Consiglio Superiore della Magistratura Convegno “I primi 50 anni delle donne in magistratura: quali prospettive per il futuro” “La violenza di genere nella società attuale” 4 Luglio 2013 Sala Conferenze Consiglio Superiore della Magistratura Roma Il contributo delle donne al governo autonomo della magistratura L'antico tema della questione di genere si ripropone con forza nell'attualità in tutte le categorie e classi sociali perchè è un tema connesso alla natura dell'uomo e alla sua storia. Certo, i tempi si sono evoluti e apparentemente, ma solo apparentemente, la questione ha avuto una sua trattazione e dignità, grazie ai movimenti culturali che si sono affermati nel tempo. Tuttavia esso e' ben lontano dalla sua soluzione. Nel convegno di oggi affrontiamo il tema delle donne magistrato e del loro contributo al governo autonomo della magistratura. E' bene partire dal dato storico della legge 9 febbraio 1963 n.66 che consentì 50 anni fa alle donne di accedere a funzioni pubbliche di vertice, tra cui la magistratura. E’ interessante a questo proposito ricordare, proprio oggi che la celebriamo, che tale legge venne giustificata, al momento della sua approvazione, non già con il dovere di rimuovere una limitazione fondata solo sull’antica e odiosa levitas animi, ma con la necessità di meglio smaltire il carico di lavoro degli uffici giudiziari. L'ostacolo formale che impediva alle donne di partecipare a concorsi pubblici per l'assunzione di una funzione di responsabilita' non fu dunque il frutto di una scelta di parificazione. Occorre adesso chiedersi che cosa sia accaduto in Italia dopo. Il dato esteriore è che tante donne, nel tempo, hanno partecipato con successo al concorso in magistratura, in un trend progressivamente crescente, che ha portato oggi ad un livello di parità numerica le loro presenze rispetto a quelle degli uomini. E tanti passi in avanti si sono compiuti per riconoscere alle donne magistrato strumenti di effettiva parificazione per assicurare loro la progressiva, migliore conciliazione della vita familiare con quella lavorativa. E’ vero infatti che dall’evoluzione della società è derivata la sempre migliore condivisione dei carichi di accudimento anche da parte degli uomini, ma è anche vero che la questione riguarda, con netta prevalenza, le donne, e dunque anche le donne magistrato, per l’onere del carico familiare che la società loro assegna e che esse si portano dentro, in silenzio, ovunque si trovino. Permangono tuttavia varie difficoltà, che ancora oggi rendono attuale la questione di genere in magistratura e impongono di guardare avanti e di impegnarsi ulteriormente su questo fronte. Certamente le caratteristiche della funzione giurisdizionale consentono alle donne di organizzare il lavoro in modo da poter conciliare gli oneri di accudimento con il munus publicum, più che in altri settori. Secondo la mia esperienza, penso che le donne magistrato non partecipano ancora pienamente al governo autonomo della magistratura, perchè non sono in grado di assumere la quota aggiuntiva di oneri che ciò comporta rispetto all’assolvimento della funzione giurisdizionale. Partecipare al governo autonomo significa infatti impegnarsi in maniera addizionale rispetto all’essere giudice. I momenti in cui si esprime tale partecipazione, è bene precisarlo, consistono nel far parte dei Consigli Giudiziari, del Consiglio Superiore della Magistratura, nel contribuire alla formazione dei magistrati, nell'assumere compiti direzionali di natura organizzativa. Le statistiche ci dimostrano invece come, nonostante la loro professionalità, alla presenza numerica delle donne in magistratura non corrisponda affatto un’adeguata quota di rappresentativita' negli organismi di governo autonomo, soprattutto là dove si richiede un impegno esterno. Mi sembra emblematica l'attuale situazione del CSM, che vede solo due componenti donne su 27 membri. Si potrebbe obiettare che ciò accade perchè le donne magistrato non sono adeguatamente preparate per affrontare questi oneri, ma non è così. Nessun dubbio esiste infatti sulla loro professionalità. A questo proposito, sono illuminanti le statistiche sulle valutazioni di professionalita' delle donne magistrato, che dimostrano come con un trend costantemente basso nel tempo, tanto più basso di quello degli uomini magistrato, le donne hanno riportato giudizi non positivi o negativi: nel 2013 un'unica donna ha riportato la valutazione negativa, contro 5 uomini. Solo 4 donne, poi, hanno avuto una valutazione non positiva, a fronte di 7 uomini. Per i procedimenti disciplinari, il dato si conferma nella sua regolarità: nel 2012, 37 uomini sono stati sottoposti a procedimento disciplinare contro 16 donne. I numeri dimostrano dunque un dato indefettibile, rispetto al quale occorre orientarsi per realizzare a pieno il salto di qualità di cui ho detto prima: se una donna riesce infatti a coniugare gli oneri di accudimento di cui è per definizione gravata con una professionalità che la porta ad avere meno giudizi non positivi e negativi e meno procedimenti disciplinari, in teoria dovrebbe essere automatico riconoscerle una maggiore capacità professionale intrinseca e ad essa connaturata. Valutando quindi comparativamente la sua prestazione rispetto a quella di un collega, che non si trova nelle sue condizioni soggettive, penso che si dovrebbe avere il coraggio di partire dal dato che essa non ha operato in parità di situazioni esterne con lo stesso collega e che quindi ha dimostrato di saper fare di più, pur avendo resa identica prestazione. La questione di genere in magistratura non è dunque, soltanto, un’esigenza di giustizia, ma anche una componente di funzionament e risorsa del sistema. Le donne magistrato aono brave e dotate di una eccellente professionalità caratterizzata anche dalla sua capacità di attenzionare più fonti contemporaneamente e curare più obiettivi, perchè per loro, il fattore “tempo” non è neutro. Ma questa non è sintomo di capacità organizzativa che il Consiglio cerca nelle nomine dei direttivi e dei semidirettivi? E perchè, allora, i numeri non riflettono tutto questo? Resta certamente fermo il dato della crescita partecipativa degli uomini magistrato nella gestione familiare, e questo ha correttamente giustificato l’estensione di alcuni acccorgimenti organizzativi anche a tutela della paternità. Il vero snodo è dunque oggi la condivisione culturale dell'onere familiare dell'accudimento come valore sociale e patrimonio di tutti, anche delle istituzioni. Ovviamente, le chiusure del sistema sono giustificate con la necessità di un’uguaglianza totale e assoluta. In questo modello culturale, che certamente non brilla per spirito di solidarietà sociale, si colloca la ritrosia, per non dire la vergogna, della donna magistrato di rappresentare le difficoltà che vive, temendo la deminutio della propria professionalita', consapevole dell'ostilita' che le deriva se chiede l'applicazione di una regola che deroga all'uguaglianza quantitativa della prestazione, anche se solo per un determinato periodo di tempo. Voglio ricordare la prima delibera con la quale ho fatto i conti da quando sono Componente del Consiglio: il caso nasceva dal quesito di una donna magistrato che aveva tre figli piccoli ( il piu' grande aveva otto anni ed era stata nominata componente della commissione avvocati, secondo la regola automatica del turno. Il Consiglio, purtroppo dopo molti mesi e mentre la collega continuava ad assolvere tale incarico, ha risposto in modo a lei favorevole, disponendo che il capo dell'ufficio cercasse un altro magistrato senza tali problemi e con l’accorgimento, semplicemente, di farle saltare il turno, rimandando per lei ad un'occasione successiva tale onere. Il dirigente dell'Ufficio non vi ha tuttavia ottemperato e la collega ha ultimato, tra mille sacrifici, il suo incarico, ne' si e' piu' rivolta al CSM per ottenere la tutela dell'esecuzione della decisione a suo favore. Questo è lo stato delle cose. La vicenda mi sembra emblematica per dire in che modo occorre muoversi, perchè svela la criticità di un sistema che deve ancora essere messo a punto per realizzare pienamente la parità di genere e le sue ricadute sulla partecipazione al governo autonomo della magistratura. In altre parole, se la donna magistrato non è posta il più possibile in condizioni di dare il meglio di sè e di essere valorizzata, ove merita, sarà poi difficile che riesca a svolgere compiti aggiuntivi e raggiungere obiettivi più impegnativi rispetto al quotidiano. Il governo autonomo ha in verità, nel tempo, predisposto una serie di accorgimenti per fornire un aiuto alle donne in difficoltà. Ricordo tra le tante, la delibera sulle donne magistrato in astensione obbligatoria per maternità l’invito ai Procuratori della Repubblica ad esonerare le donne con figli piccoli che svolgono funzioni di sostituto dalle udienze dibattimentali collegiali che proseguono nel pomeriggio, risalente all’anno 2004, la delibera che, nel 2008 ha esteso la circolare sulla maternità agli uffici di Procura in generale, con la contestuale decisione di applicare anche ai padri la tutela prevista a condizione che la madre magistrato non ne fruisca. Con riferimento a problematiche più recenti ricordo la pratica riguardante la valutazione di professionalità di una collega la cui Presidente si era doluta del fatto che l’assenza per maternità della donna magistrato aveva comportato ricadute sull’organizzazione dell’ufficio, di cui le faceva carico al rientro al lavoro. Ed ancora, è stata affrontata la questione del valore da attribuire ai periodi trascorsi, per esempio, in aspettativa, rispetto a quelli in servizio, che ricadono in un’ottica di lettura della professionalità esente da “incidenti di percorso”, quali sono ritenuti gli oneri di accudimento di un figlio piccolo. Nel tempo, altre questioni hanno riguardato la gestione dei ruoli dei magistrati donne assenti per maternità, non riassegnati nel frattempo e accresciuti dalle nuove assegnazioni anche durante il congedo. Il Consiglio Superiore ha allora stigmatizzato la disapplicazione della circolare di tutela, affermando il dovere di dirigenti di applicare queste norme al rientro in servizio dal congedo per maternità della donna magistrato. Dicevo che, ancora tanto si deve fare. Nessun provvedimento sanzionatorio è stato per esempio mai assunto nei confronti dei dirigenti che non applicano la circolare e lo stesso è avvenuto in sede di valutazione delle proposte tabellari. Occorre dunque lavorare ancora. Questo Consiglio, nel cui ambito lavora un Comitato Pari Opportunità motivato e attento, ha anche lavorato per intensificare il ruolo dei magistrati distrettuali, destinato principalmente a coadiuvare le donne magistrato che vanno in maternita', ha assegnato punteggi aggiuntivi alle giovani donne magistrato che adottano figli o sono rimaste vedove con bambini sotto i tre anni a loro carico, ha ribadito il divieto di recupero dei turni durante il periodo di congedo per maternità ed e' proiettato verso la non penalizzazione del periodo di astensione obbligatoria per maternità, per evitare ricadute di lungo termine sulla carriera del magistrato donna, in conformita' alla legge. E’ in corso di definizione una risoluzione sulle quote di risultato negli organismi rappresentativi, questione certamente opinabile, che tuttavia ha a mio parere la sua ragion d'essere nella direzione dell’attuazione coatta del principio della parità di genere. Risale a ieri la decisione sul part time come ipotesi di lavoro, allo stato delle norme non consentito, per garantire meglio la flessibilità della prestazione lavorativa nel momento del rientro in magistratura dopo il congedo. Ogni riflessione non deve però esaurirsi nell’ottica della tutela della maternita', ma riguarda il superamento, in generale, del tetto di cristallo. Si pensi infatti che solo il 19 % delle donne magistrato svolge funzioni direttive giudicanti e solo il 30 % funzioni semidirettive, mentre i magistrati ordinari donne sono il 50 %. E si osservi come tale percentuale si abbatte per le funzioni requirenti: solo l'11 % ha funzioni direttive e solo il 14 % funzioni semidirettive, su un totale di donne magistrato con funzioni requirenti pari al 39 %. Non intendo porre la questione in termini di carrierismo, ma di riconoscimento dei meriti e di necessita' di porre le donne magistrato in condizioni di ottenerlo. Se i dati statistici sono così sbilanciati senza che difetti, occorre dunque impegnarsi di più per sconfiggere una cultura familista che assegna il carico familiare alla donna senza riconoscerle altro. Credo che imporre dall'alto provvedimenti coercitivi sia necessario ma non sufficiente: le norme vengono infatti applicate secondo la condivisione e il consenso di cui godono.Occorre allora costruire nella direzione di una formazione interiore che sconfigga il tema del potere in favore del merito e del servizio, in favore di un modello culturale inclusivo che elimini le barriere al talento e faccia emergere una strategia di enfasi delle competenze e della solidarieta' sociale. Credo infine che occorra aiutare le donne magistrato, e tutte le donne, a sconfiggere il senso di colpa per l'abbandono familiare con il quale quotidianamente esse convivono e che, a qualsiasi livello di professionalita', si insinua, limita, distrugge il loro essere. Ricordo infine che l'omaggio che e' stato oggi distribuito in ricordo di questa iniziativa del Consiglio è stato realizzato dalle donne detenute presso la Casa Circondariale di Milano San Vittore e la Casa di Reclusione di Bollate che fanno parte della Cooperativa Sigillo, di cui è presidente Luisa Della Morte, oggi in sala, che saluto e ringrazio, per la sua incessante e generosa opera di reinserimento e aiuto in favore di donne disagiate. Il senso di questo omaggio e' quello di un riconoscimento fattivo per un percorso di inclusione sociale reale compiuto da donne in favore di donne la cui storia è spesso il risultato di marginalita' sociale presente persino nel settore del reato. Giovanna Di Rosa La violenza di genere nella società attuale Malgrado la legislazione, anche recente, tenti di codificare le possibili forme di violenze nei confronti delle donne, si avverte ancora una resistenza culturale all’accettazione diffusa di un severo giudizio di disvalore sociale alle aggressioni, soprattutto morali, verso il genere. Manca anche, nella coscienza dell’illeicità della condotta e quindi di evitare rischi di una recidiva quasi abituale. La specializzazione degli operatori di giustizia tenta di evitare quella che, nel processo penale, viene definita la vittimizzazione secondaria della parte lesa che si concretizza, ciò malgrado, nella eccessiva durata delle procedure, nella scarsa protezione del testimone, nella quasi indifferenzaal suo trauma. Nella sfera civile la violenza domestica non riesce ad essere contenutae, se possibile, riparata, attraverso lo strumento dell’ordine di protezione che, dopo anni dalla sua istituzione, trova ancora scarsa applicazione nelle aulte giudiziarie. Ma è la nuova immagine sociale della donna, nel suo modello essenzialmente estetico, che la può porre in una nuova e antica forma di subordinazione di genere con grave compromissione dello spirito del nuovo articolo 51 della Carta Costituzionaleche prescrive situazioni di parità nella vita professionale e istituzionale. Ci è parso bene, quindi affrontare in una prospettiva di diagnosi e di possibili rimedi culturali. Vorrei ricordare la giurisprudenza della Cassazione sui jeans, quella sulle violenze sessuali nei luoghi di lavoro, l’attenzione dei giudici alla crudeltà dei reati in ambito familiare a carico delle donne, la sempre più stringente necessità di tutela della vittima, una tutela che duri nel tempo e che non dimentichi che da certe ferite non si guarisce mai, una tutela quindi che sappia garantire la presenza dello Stato in modo durevole perchè le ferite che apre una violenza su una donna spesso, non guariscono. Giovanna Di Rosa