1. LA FILOSOFIA PRATICA Come s’è visto nel vol. 1 (cfr. Aristotele) l'espressione "filosofia pratica" è di origine aristotelica. Secondo lo Stagirita, la filosofia pratica rinvia, in quanto filosofia, ad una ricerca della verità, ma, in quanto pratica, ad una ricerca della verità non in sé e per sé considerata, bensì come mezzo per produrre un cambiamento. Alla base di tale distinzione sta l'individuazione di due parti dell'anima razionale, preposte all’investigazione di due differenti tipi di oggetti. La prima parte dell'anima razionale (chiamata da Aristotele "scientifica") è quella con cui si esaminano le cose che non possono essere diversamente da come sono - quel settore dell'essere che non dipende dall'uomo (la natura soggetta a divenire, gli enti matematici e le sostanze immobili) - , la seconda parte (l'anima razionale "calcolativa") è quella per mezzo della quale, al contrario, si esaminano le cose che dipendono dal proponimento umano. Si potrebbe dire, usando un linguaggio moderno, che l'anima razionale scientifica si occupa del regno della necessità, cioè della natura, dell'insieme delle cose che obbediscono a leggi indipendenti dal volere umano, mentre l'anima razionale calcolativa si occupa del regno della libertà, cioè della società civile e della storia. È proprio a causa del margine di indeterminatezza che la libertà per sua essenza contiene che non è possibile né costruire un'etica o una politica dotate del medesimo grado di acribia delle scienze fisico-matematiche (cfr. Che cos’è la scienza? 3) - secondo l’intento razionalista moderno -, né, tantomeno, predeterminare le leggi della storia - secondo l’intento idealista (cfr. Neoidealismo) o quello positivista (cfr. Positivismo) contemporanei. Nel contesto della filosofia aristotelica, come s’è visto, la differenza di precisione tra le scienze teoretiche (la matematica, la fisica, la metafisica), da un lato, e le scienze pratiche (la politica, l'etica, l'economica) o poietiche (poetica, retorica), dall'altro, non è indice di minore scientificità di queste ultime. Si può, anzi, parlare ancora di scienza o filosofia pratica e poietica in quanto queste discipline posseggono una razionalità propria, cioè un metodo. Nel caso della scienza o filosofia pratica tale metodo è quello dialettico. A sua volta la filosofia pratica si distingue in pratica in senso stretto e in poietica: la prima ha come scopo la perfezione dell'azione, la buona condotta, mentre la seconda ha come scopo la perfezione dell'oggetto prodotto dall'azione. Si ricorderà anche che la capacità della ragione umana di guidare l'azione in maniera retta, cioè di riconoscere quali azioni sono buone e quali cattive, è chiamata da Aristotele phronesis. Su tale facoltà si sono recentemente incentrate le attenzioni di un insieme molto variegato di studiosi: si tratta del movimento della cosiddetta “Riabilitazione della filosofia pratica” (Rehabilitierung der praktischen Philosophie), sviluppatosi in Germania tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Franco Volpi - uno degli studiosi italiani piú attento agli sviluppi di questo movimento - afferma che l'espressione riabilitazione della filosofia pratica "designa in generale la rinascita in ambito filosofico di un interesse per i problemi della morale, della società e della politica, la cui finalità più o meno esplicitamente dichiarata è la riproposizione filosofica del problema dell'agire moralmente giusto, del problema del buon vivere in ambito privato e in ambito politico, nonché del problema del buon ordinamento politico fondamentale". 1.1 Verso una scienza dell’agire La maggioranza degli esponenti di questo movimento di riabilitazione della filosofia pratica aristotelica ha ritenuto di individuare nella nozione di phronesis una preziosa risorsa cui attingere per risolvere le aporie che, a loro giudizio, affliggono irrimediabilmente le teorie etiche e politiche formatesi all'interno del grande alveo del razionalismo moderno, sia esso di carattere innatistico o empiristico. Per comprendere meglio tale mossa, sarà utile 2 prendere ora le mosse proprio da uno dei principali ispiratori della riattualizzazione della filosofia pratica aristotelica: Erich Voegelin. Nell'opera che l'ha imposto all'attenzione della comunità scientifica, La nuova scienza politica (1952), Voegelin esordisce indicando il compito del filosofo politico oggi: occorre restaurare la scienza politica, tornando alla consapevolezza dei suoi principi, prendendo le mosse dalla concreta situazione storica della nostra epoca. Se la scienza politica va restaurata, ciò significa che essa è stata in precedenza danneggiata da qualcosa; secondo Voegelin, infatti, grandi sono stati i danni prodotti in particolare dal cosiddetto positivismo (cfr.), il quale muoveva dall’assunto che i metodi delle scienze naturali sono criteri di validità teorica in generale, cioè che se una disciplina non applica i metodi delle scienze fisico-matematiche non possiede alcun rigore scientifico. Tale assunto subordina la validità teorica di una disciplina al metodo che essa usa. Ciò è sbagliato, in quanto il metodo non può essere assolutizzato, essendo dipendente dalla sua capacità di svelare ciò che è ignoto e chiarire ciò che è confuso. In altre parole, una disciplina è scientifica se coglie la verità, non se applica un certo metodo. Voegelin ricorda che nell'impostazione filosofica aristotelica di taglio realistico il metodo è imposto dall'oggetto e, quindi, vi sono tanti metodi quanti tipi di oggetti si danno. Il positivismo ottocentesco e novecentesco cui fa riferimento Voegelin è strettamente dipendente da una concezione della filosofia impostasi con la modernità: l'idea che solo i metodi tipici delle scienze fisico-matematiche siano scientifici è rintracciabile infatti nei fondatori della filosofia moderna e, in particolare, nella filosofia morale e politica di autori quali Hobbes (cfr. ) e Spinoza (cfr.), i quali coltivano il sogno di rifondare queste discipline applicando il metodo geometrico. Un esito importante di tale impostazione è che le scienze umane hanno sempre più dimostrato una grande capacità applicativa nello studio di fenomeni macroscopici, grazie all'applicazione di metodologie empiriche e/o matematiche (pensiamo alla sociologia contemporanea, alle sue statistiche e ai suoi sondaggi), ma hanno perso la capacità di descrivere e 3 orientare la prassi individuale. L'etica e la politica moderne hanno perso la capacità di dire qualcosa al singolo individuo che si trova di fronte a un dilemma morale o a un problema politico, sono qualcosa percepito come astratto dai non specialisti. Avendo del tutto identificato la razionalità con la scientificità delle scienze fisico-matematiche, insomma, il razionalismo moderno nega a tutti quegli ambiti del reale che non sono approcciabili tramite metodi deduttivi o sperimentali la possibilità di essere illuminati dalla ragione. La prassi umana rientra all'interno di questi ambiti, a causa della sua casualità o imprevedibilità. Il risultato è la sfiducia nei confronti della possibilità di guidare razionalmente la prassi, che viene considerata come opera delle facoltà a-razionali dell'uomo, innanzitutto della volontà. L'azione umana non è più illuminata da ragioni, da fini giustificabili razionalmente; non è più possibile comunicare le proprie intenzioni, mettere in discussioni i fini, discutere. La prassi umana appare come tensione verso uno scopo non giustificabile; al limite, si può discutere intorno ai mezzi, ma il fine è dato. La ragione - per usare una terminologia cara a Max Horkheimer e alla Scuola di Francoforte (cfr.) - è puramente strumentale. Non potendo più discutere i fini, la prassi umana - in cui l'individuo entra necessariamente in rapporto con altri individui - appare come incontro/scontro di azioni strategiche mutuamente incomprensibili, come una interazione di corpi opachi. La convinzione della fondamentale irrazionalità delle azioni umane contribuisce indubbiamente a creare un contesto sociale caratterizzato da mancanza di comprensione e di rispetto per le opinioni e le scelte altrui e favorisce la diffusione dell'intolleranza. L'irrazionalismo che caratterizza il panorama culturale occidentale tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento appare - in questa linea interpretativa - come l'esito della parabola involutiva compiuta dal razionalismo moderno. Da questo punto di vista, dunque la proposta avanzata dagli esponenti della cosiddetta Rehabilitierung è fondamentalmente solidale con le istanze francofortesi. 4 1.2 La saggezza in senso aristotelico A parere di tutti gli interpreti, momento decisivo per la Rehabilitierung è stata la pubblicazione di Verità e metodo da parte di Hans Georg Gadamer nel 1960 (cfr. Le filosofie dell’interpretazione). Nella seconda parte di quest'opera, in un paragrafo intitolato L'attualità ermeneutica di Aristotele, Gadamer propone il recupero della nozione aristotelica di phronesis, intesa come sapere morale. La phronesis è il sapere che guida l'azione (praxis), che la indirizza verso ciò che si presenta come bene. Ora, il bene si presenta sempre nella concretezza delle singole situazioni e, viceversa, colui che agisce deve vedere la situazione concreta alla luce di ciò che in generale si esige da lui. Con ciò Gadamer non intende negare la possibilità di un'indagine sul bene autonoma rispetto alla prassi, cioè - per usare il linguaggio aristotelico - di una scienza pratica o - come diremmo noi oggi - di un'etica filosofica, capace di chiarificare i fenomeni e aiutare la coscienza morale a chiarificare se stessa. Il sapere teoretico (sophia) è infatti distinto e autonomo rispetto al sapere morale. Egli sottolinea, però, che tale etica filosofica deve partire dall'analisi della prassi per come essa effettivamente si attua e deve ritornare infine a essa come orientamento della deliberazione e dell'azione, pena la ricaduta nella situazione di astrattezza in cui versano la maggior parte delle teorie etiche moderne. Inoltre, così come ha distinto e messo in relazione il sapere pratico da quello teoretico, altrettanto Gadamer ritiene opportuno distinguere il sapere pratico da quello tecnico (cioè dal sapere che guida la poiesis, l'attività produttiva, ovvero la techne). Al sapere tecnico la phronesis assomiglia in quanto sapere, cioè in quanto guida dell'azione, che non è attuata in maniera casuale. La differenza fondamentale sta invece nel fatto che l'uomo non dispone di sé come il produttore della materia prima che egli plasma; l'uomo, infatti, non si è fatto da solo e non può plasmarsi a suo piacimento. Detto in altri termini: l’uomo è una creatura finita. La phronesis è un sapere che riguarda sé ai 5 fini di un cambiamento di sé, dove però l'oggetto della prassi, dell'azione, è solo parzialmente disponibile. Inoltre, mentre il sapere tecnico si può avere o non avere (io posso non saper costruire dei mobili senza che ciò mi impedisca di essere pienamente uomo), il sapere pratico non si può non avere, in un grado o in un altro, poiché l'uomo è sempre costretto a scegliere e ad agire. Un’ulteriore differenza riguarda, infine, il rapporto tra mezzi e scopi. Il sapere tecnico sceglie i mezzi particolari (le materie prime, le azioni che costituiscono le fasi intermedie di un processo produttivo) per un fine definito e predeterminato rispetto ai mezzi (il prodotto finale); il saper morale non ha fini particolari, ma concerne la vita giusta nel suo insieme, di cui non si può avere - come nel caso della produzione - una conoscenza ideale precedente l'azione, così come anche dei mezzi non si può avere una conoscenza predeterminata rispetto alla situazione concreta. La phronesis non si limita ad applicare un processo idealmente predeterminato per raggiungere il proprio fine - il prodotto - come fa la techne, ma sceglie i mezzi dall'interno della situazione concreta, considerata alla luce di ciò che è giusto. In tal modo tra sapere morale e esperienza morale risulta esserci una stretta interconnessione: la phronesis aristotelica sembra effettivamente in grado di orientare la prassi individuale o comunitaria e di assistere l'uomo di fronte a dilemmi morali o problemi politici. 1.3 Una vita attiva Un posto indubbiamente importante nella riattualizzazione della filosofia pratica aristotelica occupa l’opera pubblicata in Italia col titolo Vita activa, della filosofa tedesca Hannah Arendt (l’originale, edito nel 1958 negli Stati Uniti, porta il titolo The Human Condition, La condizione umana). L'istanza fondamentale messa in campo dalla Arendt consiste nella riscoperta delle caratteristiche della "vita activa", spesso dimenticate dai filosofi che generalmente guardano alla condizione umana dal punto di vista della "vita 6 contemplativa". I filosofi non si limitano a sottolineare il primato della seconda sulla prima, ma, all'interno della vita activa, stabiliscono il primato della dimensione "poietica", produttiva, rispetto a quella "pratica" in senso stretto dell’"opera" sull'"azione", cioè, per usare il linguaggio arendtiano. Ciò è dovuto al fatto che la produzione comincia sempre con un atto teoretico: la contemplazione dell'idea-modello dell'oggetto che si intende produrre. La produzione risulta così subordinata rispetto alla vita contemplativa, come qualcosa di controllabile, cioè di prevedibile e ripetibile - come in effetti è la produzione. La diffidenza del filosofo nei confronti dell'azione è determinata da considerazioni analoghe, seppur di segno opposto. L'azione, infatti, essendo caratterizzata da imprevedibilità e irreversibilità, sfugge a ogni controllo, anche a quello dell'agente medesimo. L'azione non è il prodotto di una tecnica che opera alla luce di un modello cui uniformarsi; essa obbedisce a un'esigenza diversa, riconducibile in ultima istanza alla ricerca di una risposta alla domanda "Chi sono io?". L'identità dell'individuo umano non è infatti, secondo questa prospettiva filosofica, qualcosa di dato, che si possa cogliere mediante un'intuizione intellettuale o che si possa racchiudere in una definizione; essa si definisce proprio nell'azione, che la manifesta agli altri individui umani attraverso molteplici segni, di tipo verbale o corporeo. Non è un caso che H. Arendt leghi strettamente l'azione al discorso: entrambi concorrono alla manifestazione dell'identità dell'agente, la quale è sempre parzialmente sconosciuta agli altri come a lui stesso. L'uomo non può non agire, in quanto non può non voler rispondere alla domanda circa la propria identità e una risposta la può avere solo nello spazio pubblico del discorso e dell'azione, nel rapporto con gli altri individui umani. Mediante l'azione l'uomo si distingue dagli altri uomini dando luogo a quella "pluralità di esseri unici" che caratterizza il mondo umano. Agire significa dunque innanzitutto prendere un'iniziativa, cominciare qualcosa (come indica il verbo greco archèin), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). Essa si sottrae alle catene causali e 7 ai ragionamenti che procedono da premesse e giungono a conclusioni. Attraverso di essa si manifesta quella spontaneità che è uno degli aspetti fondamentali della libertà umana. L'azione è imprevedibile: essa - afferma Arendt -, "dal punto di vista dei processi automatici che sembrano determinare il corso del mondo, assomiglia a un miracolo". La nostra autrice ricorda spesso un passo della Città di Dio di S. Agostino (cfr.), dove il padre della chiesa afferma: "perché ci fosse un inizio, fu creato l'uomo". L'azione, inoltre, è anche irreversibile in quanto, una volta pronunciata una parola o compiuta un'azione, i loro effetti si comunicano nello spazio pubblico senza alcuna possibilità di controllo da parte dell'agente o di altri. La riscoperta degli aspetti peculiari dell'azione è, quindi, effettuata dalla Arendt in funzione polemica nei confronti del razionalismo presente in diverse manifestazioni della modernità, il quale ha sempre puntato ad eliminare l'imprevedibilità e l'irreversibilità dell'azione, riducendola a processo metodologicamente controllabile. L'apoteosi di tale esigenza si sarebbe di fatto realizzata grazie al totalitarismo novecentesco - di cui Arendt è stata tra i primi studiosi con il suo famoso saggio sulle Origini del totalitarismo del 1951 - il quale ha programmaticamente tentato di eliminare ogni spontaneità dall'agire umano attraverso il sistema del terrore. Secondo Arendt, il sistema dei gulag sovietici, così come dei lager nazisti, lungi dall'essere un aspetto accidentale di regimi violenti, rappresenta il modello ideale di società che Stalin e Hitler intendevano realizzare. 2. L’ETICA DELLE VIRTU' 2.1 Oltre la metaetica 8 Un’altra importante forma di ripresa della filosofia pratica aristotelica si riscontra nel mondo filosofico di lingua inglese. Se si getta uno sguardo sull'evoluzione della filosofia morale anglosassone nel secondo dopoguerra, non si può evitare di scorgere un movimento vivace e difficile da catalogare in correnti. Si può dire, comunque, che sino alla fine degli anni '60 il filone prevalente, accanto a quello utilitaristico più tradizionale (vedi scheda), è stato quello metaetico. La metaetica analitica si muove a partire dalla tesi della non esistenza delle proprietà morali: gli enunciati morali non descrivono stati del mondo e quindi non hanno alcun valore conoscitivo. La metaetica, di conseguenza, si concentra sullo studio del linguaggio. Si sente ancora l'onda lunga dell'interpretazione rigida della cosiddetta "grande divisione" humiana tra essere e dover-essere (cfr. Hume), con cui il filosofo scozzese aveva messo in serio dubbio la possibilità di attribuire un valore descrittivo, e quindi conoscitivo, agli enunciati contenenti termini morali. Se tale impostazione aveva portato negli anni '30 i neopositivisti logici (cfr. Neopositivismo) a negare alcun significato agli enunciati morali, che vengono così considerati come mere espressioni di emozioni (“emotivismo”), i filosofi morali analitici, soprattutto quelli di scuola non positivista, incoraggiati dalla liberalizzazione semantica operata dal secondo Wittgenstein (cfr.), vengono ad attribuire un significato agli enunciati morali, pur negando loro un valore conoscitivo. Verso gli anni '70 l'insoddisfazione verso tale approccio divenne sempre più esplicita: quanto i filosofi morali contemporanei dicono ha poca o nessuna rilevanza pratica ed è avulso dalla vita. È proprio in questo periodo che comincia a manifestarsi un cambiamento del clima filosofico: in breve tempo le ricerche in campo propriamente metaetico diminuiscono, mentre si diffondono gli studi di etica normativa e applicata. Tale cambiamento non implica necessariamente un abbandono della tradizione analitica, in cui l'etica normativa è presente sin dalle origini. Si tratta, piuttosto, soprattutto negli USA, di un cambiamento nella concezione del compito del filosofo, il quale viene considerato capace di dare indicazioni rispetto a problematiche che la società solleva a partire da situazioni 9 concrete quali la moralità della guerra e la legittimità della disobbedienza civile, il problema dell'aborto, del razzismo, i problemi di etica sessuale o ambientale. In campo strettamente filosofico, è da ricordare la pubblicazione sempre nel 1971 di Una teoria della giustizia da parte di John Rawls (cfr. ?), un'opera la cui influenza sul clima filosofico analitico è difficilmente sopravvalutabile. L'approccio metaetico è messo in discussione da un insieme di autori di formazione analitica che non necessariamente intendono rompere con la propria tradizione di provenienza. In genere essi si dimostrano sostenitori dell'attualità dell'approccio etico aristotelico o perlomeno dell'attualità di alcune sue tipiche istanze. Tali autori non costituiscono un movimento omogeneo: alcuni si fermano solo alla pars denstruens, altri hanno una strategia di più largo respiro; alcuni criticano l'etica analitica dall'interno, altri si pongono esplicitamente contro l'impostazione analitica prevalente; alcuni pensano di poter inserire nell'etica analitica alcune istanze aristoteliche, altri ritengono di dover inaugurare un nuovo approccio etico. 2.2 Agire in prima persona Nel 1949 - in un articolo dal titolo assai significativo (“Errori nella filosofia morale”) che possiamo considerare profetico rispetto agli sviluppi dell’etica contemporanea – il filosofo inglese Stuart Hampshire addossava a Kant (cfr.) la responsabilità di aver introdotto, con tutto il peso della propria autorevolezza, la distinzione tra giudizi morali e giudizi fattuali e di aver così allontanato la filosofia morale da ciò che per sua essenza le è più proprio: la guida della condotta umana. In altre parole, con Kant si inaugurerebbe quell'atteggiamento, destinato a divenire prevalente nella filosofia morale contemporanea, che riconduce l'etica all'ambito dell'espressione di giudizi e che - usando una terminologia coniata da Giuseppe Abbà - possiamo caratterizzare mediante l'espressione etica della terza persona, in quanto si pone 10 da un punto di vista esterno rispetto a quello dell'agente. A tale modello di etica possiamo contrapporre un approccio, d’ascendenza aristotelica, incentrato sull'analisi dei problemi dell'agente morale, in particolare del problema della deliberazione - una figura di etica ponentesi dal punto di vista dell'agente e quindi detta della prima persona. Aristotele è interessato alla comprensione dell’azione, cioè egli “descrive e analizza i processi di pensiero, o i tipi di argomentazione, che conducono alla scelta di un corso di azione, o di un modo di vita, a preferenza di un altro […] mentre la maggior parte dei filosofi contemporanei descrive le argomentazioni [...] che conducono all’accettazione o al rifiuto di un giudizio morale sulle azioni” (St. Hampshire). In altre parole, laddove Aristotele è preoccupato di guidare colui che agisce, i filosofi contemporanei sembrano intenti esclusivamente a fornire strumenti a coloro che devono giudicare l’azione. Si possono già enucleare le principali esigenze che stanno dietro tale movimento di ripresa di un’etica della prima persona. La prima esigenza è quella di una aderenza all’esperienza morale effettiva, che è, innanzitutto, quella di un individuo che si trova di fronte al problema di conoscere e di deliberare per agire. La seconda esigenza, strettamente dipendente dalla prima, è quella di recuperare il legame tra giudizi prescrittivi (quelli del “tu devi…”) e giudizi fattuali (quelli che descrivono il mondo). Le nostre deliberazioni, infatti, sono dettate anche e soprattutto dal fatto che percepiamo cose che ci attirano o meno, e spesso le discussioni morali nascono da un mancato accordo riguardo a queste cose. Ciò significa che la deliberazione pratica - che, cioè, guida l’azione – ha un carattere ermeneutico, perché dipende dall’interpretazione della situazione. Una terza esigenza riguarda l’impossibilità di separare l’etica dalla psicologia morale, cioè dallo studio della psiche individuale, nei suoi aspetti non solo cognitivi (percettivi e intellettuali), ma anche emozionali e volitivi. In altre parole, l’etica deve ricominciare a occuparsi del carattere. Ci sono caratteri che 11 favorisce la percezione delle differenze qualitative tra le cose, cioè dei valori; altri che rendono gli individui docili alle indicazioni della volontà. In questi casi v’è una predisposizione alla bontà che rende l’individuo virtuoso. Viceversa, ci sono caratteri che rendono gli individui insensibili alle differenze qualitative; altri che li rendono riottosi nei confronti di ogni direttiva che non soddisfi la voglia del momento. Una quarta esigenza, solo implicita nel discorso di Hampshire, richiama l’etica al tema dell’identità del soggetto agente: non è possibile parlare dei fini dell’agente senza affrontare il problema di ciò che tale agente desidera e vuole, a partire da una certa concezione di ciò che è bene in sé. Facciamo un esempio molto concreto: ho un amico ricoverato in ospedale a causa di una grave malattia; so che è molto depresso; l’unico pomeriggio libero che ho durante la settimana è una splendida giornata, assai adatta per una gita in moto con la mia ragazza. Che cosa devo fare? Assumiamo il punto di vista del giudice: un’etica della terza persona giudica buono un individuo se questo agisce in conformità a principi generali, in questo caso quello di aiutare i propri amici. Da questo punto di vista, è molto facile stabilire la mia bontà: se andrò a trovare il mio amico sarò buono, in caso contrario sarò cattivo. Se, invece, assumo il punto di vista dell’agente, le cose sono molto più complesse. Innanzitutto si tratta di cogliere il bisogno del mio amico, si tratta, cioè, di possedere una capacità di immedesimazione con la sua condizione che dipende dalla mia capacità di immaginazione, dalle mie esperienze passate, dalla mia educazione ecc. Senza la percezione di tale bisogno, molto probabilmente non mi porrei neanche il problema su che cosa fare. Tale capacità di immedesimazione mi permette di considerare il mio amico nella sua concretezza, rendendo evidente la sua situazione di sofferenza e il mio amore per lui, cioè quelle particolari qualità o valori che caratterizzano la circostanza e la rendono mia. In tal modo può nascere in me un moto spontaneo – una “voglia”, come si suol dire – che mi spinge a fare visita al mio amico in maniera cordiale e non forzata. Ciò non mi basta, però, per essere buono: anche la gita in 12 moto con la mia ragazza presenta, infatti, delle qualità o valori interessanti per me. Si tratta allora di avere la capacità di deliberare in base a una gerarchia o a un ordine di valori che mi consenta di scegliere tra le due possibilità: anche l’amore deve avere un ordine per poter vivere in un mondo pieno di cose che ci attirano, di beni che desideriamo possedere. Tale ordo amoris, che generalmente si assume nel corso del processo educativo e di cui spesso non siamo consapevoli, può essere più o meno vero. La mia bontà dipende, quindi, dalla verità dell’educazione che mi è stata impartita e dal tipo di uomo che io voglio diventare, dal modello di vita che ho scelto. Ma non basta. Occorre che la mia volontà sappia anteporre la scelta di un bene che presenta indubbiamente anche degli aspetti non piacevoli (la visita all’amico) alla scelta di un altro bene che si presenta in una prospettiva di esclusivo godimento (la gita in moto con la ragazza). La presenza o la mancanza di uno di questi fattori genera le seguenti possibilità, che elenchiamo in un ordine crescente di bontà: a) so che il mio amico è in ospedale, ma sono talmente rozzo che non riesco minimamente a immedesimarmi con lui e, quindi, parto spensieratamente con la mia ragazza (prima ancora che mancanza di una gerarchia di valori e di forza di volontà, c’è qui una totale mancanza di sensibilità, che rende inutile ogni richiamo al senso del dovere); b) so che il mio amico è in ospedale, mi spiace per lui ma vado in gita con la mia ragazza senza neanche pormi il problema di andarlo a trovare (mancanza di una gerarchia di valori + mancanza di forza di volontà); c) so che il mio amico è in ospedale, mi spiace per lui ma vado in gita con la mia ragazza anche se so che il mio dovere sarebbe di andarlo a trovare (mancanza di forza di volontà); d) so che il mio amico è in ospedale, vado a trovarlo rinunciando alla gita perché so che è mio dovere farlo, ma lo faccio forzatamente, rischiando di rendere così la mia visita puramente formale (mancanza di sensibilità); e) so che il mio amico è in ospedale, vado a trovarlo rinunciando alla gita perché so che ciò sarà di sollievo per lui, riuscendo a resistere alla tentazione di andare in gita in parte perché mi sono immedesimato con lui, in parte perché so che è mio dover farlo; tornando a casa 13 scopro che tale scelta mi ha reso migliore di quanto fossi, avvicinandomi così al tipo di uomo che voglio essere. Per essere buoni occorre, quindi, essere sensibili, avere una buona forza di volontà, possedere una vera gerarchia di valori e un vero modello di uomo cui aspirare. Questo esempio mostra che, se si assume il punto di vista di colui che si trova ad agire, il problema morale si presenta con una ricchezza e molteplicità di aspetti sconosciute a colui che assume il punto di vista del giudice. Non si tratta solo di stabilire la conformità di una decisione o di un’azione rispetto ad una norma: la bontà di una decisione o di un’azione dipende, nei suddetti esempi, anche dalla capacità di percepire i valori e dal carattere dell’agente. Per essere buoni è necessario, anche se non sempre sufficiente, conoscere il bene e avere una predisposizione caratteriale a indirizzare le proprie deliberazioni e le proprie azioni verso esso. Si tratta di possedere ciò che Aristotele chiamerebbe le virtù dianoetiche e le virtù etiche (cfr.). 2.3 L'etica delle virtù' Negli anni '80 il moto di insoddisfazione nei confronti degli approcci etici analitici ha portato alla diffusione di ricerche incentrate sull'etica di impostazione aristotelica e, in particolare, sul concetto di virtù. E' stato soprattutto con la pubblicazione nel 1981 di Dopo la virtù da parte di Alasdair C. MacIntyre che questa tendenza ha cominciato a giocare un ruolo centrale nel dibattito etico-filosofico. Come s’è visto nell’esempio suddetto, l’etica delle virtù è capace di fornire un quadro comprensivo dell'effettiva esperienza morale in modo da avvicinarsi alle istanze della vita quotidiana. Ciò è reso possibile dal fatto che – come ha messo in luce uno dei più importanti studiosi italiani di etica, Giuseppe Abbà – il filosofo morale che sposa un approccio etico della virtù guarda alla pratica morale con gli occhi del lettore di opere letterarie. 14 Ciò gli permette di considerare la pratica morale da un punto di vista interno, “dal punto di vista del soggetto che è autore della pratica e attore mediante la pratica”, cioè dal punto di vista della prima persona. L’atto narrativo, difatti, è la presentazione di un personaggio visto in una prospettiva interiore. Il vero problema in un’etica di prima persona non è scoprire se e come un soggetto possa adeguare la propria azione ad una regola di bontà o giustizia, bensì di ricercare come il soggetto agente possa essere autore della propria condotta. Il soggetto agente, infatti, è autore non di singole azioni separate, ma di una condotta: “il soggetto approda ad azioni diverse sì, ma considerate da lui come esemplificazioni successive, complementari, variate di interessi permanenti, di intenzioni generali, che a loro volta articolano per lui la sua concezione di vita buona e la sua volontà di realizzarla” (G. Abbà). Rinunciare al punto di vista interno al soggetto agente vorrebbe dire, ricorda Abbà, precludersi la strada a quel “sapere pratico originale, non riducibile al sapere del legislatore, del giudice o del critico [e] centrato sul problema del senso da dare alla propria vita”. Considerata dal punto di vista della prima persona, la pratica morale appare come intimamente narrativa e drammatica: essa, infatti, “si svolge secondo lo schema tipicamente narrativo della ricerca d’un esito da una situazione problematica; e poiché nella ricerca il soggetto interviene con un suo carattere complesso, è intrecciato in una rete di rapporti con altri soggetti dal carattere diverso, è coinvolto in eventi incontrollabili e contingenti, la pratica morale stessa presenta quei forti contrasti che ne fanno un dramma” (G. Abbà). Essendo la drammaticità uno dei fenomeni peculiari dell’esperienza morale, il fatto di consentirne la considerazione costituisce un elemento a favore dell’approccio etico di prima persona. In questo approccio è inevitabile considerare la dimensione emozionale e quelle della deliberazione e della scelta all’interno della condotta morale. Ciò implica una maggiore attenzione alla psicologia morale e all’antropologia, in quanto la scelta non può essere considerata senza una teoria del bene rispetto a 15 cui la scelta è compiuta. In un’etica della prima persona, comunque, il ricorso alle opere letterarie non è meramente esemplificativo, bensì ha un valore metodologico imprescindibile. Come ha evidenziato uno dei principali esponenti dell’etica delle virtù, Martha Nussbaum, le opere letterarie presentano al filosofo morale la migliore rassegna delle concezioni e delle credenze comuni in campo etico, incarnate in trame e personaggi. Il filosofo morale ha bisogno delle opere letterarie per poter guardare la vita concreta, in quanto la letteratura gli fornisce quella distanza dal flusso vitale, quel simbolismo protettivo che gli permette di riflettere sulla vita. 2.4 Verso un’etica narrativa L’approccio etico di prima persona ha fatto emergere – come s’è visto – la categoria di narrazione come categoria centrale non solo nella riflessione etica, ma nella stessa prassi quotidiana. È questo uno degli aspetti più interessanti del dibattito etico contemporaneo, poiché va verso un superamento delle separazioni disciplinari in nome di una maggiore concretezza dell’analisi della vita umana. Se vogliono raggiungere tale obiettivo, i filosofi morali sono oggi costretti a recuperare in ambito etico i risultati della critica letteraria, della psicologia e della sociologia dei mezzi di comunicazione, nonché della semiologia. Una conferma della centralità della categoria di narrazione, ad esempio, è venuta anche da parte di chi ha affrontato la questione del rapporto tra etica e narrazione non tanto dal punto di vista della filosofia morale, quanto da quello delle storie, in particolare dal punto di vista delle storie scritte, cioè della letteratura. Wayne Booth – un importante critico letterario americano, proveniente dalla cosiddetta “scuola aristotelica di Chicago” di studi letterari ha ricordato come ogni opera richieda al lettore l’impegno di un confronto tra 16 le sue convinzioni e quelle dell’autore. Anche la vita che consideriamo esperienza primaria è raramente vissuta senza alcuna sorta di mediazione narrativa: le composizioni narrative producono e riproducono ciò che da un punto di vista realista sono considerate le esperienze più elementari e di conseguenza producono e riproducono noi stessi. Il passaggio da ciò che consideriamo come più originario (perché “reale”) all’esperienza di storie che parlano di esso è così automatica e frequente che rischiamo di perdere il senso di quanto i mondi creati dalle storie siano potenti nell’aggiungere “vita” alla “vita”, nel bene e nel male. Noi tutti viviamo gran parte della nostra vita in un abbandono alle storie sulla nostra vita e su altre possibili vite; viviamo più o meno nelle storie, a seconda di quanto resistiamo nell’arrenderci a ciò che è “solo” immaginato. La vita, insomma, necessita di una mediazione narrativa per fare esperienza di se stessa, cioè per divenire cosciente di sé. Le parole di Booth confermano i risultati della ricerca di alcuni autori, quali A. MacIntyre e Ch. Taylor, i quali identificano la moralità della vita umana con il fatto che ogni azione, magari confusamente e in maniera solo parzialmente consapevole, rimanda ad un’immagine articolata del bene, generalmente incarnata in figure e storie esemplari e costitutiva di un’identità individuale e comunitaria, senza cui la nostra conoscenza pratica sarebbe come monca. Questi autori intendono dire che, in genere, la riflessione etica nasce in momenti di crisi e si costituisce come una autoriflessione che ha il compito di collegare il problema del “che fare?” con la visione globale della propria esistenza; ebbene, la scoperta affascinante di tali autori è che ciò avviene, di solito, tramite un racconto interpretativo. Se ogni essere umano si crea e ricrea all’interno di storie, ciò significa che, riguardo alle storie, tutti gli uomini sono esperti. L’etica narrativa, allora, ha una struttura riflessiva, circolare, poiché chi giudica le storie è formato da altre storie. Il dibattito etico che si sviluppa intorno alla narrazione, inoltre, coinvolge sempre e quasi istantaneamente le domande ultime, poiché coinvolge il livello della visione antropologica; è per questo che l’attenzione non è tanto rivolta 17 alle conseguenze delle azioni quanto al tipo di esistenza che esse manifestano o indicano. L’effetto più importante che la lettura ha sul lettore, insomma, riguarda l’orientamento dei suoi desideri e delle sue paure verso una soddisfazione futura. Nella vita reale, quindi, tutti noi imitiamo abitualmente e necessariamente le imitazioni narrative della vita reale. Ciò significa da un lato che, per costruire il nostro proprio carattere, dobbiamo rappresentarci dei personaggi, identificarci, anche se solo immaginativamente, con loro, e in tale dinamica educativa l’esperienza letteraria occupa una posizione centrale; dall’altro lato che l’io è, seppur indirettamente, una costruzione sociale. 2.5 Visione e narrazione Alcuni autori – Iris Murdoch e Martha Nussbaum in particolare, ma anche MacIntyre, Taylor e Booth - hanno approfondito il problema degli effetti della narrazione sull’ascoltatore o sul lettore di storie, effetti che si possono individuare essenzialmente in un cambiamento della «visione», in una sorta di riorientamento epistemologico individuale e/o comunitario. Il cambiamento morale non è mai repentino; esso accade piuttosto come modificazione della percezione della realtà, resa possibile in genere e soprattutto dagli effetti che una narrazione o un’opera d’arte, con la propria forza retorica e poetica, producono sull’ascoltatore o sul lettore. MacIntyre ha posto in luce come il riorientamento ruoti attorno alla messa in questione di storie, in genere a sfondo religioso, le quali - in quanto pratiche sociali, cioè, nel linguaggio macintyriano, narrative - incarnano un certo atteggiamento nei confronti delle questioni fondamentali della condizione umana, comprendente allo stesso tempo asserzioni fattuali e prescrizioni morali. Una narrativa, inoltre, attribuisce agli individui e ai gruppi sociali un ruolo nel dramma cosmico che racconta, attraverso cui essi entrano in una relazione dinamica, cioè drammatica, con tutti gli esseri che popolano il cosmo 18 relazione che può anche contenere e dischiudere il senso dell’esistenza. La crisi morale per MacIntyre segue la dinamica delle crisi epistemologiche studiate da Th. Kuhn (cfr.) e, quindi, si apre di fronte a resoconti narrativi della propria esistenza alternativi e rivali rispetto a quello predominante in precedenza. Una narrativa, cioè, entra in crisi solo nel confronto con una o più altre narrative che sembrano rendere l’esistenza più intellegibile - e ciò ricorda quello che altri autori incontrati, soprattutto Taylor e Booth, dicono rispetto al fatto che la migliore correzione o critica di una storia è un’altra storia. La peculiarità di MacIntyre sta nell’insistenza sull’aspetto sociologico di quelle che egli chiama narrative: queste non sono semplici storie, ma sono pratiche sociali incarnate in individui e comunità. Conseguenza di ciò è che una narrativa non può proporsi senza un gruppo sociale che già la pratichi e la manifesti. Si può così concordare con Booth laddove afferma che l’effetto più potente della lettura sul lettore è il riorientamento dei desideri, delle paure e delle aspettative, il quale porta con sé una ridefinizione del proprio compimento, cioè di ciò che si identifica con la felicità. Martha Nussbaum ha mostrato che, per comprendere la dinamica di tale riorientamento esistenziale, è molto utile riferirsi alla poetica aristotelica e, in particolare, alla dottrina della catarsi. Tale dottrina è estesa da Nussbaum dalla tragedia all’opera letteraria in generale - rispettando in ciò, del resto, lo spirito della poetica aristotelica. In realtà l’approccio poetico aristotelico può essere esteso a tutte le arti narrative, cinema compreso – come hanno dimostrato recentemente due autori italiani, Gianfranco Bettetini e Armando Fumagalli, in un bel libro dal titolo Quel che resta dei media (1999). 19