Prove Teatro Greco. G. Albertazzi e R. Caronia. Foto ML Aureli

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Prove Teatro Greco. G. Albertazzi e R. Caronia. Foto M. L. Aureli
L'INTERPRETE
L’Orfeo svelato
di Fernando Balestra
Conoscere Giorgio Albertazzi fino in fondo è impresa impossibile: lui ha saputo fondere
insieme, come nessuno, i misteri del teatro e della vita in un’unica suggestione che trae
dalla leggerezza dell’essere, e quindi dello stare in scena, le sue risorse poetiche e domestiche. Eppure è proprio in questa sua leggerezza (pari alla sua proverbiale generosità),
che certi leggono come superficialità - come fa lui stesso, per vezzo, in attimi di sincera
confessione - è proprio in questo il senso tragico dell’esistenza di Giorgio, cioè in quel suo
aderire al destino, compierlo, croce e delizia poco importa, con una coerenza e un eroismo
che ha imparato negli anni severi dell’infanzia e nelle scelte politiche, di passione sebbene
condannate dalla storia. Direi tragico nel senso greco e nietzschiano del termine, appunto,
vissuto in superficie, la leggerezza della profondità.
Inseguo Giorgio Albertazzi da più di trent’anni, con una dedizione che in questi decenni
non ha avuto pause o cedimenti, ne è testimonianza il breve documentario Le memorie di
Giorgio da me realizzato per Rai 2 nel 1989, in concorso per il Prix Italia.
Inverno a cavallo tra il 1975 e il 1976, ci incontrammo una prima volta di persona, io e Giorgio (mi conosceva come critico di Sipario, la celebre rivista specializzata, con cui collaboravo dal 1974), ci incontrammo a Radio Radicale, lui impenitente provocatore di successo,
io socialista educato ai furori di Salvemini e Colajanni. Fummo invitati insieme, il giovane e
la leggenda, il più grande Amleto della storia del teatro italiano (l’unico ad averlo recitato a
l’Old Vic di Londra, tempio della drammaturgia shakespeariana e fabbrica di divi hollywoodiani) perché entrambi in scena, contemporaneamente, con testi tratti da scritti di Fëodor
Dostoevskij: lui alle prese con Memorie dal sottosuolo (era l’adolescente Elisabetta Pozzi
nel ruolo di Liza), io con il romanzo d’esordio del grande scrittore, sul palco del Teatro Tor
di Nona di Roma, 6 dicembre ‘75-28 febbraio ‘76 per 99 repliche consecutive e un incasso
vicino ai venti milioni di lire per meno di cento posti disponibili a sera.
Per me arrivò la nomination come miglior regista esordiente. Esordiente, anche se la mia
prima volta era stata due anni prima al Beat 72, la chiesa dell’Avanguardia Romana, caro
a Carmelo Bene, Luca Ronconi, Giuliano Vasilicò, Giuseppe Bartolucci (non era ancora
arrivato il Majakovskij di Giorgio Barberio Corsetti), con la messa in scena di Play di Samuel
Beckett: tra gli interpreti due attrici del Living Theatre, Julie e Patricia Goëll.
Durante l’intervista a Radio Radicale Giorgio mi promise soldi e piazze per un Macbeth tra
la Maremma e i Campi: io il Macbeth (1976) lo feci lo stesso senza il suo aiuto, lo portai in
giro, da regista e imprenditore, anche nella Valle dei Templi di Agrigento, a Erice, a Donnafugata, al Castello di Milazzo.
Da allora ci perdemmo di vista: eppure ogni volta che ho aperto un teatro o diretto un festival, Albertazzi l’ha inaugurato, così al Carcano di Milano (per il secondo anno consecutivo
nei panni memorabili dell’Enrico IV di Luigi Pirandello), così al Civico di Norcia (con Anna
Proclemer), così al Festival dei Giovani; ogni volta che Giorgio illuminava il sentiero di allievi
in seminari o presso accademie mi chiedeva il “breve corso di storia del teatro aggiornato”
da consumare in tre giorni per dodici ore, con due pernottamenti in località turistiche di
pregio e una cena finale parnassiana tra
etaneo che in apparenza non ha niente da
ancelle adoranti e versi dannunziani. Op-
condividere con lui, eppure come lui sen-
pure sollecitava la mia collaborazione nel-
te il bisogno di trovare il senso di un’azio-
le sue ardue messe in scena eternamente
ne da compiere, convinto che, per quan-
in progress, come quando al Festival di
to estrema e finale, essa sia un’ulteriore
Tagliacozzo utilizzò la mia traduzione dei
tappa del cammino dell’uomo verso la
cori della Fedra di Seneca o quando, per
catarsi e la purificazione. Non è solo Edi-
TaoFest lavorammo per mesi al progetto
po, Giorgio sarà Orfeo, così come è stato
de Il viaggio di Enea dalle coste dell’an-
Adriano nelle Memorie più fortunate di un
tica Troia ai fondali della Sicilia Orientale,
teatro dedicato all’antichità. Senza gli oc-
andando in giro dall’Asia Minore all’Isola
chi, quindi nel buio, come il più celebre
dei Ciclopi, passando per Cipro, il Pelo-
degli aedi, uscirà dagli Inferi e ci conce-
ponneso, l’Egitto, in una crociera di studi,
derà il bene della luce. Non è un caso che
di tanta fantasia e di languidi stordimenti
Albertazzi arrivi a Siracusa nel momento
al sole. E in una luce accecante, vestito di
in cui l’Istituto Nazionale del Dramma An-
bianco, col “panama” di Cent’anni di Soli-
tico riscopre la sua vocazione originaria:
tudine di Marquez, nitido, senza una goc-
la rinascita della tragedia greca quasi
cia di sudore a infastidire il volto sornio-
cento anni fa servì a tenere alta la fiaccola
ne e ammiccante, mi apparve nell’estate
dell’Occidente contro le imminenti deva-
dell’83 (e ancora mi piace ricordarlo così)
stazioni della Prima Guerra Mondiale. Fu
appoggiato alla colonna di una loggetta
allora il segno di un’umanità che non vo-
medievale di Bagno a Ripoli: provava con
leva perdersi, perciò difese, attraverso il
il mio maestro Orazio Costa Giovangigli
teatro, la dignità della persona e il diritto
Villa Rosales di Mario Luzi per lo Stabile
naturale dell’uomo a vivere libero. Oggi,
di Genova.
con Giorgio, Siracusa conferma di essere
L’ultima volta che capitò, senza fortuna, di
testimonianza di pace e di convivenza tra
lavorare insieme fu nel 1998: Giorgio mi
i popoli.
chiamò a Catania per essere il suo vice
nella direzione artistica dello Stabile; in
quell’occasione io non accettai e Giorgio
poco dopo ritirò la candidatura.
Ci ritroviamo a Siracusa, dove Giorgio era
stato l’ultima volta nel 2006 per onorare
la memoria di Salvo Randone e ricevere
l’Eschilo d’Oro.
Nel momento in cui scrivo non so se salirà
sull’asino che lo porterà, vecchio e cieco,
pietosamente condotto dalla figlia Antigone (ancora una donna giovane e attraente, come è successo in tutti i momenti
epocali della sua meravigliosa e inquieta
esistenza), lacero e malmesso Edipo in
arrivo a Colono, in cerca di una sepoltura
che metta fine ai dolori e agli affanni della
sua esistenza.
È la prima volta che il re tebano alla fine
dei suoi giorni viene interpretato da un co-
L’incontro del pubblico-agorà con questo grande interprete avrà momenti di straordinaria
commozione, complici i versi di Sofocle, modulati su diversi registri, secondo la versione
di Giovanni Cerri, interpretati dalla nobile regia di Daniele Salvo, promessa autentica della
scena italiana: Albertazzi ha il cuore e la voce per spingere le nostre sensibilità verso un
nuovo Umanesimo, un nuovo sentimento della parola, una nuova (per quanto arcaica)
ritualità del teatro, a un tempo e come sempre, popolare e religiosa.
Sulla montagna di sale, le lacrime del mondo, come di un mare prosciugato, e davanti a
un iceberg di acciaio, totem dell’essere e dell’apparire, voluti da Massimiliano e Doriana
Fuksas, Giorgio continuerà a danzare i passi sublimi della finzione reale.
G. Albertazzi interpreta Adriano. A sin. G. Albertazzi interpreta Amleto.
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