Il ruolo del rieducatore nella prevenzione della disgrafia Penso che il rieducatore potrebbe occuparsi con maggior impegno nella prevenzione informando insegnanti e genitori dell’importanza dell’educazione alla scrittura corsiva, fonte di formazione psicofisica del bambino: la prevenzione potrebbe far conoscere, negli ambiti specifici, l’iter formativo (a lungo abbandonato) all’educazione al gesto grafico. Per fare ciò occorre essere convinti che scrivere a mano è ancora importante e che la scrittura manuale sviluppa l’apprendimento in senso lato stimolando attenzione, concentrazione, memoria, mentre le forme prescritturali non sono inutili artifici di altri tempi ma hanno la valenza di regole necessarie all’acquisizione della scrittura. Per diventare abili in una disciplina sportiva occorre allenare il corpo nella motricità generale per poi sviluppare quella specifica, fino alle destrezze e ai virtuosismi. I migliori maestri hanno fatto scavare buche nel terreno ai loro allievi, li hanno spinti a correre su terreni accidentati, a cavarsela in un bosco da soli, li hanno messi alla prova in ambienti naturali in cui il corpo e le competenze fisiche giocano un ruolo di eccellenza. Non c’è dubbio, anche le neuroscienze hanno definitivamente associato la forma mentis alla motricità, quella più generale, quella più distinta, raffinata, delle dita delle mani, quella volontaria e quella involontaria in un rapporto di continua e reciproca influenza, continua e reciproca coordinazione. Le persone depresse si muovono poco e ‘muovono poco i loro pensieri’ che, guarda caso, girano insistentemente intorno a memorie di perdita e di sconfitte, di ostacoli e di impossibilità, proprio come i piedi del depresso girano ‘tonto tondo’ per casa. Agli insegnanti si suggerisce di intrattenere i bambini a scuola alternando momenti di didattica ad altri che costituiscono ‘i presupposti neurofisiologici’ ad un buon funzionamento del cervello e cioè momenti ludici guidati, giochi che interessino la motricità corporea in tutta la sua espressione più completa e complessa. In neurofisiologia questo vuol dire coinvolgere la motricità generale del bambino e il reclutamento di muscoli che impegnano le due parti controlaterali del corpo cercando di coordinarne e di dissociarne i movimenti. Ma non è proprio ciò che noi educatori ci proponiamo in una rieducazione, cioè rendere attive quelle parti del braccio del bambino come il braccio rispetto alla spalla, l’avambraccio rispetto al braccio, la mano rispetto al polso, le dita tra di loro, per poi ricucire, con un lavoro non da poco, il tutto in ciò che Lurjia ha inteso come melodia cinetica del movimento? Non sa la destra cosa fa la sinistra è una locuzione che possiamo prendere in prestito per significare la mancata coordinazione delle diverse aree cerebrali, emisferi compresi, che, sul piano pratico promuove l’associazione di più atti motori in una gestualità abile a conseguire, con adattamento, uno scopo. E’ ciò che succede in continuazione ai disgrafici, specie quelli che i rieducatori indicano come maldestri, quei bambini che lasciano cadere gli oggetti, travolgono gli ostacoli, si muovono goffamente, rigidamente e/o impulsivamente. Sul piano intellettivo quando, per i pensieri che affollano la mente, non siamo attenti e rischiamo di attraversare con il semaforo rosso non abbiamo fatto funzionare l’attenzione divisa e ha prevalso quella selettiva a campo ristretto: ecco un esempio di non piena integrazione/coordinazione cognitiva, perché un elemento (ricordo, pensiero ricorrente, stimolo attrattore) ha prevaricato sulla considerazione del contesto attuale e dei dati del presente reale. Quando sollecitiamo il bambino a scrivere con la mano scelta, a posare con correttezza l’altra mano sul foglio, a tenere la testa dritta, il tronco centrato, i piedi a terra, troviamo difficoltà non di poco conto: i bambini fanno fatica ad eseguire tutte queste cose nella contemporaneità e un elemento che denuncia tale difficoltà è per lo più la contrazione eccessiva delle dita della mano nell’afferrare lo strumento scrittorio e della spalla omolaterale, mentre il gomito del braccio che scrive fatica a restare vicino al corpo spaziando sul piano di lavoro come un elemento autonomo e indisciplinato e la lingua fa capolino dalla bocca. A volte il bambino suda per lo sforzo e aiutarlo non vuol dire sollevarlo con l’utilizzo del computer, ma fornirgli i giusti presupposti per scrivere che probabilmente gli mancano. Come sempre non si demonizza lo strumento, è l’utilizzo. Pigiare sui tasti di un computer non è come scrivere, là, sullo schermo il ‘tratto’ resta sempre lo stesso, qualunque sia la forza che utilizzo; se sono arrabbiato e brandisco la matita come una clava può essere che buchi il foglio, rendendolo inutilizzabile, e questo dovrebbe essere un buon ritorno che mi informa della forza usata, costituendo una consapevolezza motoria che diventerà consapevolezza di me, della stessa violenza…. I bambini che imparano ad alleggerire la pressione della mano sul foglio, imparano anche a calibrare il tono della voce. Le neuroscienze insegnano che quando un ictus colpisce la bocca e la parola, far manipolare degli oggetti facilita l’espressione di vocali e suoni: la bocca, l’articolazione della parola, l’abilità della mano, il tratto sono connessi. Preferiamo che i nostri figli facciano in fretta a diventare avvocati e, dimenticando il ruolo che alla fisicità spetta per l’apprendimento, li inseriamo, di fatto, in un percorso senza speranza per la conoscenza di sé, del corpo. Elisa, la mia nipote maggiore, a diciotto mesi amava la storia di ‘chiccolino di riso’ più d’ogni altra: leggerla e rileggerla era in quel periodo il tormentone di tutti. Quando la prima volta mi chiese che cosa fosse il riso ricordo che le risposi è quello che la nonna mangia la sera, non la portai in cucina ad immergere le mani nel riso, a sentirne il calibro, il peso, la consistenza, la fragranza, a vederne la lucentezza. Ecco il peccato adamico: disconoscere al corpo la sua prima funzione. quella di insegnare al cervello ad agire. Sì, è proprio così, il cervello impara dal corpo, adagio di Antonio Damasio, neurofisiologo di fama mondiale. Quando pensiamo che la memoria sia una grande invenzione della mente ci siamo persi un piccolo particolare: la prima memoria è quella organica, quella del genoma, (la banca dati….come diremmo oggi), quella immunologica quando nostro figlio, incontrato il bacillo del morbillo non ne ammala più perché ne ha contratto memoria, una traccia, che riporta l’incontro tra lui e quel virus così come imparerà che l’angolo acuminato del tavolo di vetro della zia Carlotta…..è da evitare. E ancora, come pensiamo che i nostri figli imparino a leggere se non ascoltano le parole proferite? Ascoltare non è più di moda, si ‘sente’ per essere informati. Informazione è la grande parola: sei informato? Allora sei ok. La priorità va sempre alla mente nella sua mercuriana diabolicità, cioè trattenere un gran numero di informazioni, cumuli di cose, pensando di poter avere più possibilità per farci strada nella vita. Ora, se è vero che possedere un buon lessico e una buona conoscenza dell’etimo delle parole, per non utilizzare sempre le stesse, è importante, è pur vero che se non penetriamo il ‘significato profondo’ delle parole non saremo mai in grado di usufruirne con dinamicità, divergenza, creatività, in maniera critica, appropriata, opportuna, oltre a poter fraintendere il messaggio, nascosto, ma reale, che l’interlocutore ci invia. Ascoltare è, infatti, un’altra faccenda, non è sentire, tanto è che possiamo sentire la radio e i bambini che giocano e il vicino che canta ma ‘ascoltiamo con il cuore’, perché lì è tutta la nostra attenzione, perché l’ascolto vuole sintonia con la fonte che trasmette, di cui si percepiscono vibrazione, tono/timbro, il significato, quello al di là della mera accezione lessicale. Imparare a leggere non si disgiunge dall’ascoltare il suono della lingua madre, il ‘suono delle parole’, solo così si arriverà prima alla comprensione di ciò che si legge. Molti bambini leggono benissimo ma non sanno quel che leggono. Leggiamo di bullismo ma leggiamo anche di ragazzi che si suicidano perché non sanno più metabolizzare una sconfitta, assegnandole un valore ergonomico alla loro crescita. I nostri ragazzi non sanno posticipare la gratificazione, non sanno ottimizzare la situazione penalizzante decodificandola in base al senso del sacrificio, dell’attesa, dell’opportunità di maturare una consapevolezza più completa e una coscienza superiore, temono quel vuoto in cui sembrano cadere quando ‘non masticano’ esperienze gratificanti, incentivanti, corroboranti per una stima inflativa dell’io. Il bambino che impara ad attendere che il cibo si freddi per non scottarsi la bocca (questo, infatti, non lo pretendiamo dal neonato cui intiepidiamo il latte o soffiamo sul cucchiaio che porgiamo alla bocca) impara a posticipare una gratificazione. Mettere un bambino di fronte al piatto con il cibo caldo e aiutarlo a soffiare, a mescolare, ma anche ad aspettare con pazienza che ‘la fisica della temperatura’ abbia la sua giusta parte vuol dire aiutarlo a crescere nel rispetto di tempi che non dipendono da lui, di leggi naturali che esplicano la loro azione: gli insegniamo a non divorare tutto subito, a provare gusto. E l’insula, il centro del gusto e del disgusto, che raffronta lo stato del corpo con l’emozione provata, insegnerà al nostro bambino il gusto della vita, delle cose. Uno dei periodi più difficili nell’umana evoluzione, quello in cui si stabilisce l’individuazione, è la pubertà, fase di alternanze molte volte turbinose e sballate di ormoni che agiscono i loro effetti contrari. Se la prima domanda alla nascita è ‘dimmi come devo fare’, e il bambino impara guardando ciò che l’adulto fa (non cosa dice, ecco l’importanza dell’esempio, ….neuroni specchio dimostrano) a quest’età la domanda è ‘voglio imparare il mio modo di fare le cose. L’adolescente è cioè sul bagnasciuga, irretito dalla sicurezza genitoriale che lo trattiene a riva (il conosciuto) e attratto, come Ulisse, dalle sirene del mare della socializzazione. Deve andarsene da casa ma per farlo ha bisogno di un centro stabile cui fare inconsciamente riferimento nella piena fiducia di poter essere accolto/supportato in caso di necessità. Pensate che in questo momento entra in funzione una vera orchestra di strumenti pronta a supportare questi bisogni dell’adolescente: i lobi frontali (che rappresentano l’adulto) si mielinizzano mettendo a punto il processo della decisionalità (se ci pensiamo, non facciamo decidere al bambino quali scarpe mette perché potrebbe, attratto dalle forme/colore, calzare quelle estive in pieno inverno, se lo facciamo lo orientiamo tra scarpe simili, con eguale valenza, quelle che noi sappiamo gli servono). le sinapsi, cioè i collegamenti tra neuroni, ricalibrano le loro connessioni interagendo con nuovi neuroni con cui entrare in relazione e chiudendo definitivamente altre connessioni con altri neuroni (i nostri figli stanno scegliendo i loro nuovi amici, i nuovi neuroni con cui connettersi, professori, i filosofi, gli scrittori, gli artisti, gli amici,… rispetto a noi genitori a cui ‘tolgono un po’ del potenziale di rete a disposizione’) Allo stesso tempo la vasopressina e l’ossitocina li spingono ad attivarsi con grinta e aggressività o con desiderio di coltivare legami duraturi, maturati nella fiducia e nel reciproco sostegno. Aiutarli a fidarsi e ad essere cauti e critici dà una propulsione a questi due sistemi ormonali, calibrandone l’effetto funzionale o corroborandone potenzialmente uno . Il mondo è veramente piccolo…..quante cose possiamo fare per aiutare il cervello del futuro uomo a crescere nel diritto di una vera umanizzazione compiuta. Antonella Roggero Consulente grafologa, docente di grafologia, rieducatrice della scrittura, insegnante Yoga