Søren Kierkegaard - Liceo Tito Livio

Una vita da «testimone della verità»
Copyright © 2013 Stefano Martini
La biografia
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 Søren Kierkegaard nacque a
Copenaghen il 5 maggio 1813,
“figlio della vecchiaia”, da un
agiato commerciante di 56
anni, Michael Pedersen, che
dalla domestica di casa, Anne
Sørensdatter Lund, sposata
in seconde nozze, aveva avuto
sette figli, quasi tutti destinati
a morire in giovane età.
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 Søren, l’ultimo nato,
venne educato dal padre,
ormai anziano,
appartenente alla setta
dei Fratelli Moravi, ad
una severa religiosità, che
avrebbe segnato
profondamente l’animo
del fanciullo e del
giovane, destinandolo a
una malinconia, che si
sarebbe andata
accentuando nel tempo.
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 Per accondiscendere la volontà paterna, Søren
si iscrisse alla facoltà di teologia all’università
di Copenaghen, dove fra i giovani teologi
dominava l’ispirazione hegeliana. Tuttavia,
egli seguì con scarso entusiasmo tali studi,
attratto dalla poesia, dalla filosofia e dagli
ambienti mondani della città, che frequentò
con l’atteggiamento dissipato del giovane
dandy, amante dell’eleganza e dei raffinati
piaceri della vita.
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 Solo dopo la morte del padre sentì il bisogno di riprendere gli
studi, che concluse con la discussione, nel 1840, di una tesi
Sul concetto di ironia con particolare riferimento a Socrate,
che sarebbe stata pubblicata l’anno successivo.
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 Non intraprese, però, la
carriera di pastore, alla quale
la sua laurea lo abilitava. Nel
1841-1842 fu a Berlino e
ascoltò le lezioni di
Friedrich W.J. Schelling,
che vi insegnava la sua
filosofia positiva. Dapprima
entusiasta, Kierkegaard ne
rimase presto deluso.
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 Dopo di allora, egli visse a
Copenaghen, assorto nella
composizione dei suoi
libri, con un capitale
lasciatogli dal padre.
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 Il rapporto con il padre e il
fidanzamento con Regina Olsen, e la
sua drammatica rottura, furono le
principali vicende della sua vita privata.
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 L’attacco del giornale satirico-umoristico, “Il Corsaro”
(«Corsaren», diretto da Meïr Aron Goldschmidt), di
cui si dolse e crucciò come di una persecuzione,
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 e la polemica, che occupò gli
ultimi anni della sua vita, 1)
contro l’opportunismo
religioso, impersonato nel
teologo e vescovo luterano,
Jacob Peter Mynster,
autorevole esponente della
chiesa danese, e 2) contro
l’ambiente teologico
hegeliano di Copenaghen,
specialmente nella figura del
docente e vescovo Hans
Lassen Martensen,
successore di Mynster,
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 che raggiunse l’espressione più
acuta nei violenti articoli da
Kierkegaard pubblicati sulla
propria rivista “Il Momento”
(«Øieblikket») nel 1855 (con
essi egli si staccò
definitivamente dalla Chiesa
ufficiale), furono, invece, gli
avvenimenti principali della
sua vita pubblica.
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 Il senso di colpa e il rimorso, che
alimentavano la religiosità del padre,
trovarono la spiegazione nella
drammatica scoperta che il figlio fece
di un misterioso peccato paterno, di
cui egli parla nel suo Diario come di
un “gran terremoto” che sconvolse per
sempre il suo animo, al punto da
costringerlo a mutare il suo
atteggiamento di fronte al mondo.
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 Egli accenna soltanto vagamente
alla causa di questo
rivolgimento: «Qualche colpa
doveva gravare sulla famiglia
intera, un castigo di Dio vi
pendeva sopra: essa doveva
scomparire, rasa al suolo dalla
divina onnipotenza, cancellata
come un tentativo fallito».
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 Per quanto i biografi si siano
affaticati inutilmente a
determinarla, è chiaro che essa
rimane, dinanzi agli occhi di
Kierkegaard, come una minaccia
vaga e terribile insieme. Quel che
importa è il sentimento di sgomento
e di morte vissuto dall’autore, un
tormento che viene però anche
interpretato da lui come segno di
“eccezionalità”, di un destino a una
vita spirituale superiore.
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 Kierkegaard parla, poi, nel Diario, e
ne parlò anche sul letto di morte, di
una “scheggia nelle carni”, che è
destinato a portare. Anche qui, di
fronte alla mancanza di ogni dato
preciso, sta il carattere grave e
paralizzante della cosa. Forse, fu
appunto questa ‘spina nella carne’ a
impedirgli di condurre in porto il
suo fidanzamento con Regina.
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 È una diversa “chiamata” a sbarrargli
la strada del matrimonio: la
consapevolezza dell’impossibilità di
poter conciliare vocazione religiosa e
vita nel mondo. Come Dio ha chiesto
ad Abramo di sacrificargli il figlio,
così ora a lui chiede di rinunciare a
Regina e a una vita di felicità, e di
“dargli la precedenza”.
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 Tuttavia, egli non intraprese
neppure la carriera di pastore né
nessun’altra; e di fronte alla sua
stessa attività di scrittore dichiarò di
porsi in un “rapporto poetico”, cioè
in una relazione di distacco e di
lontananza: distanza accentuata dal
fatto che egli pubblicò i suoi libri
sotto pseudonimi diversi, quasi a
impedire ogni riferimento del loro
contenuto alla sua persona.
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 Ecco alcuni degli pseudonimi
utilizzati da Kierkegaard: Victor
Heremita, Johannes de Silentio,
Constantin Constantius, Inter et
Inter, Anti-Climacus, Johannes
Climacus, Vigilius Haufniensis,
Hilarius il Rilegatore, H.H.
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 Come detto, la produzione
letteraria assorbì l’intera vita di
Kierkegaard. Grazie al patrimonio
lasciatogli dal padre, egli poté
vivere con una certa autonomia;
ebbe di quando in quando delle
serie preoccupazioni per
l’avvenire, ma alcuni felici
accorgimenti e la stessa
pubblicazione delle opere lo
soccorsero notevolmente.
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 Quando cadde svenuto sulla via e fu ricoverato al
Friedriks Hospital, tornava dalla banca dove aveva
ritirato l’ultimo resto del suo deposito, che sarebbe stato lo
“stretto necessario” per la degenza all’ospedale e per la
sepoltura, com’egli stesso confessò all’amico Emil Boesen
(1812-1881) sul letto di morte.
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 Da una recente ricerca basata su
documenti dell’ospedale in cui il
filosofo visse i suoi ultimi 41
giorni, è stata avanzata l'idea che
Kierkegaard soffrisse di paralisi
spinale progressiva. Fu sepolto
nella tomba di famiglia nella
città di Copenaghen.
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 L’ultima malattia fu degno epilogo della vita, nel possesso
di una pace dell’anima che invano cercò per tutta la vita: la
fortezza del suo spirito ricorda un modello greco riportato
in clima cristiano.
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 Morì il giorno 11 novembre 1855, di
domenica. O, piuttosto, si lasciò
morire, perché a detta dei medici
(e di lui stesso), sarebbe bastato
che avesse voluto e la vita l’avrebbe
ancora sorretto. I funerali,
avvenuti la domenica seguente,
furono un trionfo tanto inatteso
quanto spontaneo.
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 I pochi contrasti da parte di
qualche pastore furono repressi
dal fervore del popolo. Nel
distacco della morte, spente le
animosità dei mediocri e degli
interessati, la sua opera cominciò
la sua missione nel mondo.
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 Dopo la tesi Sul concetto di ironia, le opere più importanti
sono: Aut-Aut (1843), Timore e tremore (1843), La ripresa
(1843), Briciole di filosofia (1844), Il concetto dell’angoscia
(1844), Stadi sul cammino della vita (1845), Postilla conclusiva
non scientifica (1846), La malattia mortale (1849), Esercizio
del Cristianesimo (1850). Oltre ai Discorsi edificanti
(pubblicati con il suo nome), di fondamentale valore
psicologico e speculativo è il Diario (postumo), che va dal
1843 sino all’anno della morte.
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Il pensiero
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 La filosofia di Kierkegaard si
segnala per l’attenzione rivolta
all’esistenza, al Singolo: in una
netta contrapposizione allo
spirito di sistema dello
hegelismo, il filosofo danese
intende sottolineare la
irriducibilità dell’esistenza del
Singolo a un Assoluto che si
presume spieghi tutto e risolva
ogni contraddizione.
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 Per il Singolo, nell’orizzonte
dell’esistenza concreta che ha
sempre di fronte la morte, le
contraddizioni restano insolute
e si impongono spesso come
scelte drammatiche.
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 Alla categoria della necessità si
sostituisce quella della
possibilità, alla totalità il
singolo, alla sintesi rassicurante
l’aut-aut impegnativo.
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 Dal punto di vista del Singolo,
l’esistenza diviene un insieme di
possibilità, senza il punto di
riferimento della verità costituita dal
sistema; quella è caratterizzata da
scelte ognuna delle quali la
determina in modo irreversibile e
deve venir compiuta, senza poter
essere fondata razionalmente, da una
libertà che produce angoscia,
perché l’uomo deve scegliere, ma
non può conoscere le conseguenze
delle proprie scelte, né fondarle su
criteri di qualsiasi tipo.
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distinto
 Categorie di Kierkegaard:
SINGOLO
originale
irriducibile
irripetibile
dimensione: futuro
POSSIBILITÀ
SCELTA
unico
solo
LIBERTÀ
ANGOSCIA
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 L’Angoscia.
 L’angoscia, che è la categoria
per eccellenza (è anche la più
gravosa) e in sé compendia tutte
le altre, è tematizzata in
particolare nell’opera Il concetto
dell’angoscia. Essa è la
condizione generata nell’uomo
dal possibile che lo costituisce
ed è strettamente connessa con
il peccato, anzi è a fondamento
dello stesso peccato originale.
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 L’Angoscia.
 L’innocenza di Adamo è ignoranza; ma è
ignoranza che contiene un elemento che
determinerà la caduta. Questo elemento
non è che un niente, ma proprio tale
niente genera l’angoscia. Il concetto
dell’angoscia «è completamente diverso da
quello della paura e da simili concetti che
si riferiscono a qualcosa di determinato,
mentre invece l’angoscia è la realtà della
libertà, come possibilità per la libertà».
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 L’Angoscia.
 «Il divieto divino rende inquieto Adamo, perché sveglia in lui la
possibilità della libertà. Ciò che si offriva all’innocenza come il
niente dell’angoscia è ora entrato in lui, e qui ancora resta un
niente: l’angosciante possibilità di potere. Quanto a ciò che può,
egli non ne ha nessuna idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò
che ne segue, cioè la differenza tra il bene e il male».
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 L’Angoscia.
 L’individuo si scopre
persona solo nel peccato,
il quale, mentre fonda la
pienezza della sua
singolarità, lo pone, per
virtù dialettica, di fronte a
Dio, all’infinitamente
Santo. Di qui nasce
l’angoscia.
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 L’Angoscia.
 Poiché il Singolo è libertà e possibilità, esposto ad ogni
istante al rischio della scelta, di fronte all’alternativa di essere
solo con se stesso o solo con Dio, l’angoscia è la “possibilità
della libertà”, la “vertigine della libertà”, la “infinità autonoma
della possibilità”, il “senso di disorientamento totale”,
un’“indefinita inquietudine”.
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 L’Angoscia.
 «Con l’angoscia il peccato venne
al mondo, ma il peccato, da parte
sua, generò l’angoscia».
 «Imparare a sentire l’angoscia è
un’avventura, attraverso la quale
deve passare ogni uomo, affinché
non vada in perdizione».
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 La Disperazione.
 Se l’angoscia è la condizione in
cui l’uomo è posto dal possibile
che si riferisce al mondo, la
disperazione è la condizione
in cui l’uomo è posto dal
possibile che si riferisce alla sua
stessa interiorità, al suo io. Essa
è tematizzata in particolare
nell’opera La malattia mortale.
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 La Disperazione.
 Essa è malattia mortale, non perché
conduca alla morte dell’io, ma perché
è il vivere la morte dell’io: è “un eterno
morire senza tuttavia morire”, è
“un’autodistruzione impotente”. Essa
è il tentativo impossibile di negare la
possibilità dell’io o rendendolo
autosufficiente o distruggendolo nella
sua natura concreta.
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 La Disperazione.
 Le due forme di disperazione
si richiamano a vicenda e si
identificano: disperare di sé
nel senso di volersi disfare di
sé significa voler essere l’io
che non si è veramente; voler
essere se stesso ad ogni costo
significa ancora voler essere
l’io che non si è veramente,
un io autosufficiente e
compiuto. Nell’uno e
nell’altro caso la disperazione
è l’impossibilità del tentativo.
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 La Disperazione.
 La scaturigine della
disperazione sta nel non volersi
accettare dalle mani di Dio; ma
negando Dio, si annienta se
stessi; e separarsi da Dio
equivale ad allontanarsi da
«quell’unico pozzo da cui si
può attingere acqua». Pertanto,
se la radice della disperazione è
questa, è chiaro che l’esistenza
autentica è quella di colui che
non crede più a se stesso ma
solo a Dio.
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 La Fede.
 La fede è l’antidoto contro la
disperazione, in quanto ne è la
eliminazione: essa è la
condizione in cui l’uomo, pur
orientandosi verso se stesso e
volendo esser se stesso, non si
illude sulla sua autosufficienza,
ma riconosce la sua dipendenza
da Dio. La fede sostituisce alla
disperazione la speranza in Dio.
Tuttavia, essa è assurdità,
paradosso e scandalo.
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 Ciò che caratterizza l’esistenza, nella sua singolarità
accidentale e irripetibile, è l’assenza di ogni necessità: per
l’uomo l’esistenza è il campo del possibile e della scelta. Nulla
è garantito in essa da ragioni necessarie: l’uomo, decaduto
dall’Eden dell’innocenza, porta su di sé il peso della
responsabilità e della scelta. Non più dialettica astratta
dell’et-et (che non riesce a dar ragione del Singolo, la cui
esistenza non è riconducibile a una serie di conciliazioni), ma
dialettica concreta dell’aut-aut (in cui l’esistenza è espressa da
contraddizioni reali). Il Singolo nel sistema hegeliano è un
accidentalità irrilevante, ma questa è la concreta dimensione
della vita reale di ogni singolo uomo.
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 Per Kierkegaard la verità non è oggettiva (come nella
speculazione hegeliana), ma soggettiva nel senso che in
essa ne va del soggetto, in quanto è decisiva per lui e
per la sua salvezza.
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 Caratteri della oggettività:
Astrattezza (la verità è un oggetto tra gli altri)
Disinteresse (la verità non tocca il soggetto)
Indifferenza (una verità oggettiva vale l’altra)
Certezza (la verità oggettiva è inconfutabile, ma vuota)
Linearità (una dialettica conciliativa del tipo: et … et)
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 Caratteri della soggettività:
Concretezza (non abbandona il terreno dell’esistenza)
Interesse (la verità è per il soggetto)
Passione (ne va dell’esistenza del soggetto)
Incertezza (un rischio, nessuna garanzia per il soggetto)
Biforcazione (una dialettica esclusiva del tipo: aut … aut)
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 Caratteri della verità:
Paradosso e assurdo.
La verità eterna è divenuta nel tempo,
l’essere si è rapportato all’esistenza.
Il paradosso assoluto è la verità del Cristianesimo:
il Dio-uomo.
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 Gli Pseudonimi in Kierkegaard:
da un lato, essi stanno ad indicare il suo rifiuto di presentarsi
come “pensatore ufficiale”, il desiderio di non apparire
“dottore”, ma semmai “testimone della verità”;
dall’altro, il suo desiderio di esprimere le molteplici
possibilità che egli percepiva compresenti nella sua
personalità e l’adesione a un criterio di “comunicazione
indiretta” della verità, attraverso la “testimonianza”, appunto,
e non la “dimostrazione”.
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 Il Singolo si trova davanti a
tre alternative principali,
cioè a tre modelli
esistenziali inconciliabili
(potremmo dire: tre
momenti della dialettica
esistenziale):
 lo stadio estetico;
 lo stadio etico;
 lo stadio religioso.
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 Le tre sfere dell’esistenza sono
esclusive l’una dell’altra, e perciò il
passaggio dall’una all’altra impegna il
Singolo con un atto libero di scelta,
che può essere soltanto suo: più che
un passaggio dialettico, è un salto, la
cui origine prima si perde nel mistero
della persona.
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 Lo stadio estetico è una vita
di piacere e di gioia: è la vita
del dilettante, che si rifiuta di
impegnarsi in un compito
definito e non vuole
affrontare il rischio della
scelta; dell’esteta, che si
compiace delle belle
parvenze e coltiva i piaceri
raffinati dell’arte; del
seduttore, che al celibato
chiede la garanzia di una
libertà irresponsabile.
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 Il Don Giovanni di
Mozart ne è la
rappresentazione
letteraria e musicale più
perfetta. L’esteta vive in
un presente che non si
protende verso il
futuro, ma si esaurisce
in se stesso; gode
dell’attimo; pertanto, si
può dire che egli, in
quanto non si sceglie e
non si impegna,
nemmeno esista.
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 Lo stadio etico è la vita dedicata al
dovere. Qui l’individuo ha scelto il
suo posto nella “generalità”, si è
sposato, si è formato una famiglia,
ha assunto delle responsabilità di
marito, di cittadino, di
professionista. La figura
caratteristica di questo tipo di vita è
l’assessore Guglielmo, il quale è
essenzialmente un marito fedele, un
professionista onesto e laborioso, un
funzionario esemplare.
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 Assumendo come proprie le
obbligazioni comuni,
inserendosi nella società, l’uomo
etico si sceglie ed esiste in modo
autentico: nella rettitudine della
sua condotta egli trova la
ricompensa della pace interiore.
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 L’etica di Kant, che si
fonda sull’oggettività di
un imperativo categorico
e pone l’universalità come
criterio formale delle
azioni buone, è, di
codesta sfera, la
teorizzazione filosofica
più perfetta.
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 La sfera religiosa è lo stadio
estremo, in cui il Singolo esiste
nel suo grado più alto, poiché
la fede lo pone, solo e
peccatore, davanti a Dio. Egli
ha rinunciato a qualsiasi scopo
relativo e finito di cui
riconosce la radicale
contingenza, ha rotto ogni
vincolo con le attrattive della
bellezza e dell’arte, con i doveri
della vita associata, per
affrontare il rischio supremo in
faccia all’Assoluto.
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 La figura di Abramo
è l’incarnazione
perfetta della sfera
religiosa. Abramo ama
il figlio Isacco con
tutta l’anima sua, e
appunto perché lo
ama, egli vuole
sacrificarlo a Dio, che
glielo chiede: se non lo
amasse, il suo atto non
sarebbe un sacrificio; perciò il suo amore per Dio è
tale veramente per la sua opposizione paradossale
all’amore per il figlio.
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 Il suo gesto, visto dall’esterno, dentro la sfera etica del
“generale”, appare come l’atto di un assassino; intuito
dall’intimo, nella passione religiosa di Abramo, esso è il
momento culminante della sua esistenza di Singolo.
 Ma Abramo non può
farsi comprendere,
parlando con parole
umane, dalla
“generalità”. Il suo gesto
si consuma
nell’interiorità e nel
silenzio: con esso egli
non è e non può essere
un maestro, ma solo un
testimone.
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 Come si è detto, tra le tre sfere non
esiste continuità dialettica progressiva,
non c’è mediazione logica: il passaggio
dall’una all’altra si compie con un salto,
che è opera della scelta, della
conversione del cuore. Con esso il
Singolo nega la sfera precedente e, con
una iniziativa assoluta che è privilegio
della sua libertà, rompe
improvvisamente con il passato e
s’impegna in un’esistenza nuova. La sua
libertà è autotrascendimento, e l’atto
che essa compie è imprevedibile e
logicamente ingiustificabile.
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 E tuttavia, se non c’è
mediazione fra le sfere
esistenziali, sussiste
nell’intimo di ciascuna di
esse una preparazione, un
presentimento della
successiva, che però non
dispensa il Singolo dall’atto
libero della scelta.
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 Nella sfera estetica, che non è
moralità, la sfera etica è in
qualche modo presente in
incognito sotto la forma
dell’ironia. Per l’ironia, che si
insinua nel mondo frivolo e
dilettantistico dei suoi piaceri,
l’esteta-seduttore avverte la
vanità e la insufficienza dei suoi
godimenti sino al punto da
provarne disgusto.
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 La vita estetica rivela, così, la sua
insufficienza e la sua miseria nella
noia. Ma non è detto che la
disperazione, alla quale l’ironia
può condurre l’esteta, lo converta
necessariamente a una vita
migliore: egli può anche
compiacersi della sua
disperazione, e così si perde,
perché non ha saputo e voluto
comprendere, attraverso l’ironia, il
richiamo della sfera superiore.
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 Nella sfera etica la sfera religiosa è
presente in incognito sotto forma di
umore (humor): per esso il Singolo
intuisce che in certi casi la morale
non può essere decisiva e che ci sono
circostanze in cui il dovere non è
precisabile, o non implica una forma
“ragionevole”. L’umore finisce così
per inquietare il Singolo e offuscare
quel senso di sicurezza e di pace, che
egli trova nel compimento dei suoi
doveri quotidiani.
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 Anche in questo caso, il Singolo
può non comprendere il senso
della sua inquietudine e, invece di
compiere il salto nell’assurdo,
rinchiudersi ancor più nella sfera
etica; e anche questa volta egli con
la sua scelta si perde.
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 È il senso di una colpa irrimediabile,
cioè di un peccato commesso contro
Dio e perciò non emendabile con
mezzi puramente umani, ciò che rivela
a Kierkegaard l’insufficienza della vita
etica. L’unica via per riscattarsi dal
peccato è il pentimento, cioè il
riconoscimento della propria miseria,
della propria impotenza, e
l’abbandono fiducioso a Dio come
una possibile fonte di salvezza.
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 Il pentimento è, dunque, l’ultima
parola della scelta etica, quella per cui
questa scelta appare insufficiente e
trapassa nel dominio religioso: «Il
pentimento dell’individuo coinvolge se
stesso, la famiglia, il genere umano,
finché egli si ritrova in Dio. Solo a
questa condizione egli può scegliere se
stesso e questa è la sola condizione che
egli vuole perché solo così può scegliere
se stesso in senso assoluto».
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 Ecco prospettarsi, allora,
la possibilità di un terzo
tipo di vita, la vita
religiosa, che – se scelta
liberamente – può
diventare il terzo stadio
nel cammino della vita.
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 Questa vita è descritta da Kierkegaard
nell’opera Timore e tremore, che, come
appare già dal titolo, descrive la religione
non come una condizione di tranquillità e
di ossequio alle istituzioni, quale era per
lui la religione praticata dalla Chiesa
luterana ufficiale (il vescovo Mynster),
bensì come una situazione in cui l’uomo si
trova solo di fronte a Dio e decide di
abbandonarsi completamente a Lui, con
un atto di fede che non è la conseguenza
di un ragionamento, ma un “salto”, cioè
una decisione pura, immotivata,
totalmente libera.
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 La religione, nella quale soltanto
si deve conchiudere la dialettica
esistenziale, non è nemmeno la
religione naturale e razionale
(quella che Kierkegaard chiama
“religiosità A”), teorizzata e
celebrata da illuministi e deisti:
questa non riesce a vincere la
angoscia e il peccato, ma tutt’al
più a suscitare il pentimento del
peccato e l’aspirazione al Perfetto.
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 La salvezza si ottiene soltanto
nella Fede cristiana (la
“religiosità B”), il cui oggetto è il
“paradosso essenziale”, cioè il
Cristo, la Persona dell’UomoDio, che è “divenuto” nel tempo
ed è apparso sotto la forma
dell’“uomo comune”, per poter
essere “modello” di ogni uomo.
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 Kierkegaard prende posizione nei
confronti di Lessing, che contro il
“paradosso” dell’Incarnazione
aveva affermato che “verità
storiche non possono mai
diventare una prova per verità
eterne e che il passaggio, con cui si
vuol costruire una verità eterna
sopra un fatto storico, è un salto”,
che egli non si sentì di compiere.
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 Per Kierkegaard l’essenza del
Cristianesimo è proprio
nell’affermazione di questa
situazione paradossale: Cristo è
persona in quanto si è incarnato, per
un atto di libera decisione divina, in
un certo tempo e in un certo luogo,
cioè nella storia; l’uomo è persona in
quanto accetta nel tempo, con un
atto libero di scelta, il Verbo
incarnato come modello da imitare;
Dio si è “impegnato” a salvare
l’uomo; l’uomo, il Singolo, si deve
impegnare a salvarsi credendo nel
paradosso essenziale.
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75
 Così il Singolo, concepito come possibilità, si trova davanti
a un bivio fondamentale: da un lato Dio, l’Infinito, il
Verbo incarnato, il “paradosso”, l’Assurdo; dall’altro la
famiglia, la società, il Popolo, lo Stato, l’eticità comune; da
un lato la salvezza, dall’altro la perdizione. Aut-aut. C’è un
Assoluto che non costringe ma invita e chiama, e non ha
senso la sua accettazione se non è atto di una libera scelta:
si può non sceglierlo (e anche questa è una scelta!), ma chi
non vuole sceglierlo è perduto.
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Le caricature
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Le fonti
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 N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e Testi della Filosofia, volume C,
Paravia, Torino 1999;
 E. Berti, F. Volpi, Storia della filosofia. Ottocento e Novecento, 3, Laterza, Roma-
Bari 1991;
 Enciclopedia Garzanti di Filosofia e Logica, ecc., Garzanti, Milano 1993;
 C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, Il problema della fede, Antologia delle
opere, a cura di C. Fabro, La Scuola, Brescia 1986;
 G. Faggin, Storia della filosofia, 3, Principato, Milano 19836;
 S. Tassinari, Storia della filosofia occidentale, 3*, Bulgarini, Firenze 1994;
 L. Tornatore, G. Polizzi, E. Ruffaldi, Filosofia. Testi e argomenti. Ottocento, 3.1,
Loescher, Torino 1996.
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