Origine della filosofia. Anassimandro La filosofia nasce in Grecia nel secolo VI a. C. Essa, come dice il filosofo italiano Emanuele Severino, nasce già grande. Cioè, la filosofia pensa fin dall'origine i problemi decisivi dell’uomo e prova a dare ad essi risposte decisive. Lo stato delle nostre conoscenze sui primi filosofi è molto lacunoso. Da Talete e fino a Platone, cioè dal VI al IV secolo a. C., non possediamo opere scritte integrali, ma solo testimonianze frammentarie indirette, ossia tramandateci da filosofi o dossografi (scrittori che raccoglievano le opinioni altrui) posteriori. Nonostante ciò, possiamo dire di conoscere con sufficiente certezza il cuore della filosofia arcaica, che potremmo sintetizzare al massimo in questa tesi: “Gli uomini desiderano comprendere il Tutto e trovano nella Ragione la risposta al loro desiderio”. Iniziamo il nostro viaggio nella filosofia, leggendo e interpretando il frammento più esteso rimastoci del filosofo Anassimandro, vissuto a Mileto (sulle coste della Ionia) nel VI secolo a. C. Il frammento è riportato da Simplicio, un commentatore di Aristotele, vissuto mille anni dopo Anassimandro. Tale frammento è considerato il primo testo filosofico del pensiero occidentale: “Principio degli esseri è l’infinito. Da dove infatti gli esseri traggono la loro origine, ivi hanno anche la loro distruzione secondo necessità. Poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Partiamo, nell’analisi, dal termine “esseri”. Lo possiamo rendere anche con il termine “enti”, al singolare “ente”, ovvero “ciò che è”, participio presente del verbo “essere”. Che cos’è un essere? Che cos’è un ente? Ente è ogni cosa che è: un uomo, un cane, un albero, una foglia, una cellula, un tavolo, un libro, un foglio, una penna, una parola, una sillaba, un suono, un pensiero, un sogno, un desiderio. Ognuna di queste “cose” è un “ente”, cioè “è”. Ciascuna “è” a suo modo. Ma intanto “è”. Quante differenze tra un uomo e una penna! Ma entrambi questi enti sono accomunati dal fatto di essere; e così una penna e un pensiero. Ecco, la filosofia per la prima volta nella storia del pensiero è un’attività che non si interessa prioritariamente né di penne, né di cani, né di uomini, né di parole, né di suoni, ma si interessa di ciò che accomuna tutti gli enti. Dunque la filosofia non si interessa prioritariamente delle differenze, ma dell’identità. Il pensiero mitologico precedente alla nascita della filosofia “intuisce” che ogni cosa deriva da un Tutto originario, che chiama chaos nel mito greco e “terra informe e deserta”, “abisso” (Genesi 1,2) nel mito ebraico (per fare due esempi a noi familiari), ma lascia questo Tutto originario sullo sfondo e si interessa della genealogia degli dèi, degli eroi, degli uomini e delle loro vicende (mito greco) oppure di Dio e della creazione delle singole cose, dell’uomo e della sua storia (mito ebraico). La filosofia invece “pensa” questo Tutto, e si interessa proprio di questa totalità che è prima di ogni cosa, che è lo sfondo da cui ogni cosa emerge, portandolo in primo piano. Anassimandro, infatti, parla degli “esseri”, al plurale, e vuole sapere qual è il loro principio. Quindi pensa a un’unità, un principio da cui ogni ente ha origine e dice anche che il principio è pure la fine, la distruzione dell’ente: “Da dove infatti gli esseri traggono la loro origine, ivi hanno anche la loro distruzione”. Che cosa intende dire Anassimandro? Ragioniamo insieme. Ogni ente si può distinguere da un altro ente, e dunque essere un ente, quell’ente perché è “determinato”. Ad esempio, la penna è una penna ed è diversa dal foglio; il foglio è il foglio ed è diverso dal banco. Tra un ente e l’altro noi fissiamo un limite, “determiniamo” cioè un ente e lo separiamo da un altro che non è quell’ente. Un tempo gli uomini non conoscevano l’elettrone, il 1 protone, il neutrone. Oggi noi siamo capaci di determinare che c’è un neutrone e che è diverso da un protone, che è ancora diverso da un elettrone, forse proprio come ciascuno di noi da bambino, alla nascita, non sapeva distinguere tra banco, foglio e penna, ma vedeva tutto come un’unica macchia di colore. Quindi l’ente è, se è determinato, altrimenti non è ente. Bene, se ogni ente è determinato, non può essere un ente l’origine e il principio di tutti gli enti. Ad esempio, l’uomo può essere principio di un altro uomo, come la pecora può essere principio di un’altra pecora. Oppure, ancora, l’uomo può essere il principio di una parola (se la pronuncia, se la pensa). Ma qual è quel principio che dà l’essere a ogni cosa che è, dal momento che sia l’uomo, sia la pecora, sia la parola “sono”? Talete, il maestro di Anassimandro, si poneva lo stesso interrogativo e rispondeva che il principio di ogni cosa è l’acqua. Probabilmente egli, riflettendo sul fatto che l’acqua si trova in forma liquida, solida e gassosa e che è presente in tutti i viventi, pensava che fosse un elemento “onnipervasivo”, operante in ogni ente. Anassimandro è più radicale, e ci dà una risposta più profonda. Egli ragiona così: il principio di ogni ente, comune ad ogni ente, non può essere “uomo”, “pecora”, “parola”, cioè non deve avere alcuna determinazione, perché ogni ente determinato esclude tutti gli altri o quanto meno il proprio opposto. Per cui è evidente che l’uomo non può essere principio del cane, del gatto o della pecora; ma anche ammesso che l’acqua si trovi in ogni cosa, e quindi in un certo senso “tutto” sia acqua, essa non può certo trovarsi nel suo opposto, “il fuoco”, “il secco”, per cui occorrerà un principio superiore che non sia né acqua né fuoco, né umido né secco, né una cosa né l’altra. Tale principio è quindi l’ “indeterminato”, o “infinito”, o meglio ancora “indefinito”, tutti termini che rendono il greco àpeiron. Per ricavare il principio di ogni cosa, Anassimandro ragiona probabilmente anche così: ci sarà stato un tempo in cui questa penna che ho in mano non era penna; poi si è determinata questa penna, infine ci sarà un tempo in cui questa penna non sarà più. Così è per ogni ente, anche per quelli naturali: io sono un individuo umano, che prima non era e poi non sarà: : “Da dove infatti gli esseri traggono la loro origine, ivi hanno anche la loro distruzione”. Anassimandro salda il principio con la fine, la nascita con la distruzione. Tutti gli esseri hanno origine dall’indefinito e ad esso ritornano. Qui appare in tutta evidenza la maestosità del pensiero filosofico arcaico. Per questo si dice che la filosofia nasce grande, come un’altissima montagna. Con poche parole Anassimandro unifica il Tutto e all’interno di esso i singoli esseri, unifica il principio e la fine, l’uno (il Tutto) e il molteplice (i singoli esseri) in un pensiero che tutto coglie. Ma proseguiamo nell’analisi: : “Da dove infatti gli esseri traggono la loro origine, ivi hanno anche la loro distruzione secondo necessità”. Il provenire dall’indefinito e il ritornare ad esso non avviene a caso, in modo arbitrario, ma “secondo necessità”. Questa è un’altra parola chiave della filosofia. “Necessario” è “ciò che è e non può essere altrimenti”. È necessario che il pugno sbattuto sul tavolo produca un rumore, che il cibo ingerito ci nutra, che il sole ci riscaldi. C’è una legge che lega gli enti gli uni agli altri e che determina “necessariamente” la loro apparizione e la loro sparizione. Uno spruzzo d’acqua sul mare. Nello spruzzo una goccia. Proprio questa goccia determinata. Essa si libra nell’aria. E poi cade sulla superficie del mare e si confonde con esso, con il tutto indistinto da cui proveniva. Potrebbe essere un’immagine efficace per afferrare ciò che intendeva Anassimandro: la goccia si è staccata da un tutto indistinto, vive la sua breve vita di ente determinato e poi torna nel mare nell’indeterminato da cui proveniva, e tutto ciò accade secondo una legge ferrea, necessaria. Ora passiamo alla seconda parte del frammento, dove con un linguaggio che si fa più poetico si dice: “Poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. 2 Noi viviamo nel mondo degli enti, i quali sono tutti instabili, mutevoli. Tutto incessantemente muta intorno a noi. C’era l’estate e ora c’è l’autunno; c’era un bambino e ora c’è un giovane; c’era un oggetto nella mia mano, un panorama davanti ai miei occhi, un pensiero nella mia mente, una parola sulle mie labbra e ora c’è un altro oggetto, un altro panorama, un altro pensiero, un’altra parola. Ogni essere deve “prevaricare” sull’altro per esserci, come la luce scaccia le tenebre, l’autunno subentra all’estate, il rumore al silenzio, il figlio succede al padre. Tutto ciò avviene “secondo l’ordine del tempo”, che è il vero signore di questo divenire. Possiamo dire che ogni attimo “uccide” l’attimo precedente ed “è ucciso” dall’attimo successivo. Dunque ogni attimo incessantemente uccide e muore ucciso. Questo è il regno dell’ingiustizia. Il passare di ogni cosa ci lacera e ci atterrisce: tutto passa e sembra perdersi, gli attimi, le stagioni, le amicizie, gli amori, la bellezza, la vita. Tutto ciò può apparirci come ingiusto, un vero e proprio chaos, portatore solo di dolori. È chiaro che al fondo e all’origine del pensiero di Anassimandro c’è una profonda riflessione sulla morte e sul passare di tutte le cose. Il pensiero filosofico però non resta sgomento di fronte al mutare di tutto, al passare di ogni cosa e della stessa vita. Perché tale pensiero invita a non guardare alle singole parti, bensì a pensare il tutto. È vero che ogni ente per essere deve limitare e prevaricare un altro ente, è vero che il giorno è sconfitto dalla notte e questa vita dalla sua morte. Ma ogni ente che è, è, e non può non essere. La goccia che nello spruzzo si stacca dal mare, anche quando è goccia, non è meno mare di prima. Adesso ci appare come goccia e possiamo apprezzarne la lucentezza, la levità, la forma, la purezza. Ma anche quando è goccia è mare e quando tornerà al mare, non avrà senso rammaricarsi per il fatto che non è più goccia. In fondo, realmente, non è mutato nulla: era essere, è essere, sarà essere. È così per ogni ente, anche se per qualche misteriosa colpa gli enti devono essere in lotta tra di loro e pagare con la guerra e l’opposizione il loro essere determinati prima di riposare di nuovo nell’infinito. Il pensiero di Anassimandro supera l’apparenza, il determinato, il sensibile, il mutevole, per spingere l’uomo verso il reale, l’infinito, ciò che è proprio del pensiero (logico), l’immutabile. L’àpeiron è sempre sé stesso e avvolge tutto e non muta mai, esso è in un certo senso "divino", è principio di ogni cosa, perché dall’essere infinito provengono gli esseri che all’essere infinito ritornano e mai in realtà possono separarsi da lui (la goccia separata dal mare è sempre mare). Tutte le cose sono come gocce di un mare infinito. 3