte dei tedeschi e all’entrata delle avanguardie
anglo-americane nella mattinata del 1° ottobre.
Le Quattro Giornate restano nella storia della città come uno straordinario momento di coraggio e di
unità. Esse furono il punto di arrivo e di svolta rispetto al passato e punto di partenza, rispetto a quello
che allora si configurava come futuro e che costituisce oggi il presente, quanto mai problematico.
«Le quattro giornate di Napoli costituiscono uno degli episodi più degni di ricordo della nostra storia
nazionale e uno dei pochissimi avvenimenti consolatori di questi ultimi venticinque anni» (Corrado
Barbagallo [1]). Il maturo professore di storia spiega bene, del resto, come le Quattro Giornate
rimangano incomprensibili se non si fa almeno un passo indietro, se non agli anni della dittatura, certo
al suo epilogo atteso e inglorioso, a quell’8 settembre del ’43 quando chi aveva perduto la propria
partita (fascisti e tedeschi insieme) volle, comunque, provare a forzare un esito che il popolo italiano
accolse concordemente come la fine di un lungo incubo. Se questa è la premessa, l’insurrezione
napoletana non può essere interpretata – come fece allora Croce, prigioniero del fantasma fuorviante
del 1799, e perfino Adolfo Omodeo - come l’ennesima ribellione di una città lazzarona che infierisce su
un nemico già sconfitto e ormai in fuga.
Ciò che i tedeschi avevano fatto a Napoli dopo l’8 settembre, appartiene alla brutalità cieca, tipica di
chi è consapevole della inevitabilità della propria sconfitta, e da quindi libero sfogo alla volontà
distruttiva. Se, dunque, Napoli è stata la prima grande città europea che ha sperimentato la resistenza
armata al nazismo, lo è soprattutto nel senso che qui per la prima volta il nazismo ha mostrato in quale
modo intendesse comportarsi in quella seconda parte della guerra mondiale che esso trasforma in un
calvario distruttivo, nibelungico, verso la catastrofe.
Per quattro giorni, i napoletani scelsero la lotta aperta, imbracciarono le armi, eressero barricate,
lanciarono bombe, tesero agguati, costringendo le truppe tedesche alla resa, alla fuga. Resistettero al
nemico artisti, poeti, scrittori [2]. Anche gli ufficiali dell'esercito italiano (spariti in un primo
momento) e gli antifascisti si unirono ai sollevati. Quanti presero le armi, vecchie armi italiane meno
efficienti, meno micidiali di quelle tedesche, furono dunque tanti. Le azioni di scontro in ogni
quartiere della città e soprattutto al Vomero, all’Arenella, a Capodimonte, a Ponticelli, infittite e
protratte negli ultimi quattro giorni del settembre e nella mattinata del primo ottobre, furono decisive
per affrettare l’abbandono della città da parte delle truppe tedesche proprio per la attiva solidarietà
della popolazione con quel pugno di combattenti, che si moltiplicava in ogni punto della città.
I tedeschi avrebbero voluto ridurre l’abitato a cenere e fango, avevano minato, fatto saltare in aria,
incendiato case, alberghi, battelli in mare, impianti di servizi, l’Archivio di Stato. Le distruzioni
sarebbero state infinitamente maggiori se la popolazione non fosse coralmente insorta a sostenere i
suoi studenti, i suoi operai, i suoi uomini più consapevoli nella lotta aperta. I tedeschi, all'alba del
primo ottobre, si ritirarono compiendo vili rappresaglie tra le popolazioni che incontravano sul loro
cammino.
Napoli, Via Marina a nel 1943
Quando gli alleati entrarono in città, non trovarono un nemico che fosse uno. Napoli s'era liberata da sola. Nel
dopoguerra, oltre alla medaglia d’oro alla città di Napoli, furono conferire agli insorti 4 medaglie d’oro alla
memoria, 6 d’argento e 3 di bronzo. Le medaglie d'oro furono assegnate ai quattro scugnizzi morti: Gennaro
Capuozzo (12 anni), Filippo Illuminati (13 anni), Pasquale Formisano (17 anni) e Mario Menechini (18 anni).
Medaglie d’argento alla memoria di Giuseppe Maenza e di Giacomo Lettieri; medaglie d’argento ai comandanti
partigiani Antonino Tarsia, Stefano Fadda, Ezio Murolo, Giuseppe Sances; medaglie di bronzo a Maddalena
Cerasuolo, Domenico Scognamiglio e Ciro Vasaturo.
Questo il bollettino delle 4 giornate: oltre 2.000 combattenti, 168 furono i napoletani caduti in combattimento, 162 i
feriti, 140 le vittime tra i civili, 19 i morti non identificati, 162 i feriti, 75 gli invalidi permanenti.
La motivazione della medaglia d'oro al valore militare conferita alla città di Napoli fu la seguente:
“CON UN SUPERBO SLANCIO PATRIOTTICO SAPEVA RITROVARE, IN MEZZO AL LUTTO E ALLE
ROVINE, LA FORZA PER CACCIARE DAL SUOLO PARTENOPEO LE SOLDATESCHE GERMANICHE
SFIDANDONE LA FEROCE DISUMANA RAPPRESAGLIA.
IMPEGNATA UN'IMPARI LOTTA COL SECOLARE NEMICO OFFRIVA ALLA PATRIA NELLE QUATTRO
GIORNATE DI FINE SETTEMBRE 1943, NUMEROSI ELETTI FIGLI.
COL SUO GLORIOSO ESEMPIO ADDITAVA A TUTTI GLI ITALIANI LA VIA VERSO LA LIBERTÀ, LA
GIUSTIZIA, LA SALVEZZA DELLA PATRIA”.
Fara Misuraca e Alfonso Grasso
aprile 2008
Note
[1] Cfr. Censimento del 1936, Annuario Istat.
[2] Era uno spiazzo antistante la discesa nel ricovero, dove di solito la gente si radunava nell’attesa di
verificare che non si trattasse di un falso allarme
[3] Ciò che restava del presidio italiano era affidato al generale Del Tetto che provvide a diffondere un
manifesto con cui si proibivano gli assembramenti.
[4] Chi a caldo (siamo nel dicembre del ’43) scrive queste righe non è un giovane protagonista ancora
suggestionato dalla esaltante novità di quelle giornate, ma un professore universitario quasi
settantenne, Corrado Barbagallo. Nei suoi scritti, si ritrova la geografia urbana di quelle ore, i luoghi
dove l’insurrezione scoppiò, le strade dove i combattimenti furono più accaniti e non si faticherà a
capire da questa toponomastica che fu l’intera città ad esplodere sotto il peso di un dominio che
proprio nella sua agonia mostrava il suo volto più inutilmente feroce.
[5] Fu ferito anche Sergio Bruni, che diventerà uno dei maggiori interpreti di tutti i tempi della
canzone napoletana.
Bibliografia

Casarubbea Giuseppe, Storia segreta della Sicilia. Dallo Sbarco Alleato a Portella della
Ginestra. Ed. Bompiani, 2005

Costanzo Ezio, Breve storia dello sbarco alleato, ed. Le nove muse, 2007

Di Mattero Salvo, Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2007

Eisenhower D.D., Crociata in Europa, Milano, 1949

Lupo Salvatore, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Roma, Donzelli 1993

Mack Smith Denis, Storia della Sicilia Medievale e Moderna, Bari, Laterza

Renda Francesco, Storia della Sicilia, Sellerio, 2003

D’Agostino Guido e Mascilli Migliorini Luigi, Il Mattino, 27.09.04

Gleijeses Vittorio, La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977

Barbagallo Corrado, Napoli contro il terrore nazista, Casa editrice Maone, Napoli, 1944