Emanuele Carini1
Le scarpe di Vincent
“L’abisso della verità è un’estetica”
[Max Jacob]
“La testimonianza dell’essere diventa incredibile
per colui il quale non riesce più a cogliere il bello.”
[H. U. von Balthasar, Gloria]
1 Docente di Filosofia e Storia al liceo scientifico G. Ferraris di Varese.
1
EPISTOLA AL LETTORE
La pratica della scrittura è tutt’assieme pratica di lettura: devo pensare, per scrivere, che
a qualcuno, in qualche tempo ed in qualche luogo, giunga vaghezza di leggere le pagine che
scrivo. Mi rivolgo proprio a te, lettore, in un preliminare esercizio di pazienza che sia
viatico per il cammino che ti accingi a percorrere. Non ignoro il carattere paradossale di
ogni nota preliminare: non è l’inizio dell’argomentazione e quando si propone di introdurre,
in certo modo tradisce; se è proposta per giustificare, tratta di ciò che non è, dunque è
sempre fuori giurisdizione. Eppure sento il bisogno di dirti qualcosa preliminarmente, al
limite dello scritto, nei dintorni dello scritto, attorno al disegno dello scritto. E questo è il
motivo: c’è un’etica della scrittura, non intendo fare riferimento alla problematicità di una
pratica che per un verso affida il senso alla parola scritta e per l’altro verso tradisce il
dialogo vivo dell’anima, ma alla semplicissima considerazione che nel presentarti questo
scritto, ti chiedo tempo e ti chiedo attenzione; o meglio, prendo tempo per chiederti tempo
ed impiego attenzione per chiederti attenzione. Ecco la temibile domanda: ne vale la pena?
Ne è valsa la pena per me? Ne vale la pena per te? Ti confesso che ogniqualvolta mi si
presenta questo interrogativo, ho la tentazione di deporre la penna e lasciare ad altri, certo
più degni, questa o simile impresa. Ma è questo lasciare ad altri che mi tormenta, perché ha
il sapore di una rinuncia, di una defezione che mi sembra sempre un po’ colpevole.
Intendiamoci: nel frastuono di parole che ci circondano, un po’ di silenzio non può che fare
del bene, tanto più se è il silenzio povero dell’ascolto, dello stupore, dell’attesa, dell’umiltà.
Ne abbiamo parlato tante volte: gesti piccoli spaccano la grande scena della storia,
consegnandola a nuove possibilità di sviluppo; briciole di bene risanano le dolorose ferite
del male; parole povere ed essenziali, indicano, nella dissipazione del dire, profondità di
senso; la pazienza del tempo, intendo dire il patire e la passione del tempo, erode la
mitologia della novità. Ma qui tutto questo non c’è, anzi! Dunque sono stato fedele alla
promessa? Quale promessa? Quella di una parola autentica che è sempre risposta ad un
ascolto umile: la parola della meraviglia e del desiderio, insomma la parola della filosofia.
Non so che dire! Posso solo fare alcune dichiarazioni in margine, come se fossero
un’orlatura, un supplemento: che proprio al supplemento sia consegnata la prima istanza, è
cosa ben strana, ma in certo modo questa è la “cosa” dello scritto che hai sotto mano.
Queste pagine non contengono un’estetica, cioè una filosofia dell’arte, ma dialogano
con alcune estetiche istituite ed autorevoli.
2
Queste pagine non presentano un’ interpretazione del quadro di Van Gogh a cui il titolo
fa riferimento, ma si intrattengono con alcune letture del testo pittorico.
Queste pagine giocano con le parole di altri, dei grandi della filosofia, in intrecci,
sovrapposizioni, risonanze.
Queste pagine si mettono in ascolto, ma in filosofia la fedeltà dell’ascolto implica
sempre un qualche tradimento.
Queste pagine non risolvono problemi, non danno soluzioni; cercano di entrare in campi
tematici per disegnarne i contorni, i margini; ne percorrono i limiti e gettano lo sguardo al di
là.
Sono pagine al margine che trattano della questione del margine. Dunque decisamente
trascurabili ed inutili … a meno che …
1) IL PROBLEMA
La caduta di Talete2 nella buca è l’effetto di una filosofica disattenzione, la caduta di
Popper3 sulla scala è la causa di una rinnovata attenzione. La buca di Talete è l’effetto, la
scala di Popper è la causa, ma se noi pensassimo che quella buca fosse lì proprio per
evidenziare lo sguardo di Talete? Senza quella buca non ci sarebbe stato il riso della schiava
tracia e noi non ci saremmo accorti della serietà e della libertà degli occhi del filosofo che
esplorano ciò che sta al di là del cielo e sotto la terra. Non intendo invertire i nessi causa ed
effetto, ma semplicemente indicare che la buca di Talete e la scala di Popper hanno un
medesimo significato: laddove c’è un inciampo che interrompe il regolare procedere, lì c’è
un problema4.
Vincent Van Gogh ha rappresentato più volte scarpe usate, presumibilmente le sue
scarpe, almeno otto volte, certo ha rappresentato più volte anche girasoli o campi di grano;
in effetti nonostante l’originalità dei suoi soggetti vi è una strana ricorsività nei suoi quadri e
continue istanze imitative (Millet di fronte al quale bisogna, per rispetto, “togliersi le
scarpe”). Potremmo pensare ad esercitazioni tecniche in mancanza di modelli e tutto il
contesto spingerebbe a sostenere questa ipotesi, ma v’è qualcosa di strano: nelle sue lettere
sono spesso menzionati i quadri di girasoli e di campi di grano, ma mai i quadri di scarpe5.
2 Platone, Teeteto, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1996.
3 “Qualche volta , mentre scendiamo una scala, ci accade di scoprire improvvisamente che ci aspettavamo
un altro scalino (che non c’è), o al contrario che non ci aspettavamo nessun altro scalino, ed invece ce n’è
uno”. La delusione di un’aspettativa genera il problema. Popper, Scienza e filosofia, trad. M. Trinchero,
Einaudi, Torino 1969, p. 139.
4 Naturalmente il problema c’è per chi “possiede la capacità di sentire che la scarpa fa male”. A. Einstein,
Pensieri degli anni difficili, trad. L. Bianchi, Boringhieri, Torino, 1965, p.37.
3
Van Gogh inciampa nelle scarpe, nelle sue scarpe, ma non ce lo dice, non consegna,
fatto strano, alle parole ciò che consegna alla tela: quasi delegasse alla pittura l’unica
possibilità di espressione adeguata di quell’oggetto, senza per altro raggiungerla, data la
molteplicità dei tentativi. Ma cos’ha un paio di scarpe di così indicibile e di così difficile
rappresentazione artistica, quasi ogni quadro ne sfiorasse semplicemente il significato senza
poterlo realizzare appieno?
C’è di più! Il mistero è reso più fitto dal fatto che in queste scarpe inciampano anche
due grandi filosofi, Heidegger e Derrida ed in momenti decisivi della loro attività
speculativa: il primo si propone di esaminare L’origine dell’opera d’arte6, il secondo si
pone il problema della Verità in pittura7. Entrambi inciampano nelle scarpe di Van Gogh e
ciò consente loro, ma questo è stupefacente, di alzare lo sguardo: Heidegger e Derrida
alzano lo sguardo, quasi i loro occhi, capaci di straordinaria profondità, venissero rinnovati
o risvegliati, ma come è possibile, dalle scarpe di Van Gogh … stivali delle sette leghe,
capaci di adattarsi a chiunque li indossi e di spingerlo a passi decisi e lesti verso percorrenze
inusitate. Nel senso che queste scarpe in rappresentazione hanno aperto ai due filosofi il
problema dell’arte, il cammino verso il coglimento dell’essenza dell’opera d’arte: messi in
cammino dalle scarpe di Van Gogh. Messi in cammino dalle scarpe in pittura verso il senso
della pittura … Che strano intrigo di vicende e che strana torsione di significati: come se
dipingendo le proprie scarpe dopo il proprio cammino, giacché per dipingere uno strumento
bisogna dismetterlo dalla sua funzione di strumento, Vincent avesse reso possibile il
cammino della filosofia, possiamo ben dire così, verso il senso di questo stesso cammino.
Cosa hanno dunque queste scarpe?
Torniamo a dirlo: non si tratta semplicemente di scarpe, ma della rappresentazione
pittorica delle scarpe. E non sappiamo ancora se il termine rappresentazione sia adeguato a
designare questa esperienza: un pittore dopo aver percorso le sue strade, non importa quali,
quando e dove, si toglie le scarpe, le depone su di un tavolo ricoperto di una scura tela,
prende in mano pennelli e tavolozza e mette in opera i gesti della pittura. Il pittore in
questione, e questo è sì importante, si chiama Van Gogh.
5 Ho utilizzato due raccolte di lettere: V. Van Gogh, Lettere a Theo, trad. M. Donvito, B. Casavecchia,
Guanda editore, Milano 2014; V. Van Gogh, Scrivere la vita, trad. M. Matullo, L. Pignatti, Donzelli editore,
Roma 2013. Non ho trovato in entrambe le raccolte alcun riferimento ai quadri di scarpe, ma pare che in
una lettera a Emile Bernard del 1888 vi sia un fugace cenno a cui fa riferimento J. Derrida in la verità in
pittura.
6 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze
1973.
7 J. Derrida, La verità in pittura, trad. G. D. Pozzi, Newton Compton, Roma 2005.
4
2) CAMPO DI INDAGINE
Faccio riferimento ad un campo di forze, naturalmente di natura simbolico-concettuale,
come ad un perimetro all’interno del quale mi pongo, al fine di ascoltare emergenze,
evidenziare nodi, segnalare ricorsi e sovrapposizioni, indicare sedimenti e concrezioni, che
mi consentiranno di tracciare i solchi del mio percorso. “I solchi dischiudono il campo
perché custodisca il seme e lo faccia crescere.”8 Immagino un’erta attraversata da molteplici
sentieri, tutti volti per diverse vie verso la cima, e che per brevi tratti si incrociano e si
sovrappongono: lì il solco si approfondisce, la terra appare nera e feconda. E se fosse
possibile unire in un ideale tracciato i punti di incontro dei diversi sentieri?
2.1) Il liocorno di Kant
“ (…) Al liocorno di mare spetta l’esistenza, a quello di terra no. Ciò non vuol dire che
questo: la rappresentazione del liocorno marino (…) è la rappresentazione di una cosa
esistente. (…) Si dice: l’ho vista io”9. L’analisi del concetto di liocorno consente di trovare
le sue caratteristiche essenziali che sono, dal punto di vista delle categorie modali, semplici
possibilità, tra queste non v’è l’esistenza. “L’esistenza non è affatto un predicato”10, cioè
qualcosa che possa appartenere in forma essenziale al soggetto, “l’esistenza è la posizione
assoluta di una cosa”11, è un dato, un fatto del tutto indeducibile: l’esistenza si mostra, si dà,
non si ricava per via di divisione concettuale. Il tema è condotto da Kant nel testo precritico
L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio. Si tratta di
prendere le distanze dalla prova ontologica, interamente costruita sulla coestensività
dell’esistenza e della essenza, della realtà e della possibilità, dell’essere e del pensiero, per
affermare l’assolutezza e l’irriducibilità dell’esistente, l’originarietà del reale ed il carattere
derivato del possibile: non v’è possibililità che in relazione ad un’originaria esistenza. “Per
quanto riguarda il quid posto, in una cosa reale non è posto più che in una cosa possibile;
poiché tutte le determinazioni e i predicati del reale possono trovarsi nella semplice
possibilità di esso; ma per quanto riguarda il modo, dalla realtà è posto di più”12. Ciò che
rende identica la cosa possibile e la cosa reale è il loro concetto, cioè l’appartenenza ad un
medesimo genere, la condivisione delle proprietà essenziali del genere i cui nessi predicativi
rispondono al principio di non contraddizione; ciò che rende irriducibile la cosa reale alla
cosa possibile è appunto la condizione di realtà, non presente nella definizione d’essenza,
8 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. A. Caracciolo, M. Caracciolo, Mursia, Milano 1990, p.
197.
9 I. Kant, L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, in Scritti precritici, a cura
di R. Assunto, Laterza, Bari 1990, pp. 113-114.
10 Ibidem.
11 Ivi, cit., p. 114.
12Ivi, cit., p. 116.
5
cioè nei contenuti impliciti del concetto. Possiamo dire: cosa reale e cosa possibile sono una
medesima cosa, il concetto dell’una è il concetto dell’altra, ma la cosa reale c’è (il liocorno
di mare), la cosa possibile non c’è (il liocorno di terra); nell’essere reale vi è un di più
rispetto all’essere possibile, dunque il reale non può essere dedotto dal possibile. In termini
generalissimi ciò significa che il pensiero non nasce dal pensiero, ma da un’esistenza, è una
funzione dell’esistenza che, in quanto tale, non può pretendere di esaurire conoscitivamente
ciò di cui è funzione. L’esistenza non è un predicato: è come se tra pensiero ed esistenza vi
fosse un’approssimazione asintotica; nonostante la progressiva diminuzione, la distanza
rimane. Questo è il quadro di fondo assunto dalla Critica della ragion pura, in cui l’attività
conoscitiva del soggetto trascendentale opera sullo sfondo di una datità sintetizzata a vari
livelli dalle strutture trascendentali della conoscenza. A ben vedere vi è nell’opera
l’irriducibilità di un fondamento noumenico, pensabile ma non conoscibile, l’irriducibilità
del soggetto trascendentale incomprensibilmente costituito nella sua attività costituente e
l’irriducibilità di un rapporto gnoseologico che pone il campo della comprensibilità
all’interno di due insuperabili limiti: la datità della forma e la datità della materia; in fondo
mi pare sia questo l’aspetto più problematico della deduzione trascendentale.
Ma quando diciamo ”realtà”, assegnando ad essa un di più rispetto alla possibilità, cosa
intendiamo?
L’essere posto della cosa nella realtà è la sua collocazione in un sistema di riferimenti
complesso che è il mondo, forma della coordinazione e della subordinazione delle cose,
struttura, dunque, spazio- temporale, gioco ordinato di rimandi di senso: il
“nesso(…)costituisce la forma essenziale del mondo (…) come il principio dei possibili
influssi tra le sostanze (leggi cose reali) costituenti”13. Il reale è un di più nella sua
irriducibile datità, ma l’essere posto nella forma del dato lo rende un di più proprio in virtù
della sua specificità individuale che deriva dalle modalità del suo inserimento nel mondo,
dalla sua fatticità. D’altro canto la cosa individuale, è quella che è, come emergenza da uno
sfondo, come unità distinta che rimanda ad un’indistinta molteplicità, come differenza.
“Ogni elemento che emerge in un campo è emerso in questo campo da qualcosa. Ciò offre
una precisa quanto fondamentale nozione di separazione”14: separazione intesa come un
contrasto che implica la nozione di omogeneità, una discontinuità nella continuità, una
distinzione nella comunanza; forse il termine più adatto è la nozione derridiana di differenza. La cosa posta nella dif-ferenza è ricca di caratteristiche proprie, ma non essenziali:
il suo essere proprio (l’uomo è grammatico) è compatibile con il genere, ma non è riducibile
al genere (l’uomo è animale razionale)15: l’essere proprio è l’insieme delle connotazioni
sintetiche di un individuo, ben diverse dagli attributi analitici di un genere.
13 I. Kant, La forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile, in Scritti precritici, cit., p. 425.
14 E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, trad. V. Costa, Guerini, Milano 1993, p. 192.
15 Aristotele, Topici, in Opere, vol. II, trad. G. Colli, Laterza, Bari 1973.
6
Per esemplificare: ciò che esiste è il liocorno che ho visto, per misteriose evenienze più
a sud del suo habitat naturale, al largo dell’estuario del Rio delle Amazzoni, quell’estate
calda di qualche anno fa, quando ebbi la malaugurata idea di lasciare il timone della barca al
mio amico Gurdulù che, a digiuno da alcuni giorni, prese ad inseguire il grasso animale,
decidendone a priori la commestibilità e lo infastidì tanto da suscitarne l’imprevista
reazione. Fu così che noi, naufraghi fortunati di una passata tempesta, ci trovammo costretti,
naufraghi sfortunati di una presente intemperanza, ad abbandonare la barca squarciata dal
liocorno ed a nuotare verso la lontana foresta di mangrovie che univa mare e terra in un
medesimo, inestricabile intrigo. Lì Gurdulù, passando a più prudenti propositi, fradicio e
stanco, ma sempre famelico ed intemperante, prese ad inseguire a carponi grossi granchi
rossi, ingrufolandosi beato nel fango nero che prosciugava il mare, ma ecc. ecc. Confesso di
avere, in questa occasione, più di una volta, rimpianto la compagnia del Cavaliere
inesistente.
Poniamoci qui, non necessariamente di fronte al Rio delle Amazzoni, come esistenze
gettate ad incontrare il mondo che originariamente si offre alla nostra immediata ricezione
percettiva nella forma della docilità e della resistenza, della vicinanza e della lontananza,
della visibilità e dell’invisibilità. “Un essere finito deve poter essere ricettivo nei confronti
dell’ente (…). D’altra parte, perché l’ente possa offrirsi come tale, bisogna che l’orizzonte
del possibile incontro abbia a sua volta il carattere di offerta.”16 (Heidegger, Kant ed 83).
Esserci, come essere donato al mondo perché possa aprirsi, e questo è il dono più
grande, la scena della donazione di mondo.
2.2) Il chiasma di Cartesio
Faccio riferimento alla prima meditazione metafisica di Cartesio: è in atto l’esercizio del
dubbio sospensivo sulle facoltà conoscitive. La prima facoltà ad essere messa tra parentesi è
la conoscenza sensibile, il più originario rapporto conoscitivo dell’uomo con il mondo.
Seguiamone le movenze.
Dubito dei sensi perché talvolta mi ingannano “riguardo alle cose molto minute e
lontane”17, ma delle vicine è irragionevole dubitare “come potrei negare che queste mani e
questo corpo sono i miei?”18. Certo, c’è la follia ed i folli “immaginano di essere brocche”19,
ma il mio è un esercizio metodico volto al coglimento dell’evidenza, nella follia tutto si
confonde, per essa non c’è né vero né falso, né dubbio né evidenza, come potrei dunque
farvi riferimento? Come potremmo consegnare ad essa un potere rivelativo? No, non
considero nel mio esercizio questa cattiva follia, d’altro canto “(…) la follia è esclusa dal
16
17
18
19
M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. V. Verra, Laterza, Bari 1981, p. 83.
Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Opere filosofiche vol. II, trad. A. Tilgher, p. 18.
Ibidem.
Ibidem.
7
soggetto che dubita per potersi qualificare come oggetto di riflessione e conoscenza”20.
Subito mi accorgo che c’è anche una buona follia: il sogno. Nel sogno succede di tutto, le
mie mani stese ed il mio corpo stanco sono false illusioni che appaiono nella scena onirica.
Ora, “ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto”21 come nella veglia, ma
“non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere
nettamente la veglia dal sonno”22. Quando sogno non so di sognare, perché dunque
escludere che le impressioni che in questo momento io ho delle mie mani e del mio corpo
non siano semplicemente figure oniriche? Non posso negare che queste siano le mie mani e
questo sia il mio corpo, ma precisamente perché la negazione implica un’originaria
affermazione che risulta altrettanto impossibile. La conclusione è una sospensione della
validità dell’accertamento proprio recettivo: non mi posso affidare neppure alle percezioni
interne.
Cambiamo scena : ”bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono
rappresentate nel sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che non possono essere
formate se non a somiglianza di qualche cosa di reale e di vero, e che così almeno queste
cose generali, cioè degli occhi, una testa e delle mani, e tutto il resto del corpo, non sono
cose immaginarie, ma vere ed esistenti”23. Eccoci entrati nell’atelier di un pittore: siamo
passati dalla pesante imminenza dei dati sensoriali alle lontananze dell’immaginazione
pittorica. Il pittore dà visibilità alla scena onirica. Come nel sogno, non imita situazioni
reali, ma opera riferendosi a modelli generali: non questo corpo, ma il corpo, non queste
mani, ma le mani, il corpo e le mani di tutti perché non appartenenti a nessuno. In tal caso le
sue figure saranno dotate di un’individualità che risulta dalla composizione di generalità. Sì,
ma cosa significa il corpo in generale? Il volto in generale non è forse una contraddizione in
termini? Si rende necessaria un’ulteriore operazione riduttiva: non il mio corpo, ma neppure
il corpo ed allora? Possiamo pensare “una immaginazione così stravagante da inventare
qualcosa di nuovo”24: ecco una figura che certamente non esiste, frutto della libera
immaginazione del nostro artista … che sia il liocorno di Kant? L’esercizio del dubbio,
attraverso una progressiva smaterializzazione della realtà, mi ha condotto in un mondo di
pura fantasia del quale so di non potermi fidare, che nulla ha a che fare con contesti e
situazioni, “una cosa assolutamente finta ed assolutamente falsa, certo almeno i colori che la
compongono debbono, essi, essere veri”25. Il colore per l’immagine pittorica è un costituente
elementare e necessario: posso immaginare ciò che voglio, ma nell’immaginare faccio uso
20 M. Foucault, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, trad. E. Renzi, V. Vezzoli, in Storia della follia, trad.
F. Ferrucci, BUR, Milano 1999, p. 496.
21 Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., p. 18.
22 Ivi, p. 19.
23 Ibidem.
24 Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., p. 19.
25 Ibidem.
8
di elementi che hanno una solida realtà. L’invenzione della forma comporta l’uso di
elementi non inventati: i colori.
Non capisco: perché non potrei sottoporre gli stessi colori all’esercizio del dubbio? Non
devo perdere di vista il percorso fatto. Ho iniziato ad esplorare la tenuta della percezione
per concludere che siccome alcune volte, in varie forme, mi inganna e naturalmente non
sono in grado di riconoscere l’inganno, allora devo fare epochè del significato veritativo
della percezione. Questa operazione mi conduce in un orizzonte immaginativo: rimango
nell’inganno - la pittura è come un sogno - ma per cercare evidenze nuove, non percettive.
Ed è proprio l’esperienza immaginativa a consentirmi di cogliere livelli di realtà la cui
pertinenza appartiene a facoltà conoscitive di più difficile problematizzazione. I colori
stanno all’immagine pittorica come linee, numero e durata stanno alla realtà: il colore,
elemento costitutivo della forma, non ha forma; l’estensione e la quantità come strutture
della realtà percettiva, non sono oggetti di percezione.
“E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle
mani, e simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose
ancora più semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle
quali, né più né meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini delle
cose, che risiedono nel nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche, sono
formate. Di questo genere di cose è la natura corporea in generale e la sua estensione; e così
pure la figura delle cose estese, la loro quantità e grandezza, e il loro numero; come anche il
luogo dove esse sono, il tempo che misura la loro durata e simili.”26
Sono passato dalla considerazione della realtà percepita all’immagine ed approfondendo
la struttura dell’immagine, ho colto aspetti essenziali della realtà che si configurano come
fondamenti impercettibili della percezione. L’immaginazione è rivelatrice di livelli di
significato che la percezione non è in grado di cogliere, come se il suo lavoro di
neutralizzazione dell’ordine sensoriale apparente ne rivelasse il significato riposto. Perché
l’immaginazione custodisce il segreto della percezione?
Al tema dell’immaginazione Cartesio dedica la prima parte della sesta meditazione:
provo a cercare una risposta alla mia domanda.
Prima di tutto l’immaginazione è “una certa applicazione della facoltà conoscente al
corpo che le è intimamente presente”27. La conoscenza per Cartesio è essenzialmente
misura28, cioè razionalità matematica; il corpo è sensibilità, cioè apertura percettiva al
mondo. L’immaginazione appare come una facoltà intermedia che sintetizza, rende
intimamente presente, ragione matematica e percezione corporea. Sembrerebbe
un’anticipazione delle problematiche dello schematismo trascendentale di Kant, ma non è
26 Ibidem.
27 Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., p. 67.
28 Cartesio, I principi della filosofia, trad., A. Tilgher, M. Garin, in Opere filosofiche, vol. III, parte prima.
9
proprio così29, come risulterà dalle considerazioni seguenti. Presentare l’immaginazione
come una sintesi, significa affermarne la differenza rispetto alle sue componenti
singolarmente considerate. Non è pura astrazione concettuale, come la matematica; non
posso immaginare un chiliogono, anche se posso concepire la sua figura, ma posso
immaginare un triangolo così come lo posso concepire. Concepire un triangolo significa
pensarlo nella sua struttura concettuale, cioè definirlo come insieme di rapporti identici,
immaginarlo significa considerare “queste tre linee come presenti per la forza e
l’applicazione interna del mio spirito” 30. Non è semplice percezione sensoriale, perché la
presenza di questo triangolo all’immaginazione, nella particolarità dei suoi aspetti, è la
presenza di un oggetto assente: presenza immaginaria, come presenza di un’assenza. Come
si spiega questa strana collocazione dell’immaginazione? “(…) Questa maniera di pensare
(l’immaginazione) differisce dalla pura intellezione solamente in ciò, che lo spirito, quando
concepisce, si volge, in certo modo, verso se stesso, e considera qualcuna delle idee che ha
in sé; quando immagina, invece, si volge verso il corpo, e vi considera qualcosa di conforme
all’idea che ha formato egli stesso, o che ha ricevuto per mezzo dei sensi”31. Solo un ente
spirituale corporeo può immaginare, perché l’immaginazione raffigura, cioè dà figura
sensibile ai pensieri, incarna in forma particolare le idee, rendendole visibili ad uno sguardo
interiore: è il tratto dello spirito che, nel separare, congiunge cognizione e percezione. Non
ci avviciniamo forse ad una considerazione simbolica dell’immagine? Lasciamo per ora la
questione sospesa. Credo di aver dato una prima, parziale, risposta alla mia iniziale
domanda. Non dimentico di essere nel dualismo cartesiano, anche perché poco prima del
brano riportato, Cartesio si preoccupa di sottolineare che l’immaginazione “in quanto
differisce dalla facoltà di concepire, non è in nessun modo necessaria alla mia natura o alla
mia essenza”32, certo la mia essenza è immediatamente conseguente all’evidenza prima: io
sono res cogitans. Non sono in grado di aggiungere altro se non l’osservazione che
l’esercizio ricorsivo del dubbio radicale porta Cartesio continuamente fuori registro, quasi
29 Certo la suggestione è forte, ma credo che il confronto sia di una straordinaria complessità; mi limito
semplicemente a riportare un brano della Critica di Kant: “Immaginazione è la facoltà di rappresentare un
oggetto, anche senza la sua presenza, nell’intuizione” I. Kant, Critica della ragion pura, trad. G. Gentile, G.
Lombardo-Radice, Laterza, Bari 1975, pag. 145. Ora, poiché l’intuizione è sensibile anche l’immaginazione è
legata alla sensibilità, ma poiché la sua sintesi delle intuizioni è “conforme alle categorie”, essa è legata
all’intelletto.
30 Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., p. 67.
31 Ivi, 68.
32 Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., p., 68.
10
fosse costretto a dire ciò che non vuol dire ( prima e terza meditazione)33 e forse questi
slittamenti rivelano qualcosa sulla natura di un dubbio condotto in piena solitudine.
2.3) Prima stazione
Ho di fronte a me il tratto percettivo con la sua ridondanza di dati e varietà di relazioni
che occupa la direttrice orizzontale dell’estensione: il tessuto del mondo con le sue
suggestioni ed i suoi richiami. Vedo anche il tratto immaginativo con la sua i profondità e
trascendenza, l’inerire alle cose e il suo oltre: una dimensione di verticalità che parla un
nuovo linguaggio. Dunque un tratto su di un tratto, una croce: la croce del visibile.
3) GLI ENIGMI DELLA PERCEZIONE
La percezione è la prima apertura della scena del mondo; è necessario riconsiderarla con
maggior accortezza analitica. Utilizzerò alcuni testi della fenomenologia, ma non mi
nascondo le difficoltà. Porsi dal punto di vista di una filosofia riflessiva significa mettere in
conto un’inevitabile sconfitta: il mondo dell’esperienza vissuta viene sostituito dal mondo
pensato; “quella relazione – che chiamiamo apertura al mondo – ci sfuggirà nel momento in
cui lo sforzo riflessivo cerca di captarla (…). Comprendere (il vedere ed il sentire) è
sospenderlo”34. Siamo sul piano di un’esperienza vissuta preoggettiva e precategoriale sulla
quale si volge la riflessione al fine di rischiararla, “ma che, a cose fatte, non gli rinvia se non
la sua propria luce”35. A cose fatte, giacché la riflessione, l’atteggiamento pensante
giudicativo, rappresenta un livello di senso derivato che per principio è sempre in ritardo
rispetto all’originario essere-nel-mondo. Dunque che fare? Provo ad inserire dei correttivi.
Prima di tutto considero l’orientamento eidetico della fenomenologia che riconduce
l’esperienza ad un sistema di forme ideali o strutture36: non riuscirò a cogliere l’atto della
visione nel momento stesso in cui vedo o dell’ascolto nel momento stesso in cui ascolto, ma
mi renderò perlomeno conto dei meccanismi di funzionamento sia della visione che
dell’ascolto; perderò certamente delle stratificazioni di senso nel momento stesso in cui darò
ai vissuti il senso dell’espressione, ma questo è tutto ciò che posso fare. In secondo luogo
posso assumere la “visione grezza” come un riferimento ed una misura “a cui deve mettere
33 Il tema è sviluppato da più autori in direzioni diverse: Lévinas segue l’andamento ricorsivo del dubbio e
sviluppa la problematica dell’infinito in Totalità ed infinito; Foucault presenta il tema cartesiano della follia
come destrutturazione del soggetto pensante, come punto zero della biforcazione ragione e follia in Storia
della follia; Jean-luc Marion si sofferma sulla conclusione della terza meditazione e sul superamento del
solipsismo ne Il prisma metafisico di Cartesio.
34 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, trad. A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 61.
35 Ivi, p. 60.
36 G. Piana, Fenomenologia delle sintesi passive, Lulu, Milano 2013, p. 7.
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capo la rete di significati che (la riflessione) organizza per riconquistarla”37: insomma posso
pensare che sia possibile, sul piano dell’indagine, mettere in atto una situazione di rimandi e
circolarità tra la riflessione ed il mondo irriflesso che mi consenta di procedere per
approssimazioni ed aggiustamenti. L’ultima considerazione è questa: ma perché mai dovrei
pensare che l’indagine abbia una sua conclusività? Non abbiamo forse appena scoperto la
ricchezza di un mondo che si dà alla visione come un’inesauribile donazione? La misura
della comprensione non è l’opera, ma l’itinerario.
Devo soffermarmi preliminarmente su di un altro aspetto. La ragione per la quale affido
le mie considerazioni allo stile ed ai temi dell’indagine fenomenologica sta essenzialmente
nel concetto di intenzionalità. Fra le tante formulazioni presenti nei testi di Husserl, mi pare
particolarmente perspicua la seguente: “la proprietà fondamentale dei modi di coscienza in
cui io vivo come io è la cosiddetta intenzionalità, un avere coscienza di qualcosa.”38. E’ qui
presente la dimensione costitutivamente attiva della coscienza, il suo tendere verso qualche
cosa; il suo essere espressione essenziale del polo egologico che non è altro che
trascendenza e superamento di sé; il suo carattere relazionale che la colloca in un rapporto di
coappartenenza col mondo, pur non essendo, il mondo coscienza e la coscienza mondo; il
suo articolarsi in modalità distinte in cui la particolarità dei raggi noetici è correlativa alla
specificità dei noemi, come un tendere che intende in modo diverso in relazione a ciò che si
dà da intendere, “così la differenza tra il percepire e l’immaginare sarà da ricercare nel
diverso modo in cui essi si riferiscono al loro oggetto”39. Infine la temporalità, come la
stratificazione di senso forse più profonda della soggettività intenzionale. La coscienza
intenzionale, polo egologico, è dunque attiva, modalizzante, relazionale e trascendente: il
suo essere proprio è un continuo espropriarsi per l’appropriazione del mondo. Sartre usa,
mi pare a proposito, l’immagine dell’esplosione: “conoscere è esplodere verso, strapparsi
dall’umidiccia intimità gastrica per correre al di là di sé, verso ciò che non è sé, laggiù
accanto all’albero e tuttavia fuori di lui, perché esso mi sfugge e mi respinge ed io non
posso perdermici più di quanto l’albero non possa diluirsi in me: fuori di esso, fuori di
me.”40
3.1) Al di qua dell’intenzionalità: il di più della percezione.
Io sono il mio corpo ed il mio corpo abita il mondo. L’abitare è una particolare forma di
appartenenza in cui la condizione dell’essere proprio si realizza nell’apertura all’altro; è
un’economia in cui il darsi rende possibile la donazione dell’altro ed il ricevente è a sua
37 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 67.
38 E. Husserl, Discorsi parigini, in Meditazioni cartesiane, trad. F. Costa, Bompiani, Milano 1989, p. 12.
39 G. Piana, Fenomenologia delle sintesi passive, cit., p. 12.
40 J.P. Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in Materialismo e
rivoluzione, trad. F. Fergnani, Il saggiatore, Milano 1977, pag. 140.
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volta ricevuto; un raccoglimento che è dispersione; una relazione di significati in cui
significante e significato scivolano l’uno sull’altro. Il mondo è la casa del corpo: non nella
forma di un contenente e di un contenuto, ma di una reciproca ed inversa significazione, in
cui l’atto dell’accogliere diventa passività dell’essere accolto, “l’invitante è invitato dal suo
invitato”41.
La mia corporeità è la mia apertura al mondo. Guardando con i mie occhi mi si rivela la
scena del mondo, il mio ascolto dà voce al brusio delle cose, il mio tatto dà ad esse rilievo e
consistenza, la mia posizione corporea è il punto zero di ogni spazialità orientata. Ma lo
spettacolo che si presenta ad una percezione che emerge dall’oscurità del corpo, non è mai
una piena luce, perché la mia prospettiva sul mondo torna a me nella forma della sua
appartenenza al mondo: il mio sguardo sul mondo è la mia visibilità nel mondo, il mio
toccare le cose del mondo è un essere da esse toccato, la voce del mondo mi dona la parola
del silenzio, la mia costituzione degli orientamenti spaziali è una forma di spazialità; “come
se l’accesso al mondo fosse l’altra faccia di un ritiro”42.
Sul piano di questa originaria esperienza, non v’è un soggetto di fronte ad un oggetto,
un’attività di fronte ad una passività, una sostanza di fronte ad un’altra sostanza e la
rappresentazione come forma della loro relazione, ma un anacronismo che trasforma, in un
medesimo intrigo, vedente e visto: “che cos’è quest’arte di interrogare (il visibile) secondo i
suoi voti, questa esegesi ispirata?”43. Posso vedere il mondo perché sono visibile al mondo,
posseggo le cose perché ne sono posseduto: è come se la densità del mondo si aprisse
all’opacità del mio corpo proprio in virtù di una comune condizione che nell’atto stesso in
cui ne permette la comunicazione, ne sancisce la distanza. Questo magma che raccoglie in
un medesimo anonimato uomini e cose, questo viluppo che copre e disvela, accomuna e
distingue, è ciò che Merleau-Ponty chiama carne, la chair du monde: “la carne è un
elemento dell’Essere. Non un fatto o una somma di fatti e tuttavia aderisce al luogo ed
all’adesso. Di più. È inaugurazione del dove e del quando, possibilità ed esigenza del fatto,
in una parola fatticità, ciò che fa sì che il fatto sia fatto. E, contemporaneamente, è ciò che fa
sì che essi abbiano senso, che i fatti parcellari, si dispongano attorno a qualcosa”44.
Nell’emergenza del mio corpo dalla carne del mondo, in questa strana torsione, in questa
singolarità che non ha né un dentro né un fuori, non è né superficie né profondità, in questa
forma che è contenuto, in questa espressione che si identifica con l’espresso, si mostra il
tutto del mondo: “In questo senso il nostro corpo è paragonabile all’opera d’arte. Esso è un
nodo di significati viventi e non la legge di un determinato numero di covarianti”45.
41 J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, ed. Jaca Book, 1998, trad. S. Petosino, M. Odorici, pag. 104.
42 M. Maurice-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 36.
43 Ivi, 149.
44 Ivi, p. 156.
45 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 215.
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La carne del mondo è il sostrato precategoriale più originario della percezione, ma per
coglierne con maggior completezza le dinamiche devo guadagnare una stratificazione di
senso derivata che mi consenta di articolare l’unità e distinguere i significati. Si tratta di
passare da una condizione primaria irriflessa ad una condizione secondaria riflessa, in una
circolarità in cui il movimento di regressione si alterna e si incrocia con il movimento
progressivo, al fine di cogliere il paradosso di un mondo della vita che emerge, comunque,
da un’istanza di riflessione la quale, a sua volta, risulta fondata dal mondo della vita46.
Il tema è vasto e complesso: pongo qualche assunzione di fondo, alcune già utilizzate in
forma implicita, altre da sviluppare, che mi servono a delimitare il campo d’indagine ed a
chiarire preliminarmente l’orizzonte interpretativo all’interno del quale mi colloco.
1) Accolgo il suggerimento di Piana47: non considero la percezione dal punto di vista
gnoseologico, cioè come costatazione, ma dal punto di vista di un’esperienza
originaria. Perciò essa conduce ad un “prendere atto”, non ad una conoscenza
giudicativa.
2) Così considerata, la percezione mi dà, come sua connotazione strutturale, la presenza
della cosa, direttamente, originariamente, immediatamente: “nella percezione la cosa
mi sta di fronte in carne ed ossa”48.
3) Come apertura al modo resa possibile dalla sua appartenenza al mondo, la percezione
risponde all’invito delle cose: “è come se l’oggetto ci dicesse: qui c’è ancora
qualcos’altro da vedere, girami da tutti i lati, percorrimi con lo sguardo, vienimi più
vicino, aprimi, frazionami. Getta sempre nuovi sguardi d’insieme e compi rotazioni
da ogni lato.”49
4) “La percezione esterna è una continua pretesa di fare qualcosa che, per sua
stessa essenza, non è in grado di fare. In un certo senso inerisce quindi alla sua
essenza una contraddizione.”50 Ciò significa che dal punto di vista noematico
l’oggetto percepito è sempre un di più rispetto ai dati intuitivi immediatamente
presenti; dal punto di vista noetico la percezione è “un miscuglio” di presentazioni
effettive e di indicazioni vuote51.
Mi guardo attorno, nel campo della mia visione emergono oggetti. Fisso l’attenzione su
di essi, mi appaiono figure in un’impressione originaria, nel qui e nell’ora del presente
attuale. Vedo la cosa, mi appare secondo adombramenti prospettici che dipendono dalla
46 A questo proposito mi pare che l’interpretazione della fenomenologia come analisi delle varianti
strutturali dei fenomeni (Piana) non debba entrare necessariamente in contraddizione con l’interpretazione
esistenzialistica (Sartre, Merleau-Ponty): l’individuazione delle condizioni costitutive dell’esistenza, intesa
come esserci-nel-mondo, può fungere da livello originario dell’analisi fenomenologica.
47 G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Milano, Il Saggiatore, 1979, pp. 18-20
48 Ivi, p. 23.
49 Ivi, p. 35
50 E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, trad. V. Costa, Guerini, Milano 1993, p. 33.
51 Ivi, p. 35.
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posizione del mio corpo. La cosa mi chiama, configurandosi come un sistema organizzato di
rimandi che si sviluppano coerentemente attorno ad un “nucleo” stabile di riferimento. Ecco
un tavolo, ma ciò che mi si dà nella forma di un’intuizione piena, non è il tavolo, ma una
particolare figura, in un orizzonte intenzionale vuoto: è come se i dati sensoriali attuali si
organizzassero attorno a punti che nel loro reciproco rinvio costituiscono un “tracciato di
senso”, una cornice, sulla base della quale si delineano “attese anticipatrici”,
“preafferramenti”52 che prescrivono le regole dei successivi passaggi e che rendono la cosa
“un’indeterminatezza determinabile”53. Continuo la mia esplorazione, seguendo le
indicazioni predelineate dai precedenti afferramenti. Si ripropone la medesima situazione: il
tavolo mi appare secondo una particolare prospettiva correlativa alle cinestesi attuali del
mio corpo. Mi trovo di fronte ad una continua sequenza di scene percettive, concordanti o
discordanti, attraverso le quali si costituisce l’oggetto percepito.
Ho molto semplificato, in verità non c’è solo un orizzonte esterno che rende possibile
completare la mia visione della cosa, ma c’è anche un orizzonte interno che mi consente di
precisarla: “Anche per il lato effettivamente visto risuona il grido: avvicinati sempre di più,
guardami modificando la tua posizione, cambia la direzione dello sguardo, ecc., riceverai da
me ancora qualcosa di nuovo da vedere, del legno precedentemente visto in maniera
generale ed indeterminata vedrai sempre nuove parziali colorazioni, strutture prima non
visibili, ecc.”54
Cosa posso dire dunque della percezione e dell’oggetto percepito?
In primo luogo, la percezione è una sintesi che progressivamente realizza un’identità:
muovendo da un’impressione originaria essa si apre, non arbitrariamente ma secondo
norme, a protenzioni, che fungeranno da conferme o precisazioni, mentre la presenza
attuale dell’impressione scivola verso il passato ritenzionale. Nell’atto in cui il presente
attuale si arricchisce continuamente nella direzione di un orizzonte vuoto, l’ora scivola nel
passato perdendo contenuto di senso, pur rimanendo disponibile al risveglio per successivi
mutamenti attenzionali.
Poi, ogni percezione è un complesso sistema percettivo, in cui si manifestano “orizzonti
intenzionali interni ed esterni”, in cui ogni presente attuale è circondato da un alone di
particolare indeterminatezza secondo modalità dipendenti dalla posizione del corpo proprio
e dai suoi campi percettivi. “Ora, poiché con ogni manifestazione la percezione pretende
tuttavia di dare l’oggetto in carne ed ossa, ne segue che essa in effetti pretende
costantemente più di ciò che essa per essenza può fare”55. Ogni manifestazione percettiva
porta con sé “un plus-ultra”56; si presenta come un miscuglio di noto ed ignoto, ma che in
52
53
54
55
56
E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 37.
Ivi, p. 36.
Ivi, p. 37.
Ivi, p. 42.
Ibidem.
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ogni momento del suo sviluppo può pretendere una presunta conclusività: sono circondato
da cose che hanno una stabilità di senso fondata su di una fede percettiva57.
Oltretutto, l’evidenza è il risultato del riempimento intuitivo di un’intenzione
corrispondente, ma poiché la percezione ha una natura sintetica che rimanda al flusso
temporale, “il vissuto percettivo nel suo divenire è concretamente un riempirsi continuo, e
quindi un’unità di concordanza continua”58 e siccome la percezione è una complessità
sistemica, “lo stesso quid rappresentato è determinato in modo sempre più preciso, ma non
lo è mai definitivamente perché noi siamo sempre in attesa delle manifestazioni relative
agli orizzonti vuoti appena aperti”59. Dunque la cosa del mondo non può presentarsi, pur
nella ricchezza delle sue caratteristiche, come qualcosa di definitivamente concluso bensì
come un’idea in senso kantiano. “L’inadeguatezza come modo di datità appartiene infatti
per essenza alla cosalità spaziale: un altro modo di datità sarebbe un controsenso. In nessuna
fase percettiva l’oggetto può essere pensato come se fosse dato senza orizzonti vuoti e, il
che è poi lo stesso, senza adombramento appercettivo. E con l’adombramento è allo stesso
tempo data un’interpretazione che va oltre ciò che propriamente si presenta”60.
Come è possibile che l’oggetto si costituisca, in qualunque fase del processo percettivo,
come oggetto unitario? Da dove deriva la stabilità del mio mondo?
Devo necessariamente ammettere l’unità e la stabilità del soggetto per affermare l’unità
e la stabilità del mondo. La sintesi percettiva basata sulla coscienza interna del tempo,
richiede “che a titolo di condizione formale delle sintesi (debba) essere presupposto anche il
permanere identico del soggetto che effettua l’esperienza”61. Sarà un soggetto inteso come
condizione formale di unità, diverso dall’io penso di Kant per due essenziali motivi: prima
di tutto siamo su di un piano di esperienza precategoriale e non su di un piano gnoseologico;
poi la soggettività di cui stiamo parlando non può essere connotata solo in forma di attività e
di spontaneità, ma come un “luogo unitario” in cui i contenuti impressionali si organizzano
senza il suo intervento: la soggettività, su questo piano, è la forma delle sintesi passive.
I contenuti impressionali si accostano tra di loro secondo nessi associativi complessi: la
somiglianza e la dissomiglianza, rispetto a cui l’eguaglianza può essere considerata un caso
limite, l’omogeneità e l’eterogeneità, la successione e la coesistenza, in riferimento agli
stessi campi percettivi62. Posso pensare che la forma delle associazioni di successione sia il
57 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 31.
58 E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 108.
59 Ivi, p. 109.
60 Ivi, p. 50.
61 G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 42.
62 “Ciò che qui (…) si dà come coesistente in una coscienza non resta privo di contatti con le altre
singolarità, ma si unisce a formare un gruppo particolare che diviene così una molteplicità unitaria, un
intero le cui singolarità sono collegate soltanto dall’affinità” E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit.,
Milano 1993, p. 182.
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tempo, mentre la forma delle associazioni di coesistenza sia lo spazio. Poi considero
l’accostamento di diversi campi percettivi per congruenza, per concrescenza e così via63. Il
senso oggettivo (noema) si viene formando progressivamente in virtù di sintesi continue di
riempimento, di complesse stratificazioni di senso, che rimandano ad intenzioni attive come
un esplicito essere diretto su di un’oggettualità, intenzioni passive “come tendenze prive
della partecipazione dell’io”64, come raggi associativi che producono ridestamenti con
diversi gradi di intensità, sintesi retroattive nella direzione di un serbatoio ritenzionale di
contenuti inconsci65, intenzioni anticipatrici di fronte ad orizzonti predelineati. E tutto
all’interno di un sistema di relazioni circolari tra il tutto e la parte. E’ come se l’attività
costitutiva del polo soggettivo con i suoi atti noetici, non fosse sufficiente ed il mondo si
componesse per così dire da solo, in accostamenti molteplici di contenuti, nella primaria
forma organizzativa del tempo.
E’ evidente che non si possa più parlare di soggettività attiva, pienamente trasparente a
sé, di ascendenza cartesiana e kantiana, ma di un soggetto passivo,”luogo” di connessioni
associative dei contenuti, continuamente “colpito” da emergenze sensoriali a cui risponde
con l’attivazione di raggi intenzionali: “la vita dell’io desto è una vita nella quale l’io è
colpito in modo esplicito, è colpito da unità particolari che proprio per questo sono date,
afferrate o afferrabili per l’io”66. L’affezione risveglia il soggetto destandone gli atti di
afferramento ed apprensionali, si presenta dunque “come il grado più basso dell’attività
percettiva”67: tutto ha il senso di una risposta a stimoli originari che emergono dal mondo
innestandosi in una soggettività vivente.
“Sorge così il seguente problema: non sono forse soltanto l’affezione e l’associazione
che – nel loro dipendere secondo una legge dalle condizioni essenziali della formazione
dell’unità e nel loro essere co-determinate da nuovi tipi di leggi essenziali – rendono
possibile la costituzione degli oggetti esistenti per sé? Non vi sono potenze contrapposte
che, secondo una legge, indeboliscono, ostacolano e, non lasciando più affermarsi
l’affezione, rendono anche impossibile il realizzarsi di unità che esistano per sé, unità che
quindi senza l’affezione non si sarebbero in generale realizzate?”68
Oltretutto dietro la percezione v’è l’appartenenza del mio corpo alla carne del mondo
che è anche la carne del corpo altrui, non per nulla Husserl nella quinta delle sue
Meditazioni cartesiane recupera l’altro attraverso “la trasposizione appercettiva” del senso
del corpo proprio69. Voglio dire che l’analisi delle strutture della percezione mette a
63
64
65
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67
68
69
G. Piana, Fenomenologia delle sintesi passive, Lulu, 2013, paragrafo 14.
E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 133.
Ivi, p. 211.
Ivi, p: 218.
G. Piana, i problemi della fenomenologia, cap. 4.
E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 211.
E. Husserl, Meditazioni cartesiane, trad. V. Costa, ed. Bompiani, Milano 1989, p,126.
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problema un’originaria apertura ed è difficile pensare che l’apertura al mondo non sia prima
di tutto l’apertura all’altro, che cioè dietro l’intenzionalità, dunque prima di ogni movimento
costitutivo, di ogni presa d’atto, di ogni cosciente tendenza, vi sia un’originaria
responsabilità, una “insonnia assoluta”70 una cattiva coscienza, un essere proprio che è
essenzialmente espropriazione, svuotamento e perdita: la mia apertura al mondo non è forse
resa possibile dalla “denucleazione dell’atomicità dell’uno”71 prodotta in me dal volto
dell’Altro che abita in me?
Poi c’è il tema del privilegio della presenza nell’impressione originaria e dunque anche
nella sintesi percettiva, che non mi sembra per nulla messo in crisi dalla concezione passiva
della sintesi, ma che non mi convince. Ogni attività di coscienza, qualunque essa sia, si
svolge nell’ora, ha di fronte una presenza attuale. La percezione con i suoi nessi associativi,
l’affezione del soggetto con la sua passività, lo stesso tema dell’inconscio, sviluppano una
presenza: è a partire dal presente vivente che queste dinamiche avvengono. Piana72 osserva
che nel flusso temporale l’ora è un sempre ora, un presente esteso, ma la puntualità dell’ora,
l’impressione originaria, questo punto focale del diagramma del tempo, cosa significano?
L’attualità dell’istante è permanente, ma ciò significa che non è mai in atto. Non siamo forse
di fronte ad un Augenblick che chiude l’occhio73? Ad una presenza della non presenza? La
questione mi pare di particolare rilievo, perché solo la messa in crisi della “metafisica della
presenza” può consentire di raggiungere il livello di una coscienza che non aderisce a sé,
franta, abitata, passiva, forse più coerente alle indagini husserliane attorno alla sintesi
passiva ed al precategoriale. Mi pare che il tratto interno alla soggettività che unisce, nella
presenza, il vedere al non vedere, conduca nella direzione dell’autoaffezione temporale
dell’io penso74, come atto del determinare la mia esistenza nel tempo che implica un’autointuizione del determinante75; tema portante dell’interpretazione heideggeriana di Kant76.
Inoltre il tema della presenza è connesso al tema dell’evidenza che, come abbiamo visto, si
sviluppa continuamente in rapporto ad una non evidenza, capace di consumare dall’interno
l’evidenza stessa, facendole perdere i connotati di definitività ed assolutezza.
La ricchezza del mondo appare in forma limitata e provvisoria ad un soggetto opaco la
cui passività è il limite interno dell’attività, in una intenzionalità percettiva le cui
conclusioni sono sempre presunte e la cui evidenza è sempre futura, in una presenza delle
cose che è anche un sottrarsi: queste sono le cose stesse.
70 E. Lèvinas, Di Dio che viene all’idea, trad. G. Zennaro, ed. Jaca Book 1999, p. 143.
71 Ibidem.
72 G. Piana, Fenomenologia delle sintesi passive, Lulu, 2013, p. 50.
73 J.Derrida, La voce ed il fenomeno, , trad. J. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1997 p. 101.
74 “In Kant la vera e propria determinazione della soggettività, quindi l’io penso, cade fuori dal tempo.” M.
Heidegger, Logica, il problema della verità, trad. Mursia, Firenze, p. 178.
75 I. Kant, Critica della ragion pura, trad. G. Gentile, G. Lombardo-Radice, Laterza, Bari 1975, p. 149, nota 1.
76 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit.
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3.2) Al di là dell’intenzionalità: il di meno della percezione.
L’idea di una sproporzione tra dato e significazione, intenzione e riempimento, l’effetto
anticipatore della mira intenzionale su ciò che non ancora è visto e la ricchezza inesauribile
del dato rispetto all’apprensione percettiva, è indubbiamente presente anche in Kant.
Secondo la Critica della ragion pura solo l’originarietà del dato garantisce l’uso legittimo
delle strutture a priori e solo il dato organizzato nelle forme dell’intuizione diventa materia
per il concetto. L’intuizione “ha luogo soltanto a condizione che l’oggetto ci sia dato. (…)
Gli oggetti dunque ci sono dati per mezzo della sensibilità, ed essa sola ci fornisce
intuizioni; ma queste vengono pensate dall’intelletto, e da esso derivano concetti”77. Tra
intuizione e concetto v’è un rapporto di eterogeneità e di complementarietà: “ (per la
recettività delle rappresentazioni) un oggetto ci è dato; (per la spontaneità dell’intelletto)
esso è pensato in rapporto con quella rappresentazione. (…) Senza sensibilità nessun
oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto
sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”78. Nel processo di adeguazione dei
concetti alle intuizioni (orizzonte esterno), che rende l’analitica trascendentale un “logica
della verità”, solo l’intuizione donatrice79 circoscrive il campo di possibilità dell’intelletto e
dunque dell’oggettività fenomenica che risulta pertanto sempre in difetto rispetto alla
ridondanza della donazione. Oltretutto l’oggetto dell’intuizione è esso stesso una
molteplicità di dati (orizzonte interno) che l’Io penso, “unità della sintesi del molteplice,
fuori di noi o in noi”80 riconduce ad unità e sistema secondo una prospettiva asintotica che
mira all’idea di una realtà oggettiva e di un mondo metafisicamente unitari81.
Eppure proprio questa ricchezza ed originarietà del dato è per così dire compressa dalle
condizioni del suo darsi che sono costituite dalle strutture formali della sensibilità: “forme
oggettive della nostra intuizione, così esterna come interna, la quale è sensibile perché non è
originaria, ossia non è tale che già con essa sia data l’esistenza dell’oggetto dell’intuizione
(…), ma è dipendente dall’esistenza dell’oggetto”82; intuizione sensibile come intuitus
derivativus e non intuitus originarius come si presenterebbe una presunta intuizione
intellettuale. La funzione, inoltre, esercitata su questo materiale intuitivo dall’Io penso come
legislatore della natura e l’articolazione dei Principi sintetici dell’intelletto puro “per cui
tutto è subordinato necessariamente a regole”83, come strutture formali della scienza,
77 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 66.
78 Ivi, pp. 93/94.
79 J-L. Marion, Il visibile e il rivelato, trad. C. Canullo, Jaca Book, Milano 2007, p.43.
80 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p.151.
81 Su questo piano la concezione teleologica della natura sostenuta nella Critica del giudizio verrebbe a
dare senso al processo unificatore della scienza, orientandolo verso la meta irraggiungibile di un’unità
metafisica.
82 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., 91.
83 Ivi, p. 177.
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finiscono per ricondurre il mondo dell’esperienza possibile ad una misura soggettiva e ad un
fondamento sensibile: fenomeno ossia rappresentazione, Vorstellung, posizione del dato di
fronte ad una soggettività costituente.
Il “principio di tutti i principi” della fenomenologia di Husserl suona così: “ogni visione
originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà
originariamente nell’intuizione (per così dire, in carne ed ossa) è da assumere come esso si
dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà”84
Il dettato è promettente: si fa riferimento ad una visione originaria che, se assunta nelle
sue intrinseche caratteristiche, darebbe le cose stesse, senza rimandi a condizioni altre o a
ragioni nascoste; in tal modo verrebbe a realizzarsi la specificità che Heidegger riconosce al
fenomeno: “ciò-che-si-manifesta- in-se-stesso”85.
Ma Husserl non rimane fedele al suo principio, perché il darsi delle cose avviene
nell’ambito di condizioni di possibilità: un orizzonte di indeterminata determinabilità,
l’attività costitutiva dell’io.
“Perché Husserl compromette il ritorno alle cose stesse, marcando di idealità l’evidenza
e la verità? (…) Risposta: perché l’uguaglianza che Husserl mantiene di diritto fra
l’intuizione e l’intenzione gli resta di fatto inaccessibile. (…) L’intenzione e la
significazione sorpassano l’intuizione ed il riempimento”86. “Dès premier Recherche, la
signification conquiert une èvidence strictement autonome, parce que dèfinitivament idèelle
et intentionelle”87. E questo perché il privilegio assegnato all’oggetto ideale, cioè all’oggetto
logico che in quanto povero di intuizione rende possibile un’evidenza definitiva, consente di
presentare il senso come un essente effettivo88.
Faccio l’ipotesi contraria, assumo che non sia la significazione ad essere eccedente
rispetto al dato, il di più della percezione, ma che sia il dato a donare “smisuratamente di
più, di quanto l’intenzione non avesse mai scorto né previsto”89, il di meno della percezione.
Nel lessico di Marion sostituisco ad un fenomeno povero d’intuizione, un fenomeno saturo
di intuizione; ad un fenomeno sottoimpresso, eccedente rispetto al dato, un fenomeno
sovraimpresso, difettivo rispetto al dato e vedo che cosa succede.
84 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro primo, trad. E.
Filippini, Einaudi, Torino 1976, pp. 50-51.
85 M. Heidegger, Essere e tempo, trad. P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976,p. 50.
86 J-L. Marion, Dato che, trad. R. Caldarone, SEI, Torino 2001, p. 235.
87 J-L. Marion, Rèduction et donation, Presses Universitaires de France, Paris 1989, p. 41.
88 Ivi, p. 49.
89 J-L. Marion, Dato che, cit., p. 243.
20
Naturalmente in fenomenologia qualunque ipotesi assunta deve essere sostenuta da
emergenze descrittive di fatto e da evidenze argomentative di diritto. Dunque che cosa
legittima la mia ipotesi, o meglio l’ipotesi di Marion?
1) In primo luogo le evidenze presenti nella storia della filosofia riflessiva: Cartesio
con il tema dell’infinito che sconvolge l’ordine della causalità, sostituendo al cogito
ergo sum il sum ergo cogito; il concetto kantiano di idea estetica come un’intuizione
immaginativa che non può trovare espressione in un concetto adeguato, a differenza
delle idee della ragione che hanno una funzione regolativa proprio perché non
possono essere esaustivamente riempite dall’intuizione. Sembra che il concetto di
fenomeno saturo sia implicitamente contenuto nella filosofia riflessiva.
2) In secondo luogo potrei invocare il metodo fenomenologico della variazione
d’essenza: colgo la struttura essenziale di un fenomeno introducendo dei mutamenti
nelle sue componenti ed osservandone gli effetti in termini di stabilità o di
alterazione. Prendo in esame il fenomeno percettivo ed immagino delle variazioni per
individuarne un nucleo di stabilità.
3) Poi posso richiamarmi al fenomeno della modalizzazione esposto da Husserl nelle
Lezioni sulla sintesi passiva: è possibile cogliere i dinamismi strutturali che danno
unità al processo percettivo, quando un ostacolo impedisce la sintesi unitaria e
concordante delle consuete e lineari fasi percettive.
4) Variazione e modalizzazione sono forme di riduzione che mettono in gioco un tema
concettuale che mi pare decisivo: “La questione che riguarda la possibilità del
fenomeno, implica la questione riguardante il fenomeno della possibilità”90. Così
intendo: se la fenomenologia si caratterizza per un atteggiamento di accortezza
critica, cioè di sospensione del giudizio, nulla mi impedisce di mettere tra parentesi le
condizioni della possibilità del fenomeno, cioè il tema dell’io ed il tema
dell’orizzonte: “se la riduzione fenomenologica ha il suo senso pieno, essa deve
essere anche la riduzione delle eidetiche costituite e quindi del suo stesso
linguaggio”91. Poiché faccio opera di sospensione, rimango nell’ambito della
fenomenologia, ciò significa che il residuo che mi si presenterà sarà ancora un
fenomeno e poiché sospendo le condizioni di possibilità del fenomeno, ciò che mi
rimane è il fenomeno della possibilità. Cosa vuol dire? Cerco di capire meglio:
nell’atto stesso in cui pongo al fenomeno delle condizioni, metto queste condizioni in
un ambito metafenomenico; le condizioni di visibilità del fenomeno sono in quanto
tali al di là della visibilità, ma ciò significa che il modo stesso in cui è posto il
problema fenomenologico, spinge la fenomenologia al di là di se stessa, nella
direzione di un’impossibilità: l’accadere dell’impossibile è l’evento. E poiché stiamo
trattando della fenomenologia della percezione la questione può porsi in questi
90 J-L. Marion, Il visibile e il rivelato, cit., p.30.
91 J. Derrida, Introduzione a Husserl. L’origine della geometria, trad. C Di Martino, Jaca Book, Milano 1987,
p. 119.
21
termini: se sforzo al limite le condizioni della percezione trovo un contenuto
percettivo che sfonda la percezione stessa, la forma dell’invisibilità, un paradosso.
“Le paradoxe atteste ici qu’entre dans la visibilità ce qui n’aurat pas dû s’y
rencontrer: le feu dans l’eau, le divin dans l’humain; le paradoxe naît de
l’intervention dans le visible de l’invisible, quel qu’il soit.”92
5) Passo ora alle evidenze fattuali che risulteranno più chiare e significative al termine
dell’indagine. Sono dunque alla ricerca di un dato visibile che scardina ogni
orizzonte, che fa esplodere la soggettività, che oltrepassa ogni significazione, che mi
interpella al di là di ogni progettualità ed intenzione, che nonché essere costituto mi
costituisce, nella forma di un soggetto passivo affidato all’altro da sé. Mi viene in
mente il grande tema del volto in Lévinas: “il volto è presente nel suo rifiuto di
essere contenuto. In questo senso non potrebbe essere compreso e quindi inglobato.
Né visto, né toccato (…)”93 O sul piano della visibilità concettuale il tema
dell’Infinito che è in me, ma non è da me, nella III Meditazione metafisica di
Cartesio. Ma vorrei fare riferimento ad evidenze esperienziali più immediate, capaci
di mostrare che, qualunque sia lo sguardo, ciò che viene visto fa esplodere gli occhi.
Ecco, il principe Andréj cade ferito dopo una disperata ed eroica azione nel corso
della battaglia di Borodino; la vista gli si appanna, non sente più il clamore della
battaglia, non percepisce più il concitato avanzare delle truppe, i rabbiosi duelli, i
volti degli uomini contratti dal dolore, non vede più nulla se non il cielo, un cielo alto
e grigio, infinitamente separato dalle vicende degli uomini, lontano, irreale, eppure
più prossimo a lui di quanto lui sia a se stesso e questo cielo entra nel suo sguardo
come la rivelazione di un nuovo senso. “Che silenzio! Che quiete! Che solennità!
Non è più come quando correvo – pensò il principe Andréj, - non è più come quando
correvamo gridando o battendoci; non è più come quando l’artigliere e il francese si
strappavano l’un l’altro lo scovolo con i visi rabbiosi e spaventati; non è così che le
nuvole scorrono su questo cielo alto, infinito. Come non lo vedevo prima, questo
cielo così alto? E come sono felice di averlo finalmente conosciuto. Sì! Tutto è vuoto,
tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è niente, niente all’infuori di
esso. Ma anch’esso non esiste, non c’è nulla al di fuori del silenzio e della
tranquillità. E dio sia lodato!...”94
Posta la sua legittimità di fatto e di diritto, come si presenta il fenomeno saturo?
Prima di tutto mette in luce l’aspetto essenziale di ogni fenomenicità: il dato è donato, la
donazione è dunque una caratteristica intrinseca del fenomeno. Ciò significa che il
fenomeno saturo non è riconducibile alla forma del possesso, ma proviene da un altrove,
92 J-L. Marion, La croisée du visible, Presses Universitaires de France, Paris 1996, p. 12.
93 E. Lévinas, Totalità ed infinito, trad. A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1996, p. 199.
94 L. Tolstoj, Guerra e pace, trad. E. C. d’Andria, Einaudi, Torino 1990, p. 325.
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dalle sue lontananze e giunge a noi nella forma dell’apparire, in una prossimità che
impedisce la riduzione del fenomeno all’attività soggettiva costituente. Il fenomeno si
mostra da sé a partire da sé, imponendo la sua autorità ad uno sguardo che sappia aprirsi,
farsi attento e curioso, disponibile e capace di sopportarlo. Il fenomeno che appare
donandosi, giunge da una distanza e prende forma da sé, “risale dal suo proprio sfondo sino
alla sua forma propria” 95. Una tale considerazione della donazione può consentirci di
mettere tra parentesi il problema del donatore, ma certo impone una profonda revisione di
ogni forma di centralità del soggetto. Il termine anamorfosi sta ad indicare l’autonomia del
fenomeno che sale alla visibilità partendo da sé e facendo irruzione in un soggetto donatario
che sappia collocarsi nella giusta distanza, quella richiesta dal fenomeno stesso.
Jean-Luc Marion, per meglio caratterizzarne la natura, fa questa operazione: poiché il
modello del fenomeno povero di intuizione è presente nella Critica della ragion pura ed in
essa i Principi dell’intelletto puro “contengono il fondamento di possibilità
dell’esperienza”96 fenomenica, l’eccedenza, nel fenomeno saturo, del dato sulla
significazione, cioè sull’esperienza conoscitiva, assumerà la forma di un capovolgimento
degli stessi principi: perciò il fenomeno saturo risulterà imponderabile - secondo la quantità,
insopportabile - secondo la qualità, assoluto - secondo la relazione, inguardabile -secondo la
modalità97
Percependo, ho di fronte qualcosa di irriducibile alla percezione, un’eccedenza di senso,
un abbagliamento, un eccesso di luce che rende impossibile la visione, una meraviglia, una
realtà in forma di idolo o di icona98, la sacralità di una donazione sovrabbondante che mi
getta in una condizione di ascolto e di attesa e mi consegna il compito di un’ermeneutica
infinita, secondo questa logica: “autant de réduction, autant de donation”99
La realtà è comunque ricca e sovrabbondante, ma nei fenomeni percettivi ordinari, tale
ricchezza è continuamente persa, nelle sintesi della coscienza temporale; nei fenomeni saturi
tale ricchezza si addensa in una manifestazione istantanea, in un tempo che è
immediatamente fuori tempo, in un istante che si accende di eterno, in un fuori norma, quasi
fosse possibile accedere ad un segno non corrotto dalla possibilità della morte, un segno
impossibile, giacché “la possibilità del segno è questo rapporto alla morte”100: “nel parlare io
riconosco che la parola esiste unicamente in quanto ciò ‹che è› scompare in ciò che lo
95 J-L. Marion, Dato che, cit., p. 152.
96 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 244.
97 J-L. Marion, Dato che, cit. § 21; Il visibile ed il rivelato, da p. 49 a p. 62.
98 J. L. Marion, De surcroît, Presses universitaires de France, Paris, 2001, Cap. III, V.
99 J. L. Marion, reduction et donation, cit.
100 J. Derrida, La voce ed il fenomeno, cit. p. 88.
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nomina, fulminato dalla morte per trasformarsi nella realtà del nome: la parola più comune è
(…) la vita di questa morte.”101
3.3) Seconda stazione
La percezione appare sempre fuori mira. Dice troppo, fa mostra di una chiarezza che
non possiede, perché l’intenzionalità rimanda ad un fondamento opaco, l’attività soggettiva
ad un’originaria affezione, la temporalità della coscienza all’intemporalità dell’attimo,
l’identità della presenza ad una non identità: è come se la significazione si sviluppasse su un
fondamento di costitutiva insignificanza.
Dice poco perché l’intenzionalità si sente povera e disarmata di fronte ad una
ridondanza di senso che fa irruzione in lei ed il soggetto svuotandosi dell’attività di
significazione si abbandona (abbandono - gelassenheit) alla rivelazione di un senso che lo
costituisce.
Nei due casi, nel di più della percezione e nel di meno, vi è la presenza dell’altro, come
un’appartenenza originaria che rende possibile l’apertura percettiva o come un affidamento
che mi consegna ad un senso rivelato. Questo essenziale spossessamento dell’essere proprio
rende la fede percettiva o una falsa promessa o una presente speranza.
Solo incrementando il controllo critico, cioè la riduzione, è stato possibile considerare i
fenomeni saturi, ma tale metodica consente di individuare la caratteristica intrinseca dei
fenomeni: la donazione.
4) LA SIGNIFICATIVITA’ DELL’IMMAGINE
Il mondo che appare nel gioco dell’immaginazione “non sta accanto al mondo reale
come una copia, ma è questo stesso mondo reale in una più intensa verità del suo essere”102,
non nel senso che l’immaginazione imita, ma nel senso che l’immaginazione indica,
affidando all’uomo il compito dell’ interpretazione. L’esame della percezione mi ha posto
dinnanzi ad un concetto di esperienza più ampio di quello kantiano e per nulla riconducibile
ad una soggettività costituente. Il mio percorso prende ora la direzione indicata dalle
domande di Gadamer: ”L’arte non ha davvero nulla a che fare con la conoscenza? Non c’è
101 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, trad. R. Ferrara, Einaudi, Torino, 1977, p. 49.
102 H.G. Gadamer, Verità e metodo , trad. G.Vattimo, Bompiani, Milano 1994, p. 171.
24
nell’esperienza dell’arte una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza,
ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa?”103
4.1) Il valore immaginativo
La brocca percepita, la brocca immaginata. Nella percezione la cosa mi si dà per
adombramenti, attese percettive, delusioni, riconsiderazioni e riassestamenti, in una sintesi
delle fasi percettive regolata da una norma imposta dai fenomeni e la cui concordanza
consente il riconoscimento dell’identità della cosa stessa. L’immaginazione si pone su di un
piano di radicale eterogeneità rispetto alla realtà percepita, nel senso che la scena
immaginativa mi si dà immediatamente in una pienezza intuitiva, al di fuori di ogni norma:
immagino la brocca, l’ho di fronte a me nell’interezza dei suoi aspetti, quasi in trasparenza;
non posso girarvi attorno e non ha senso farlo, perché, nell’immagine, la brocca è tutto
quello che è.
Questo aspetto dell’immagine è definito da Sartre che si muove sul piano dell’analisi
fenomenologica, come il risultato di una quasi osservazione che pone il proprio oggetto
come un nulla: “Nella percezione io osservo gli oggetti. Bisogna intendere con questo che
l’oggetto, pur entrando tutto intero nella mia percezione, non mi è mai dato che da un lato
per volta. (…) Un’immagine (…) si dà tutta intera per quel che è”104. E ciò è il risultato di
una coscienza immaginativa derealizzante che nell’affermare un oggetto lo pone come
irreale105. Questa indagine consente all’autore di caratterizzare la natura nullificante della
coscienza e dunque la sua essenziale libertà, cioè la dialettica di in sé e per sé sviluppata ne
L’Essere e il Nulla: “ogni coscienza immaginativa mantiene il mondo come sfondo
nullificato dell’immaginario e, reciprocamente ogni coscienza del mondo postula e motiva
una coscienza immaginativa come colta dal senso particolare della situazione”.106
Piana, critico nei confronti di Sartre per questioni metodologiche e di merito107, parla di
neutralizzazione della posizione di esistenza e inferisce da questo concetto una serie di
caratteristiche essenziali della coscienza immaginativa. Intanto la libertà di posizione, per
Sartre la spontaneità, che consente alla coscienza di costituire qualunque oggetto, in
qualunque conformazione, su qualunque sfondo o senza sfondo, al di fuori di qualunque
preoccupazione di attestazione o accertamento, “nell’immaginazione non si possono
commettere errori”108.
103
104
105
106
107
108
Ivi, p. 128.
J.P. Sartre, Immagine e coscienza, trad. E. Bottazzo, Einaudi, Torino 1964, pp. 20-21.
Ivi, p. 29.
Ivi, p. 289.
G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, cit., da p. 128 a p. 134.
Ivi, p. 111.
25
Poi la decontestualizzazione, nel senso della collocazione dell’immagine in una
temporalità propria, immanente, non esteriorizzabile, fuori dalla legalità delle sintesi
percettive e poiché tali sintesi sono l’origine dell’individuazione dell’oggetto,
l’indeterminazione temporale sospende il Pricipium Individuationis, dando all’immagine la
coloritura tipica della vaghezza e dell’allusività.
Tuttavia l’immaginazione ha un carattere sintetico, nel fuori tempo di un’immanente
temporalità e non può prescindere, proprio in virtù della sua eterogeneità, da un riferimento
al mondo percepito. Le cose percepite del mio mondo circostante “sono vissute secondo una
piega immaginativa”109 che le colora di una tonalità affettiva: la brocca che contiene acqua o
vino è l’immagine della vita e dell’ebbrezza, ma nelle sue chiuse pareti nasconde l’umida
oscurità della morte, come un’urna cineraria.
E’ come se le caratteristiche della cosa possedessero un “indice di direzione
immaginativa”, un “dinamismo latente” in cui la cosa viene risucchiata all’interno di una
cornice di significati immaginari che ne consumano ogni identità oggettiva ed ogni
consistenza. Sulla cosa percepita scivola un valore immaginativo, non in ragione di un
accostamento estrinseco di contenuti, ma di una vera e propria fusione che dà luogo ad una
trasmutazione110, tale da rendere la cosa, pur in permanenza di forma, altra da quella che è:
“l’essere trapassa in valore. E questo trapassare consiste in una vera e propria
compenetrazione tra oggetti: il risultato della sintesi è un oggetto di genere interamente
nuovo (…)”111. Certo la ragione per la quale la cosa assume l’uno o l’altro valore
immaginativo dipende dalla storia del soggetto, dai suoi vissuti personali e dalle sue presenti
motivazioni112, ma non è pensabile che qualunque oggetto possa essere investito da
qualunque valore immaginativo: è come se la grammatica della percezione corrispondesse,
in qualche punto, alla grammatica dell’immaginazione, è come se nel materiale vi fosse un
immagine latente, una capacità allusiva113, è come se l’immaginazione costituisse uno
schema trascendentale capace di far emergere i significati nascosti della percezione.
Insomma, l’immagine rende il mondo più ricco, nel senso che il valore immaginativo
consegna un certo grado di espressività al materiale percepito: il vento che “odo stormir tra
queste piante”114, questa silenziosa voce, diventa in me l’immagine delle “morte stagioni e la
presente/ E viva”115 e questa immensità, l’immagine del mare in cui dolce “m’è naufragar”;
la profonda, triste, notte della morte diventa nei defunti l’immagine della vita come “cosa
109 Ivi, p. 137.
110 H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 142.
111 G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, cit., p. 141.
112 Il punto per Kandisky e per Klee, in G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, cit., da p. 164 a p.
168.
113 Ivi, p. 157.
114G. Leopardi, L’infinito.
115 Ivi.
26
arcana e stupenda” ”116, tale, quale “l’ignota morte appar” ai vivi. Sembra che il materiale
immaginativo si componga secondo nessi associativi di somiglianza, affinità, contrasto,
tanto da rendere possibile paradossalmente una logica dell’immaginazione117.
La cosa investita di un valore immaginativo, diventa una cosa nuova: non è più brocca,
ma vita o morte; non è più vento o siepe, ma eterno ed infinito. E’ in atto un rinvio,
un’operazione segnica che rende l’immagine più propriamente un simbolo.
Il simbolo non è una raffigurazione: posso dire che il dipinto di Van Gogh raffiguri le
sue scarpe (Schapiro); la relazione rappresentativa è qui immediata e diretta; le scarpe in
pittura sono il rappresentante, il segno, delle scarpe reali. Il simbolo non è un contrassegno
in cui la relazione rappresentativa è indiretta ed il rimando segnico può avvenire solo
attraverso la mediazione di un’esplicita, arbitraria, stipulazione: il semaforo rosso indica la
necessità di fermarsi in corrispondenza di un incrocio. Il simbolo si distingue dalla
raffigurazione perché in esso la relazione rappresentativa non è immediata, ma si distingue
anche dal contrassegno perché tale relazione deve essere giustificata in virtù di
un’operazione interpretativa. ” Il simbolizzato non si mostra senz’altro nel simbolizzante”118
e ciò dà ragione all’allusività delle immagini come forme simboliche, ma questa asimmetria
è il luogo di un’attribuzione di senso che fa emergere nuove espressività da materiali
conosciuti.
Posso considerare il quadro di Van Gogh come un simbolo, ma questo assunto mi pone
nella posizione di un ascolto interpretativo: verso quale direzione di senso mi consegna
l’ascolto di questa forma?
Sospendo per ora la questione, perché mi si apre di fronte un nuovo scenario che mi
interpella: “il simbolo dà a pensare”119.
4.2) La totalità infranta120
Il simbolo rimanda all’idea di un’unità spezzata in due metà, ognuna delle quali rinvia
all’altra: le due parti sono in una relazione di differenza, l’una non è l’altra; e di reciprocità,
l’una è il senso dell’altra, perché sono parti di un intero. L’intero è nella parte, come suo
essenziale significato di parte; in ogni parte, che pertanto è la stessa dell'altra, ma non
l’eguale121. Ogni parte accade per l’altro da sé, è dunque il nulla di sé, cioè l’ente finito: è
116 G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie.
117 G. Piana, Le regole dell’immaginazione, ed. digitale, 2004.
118 G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, cit., p. 145.
119 P. Ricoeur, Finitudine e colpa, ed. Il mulino, Bologna 1970, p. 265.
120 Mi attengo alle analisi di Sini, che conduce un lungo discorso sul tema del simbolo in continuo dialogo
con Creuzer, Kallir, Cassirer.
121 M. Heidegger, Identità e differenza, trad. G. Giurisatti, Adelphi, Milano 2009, pp. 27-53.
27
per questo che noi abbiamo un’esperienza e che la nostra vicenda si svolge nella storia. In
quanto costitutivamente rinvio, il simbolo è fondamento di ogni segno. L’uomo è un segno
in un mondo di segni. “Ciò che fa essere il simbolo quello che è, è la fessura, ciò che mette
insieme è la fessura, è essa che unisce distanziando e distanzia unificando. (…): il simbolo,
pertanto, è quella originaria dimensione in cui si manifesta l’apertura della differenza”122.
Questo significa che la differenza è aperta nel nulla, ac-cade nel nulla, il suo rinvio è reso
possibile da un orlo di nulla: non che prima delle cose ci sia il nulla o che il nulla possa
essere assunto come origine e fondamento. Il nulla c’è con la differenza e la distanza, è nella
differenza e nella distanza, come la possibilità di una relazione segnica che nell’atto stesso
di porre un altrove, consegna all’altra parte il suo dove. Il gioco dei rinvii delle parti poggia
sul tutto di cui le parti sono parti: questo significa che il tutto non rinvia ad altro che a sé.
E’cioè fuori segno, non c’è; quello che c’è, è la fessura che con-tiene le parti. “Che cosa sia
l’intero prima della sua frattura, non si può dire, anzi non si deve dire, non è da dire. Infatti
solo il segno “dice”, nel suo accadere, nel suo mirare-a e nella sua catastrofe nel nulla
dell’oggetto” 123. Non abbiamo mai l’esperienza della totalità, bensì solo della frattura e della
separazione che apre e chiude, avvicina e separa, fa delle cose un segno e con-segna
all’uomo l’aver-da-essere la risposta che, provenendo dalla frattura, dispiega la relazione
segnica. Il nulla della parte e il nulla del segno giocano nel nulla dell’intero. Questo è il
proprio della relazione simbolica: la parte è, il tutto non è, “ma questo suo esserci è la nullità
della parte”124. In che senso dunque potremmo parlare dell’essere proprio del simbolo? Non
siamo qui all’interno di un movimento di traspropriazione?
Non è l’uomo che istituisce il simbolo, è il simbolo che istituisce l’uomo: “il simbolo
non è affidato alla decisione umana perché esso è l’ostensione e la traccia di quel primo
venire incontro del mondo (degli Dei), del fuoco e dell’acqua, della foresta e della
montagna, del cielo e del mare, della donna e dell’uomo, del genitore e del figlio (…)”125.
Aprirsi ad una considerazione simbolica della realtà, significa regredire verso la condizione
arcaica dell’umanità in cui ogni cosa è simbolo e la stessa coscienza di sé si costituisce nella
sua profondità in un orizzonte simbolico:”la manifestazione simbolica come cosa è matrice
di significazioni simboliche come parole; non si è mai finito di dire il cielo”126. Non c’è
l’uomo prima della relazione simbolica ed il primo simbolo vivente è il corpo “in quanto
capacità ostensiva, indicativa, espressiva”127. Nel di-segnare sé, il corpo di-segna il mondo.
I”paraggi corporei”, l’insieme dei gesti o grafemi del corpo, rimandano ad una rete di
corrispondenze, vicinanze e lontananze, che uniscono e tendono a distanza il mondo ed il
122
123
124
125
126
127
C. Sini, I segni dell’anima. Saggio sull’immagine, Laterza, Bari, p. 166.
C. Sini, Immagini di verità, Spirali, Milano 1990, p. 151.
Ivi, 142.
C. Sini, Il simbolo e l’uomo, Egea, Milano 1991, p. 121.
P. Ricoeur, Finitudine e colpa, cit., p. 255.
C. Sini, Il simbolo e l’uomo, cit., p. 147.
28
corpo: “luogo osmotico di continui rispecchiamenti ed adombramenti che costituiscono le
prime basi materiali dell’esperienza”128 . E’ per questo che la parola iniziale è disegno,
pittura di cose, engramma bisferico129, fonema che è grafema, suono fatto di immagini,
alfabeto primitivo costituito da segni pittorici, testimonianza di un arcaico commercio
dell’uomo con il mondo, in cui “il linguaggio, l’espressione, erano per così dire, ancora
attaccati alle cose che esprimevano e non astratti da esse”130. La fessura che separa, nel
rinviare l’una all’altra parte, designa l’incontro dei divini e dei mortali, del cielo e della
terra, un incontro originario ed una sempre a-venire nostalgia d’incontro, che si esprime
come risposta: “l’evento del segno è ciò che dà luogo alla Risposta”131. E’ la risposta che
volgendosi ad una mancanza genera il pensiero: “nella presenza, l’assenza si fa segno”132 e
chiama; corrispondendo, la risposta fa segno e l’uomo può dire il mondo: i segni dell’uomo
sono risposte, “la gioia del sì nella tristezza del finito” 133.
Nell’accadere in cui ogni cosa è un segno ed i segni sono la relazione originaria, ogni
gesto, l’esserci stesso delle cose, “è un’apertura, una presa di distanza che è insieme un
provenire ed un dirigersi verso” 134. Ogni cosa è di-stanza, sta cioè della originaria divisione,
come ente finito con-segnato alla ricorsività dei segni; dunque ogni cosa è d’istanza come
rimando all’altro da sé; perché tutto è nella distanza. Questo significa che il nostro esserci è
compreso nell’evento dell’interpretazione e che l’uomo è un essere ermeneutico. “(…) Ciò
equivale a dire: il mondo è per l’uomo un segno da interpretare. Ma nel contempo: anche
l’interpretazione umana è un segno del mondo ed è un’interpretazione da interpretare”135. Il
gioco della distanza segnica, su cui Sini insiste, è un modo di esprimere il circolo
ermeneutico della comprensione: l’uomo comprende l’essere a partire dal suo essere
compreso in esso, l’essere è il frutto della sua interpretazione che sorge a partire dalla luce
dell’essere, il contenuto è nel contempo contenente, il centro “disegna il circolo che lo
contiene”136. L’uomo è coinvolto nell’essere, nel senso che in lui si fa questione dell’essere,
sta nell’essere, è di-stanza nell’essere nella forma della precomprensione; nel contempo
provenendo dall’essere è in cammino verso il senso dell’essere, come domanda sorta sulla
base del suo radicamento, è d’istanza; ciò accade proprio perché l’uomo non è l’essere, è
gettato nella fessura originaria come distanza: “ma ciò significa: egli non è ciò che è”137. La
differenza ontologica si presenta come un differire continuo.
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137
C. Sini, Gli abiti, le pratiche ed i saperi, Jaca Book 1991, p. 23.
A. Kallir. Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto, Edizioni Spirali, Milano 1994.
C. Sini, Idoli della conoscenza, Raffaello Cortina 2000, p. 150.
C. Sini, Immagini di verità, cit., p, 144.
Ivi, p. 147.
P. Ricoeur, Finitudine e colpa, cit., p. 235.
C. Sini, Gli abiti, le pratiche ed i saperi, cit., p. 20.
C. Sini, I segni dell’anima. Saggio sull’immagine, cit., p. 136.
Ivi, p. 134.
Ivi, p. 133.
29
L’accadere del segno si dà nella forma di un compito, di una risposta, che istituisce il
polo rispondente, come soggetto interpretante, il quale svolgendo il significato del segno, fa
sorgere l’oggetto: “emerge pertanto, in uno con questa distanza, con questo distanziare,
l’altrove, ciò-per-cui il segno sta: l’oggetto. (…) Come altrove del dove dell’aver-daguardare, che nel dove fa segno”138. In origine v’è il segno: ciò significa che in origine,
prima ancora della domanda, v’è il gioco dell’ascolto, lo stupore dello sguardo e poi una
risposta che prima di tutto e fondamentalmente dice eccomi, che si scioglie, nell’obbedienza
ad una originaria convocazione, in una semiosi infinita. L’uomo, un segno, che fa parlare i
segni, in un dire che continuamente si disdice: il tratto della separazione segnica istituisce il
tratto del significato; un tratto sul tratto, una croce. “Il simbolo dà a pensare”; il dono del
simbolo è il dono del pensiero, ciò significa: “tutto è stato già detto sotto forma di enigma e
(…), tuttavia, tutto deve sempre essere cominciato nella dimensione del pensiero”139.
4.3) Nei paraggi di Kant
Ho di fronte una cosa: coglierla percettivamente significa averne una rappresentazione.
Ora, tale rappresentazione può essere assunta al di sotto della legalità dei concetti, dando
luogo al giudizio conoscitivo che determina l’oggetto; oppure può essere “accostata,
confrontata”140 con le facoltà conoscitive del soggetto, in relazione all’idea di conformità ad
un fine, dando luogo al giudizio di gusto. Se il giudizio applica un concetto ad un’intuizione
data, lo determina conoscitivamente nello schematismo trascendentale; se il soggetto prova
un sentimento di piacere per l’accordo reciproco delle facoltà conoscitive, in
corrispondenza di un’intuizione data, si apre ad una considerazione estetica della realtà.
Eccomi ancora di fronte alla percezione ed all’immaginazione.
“Per decidere se una cosa sia bella o meno, noi non poniamo, mediante l’intelletto, la
rappresentazione in rapporto con l’oggetto, in vista della conoscenza; la rapportiamo,
invece, tramite l’immaginazione (…) al soggetto ed al suo sentimento di piacere e di
dispiacere.”141. Dunque il giudizio di gusto, non è un giudizio di conoscenza, non è logico,
ma estetico, poiché il suo principio determinante è il sentimento del piacere, meramente
soggettivo.
Cerco di capire: com’è possibile un giudizio estetico? Qual è l’atteggiamento che ci
consente di cogliere la bellezza della realtà e non semplicemente la conoscibilità?
“L’apprensione delle forme nell’immaginazione non può aver luogo senza che anche
intenzionalmente il giudizio riflettente la paragoni con la propria facoltà di riferire le
intuizioni ai concetti, in questa comparazione l’immaginazione come facoltà delle intuizioni
138
139
140
141
C. Sini, I segni dell’anima. Saggio sull’immagine, cit., p, 139.
P. Ricoeur, Finitudine e colpa, cit., p. 625.
I. Kant, Critica del giudizio, a cura di A. Bosi, UTET, Torino, 1993, p. 105.
Ivi, p. 179.
30
a priori viene spontaneamente ad accordarsi con l’intelletto, come facoltà dei concetti, in
modo da provocare un sentimento di piacere”142 .
Posso semplificare l’analisi kantiana dell’esperienza estetica in tal modo: la forma
dell’oggetto rappresentato, quando stimola l’accordo dell’intelletto, facoltà di comprensione
concettuale, e dell’immaginazione, facoltà di apprensione intuitiva, come se ci fosse una
correlazione finalistica tra forma oggettiva e facoltà, suscita in me un sentimento di piacere
che sta alla base del giudizio estetico, dunque la bellezza può essere presentata come
“finalità delle forme del fenomeno”143. Mi pare che una simile correlazione concettuale
presenti diversi problemi.
In primo luogo: che cosa significa forma dell’oggetto?
Kant intende la forma come”figura” 144, cioè come “limitazione”145 o “composizione del
molteplice”146: la forma è l’unità spaziale del fenomeno che si dà nel tempo come se la
sintesi fosse immediata. Credo che il concetto di forma si chiarisca con il concetto di
disinteresse che l’autore accosta alla tematica del piacere. Il disinteresse è rivolto sia nei
confronti dell’esistenza dell’oggetto (ambito etico), che nei confronti dell’essenza (ambito
conoscitivo): che cos’è l’oggetto se prescindo sia dalla sua natura essenziale o possibilità
d’essere che dalla sua natura esistenziale o realtà effettuale? E’ una forma rivolta sia
alla”natura animale” degli uomini che alla loro “natura razionale” 147: un concetto visibile,
un’immagine, un contorno, un di-segno. La forma inerisce alla cosa come l’individualità e
la stabilità della cosa stessa: “la forma è anzitutto forma chiusa”148.
In secondo luogo: che cosa significa piacere?
Naturalmente si fa riferimento ad un “piacere di semplice riflessione”149, e non ad un
piacere sensoriale (il piacevole), in considerazione del fatto che il giudizio di gusto, pur
avendo un fondamento soggettivo, è comunicabile ed universale. Dunque ad un piacere
disinteressato, puramente contemplativo. Ma ciò non spiega ancora la natura del piacere.
142
143
144
145
146
147
148
149
I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 139.
Ivi, 139.
Ivi, 201.
Ivi, 219.
Ivi, 215.
Ivi, 186.
G. Piana, la notte dei lampi, Guerini, Milano 1988, p.281.
I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 267.
31
Kant ne parla come di un “sentimento vitale”150, come di “un’intensificazione della vita”151,
una “voce universale”152; insomma mi pare che le indicazioni vadano nella direzione di
qualcosa che incrementi o perlomeno confermi la natura propria dell’uomo: l’esperienza del
bello aprirebbe dunque l’uomo al vero ed al bene confermandolo nella sua specifica
destinazione.
In terzo luogo il tema della finalità soggettiva. Tutto il disegno della terza Critica è
impostato sul tema della finalità che consente di presentare l’estetica come mediazione della
conoscenza e dell’etica. Nell’ambito della considerazione del bello, “(…) la soddisfazione
che noi senza concetto, giudichiamo universalmente comunicabile, e quindi causa
determinante del giudizio di gusto, non può consistere altro che nella finalità soggettiva
della rappresentazione di un oggetto, senza fini di sorta ( né oggettivi né soggettivi), quindi
nella semplice forma della finalità nella rappresentazione con la quale un oggetto ci viene
dato, nella misura in cui ne siamo coscienti”153. E’ come se l’oggetto rappresentato fosse per
noi, per la nostra armonia; è come se il mondo si incontrasse con il soggetto nel punto del
massimo valore; è come se il mondo ci fosse per l’uomo e l’uomo per il mondo, nel senso
che la forma oggettiva colta risulta adeguata sia alla facoltà dei concetti che alla facoltà
intuitiva: bella è una cosa “solo per la sua capacità di accordarsi col nostro modo di
coglierla”154.
In quarto luogo: che cosa significa accordo tra le facoltà conoscitive?
Accordo reciproco, armonia, ma più spesso e più significativamente, “libero gioco delle
facoltà conoscitive” 155. Cosa significa gioco?
Provo a muovermi in altri ambiti: le Ricerche logiche di Wittgenstein e la teoria dei
giochi linguistici. Il gioco viene qui presentato come una stipulazione, o meglio, una serie di
stipulazioni: vi è un elementare gioco che designa ostensivamente, cioè “denomina
oggetti”156, ma “non abbiamo detto proprio niente”157. “Mostrando a qualcuno il pezzo che
rappresenta il re nel gioco degli scacchi e dicendogli: «Questo è il re», non gli si spiega
150
151
152
153
154
155
156
157
Ivi, p. 180.
Ivi, p. 220.
Ivi, p. 192.
I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 197.
Ivi, p. 256
Ivi, p. 193.
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino1983, p. 9.
Ivi, p. 15.
32
l’uso di questo pezzo”158, perché le parole hanno un valore d’uso, sono cioè connesse a
pratiche di vita e qui occorre un secondo livello di stipulazione. Poi dobbiamo considerare il
fatto che i giochi linguistici vanno e vengono, si trasformano nel tempo, perché “il parlare
un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita”159: terza stipulazione. Vi è da
notare che la condizione della sensatezza del mio linguaggio è che io entri in queste
convenzioni, cioè, in un certo senso, che sia io stesso parlato dal mio linguaggio. Se dicessi
parole fuori norma, non sarei compreso, è come se non parlassi: siamo nel linguaggio,
naturalmente in un senso molto diverso da quello a cui allude Heidegger. Mi rivolgo
altrove: Verità e metodo di Gadamer. Qui il vantaggio è che l’autore lega la tematica del
gioco all’opera d’arte; siamo pur sempre nell’ambito di un linguaggio. Nel gioco si gioca a
qualcosa, ciò significa che il gioco apre un ambito di senso regolato da norme. Tale ambito è
scelto, costituito, ma poi “ogni giocare è un essere-giocato. Il fascino del gioco, l’attrazione
che esso esercita, consiste appunto nel fatto che il gioco diventa signore del giocatore”160. Le
regole del gioco pongono all’uomo un compito, privo di finalità, che istituisce il
comportamento del giocatore: “il gioco è, per antonomasia, autorappresentazione”161. Nel
giocare il suo gioco il giocatore mette in atto il gioco stesso, ma poiché il gioco è per lui un
compito, “l’autorappresentazione del gioco fa sì che il giocatore, per dir così, pervenga ad
autorappresentarsi egli stesso, nella misura in cui gioca a, cioè rappresenta, qualcosa”162.
Nel gioco, è il gioco che si manifesta. “Il gioco è forma”163, cioè è una totalità di senso
continuamente reiterabile.
Mi pare di poter evincere da questo veloce esame alcune caratteristiche essenziali: il
gioco è una convenzione regolata da norme, accettare il gioco significa conoscere la
convenzione ed attenersi alle norme. Le norme hanno una loro semantica che istituisce il
senso della parte o delle componenti del gioco ed una loro sintassi, nel senso che le norme
generano altre norme in un ordine che rende possibile la fine del gioco, ma anche la sua
ripetizione: il gioco per sua natura è infinito, non si smette mai di giocare. Il giocatore è nel
gioco, come una variabile dipendente, per cui l’esperienza del gioco è l’esperienza di una
semi-libertà: sono costituito dalla mia istituzione del gioco. Il gioco è una forma che
produce una trasmutazione di senso perché manifesta un ordine che non è l’ordine della
realtà, perché sostituisce alla totalità incompiuta del senso reale una totalità convenzionale
compiuta. Entrando nel gioco, faccio il mio gioco: il mio modo di mettere in atto la regola,
mi rappresenta per quello che sono; il mio inserimento in un ambito totalizzante di senso,
realizza il mio senso.
158
159
160
161
162
163
Ivi, p. 25.
Ivi, p. 21.
H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. G. Vattimo, Bompiani, Milano 1994, p. 137.
Ivi, p. 139.
Ibidem.
Ivi, p. 149.
33
Torno a Kant ed alla sua tematica del gioco. Dunque si tratta del gioco delle facoltà
conoscitive, più precisamente del gioco dell’immaginazione che dà il molteplice
nell’intuizione e del concetto che ne coglie l’unità, cioè dell’apprensione e della
comprensione. Mi accorgo che è la stessa correlazione fissata dall’autore in ambito
teoretico, ma lì il rapporto è regolato dagli schemi, qui il gioco è libero perché sappiamo che
il principio in ambito conoscitivo è la legalità del concetto, in ambito estetico è la
soggettività del piacere, “sentimento del libero gioco delle facoltà rappresentative in una
rappresentazione data, in vista di una conoscenza in generale”164. Schema significa
sussunzione ordinata e prevedibile dell’intuizione nel concetto, in cui l’intuizione è a
servizio del concetto e pertanto non può esaurirlo, gioco significa “accordo soggettivo
dell’intuizione con l’intelletto”165 , in cui l’intelletto è a servizio dell’intuizione e non può
esaustivamente coprirla. Lo schema rappresenta l’operatività dell’intelletto sul tempo che
apre un campo di determinabili oggetti di conoscenza, il gioco, in ambito estetico, assume lo
schema come modello, prendendone la semantica, il concetto di intelletto ed il concetto di
immaginazione, ma mutandone la sintassi: in ambito teoretico cerco il dato intuitivo da
sussumere sotto un universale dato, in ambito estetico cerco l’universale corrispondente al
dato intuitivo. Mentre, nel primo caso, l’incontro di due datità rende possibile una
determinazione puntuale; nel secondo caso la struttura è aperta a qualunque punto di
corrispondenza tra le facoltà, punto che definisce una possibilità conoscitiva, ma senza
determinarla, “perché nessun concetto determinato le limita ad una particolare regola
conoscitiva”166. Sia nel primo che nel secondo caso entra in gioco un’operazione
infinitamente riproducibile, ma nel caso dello schematismo ciò ci consente di estendere il
campo della conoscenza, nel caso dell’immaginazione il campo della pensabilità secondo
l’istanza di un’unità “quale un intelletto (sebbene non il nostro) avrebbe potuto stabilire a
vantaggio della nostra facoltà conoscitiva”167. Lo schema determina contenuti, il gioco
definisce compatibilità formali. Nel gioco delle facoltà, l’oggetto per mezzo dei sensi
stimola l’immaginazione alla composizione del molteplice, l’immaginazione stimola
l’intelletto ad unificare in concetti il molteplice stesso. “Questa disposizione delle facoltà
conoscitive assume d’altra parte proporzioni diverse a seconda della diversità degli oggetti
dati”168; è pensabile che vi sia per ogni oggetto una disposizione ottimale delle facoltà “e
questa disposizione non può che venir determinata altro che dal sentimento (non da
concetti)”169; ecco il sentimento del piacere.
164
165
166
167
168
I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 193.
Ivi, p. 217.
I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 193.
Ivi, p. 158.
Ivi, p. 213.
169 Ibidem.
34
E’ possibile individuare nella dinamica messa in luce da Kant alcuni aspetti generali del
gioco?
Il fatto di porsi come analogon dello schema fa del libero gioco di facoltà non una
condizione arbitraria o casuale, ma una “legalità senza legge”170, cioè un insieme aperto di
regole, che definiscono l’ambito della pensabilità; se così non fosse il giudizio di gusto non
potrebbe pretendere all’universalità, non sarebbe dunque un giudizio a priori. D’altro canto
questa estensione del giudizio è garantita dall’universalità del piacere171 e da “un senso
comune”172 che non sono altro che l’espressione di un accordo di facoltà implicato nello
stesso processo conoscitivo che ha una portata, appunto, universale e necessaria. Certo, per
questa stessa ragione, non possiamo dire che tali regole siano convenzionali; così funziona il
soggetto trascendentale, secondo dinamismi logici che si impongono con la loro valenza
costitutiva. Inoltre l’accordo delle facoltà, e qui mi pare ci sia una forte corrispondenza con
la tematica generale del gioco, non solo è formale, ma costituisce una forma, cioè una
totalità di senso le cui componenti e funzioni assumono un nuovo senso. Considero il
soggetto nell’aprirsi di tale gioco. La corrispondenza delle facoltà che sono soggettive non
può che essere colta dall’intuizione pura del tempo; la presentazione della forma,
l’attivazione dell’accordo di immaginazione ed intelletto, il sentimento del piacere, sono
tutti processi interni che sono organizzati dal senso interno, cioè dall’intuizione del tempo. Il
gioco avviene nel tempo, richiede tempo, per alcuni aspetti, è il gioco stesso del tempo; ma
nell’atto stesso in cui prendo coscienza del gioco, accompagnando le rappresentazioni con
l’io penso, ed è necessario che sia così, sono subito fuori tempo. Un tempo fuori tempo è un
soggetto fuori di sé, en dehors: è un tema che ho già sfiorato173, ma qui questo svuotamento
della soggettività diventa la condizione propria del soggetto dell’esperienza estetica che è
essenzialmente un’esperienza contemplativa. L’armonia interna del soggetto porta alla
denucleazione della soggettività: mi affermo nell’atto stesso in cui mi perdo. Mi chiedo se
non sia attribuibile a tutta l’esperienza estetica, forse in misura diversa, ciò che Kant dice
circa il Sublime: “si tratta di un movimento soggettivo dell’immaginazione, con il quale
essa fa al senso interno una violenza che dev’essere tanto più grande, quanto maggiore è la
grandezza ch’essa comprende in un’intuizione”174. L’autore sta trattando “l’assolutamente
grande”, ma le sue espressioni contengono una proporzionalità e la forma della
rappresentazione oggettiva che si presenta nell’esperienza estetica, proprio in quanto tale, ha
una certa grandezza.
170 Ivi, p. 216.
171 “Non è dunque il piacere, ma l’universalità di questo piacere, percepita come legata nell’animo con il
semplice giudizio d’un oggetto, quello che in un giudizio di gusto è rappresentato a priori come regola
universalmente valida del giudizio” Kant, Critica del giudizio, cit. p.263.
172 Ivi, p. 213.
173 Vedi p. 18.
174 I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 233.
35
Cosa succede, nella totalità del gioco, sul versante oggettivo? Come si configura la cosa
dell’esperienza estetica?
L’atteggiamento contemplativo è disinteressato, nel senso che prescinde dall’esistenza
dell’oggetto e dalla sua concettualità, cioè dalla sua essenza, pertanto ha di fronte un mondo
non concettualizzato né percepito, un mondo fuori dal mondo, cioè fuori dal suo senso
proprio: un mondo simbolico. Mi viene in mente Lévinas: “Esse è interesse. L’essenza è
interessamento. (…) L’interessamento dell’essere si drammatizza (…) nella molteplicità di
egoismi allergici (…) L’essenza è così l’estremo sincronismo della guerra. (…) Gli esseri
grazie alla pazienza, rinunciando all’intolleranza allergica della loro persistenza nell’essere,
non drammatizzano forse l’altrimenti che essere?”175. E’ un gioco che mette fuori gioco sia
il soggetto che il mondo, in un processo di ipotiposi simbolica, in cui soggetto e mondo si
disvelano come appartenenti ad una medesima matrice sovrasensibile. Poiché le
rappresentazioni dell’immaginazione tendono a qualcosa oltre l’esperienza e nessun
concetto può essere loro adeguato, è possibile dar loro il nome di idee: “Un’idea estetica
non può divenire conoscenza, perché essa è un’intuizione (dell’immaginazione) alla quale
non si può mai trovare un concetto adeguato. Un’idea della ragione non può mai divenire
conoscenza, perché contiene un concetto (del sovrasensibile), al quale non si può mai dare
un’intuizione adeguata. Ora, credo che l’idea estetica la si potrebbe dire una
rappresentazione inesponibile dell’immaginazione, l’idea della ragione invece un concetto
indimostrabile della ragione”176. Questa è precisamente la definizione di fenomeno saturo.
Nessuna lingua può esprimere e rendere comprensibile un’idea estetica, “essa dà da pensare
più di quanto possa (nel concetto) essere compreso e chiarito”177. L’inesprimibile ridondanza
di senso del gioco estetico fa sì che esso vivifichi l’esperienza conoscitiva “infondendo
nuovo spirito nella mera lettera del linguaggio”178: “io affermo che il bello è il simbolo del
bene morale”179.
4.4) La brocca filosofica
“Che cosa possiamo porre che sia il luogo? Avendo infatti una tale natura, né è possibile
che sia un elemento, né che derivi da elementi, né che faccia parte delle cose corporee, né di
quelle incorporee. Infatti , ha grandezza, ma non è alcun corpo (…)” 180. Se esso fosse un
ente tra gli enti, sarebbe in un luogo, e quest’ultimo in un altro e così via all’infinito, come
nel paradosso di Zenone; e poi come ogni cosa è in un luogo, in ogni luogo vi sarà una
175 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. S. Petrosino, M.T. Aiello, Jaca Book, Milano
1995, p.7.
176 I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 315.
177 Ivi, p. 288.
178 Ivi, p. 290.
179 Ivi, p. 325.
180 Aristotele, Fisica, IV, 209 a 13.faccio riferimento alla trad. M. Zanatta, UTET, Torino 1999.
36
cosa: che succederebbe se tutti i corpi si accrescessero? Evidentemente anche il luogo
aumenterebbe, ma in quale luogo? Diviene problematico “non solo che cosa esso sia, ma
anche se esso esista”181. Aristotele trova la via di uscita rispetto ai paradossi implicati nel
concetto di luogo, attraverso un’immagine: “il luogo sembra essere una cosa tale quale è il
vaso”182, la brocca.
Per comprendere il luogo ho bisogno di materializzarlo, cioè di rappresentarlo in forma
di cosa. La brocca illustra, per così dire, il concetto di luogo attraverso il rapporto del
contenuto con il contenente, cioè dell’essere dentro un recipiente, oppure dell’essere dentro
un essere fuori: il vino o l’acqua dentro la brocca. Il luogo ha dunque a che fare con un
nesso di contiguità e di discontinuità, di massima vicinanza o aderenza e separazione o
lontananza: di prossimità. Dunque il luogo ha a che fare con una relazione: “c’è solo se ci
sono i termini della relazione, che debbono essere corpi – il corpo che contiene ed il corpo
che è contenuto”183. La brocca che contiene il vino o l’acqua può essere trasportata da un
luogo all’altro con il suo contenuto, che segue il movimento del contenente, il quale rispetto
al contenuto appare immobile: dunque la brocca è il luogo del vino, ma qual è il luogo della
brocca? Ecco la necessità di mobilitare il concetto di movimento: “il luogo è questo: il
primo limite immobile del contenente”184.
Il concetto di limite mi consente di pensare al luogo come un minimo che corrisponde al
contorno della figura ed un massimo che potrei pensare come allo spazio, cioè al contenente
di tutti i contenuti. Ma allora, in un senso generale, il luogo delle cose è sempre la terra ed il
cielo.
Giovanni Piana sviluppa il tema del luogo, ma non da un punto di vista oggettivistico,
mettendosi piuttosto sul versante dell’esperienza precategoriale, in considerazione del fatto
“che la realtà stessa è in qualche modo sempre una realtà sfuggente, una realtà che va
sfumando nell’una o nell’altra direzione, nella direzione del pensiero e nella direzione
aperta dal vissuto”185. Su questo piano l’autore presenta uno schematismo elementare: posso
pensare il luogo come un piccolo cerchio dentro un cerchio più grande; un dentro in un
fuori. Allora il luogo mi appare come una “delimitazione”, una “chiusura”, una dimora, un
ambito di riparo e protezione, una condizione di intimità e confidenza: “noi ci sentiamo in
un luogo (…)come in un’anfora, come in una cavità che ci accoglie.”186. Lo spazio, in
questo senso potrebbe essere rappresentato dalla circonferenza più grande, è l’ambito
dell’aperto, dello sconosciuto, della dispersione, dell’erramento. Il luogo è forma chiusa,
con i connotati della misurabilità e del controllo, lo spazio è forma aperta, con i connotati
181
182
183
184
185
186
Ivi, 209 a 30.
Ivi, 209 b 28.
G. Piana, La notte dei lampi, Guerini, Milano 1988, p. 259.
Aristotele, Fisica, 212 a 20.
G. Piana, La notte dei lampi, cit., p. 274.
Ivi, p. 270.
37
dello smisurato e dell’incontrollabile. Naturalmente la rappresentazione è relativa, nel senso
che potrei estendere al massimo il cerchio esterno, sino al cerchio di tutti i cerchi (ma è
ancora un cerchio?) e raccogliere al minimo il cerchio interno fino al contorno della cosa o
del mio corpo. Questa rappresentazione dinamica mi aiuta a capire il luogo come un
processo di avvicinamento, lo spazio come un processo di allontanamento. E poiché non c’è
un dentro che per un fuori, un vicino che per un lontano, questo schematismo elementare mi
consente di dire che “tutte le cose stanno tra cielo e terra”187. Lo Zwischen definisce il luogo
dell’uomo e delle cose. La familiarità dell’uomo con le cose sta in questa comune
appartenenza ad un framezzo.
L’esercizio della riduzione fenomenologica va nella direzione delle evidenze del mondo
della vita, ma è poi veramente ricostruibile una dimensione puramente precategoriale? Già
il modo in cui ho posto il problema nasconde un paradosso fondamentale: l’attività che ci
pone al di là di ogni esperienza costitutiva, non implica essa stessa un’intenzione
costitutiva? Certo, l’esperienza vissuta è quella che è, nell’immediatezza e nell’evidenza,
ma posso sempre pensarla come una stratificazione di senso che rimanda ad altre
stratificazioni: dalla cosa percepita, a quella immaginata, sino al simbolo. Mi pare che si
ripresentino qui le movenze del dubbio cartesiano: il dubbio è ricorsivo, si autoalimenta,
investe livelli di realtà sempre più profondi. Mettere in dubbio lo stesso esercizio del dubbio
non significa uscirne, significa renderlo autoreferenziale, cioè aprire la vertigine della
ripetizione. Ciò che ferma questa infinita ricorsività è l’idea dell’infinito188 che è in me, ma
non è da me: la dissipazione continua del finito si ferma di fronte alla traccia (sigillo)
dell’infinito189. E’ come se ci fosse, nella procedura messa in atto da Cartesio, un salto che
porta al di fuori del pensiero, verso l’irriducibilità dell’esistenza: dal cogito ergo sum, al
sum ergo cogito; dall’analisi concettuale, alla contemplazione mistica190.
Che cosa ferma l’infinita ricorsività della riduzione?
Poiché tale esercizio è volto al coglimento di evidenze originarie precategoriali, esso
può terminare solo se la sua messa in atto tiene conto di tutte le possibilità di
categorizzazione che si sono storicamente definite. Intendo le totalità di senso che sono
apparse nel corso della storia ed all’interno delle quali soggetto, oggetto, conoscenza, essere
… ecc, hanno ricevuto il loro senso. Questo movimento è la storia dell’essere, nella sua
epocale manifestatività, la riduzione che ne tiene conto, è ciò che Heidegger chiama
187 Ivi, p. 275.
188 Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., III meditazione.
189 “Non sono io – è l’Altro che può dir sì. Da lui viene l’affermazione. (…) Possedere l’idea dell’Infinito
significa già avere accolto Altri.” Lévinas, Totalità ed infinito, trad. A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1999, p. 92.
190 “(…) Mi sembra molto a proposito fermarmi qualche tempo alla contemplazione di questo Dio
perfettissimo, di ponderare a mio agio i suoi meraviglioso attributi, di considerare, ammirare e adorare
l’incomparabile beltà di questa immensa luce, almeno tanto quanto potrà permetterlo la forza del mio
spirito, che ne resta in certo modo abbagliato.” Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., p. 49.
38
pensiero rammemorante, l’atteggiamento a cui conduce è la considerazione delle cose alla
luce, cioè nell’apertura, di questa storia. Ecco il salto, necessario “per esperire
espressamente il coappartenere di uomo ed essere”191, in cui si raccoglie il gioco della
traspropriazione dell’uomo all’essere e dell’essere all’uomo. E’ come se fosse possibile
condensare il senso complessivo della storia dell’essere nell’attimo di una visione che non
può che apparire come visione originaria: occorre tener presente che anche questa
possibilità è una manifestazione dell’essere.
Queste brevi battute mi consentono di assumere nei confronti del testo di Heidegger, La
cosa, che mi appresto a commentare, un atteggiamento di ascolto. Il salto messo qui in atto
dal pensiero rammemorante è il passaggio dalla considerazione oggettivistica del pensiero
rappresentativo, ad una considerazione meditativa 192 che corrisponde all’appello dell’essere;
dalla riduzione dell’essere all’ente, all’apertura dell’ente all’essere. Su questo piano la cosa
non è oggetto, il pensiero della cosa non è rappresentazione ed il loro rapporto non si
configura come presenza.
Provo ad entrare nel testo, evidenziandone alcuno movimenti.
Movimento 1. Il problema generativo dell’indagine di Heidegger è la definizione di
vicinanza che naturalmente implica anche un chiarimento del significato di lontananza.
Ecco riproposte le questioni di Aristotele e di Piana, ma ad un livello di significato più
fondamentale. Che cos’è la vicinanza? Qual è l’essenza della vicinanza? L’urgenza della
domanda deriva dalla considerazione che con l’evento della tecnica “nonostante il
superamento delle distanze, la vicinanza di ciò che è continua a mancare”193.
Movimento 2. La domanda posta ne sollecita un’altra: che cosa ci sta vicino? Che cosa,
nella vicinanza, a noi si rivolge? La cosa è ciò che ci sta vicino. La domanda iniziale assume
ora questa forma: qual è l’essenza della cosa? Che cosa fa della cosa ciò che, in essenza, è
nella vicinanza? “Una cosa è, per esempio, la brocca. Che cosa è la brocca?”194. Eccoci di
nuovo di fronte alla brocca.
Movimento 3. Non posso pensare alla brocca come al risultato di un’operazione
lavorativa del produttore, in tal caso ricondurrei la cosa all’oggettività. E’ il bastone che fa
essere la curvatura della mano consegnandosi a me come afferrabile195. Il vasaio raccoglie il
vuoto della brocca dando ad esso la forma del contenente: “il vuoto della brocca determina
191 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p.40.
192 M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, trad. G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, p. 123.
193 Ivi, p. 110.
194 Ibidem.
195 “E’ il pieno della cosa che produce e modella il vuoto della mano, il suo incurvarsi e adeguarsi alla cosa
afferrabile” Il corpo è un grafema che ha un rapporto di reciprocità con il mondo: vuoto, pieno, afferrabile,
afferrato. C. Sini, Gli abiti le pratiche i saperi, cit., p. 22.
39
il movimento della produzione”196. La brocca è un vuoto il cui trattenere - prende e tiene
l’acqua o il vino - si fonda sul versare, cioè sull’offrire.
Movimento 4. Incomincio a capire qualcosa della vicinanza. Le cose ci stanno vicine,
sono consegnate ed aperte da sempre all’uomo, ma ciò che le rende vicine, ciò che rende la
brocca a me vicina, è il suo essere brocca, il suo essere proprio. Vicinanza significa lasciar
essere le cose per quello che sono, rispondere al loro appello, abbandonandosi (abbandonoGelassenheit) al loro dono. Ho lo sguardo aperto al dono del mondo?
Movimento 5. Devo ancora precisare la risposta: se ”l’offerta del versare è l’essere
brocca della brocca”197, che cosa significa offerta? “Nell’acqua che viene offerta permane la
sorgente. Nella sorgente permane la roccia, ed in questa il pesante sonnecchiare della terra,
che riceve la pioggia e la rugiada dal cielo. Nell’acqua della sorgente permangono le nozze
di cielo e terra.”198. L’offerta del versare disseta i mortali e si consacra agli Dei. ”Nell’offerta
del versare permangono insieme terra e cielo, i mortali ed i divini”199. L’essenza della
brocca, come offerta del versare, è dimora della reciproca connessione di cielo e terra,
mortali e divini: “l’essenza della brocca è il puro offrente riunirsi della semplicità della
Quadratura in un permanere”200. Ma cosa significa? Trovo queste espressioni enigmatiche e
molto difficili. Non devo perdere di vista la prospettiva in cui mi sono collocato: il pensiero
rammemorante. Intanto non posso fare a meno di osservare che il luogo chiuso, protetto,
rassicurante della brocca, si apre all’immensità del cielo ed alla grandiosità del divino. Non
avrei mai pensato di sperimentare proprio qui, nella chiusura del luogo, l’inquietudine di un
infinito errare. Poi l’immagine degli dei mi riporta al calice degli antichi sacrifici ed al
memoriale eucaristico; l’acqua o il vino che dissetano gli uomini, mi fanno pensare alle
feste, ai simposi, al tempo della gioia: un tempo, appunto, con la sua finitudine e fragilità.
Gli dei del cielo lontano, gli uomini sulla vicina terra; l’eterno ed il tempo. Mi pare che se
dovessi raccogliere in breve battuta quello che le immagini mi suggeriscono, potrei solo dire
che nella semplicità della brocca si concentra, come in un punto di massima densità, la
totalità del senso. Mi vengono in mente Leibniz o Hegel, ma mi guardo bene dall’entrare in
questi impervi sentieri. Ricordo che la brocca è immagine della cosa e l’idea che tutte le
cose, l’albero e la montagna, l’airone ed il cervo, il quadro e la croce, abbiano una
profondità di significati inesauribile, mi piace e me le rende più vicine, proprio nel senso
della prossimità. Vedo i gesti del vasaio tramandati da un’antica sapienza e le imprevedibili
ed infinite evenienze della casualità, vedo la generosità della terra, la disponibilità del cielo
e le pratiche d’uso all’interno delle quali la brocca attraversa la storia dell’uomo. Mi
accorgo di uno strano effetto: tanto più la cosa è oggetto, plasmato e dominato da me,
196 M. Heidegger, La cosa, cit., p. 112.
197
198
199
200
M. Heidegger, La cosa, cit., p. 114.
Ibidem.
Ivi, p. 115.
Ibidem.
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inserito in una logica numerica e seriale, tanto più la cosa si allontana , si perde ed il mio
mondo circostante (Umwelt) si impoverisce nella solitudine di una presenza imposta; quanto
più la cosa si mostra nella sua indominabile complessità di sensi, quanto più mi concerne,
chiama, “apre la lontananza”, mi affida ad una compagnia.
Movimento 6. Rimane da chiarire il gioco della Quadratura. Ognuno dei Quattro si
afferma nel suo essere proprio - l’angolo della quadratura - traspropriandosi all’altro:
“nessuno dei Quattro si irrigidisce in ciò che ha di specificatamente proprio. Invece, ognuno
dei Quattro, all’interno della loro trasposizione, è espropriato in modo da divenire qualcosa
di proprio. Questo espropriante traspropriare è il gioco di specchi della Quadratura”201.
Cerco di comprendere. Intanto mi appare evidente che sono di fronte ad un processo, ad un
gioco di rimandi, nel quale la stabilità degli angoli vien meno: la figura si trasforma in un
cerchio, o meglio nella “danza circolare del far-avvenire-traspropriante”202. Dunque la cosa
non è, nella stabilità del dato, ma coseggia, nella verbalità dei suoi interni dinamismi: il
coseggiare della cosa fa permanere la quadratura. La traspropriazione è il movimento in cui
l’essere proprio di ognuno esce da sé per far essere l’altro: gli dei l’uomo e l’uomo gli dei, la
terra il cielo e il cielo la terra. Il gioco è il gioco della donazione in cui ognuno si fa segno
dell’altro per indicare sé.
Movimento 7. Il gioco dei reciproci rimandi è un’unità, in essa l’essere proprio dei
quattro è il farsi segno indicando. Nella semplicità della cosa si rivela il gioco, il gioco
unisce il molteplice nel circolo dei richiami: la cosa è la dimora del gioco dei quattro. Nella
semplicità della cosa c’è il gioco infinito dei segni. La cosa si dona, cioè si fa segno
dell’infinito gioco di segni. Nel dono della cosa è il mondo che si dona; nel dono del mondo
si dona l’essere. Il dono dell’essere convoca l’uomo. Il luogo dell’uomo è questo stare nella
di-stanza per l’is-stanza dell’essere: tra cielo e terra.
Non è possibile considerare il luogo senza materializzarlo. Non v’è luogo senza cosa,
non v’è cosa senza movimento: sin qui la considerazione oggettivistica di Aristotele. Ma
cosa, luogo e movimento sono nell’esperienza umana come vissuti che rimandano a
significati d’esistenza, a tonalità affettiva: vicinanza e lontananza, sicurezza e rischio. Vi è
un livello ancora più fondamentale in cui la cosa sfonda ogni presenza per l’inesponibile
ricchezza di significati che trattiene e dona, nel gioco di una manifestazione che è
nascondimento, di un dire che tace: è il livello dell’esperienza simbolica. “Quando
pensiamo la cosa come cosa, prendiamo cura dell’essenza della cosa facendola entrare nella
regione in cui essa si dispiega. Coseggiare è avvicinare il mondo. L’avvicinare è l’essere
della vicinanza. Nella misura in cui noi prendiamo cura della cosa, noi abitiamo nella
vicinanza. L’avvicinare della vicinanza è l’autentica ed unica dimensione del gioco di
specchi del mondo”203.
201 M. Heidegger, La cosa, cit., p. 119.
202 Ivi, p. 120.
203 M. Heidegger, La cosa, cit., p. 120.
41
4.5) terza stazione
L’immagine è segno; il segno è simbolo. La considerazione simbolica del mondo è
l’esplosione di significati donati all’uomo nella meraviglia, in un gioco infinito in cui
l’uomo gioca il suo gioco, perché è lui stesso nel gioco come soggetto giocato. E’ come
dire: l’uomo è un segno che indica il gioco dei segni che si dona a lui stesso come
possibilità di far segno, cioè come linguaggio. Il nostro luogo è la dimora del dono:
prendersi cura del dono che ci è stato donato, significa farsi dono e farsi parola.
L’immagine arricchisce il mondo, il simbolo lo approfondisce; l’immagine rivela la
bellezza del mondo, il simbolo la sua destinazione etica. Considerare il mondo
simbolicamente significa contemplarlo in forma di quadro la cui cornice è la terra ed il
cielo, i divini ed i mortali, che fanno segno, nella tela, del loro gioco: questo segno ci è
sempre vicino e sempre lontano; è lì, nella prossimità, perché lo sguardo della meraviglia lo
possa cogliere, perché possa irrompere nello sguardo, nella forma di una convocazione:
eccomi.
5) “UN PICCOLO PASSO INCERTO”204
Ho di fronte il quadro di Van Gogh. In senso immediato, è una cosa nel mondo. Ha una
sua collocazione spaziale, è appeso ad una parete, ben distinto da ciò che lo circonda in virtù
della sua cornice: il parergon è un aspetto essenziale del suo essere proprio. Lo guardo: in
esso sono raffigurate due scarpe, forse un paio di scarpe, vecchie, usate, aperte e slacciate,
su uno sfondo indistinto. “Nell’orificio oscuro dall’interno logoro si palesa la fatica del
cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la
durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento
ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e del turgore del terreno. Sotto le suole trascorre
la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso
richiamo della terra , il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto
nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del
pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita,
l’angoscia della prossimità della morte.”205. Le cose chiamano: mi avvicino per guardare
meglio. Vedo il gioco del laccio nel suo entrare ed uscire dagli occhielli della scarpa e nel
suo avvoltolarsi strano verso il margine inferiore del quadro: “il parergon qui ha
probabilmente la forma di quel laccio che collega il di-dentro al di-fuori, di modo che il
laccio (di dentro – di fuori) semislacciato nel quadro raffiguri anche il rapporto del quadro
204 V. Van Gogh, Lettere a Theo, cit, Neunen, Dicembre 1883.
205 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze
1965, p.19.
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con il suo di fuori. Il quadro è preso in quel laccio che nondimeno sembra contenere come
una sua parte.”206. Assumo una diversa prospettiva: mi sposto verso destra e poi verso
sinistra: alcuni tratti prima evidenti mi appaiono di sbieco. Le pieghe delle scarpe, le curve
del disegno, sembrano diversamente configurate, ma non mi pare che l’immagine subisca
sostanziali mutamenti: i miei movimenti non ne arricchiscono la visione. Non posso girargli
attorno: il quadro è una cosa quasi bidimensionale. Lo immagino staccato dalla parete e mi
rendo conto che, anche qualora fosse possibile esplorarne il retro, non ci guadagnerei molto:
vedrei l’intelaiatura di legno, i chiodi che la fissano, l’ordine geometrico degli angoli, ma
sono tutte cose che non c’entrano nulla con il quadro. Il quadro parla solo di fronte, guarda
negli occhi il suo interlocutore, il suo modo di essere sembra un manifestarsi in forma
diretta, senza prospettive né linee di fuga. Le cose chiamano: c’è anche un orizzonte interno.
Mi avvicino ancora: riconosco i segni del pennello, mi pare di intravvedere l’innesto dei
colori, distinguo i tratti imprecisi del contorno. Entro nel quadro, compio il salto dal fuori al
dentro: scavalco i solchi della pittura materica di Van Gogh, mi sembra di sentirne l’odore, i
colori si scompongono nella loro distinzione ed unità, ma perdo l’opera207.
L’essere proprio dell’opera è il suo esporsi; ma qual è la giusta distanza per cogliere la
sua esposizione?
5.1) Bordi d’opera
“Ecco qua un quadro di Van Gogh: nient’altro che un paio di grossi scarponi da
contadino. L’immagine non rappresenta propriamente niente. Eppure vi è qualcosa in cui ci
vien fatto subito, spontaneamente, di ritrovarci, proprio come se noi stessi in una tarda sera
d’autunno, quando si consumano gli ultimi fuochi destinati ad arrostire le patate sotto le
braci, tornassimo a casa stanchi con la zappa sulle spalle. Cosa c’è qui di essente? La tela?
Le pennellate? Le macchie di colore?”208. Sono due scarpe vecchie, dismesse, traccia di un
cammino già fatto e, forse, invito ad un nuovo cammino; ma sono semplicemente raffigurate
e dunque inutili. L’oggetto che guardo, il quadro, nel rappresentare, rende inutile l’oggetto
rappresentato: una doppia inutilità. Eppure questo quadro, in una forma che è tutta da
chiarire, indica, cioè pone in modo enigmatico, la domanda sull’origine dell’opera d’arte,
sulla sua verità: quasi il nulla d’essere di questo oggetto, promuovesse la domanda sul senso
dell’essere.
5.1.1) Il circolo di Heidegger
206 J. Derrida, La verità in pittura, trad. G.D. Pozzi,Newton Compton editori, Roma 2005, p. 312.
207 L’immagine è presente in Sogni di Kurosawa: colui che realizza il salto è un pittore. Ricavo questa
indicazione da Filippetti.
208 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, trad. G. Masi, Mursia editore, Milano 1990, p. 46.
43
L’origine dell’opera d’arte è il testo a cui Heidegger assegna il compito di cogliere
l’essenza dell’opera: origine come essenza, sta a significare un inizio che segna un destino;
pensare l’origine significa affidarsi ad un pensiero rammemorante che nella considerazione
di un originario darsi dell’opera si dispone all’ascolto di ciò che ha da venire.
“Il mezzo ha una singolare posizione intermedia fra cosa ed opera”209: ha in comune con
l’opera il fatto di essere risultato della produzione umana e con la cosa il fatto di esserci.
Queste riflessioni si intrecciano immediatamente con lo statuto ontologico dell’opera che
sembra condividere, in diverse proporzioni, la stessa posizione mediana del mezzo: essa
assomiglia alla cosa “in virtù dell’autosufficienza del suo essere presente”210 ed al mezzo per
il fatto di essere frutto di un’attività. Certo, l’opera è inutilizzabile, e questo consegna ad
essa un surplus rispetto al mezzo e l’avvicina maggiormente alla cosa, perché tale
caratteristica significa autosufficienza: l’opera “assomiglia alla mera cosa nel suo essere
sorta da sé e nel suo non essere costretta a nulla”211. Cosa ed opera sono, in modo diverso, il
nodo di un intreccio; sono un “frammezzo”, uno Zwischen. L’inizio appare problematico:
ognuno degli enti messi in gioco (cosa, opera, mezzo) è una risonanza degli altri, rimanda,
per la comprensione del suo essere proprio, agli altri. Mi chiedo se questo “gioco di specchi
del mondo”212 non evochi un’appartenenza più originaria: il processo di traspropriazione che
caratterizza il Gering, l’anello, la danza dei Quattro. In una qualche forma, certo come
anticipazione, questi sono temi presenti nello sfondo dell’Origine … Dunque cosa e mezzo
possono dirci che cos’è l’opera, ma poiché la cosa è stata interpretata storicamente come
mezzo (insieme di forma e di materia) e l’esperienza del mezzo è più prossima ed evidente
del concetto di cosa, l’interpretazione del mezzo può avvicinarci a comprendere l’opera e la
comprensione dell’opera attraverso il mezzo ci consente di cogliere l’essere mezzo del
mezzo. Il centro dell’indagine è coinvolto nel movimento della circonferenza la cui
dislocazione muta continuamente col mutare del centro: “dobbiamo muoverci in un
circolo”213. L’opera d’arte può dirci che cos’è l’arte, l’arte può rivelarci il senso dell’opera;
la verità dell’essenza entra in circolo con l’essenza della verità. “L’interpretazione di
qualcosa in quanto qualcosa è fondata essenzialmente nella pre-disponibilità, nella previsione e nella precognizione. L’interpretazione non è mai l’apprendimento neutrale di
qualcosa di dato.”214 .
Come possiamo definire l’essere del mezzo?
209
210
211
212
213
214
M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 14.
Ibidem.
Ibidem.
M. Heidegger, La cosa, cit., p. 121.
M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 4.
M. Heidegger, Essere e tempo, trad. P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 191.
44
“Consideriamo a titolo d’esempio un mezzo assai comune: un paio di scarpe da
contadino” 215. Per descriverlo basta fare riferimento ad una “rappresentazione
raffigurativa”: “scegliamo ad esempio il quadro di Van Gogh, che ha ripetutamente dipinto
questo mezzo”216. L’esempio di un esempio viene richiamato per entrare nell’intreccio di tre
domande: che cosa è la cosa, che cosa è il mezzo, che cosa è l’opera e mettere in atto il
circolo della comprensione. Heidegger inciampa nelle scarpe di Van Gogh o forse
dovremmo dire nei lacci, ed a quelle scarpe rimane incomprensibilmente allacciato. Proprio
l’inutilità dell’oggetto raffigurato (le scarpe in pittura) fa emergere l’essere del mezzo:
l’usabilità. Proprio l’indifferente semplicità con la quale la contadina porta le scarpe, fa
emergere l’essenza dell’usabilità: la fidatezza. La Verlässlichkeit (fidatezza) indica un dono
originario a cui ci si abbandona: è la prima condizione di collegamento, l’al di là di ogni
separazione, forse una matrice comune che fa pensare ancora al gioco dei Quattro. Senza
fidatezza non ci sarebbe utilizzabilità del mezzo, ma neppure potremmo essere certi del
discorso e della parola e perderebbe senso il simbolo. E’ la legatura del mondo, la
complicità delle cose, la confidenza in una stabilità di senso. E’ ciò che rende possibile la
sovradeterminazione del concetto e la regressione ad un’originaria appartenenza: la
massima astrazione e la massima concretezza. La fidatezza consegna la contadina ad un
Mondo come “manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità”217: il suo Mondo,
con la sua fatica ed il suo dolore, la sua speranza e le sue prospettive, ma qualunque sia il
Mondo, esso è sorretto dalla Terra “ciò che producendo regge, ciò che fruttificando
nutre”218. L’unità della fidatezza non è indifferenza o mescolanza, è l’unità di una scissione
tra la chiarezza del Mondo e “l’autochiudentesi” Terra: l’unità è l’allacciatura dei diversi, il
gioco di chiarezza ed oscurità. E’sulla base della fidatezza che è possibile l’erranza. Se
l’essere mezzo del mezzo è la sua fidatezza, il mezzo è costitutivamente attraversato da un
tratto (Riss) che segna il conflitto Mondo-Terra, appropriazione ed espropriazione,
rivelazione e nascondimento. La Terra è il luogo dei mortali, che pro-duce dal suo seno e
raccoglie nel suo seno, fa essere il suolo (Boden) su cui si innalza il Mondo e camminano gli
uomini nella loro estatica presenza.
L’essere mezzo del mezzo è stato rivelato dall’opera: “è venuto in chiaro quasi di
soppiatto ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento
della verità”219. L’opera consiste nel suo essere esposizione; nell’esporsi al mondo, apre un
Mondo e pone qui “nella luce e nell’oscurità del colore” la Terra: “l’opera porta e mantiene
la Terra nell’aperto di un Mondo”220. La contadina soggiorna nell’apertura di un Mondo,
215 M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 18.
216 Ibidem.
217 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, trad. P. Coriando, Il melangolo, Genova 1992,
p.363.
218 M. Heidegger, La cosa, cit., p. 118.
219 M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 22.
220 Ivi, p. 31.
45
confida negli enti, in una prossimità di senso, ma sta sulla Terra che dalla sua chiusura ed
oscurità pro-duce ciò di cui la contadina nella vicinanza si appropria: “il Mondo si fonda
sulla Terra, la Terra sorge attraverso il Mondo”221. Il sorgere del Mondo come direzione e
misura, rimanda al “nascondimento protettivo della Terra”: in questo intreccio sta la
sacralità dell’opera ed il suo rendere gloria. Eccoci di fronte al gioco della terra e del cielo,
dei divini e dei mortali:”non è proprio dell’opera essere al centro di rapporti?”222.
La questione passa ora all’essenza della verità: se nell’opera, la verità si fa evento che
cosa è la verità?
La fidatezza dello strumento è un modo della familiarità dell’ente: “questa familiarità
(…) ha luogo per entro una comprensione dell’essere che è priva di prospettiva e di
concetto”223. E’ il tema del velarsi e disvelarsi del vero, del nascondimento ed
dell’illuminazione, dell’apertura e della chiusura, che muovono da un “radicamento al
suolo” da cui di volta in volta ciò che è, appare: “la verità è non verità”224. L’ente si mostra a
partire da un’apertura che è nel contempo un nascondimento: “l’essenza della verità è la
lotta originaria in cui viene conquistato, lottando, quel centro aperto in cui l’ente soggiorna
ed in base a cui si ritira in se stesso”225. L’apertura del Mondo e la chiusura della Terra sono
esposte dall’opera; essa custodisce la lotta in cui si afferma il non-essere-nascosto dell’ente:
“nell’opera è quindi in opera la verità, e non soltanto qualcosa di vero”226.
L’origine dell’opera d’arte è l’arte. L’opera è messa in opera. La calma del suo apparire,
il riposo del suo manifestarsi, dipendono dal fare che a sua volta è quello che è, per quello
che fa: l’opera si chiarisce con il fare, il fare con l’opera. Il fare è un lasciar-venir-fuori
producente di “un ente che prima non era e che non sarà mai più”227. La produzione pone
nell’aperto, nel senso del ricevere e dell’attingere, un ente che istituisce l’apertura
dell’aperto: “quando il produrre produce l’aprimento dell’ente, la verità, il prodotto è
un’opera”228. Ma ciò significa che la verità tende all’opera, alla manifestatività che le è più
propria: la lotta di rivelazione e nascondimento si fa figura del mondo che raccoglie ed
espone il senso del mondo. Essa irrompe (fenomeno saturo) nell’aperto con la sua
irriducibile novità come un urto, un salto, un’origine, nel senso di un nuovo inizio:
nell’opera lo storicizzarsi del vero apre la possibilità di una nuova storia.
Il testo procede in modo circolare e dà indubbiamente ragione di questa circolarità. Ciò
si attaglia bene all’essenza della verità come disvelamento. “La festa del pensiero” è lo stare
221 Ivi, p. 34.
222 Ivi, p. 19.
223 M. Heidegger, L’essenza della verità, trad. F. Volpi, Adelphi edizioni, Milano1997, p.242.
224 M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 45.
225 Ivi, p. 40.
226Ivi, p. 41.
227 M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 47.
228 Ibidem.
46
nel circolo nella maniera giusta, ma nel gioco interpretativo che moltiplica i percorsi
circolari, mi pare che il quadro di Van Gogh sia rimasto sempre ai margini, quasi un’
occasionale tangenza. L’inciampo nelle scarpe di Van Gogh rimane un incidente iniziale,
che ogni tanto riappare nel circolo interpretativo, ma sempre occasionalmente, a titolo di
esempio. In “tutto questo indaffaramento” forse incontriamo l’opera d’arte, ma certo ci
sfugge il quadro di Van Gogh.
5.1.2) L’arretramento di Derrida
La verità in pittura è il luogo in cui Derrida si confronta con Heidegger sul senso
dell’arte, in riferimento al quadro di Van Gogh. Il testo presenta la struttura di un dibattito a
più voci, è un pòlilogo, ma non si sa chi stia parlando ed a chi si stia rivolgendo; insomma
rimane nascosta la posizione dell’autore: nello scambio di parti, non prende parte. Oltretutto
questo enigmatico confronto entra nel dialogo di Heidegger e Schapiro: non un presente
scambio di parole su un passato dialogo, ma un’irruzione di battute senza nome che
spostano continuamente il senso e le referenze delle battute con nome. E’ come se lo
scambio epistolare di due famosi docenti universitari subisse l’interferenza di lettere
anonime che fa perdere la bussola, cioè neutralizza i mittenti ed i riceventi dichiarati. La
Rückfrage, la question en retourn, “segnata dal riferimento o dalla risonanza postale ed
epistolare di una comunicazione a distanza”229, come forma propria dell’interrogazione
filosofica, qui si complica per l’intreccio degli scambi ed il significato sintomatico della
comunicazione.
Vi è una prima corrispondenza tra Schapiro ed Heidegger, ma non capisco bene su
quale piano collocarla: è una corrispondenza reale (scambio di lettere nel 1965), oppure
immaginaria (deve esserci stata una corrispondenza), oppure segreta o ancora simbolica (ma
non è ogni corrispondenza, simbolica)? Lo scambio tra i due avviene perché entrambi
devono la verità in pittura. Ciò significa che la pittura riconosce, rende, restituisce, paga, per
così dire, i propri debiti. Si tratta dunque di un quadro di scarpe: quali scarpe? A chi
restituirle? Di chi sono? Sono scarpe vuote, sostegno di un soggetto assente: a chi
attribuirle? Ad un/a contadino/a (Heidegger) o ad al cittadino Van Gogh (Schapiro)? Il
problema dell’attribuzione è il problema di un soggetto che dice io e si installa in ciò che gli
è proprio. Ma qui il soggetto (hypokeimenon e poi substantia) si moltiplica in una pluralità
di volti: soggetto sono le scarpe, come sostegno dell’uomo; soggetto è la tela che costituisce
il sostegno delle scarpe raffigurate, “ed è proprio questo doppio soggetto (le scarpe in
pittura) che le due parti in causa vorrebbero vedere restituito al vero soggetto”230.
229 J. Derrida, Introduzione a Husserl, l’origine della geometria, trad. C. Di Martino, ed. Jaca Book, Milano,
1987, p. 99.
230 J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 255.
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Su questa prima corrispondenza si alza il gioco di voci del testo ed il loro effetto
perturbante evidenzia i fraintendimenti, la trappola, in cui sono caduti i due famosi
professori.
1) Il problema dell’attribuzione muove dal presupposto che le scarpe raffigurate siano
un paio: l’unità simbolica dello scambio avviene sull’unità ricomposta di un simbolo.
Ma come certificare questa posizione?
2) Il problema dell’attribuzione si pone sulla base di un’assunzione teorica: la
raffigurazione pittorica è mimesis, copia del reale. Non è una concezione troppo
semplicistica? Heidegger, tra l’altro, fa mostra di rigettarla, passando da una verità di
rappresentazione ad una verità di svelamento, ma vi inciampa dentro.
3) Schapiro accusa di ingenuità Heidegger che non avrebbe compreso il quadro nella
sua interna semantica (l’autore nel dipinto) e nella sua esterna sintassi (data, storia,
circostanze ed attribuzione), ma si macchia di una simmetrica ingenuità, chiamando
Heidegger sul terreno di un’attribuzione soggettiva.
Sembra un danza di fantasmi: l’Heidegger messo in mostra non è il pensatore che
conosco; Schapiro cade in frequenti contraddizioni nella sua indagine contro un furto
presunto; la sinfonia di voci che fa da corona all’originaria corrispondenza, sposta
continuamente il centro del problema in un’esplosione di frammenti che indicano possibili
sviluppi: percorsi, vie, sentieri, ma non abbiamo bisogno di indossare le scarpe per
percorrerli?
In tal modo viene messo in atto un intreccio che sviluppa il tema dell’intreccio, del paio,
del doppio, del fantasma, del feticcio. L’intreccio di chi? L’intreccio di che cosa? Il tema
comporta l’apertura di un problema irrisolto ed irrisolvibile: il problema della proprietà - di
chi sono le scarpe? - , ma più ancora il problema dell’essere proprio che è poi il problema
della definizione di essenza. In questa prospettiva le cose annodate da Heidegger, “la
legatura intrecciata delle scarpe”231, viene continuamente snodata e la loro inutilità sempre
riproposta: il proprietario è sempre assente, non è semplicemente assente il soggetto come
nella rilevazione di Heidegger, ma è assente la proprietà del proprio, ciò significa mettere in
questione la presenza come “perno dell’essenza”232. Al di là della presenza e dell’assenza
v’è il movimento del loro accadere che Derrida chiama dif-ferenza: “il gioco è sempre gioco
d’assenza e di presenza, ma se lo si vuole pensare radicalmente occorre pensarlo prima
dell’alternativa tra la presenza e l’assenza: occorre pensare l’essere come presenza o assenza
a partire dalla possibilità del gioco e non viceversa.”233
L’inutilità delle scarpe è triplice, poiché all’inutilità del mezzo e dell’opera, si aggiunge
la loro inutilità nella “ricerca dell’usabilità”; a quale uso destinarle se non sappiamo chi le
possiede? Heidegger stringe il laccio nella individuazione di un archè, collocando il
231 J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 333.
232 J. Derrida, Ousia e grammé, in Margini di filosofia, trad. M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 87.
233 J. Derrida, la scrittura e la differenza, trad. G. pozzi, Einaudi, Torino 1998 p. 375.
48
procedere del contadino nel suo mondo, Derrida apre il laccio alla disseminazione. Occorre
accompagnare alla logica della stricturation, che allaccia, combina, unifica, la logica della
destricturation, che oppone e separa: “ogni stringere è contemporaneamente stricturation e
destricturation”234. La prima produce l’unità senza differenza, la seconda l’unità della
differenza: l’una e l’altra “suturano”. “La logica del distacco come stringere è tutt’altra. E’
differante: essa non sutura mai.”235. Su questo piano, qualunque “idioma assoluto” risulta un
inganno.
Al di là del gioco delle attribuzioni, delle donazioni e delle appropriazioni, le scarpe
sono, Es gibt, c’è quella cosa, è data: “le scarpe stanno lì, fatte apposta per aspettare. Per far
camminare. L’ironia della loro presenza è senza fine (…).”236. Intendo le scarpe in pittura, il
quadro di Van Gogh, che rimane lì, non visto ed inascoltato: quell’immagine “che non
rappresenta propriamente niente”237, non è un’allusione al nulla che è implicato in ogni
segno?
5.2) Di-segno
Eppure questa assenza del quadro, il silenzio della pittura, dice qualcosa. Provo ad
approssimarmi ad un possibile senso.
Noto prima di tutto che sia l’intervento di Heidegger che l’intervento di Derrida
mettono continuamente in gioco il tema del luogo: entrambi i testi sono delle topiche.
Nell’Origine … le procedure di pensiero (la circolarità), la stessa questione a cui l’autore
cerca di rispondere (il problema del Grund), le immagini a cui fa ricorso (il cammino, il
sentiero, i solchi), persino i concetti elaborati (fidatezza, Mondo, Terra), fanno riferimento
alla struttura spaziale del fort/da: lontano/ vicino, come elementi costitutivi del concetto di
prossimità ed “il valore di prossimità ha una parte decisiva nel pensiero di Heidegger”238,
giacché è implicato nei concetti stessi di identità e differenza e dunque nel grande tema della
differenza ontologica. Nella Verità … predomina il movimento del dentro e del fuori, il
processo a zig-zag della stricturation e della destricturation; alternanza di allacciatura e
slacciatura, che non prende mai al laccio, non chiude mai la questione e lascia l’ultima
parola ad una nuova partenza: la questione “è sul punto di ripartire”239. E poi il movimento
verso l’alto e verso il basso; il basso della scarpa, l’alto del fantasma che la abita,
riempimento e svuotamento, sovradeterminazione e sottrazione: sempre come prospettive
234
235
236
237
238
239
J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 321.
Ibidem.
Ivi, p. 268.
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 46.
J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 336.
Ivi, p. 357.
49
provvisorie e scambiabili. Ancora, l’idea della corrispondenza a più voci, dello scambio, del
legame e della cesura.
Non mi pare che queste topiche derivino dal fatto che l’oggetto in discussione sia un
quadro, dunque una superficie che tra l’altro raffigura qualcosa che ha un eminente rapporto
con l’esplorazione spaziale. Credo che il pensiero per sua natura segua una direzione: quello
di Heidegger verso una dimensione di profondità, di origine; quello di Derrida procede ai
limiti, sempre sull’orlo della questione, “con gesti lenti, badando alla più piccola piega”240.
Mi chiedo perché il pensiero abbia una direzione (Heidegger avrebbe qualcosa da dire su
tale domanda) e posso dire solo questo: perché è essenzialmente una risposta, viene dopo ed
in una qualche misura sempre in ritardo; all’origine v’è una donazione a cui il pensiero si
abbandona e rispetto a cui il pensiero rende grazie. Ricordo il gioco proposto da Heidegger
tra pensare (denken) e ringraziare (danken)241, le pertinenze semantiche del pensiero con la
memoria (Gedächtnis), la storia (Geschichte), l’accadere (geschehen) ed il destino
(Schicksal). Oppure il tema di Derrida del supplemento, del rinvio, che mette in relazione
l’impresa di decostruzione con la presenza di strutture abitate ”in un certo modo, poiché si
abita sempre e ancora più quando non lo si sospetta”242. Il pensiero è sempre posteriore ad
un darsi, es gibt, ad un dono che dà da pensare; struttura questa che ho più volte incontrato
nella presente ricerca.
Più ancora di questi riferimenti di carattere generale, il ricorso alla spazialità è presente
nella figura del tratto (Riss), ricorrente nell’uno e nell’altro testo.
Il termine appartiene ad un campo semantico molto ricco: Riss significa tratto, ma anche
fenditura, incrinatura, strappo; il termine è presente nell’espressione dialettale “tracciare
solchi” (umreissen); Aufriss significa profilo, figura; Umriss significa contorno; Grundriss
significa fondamento243. Derrida associa al temine Riss il parergon, il supplemento, ma è
evidente la risonanza con una famiglia di termini specifici del decostruzionismo: marca,
margine, orlo, cesura, differenza.
Il tratto separa, ma anche at-trae; è una linea di demarcazione rispetto a cui si organizza
lo spazio in un dentro ed un fuori, in un qua ed un là: il tratto segna il salto della differenza,
è il framezzo, lo Zwischen, rispetto a cui l’uno e l’altro stanno in una reciproca
coappartenenza. La prossimità al tratto rende prossimi; la lontananza dal tratto istituisce i
lontani.
240 Ivi, p. 309.
241 M. Heidegger, Che cosa significa pensare,Trad. U. Ugazio, G. Vattimo, SugarCo, Milano 1988, p. 163.
242 J. Derrida, Della grammatologia, trad G. Dalmasso, ed. Jaca Book, Milano, 1998, p. 45.
243 Prendo questi significati dai testi di Heidegger, in particolare da L’origine dell’opera d’arte, cit. e da In
cammino verso il linguaggio , trad. A. M. Caracciolo, Mursia, Milano 1993, p.197.
50
“Esporre un Mondo e porre-qui la Terra sono due tratti essenziali dell’essere opera
dell’opera”244. Qui il termine è da intendersi prima di tutto nel senso della caratteristica,
della proprietà, ma le pertinenze semantiche sopra riportate (differenza, figura, profilo) sono
presenti anche in questa accezione. La verità appare nell’essere opera dell’opera, con il suo
gioco di rivelazione e nascondimento, come la lotta di Mondo e Terra: “il tratto così
disposto è l’ordinamento dell’apparire della verità”245. Il tratto è nell’opera, come incontro e
scontro di Mondo e Terra, “intimità di un convenirsi reciproco dei lottanti.”246. Con più
precisione l’opera è il tratto, è sulla linea: “la verità come lotta si istituisce in un ente da
produrre (opera) solo se la lotta erompe in questo ente, cioè solo se l’ente è portato nel tratto
che lo delinea”247. L’ordinamento dell’apparire del vero, il tratto che delinea l’ente prodotto,
è il “suo profilo e disegno, taglio e contorno”248; esso istituisce la lotta che l’opera è: la lotta
non è nell’opera, l’opera è la lotta, la linea del contendere non attraversa l’opera come una
sua appartenenza, quasi l’opera potesse essere a volte piena apertura e a volte piena
chiusura, questo idioma assoluto è estraneo al concetto di orlo e di limite, l’opera è sulla
linea. Mi pare che la questione possa essere meglio chiarita se torno ad interrogarmi sulla
figura della Terra e se rimetto in questione il concetto di lotta. La Terra è ciò che sussiste in
sé, nella sua chiusura ed appartenenza a sé, pro-duce (her-vor-bringen), fa sorgere innanzi,
nella presenza, l’ente secondo il suo essere proprio, lascia essere l’essere dell’ente nel suo
proprio limite. In questo senso la Terra è intesa al modo della φύσις: “Ciò che è presente
φύσει ha in se stesso (…) il movimento iniziale della pro-duzione, come ad esempio lo
schiudersi del fiore nella fioritura” 249. Ma la terra è anche suolo, sostegno, abitazione:
“dichterisch, wohnet/ Der Mensch auf dieser Erde”250. Il poetare non si libra sulla terra,
“porta invece l’uomo sulla terra, lo porta ad essa, e lo porta così nell’abitare”251. In questo
senso la terra è Madre, protegge l’ente che pro-duce, assegnandogli una destinazione: “in
ciò che sorge è-presente la terra come la nascondente-proteggente”252. Sorge l’opera e la
Terra è in essa presente nella luminosità dei colori, nella pesantezza del marmo, nella
duttilità del legno, nella densità della parola: non nel senso del materiale d’opera, ma nel
senso di una matrice che nel pro-durre sostiene; come l’origine del senso che si pone al di là
del senso; come ciò che emerge, ma nel nascondimento e nella chiusura. Se entrassi nel
quadro, perderei l’opera. “Esponendo un Mondo e ponendo-qui la Terra, l’opera produce
questa lotta. L’essere opera dell’opera consiste nella realizzazione della lotta fra Mondo e
244
245
246
247
248
249
250
251
252
M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 33.
Ivi, p. 48.
Ibidem
Ibidem
Ibidem
M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit. p. 9.
Hölderlin.
M. Heidegger, « …Poeticamente abita l’uomo…», in Saggi e discorsi, cit. p. 126.
M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 28.
51
Terra”253. La lotta è il conflitto tra l’ordine ricorsivo dei sensi del Mondo e la matrice di
questa significazione che c’è, è data, ma come l’inoggettivabile. Il Mondo circostante della
contadina è un Mondo orientato dal senso, ma ogni orientazione di Mondo dipende da un
essere dato; il dato è dato per il Mondo che lo costituisce come unità di senso, ma il senso
significa il dono originario della Terra: il Mondo fa emergere la Terra come Terra, la Terra
rende possibile il Mondo. “Il tratto restituisce l’opera alla Terra, la Terra deve essere trattafuori”254 dall’opera. Tale conflitto è presente in tutti gli enti del mondo, cose, mezzi ed
opere, ma l’opera è questo conflitto, nel senso che il suo tratto, la sua figura, espone il tratto
del conflitto. Se cercassi le ragioni di questo privilegio nel testo di Heidegger potrei
trovarle solo nella posizione di medietà dell’opera rispetto alla cosa ed al mezzo che fanno
dell’opera un “essere fatta dentro ciò che è fatto”255: a differenza del mezzo rivolto ad
un’esterna utilizzabilità, l’opera è disinteressata e sembra sorgere spontanea come un fatto
di natura; non c’è tecnica né artificio né perizia o materia che ne possa spiegare l’esserci ed
esaurirne il significato. Mi paiono risonanze dei temi di Kant sull’arte. Capisco che il
discorso rischia continuamente di riprodurre il gioco metafisico di forma e materia, a meno
di riportare il tema ad altre referenze concettuali. L’opera apre l’ente sullo sfondo
dell’essere: essere opera significa stare sulla linea della differenza ontologica e mettere in
scena il salto, lasciarsi abitare dal nulla della differenza. Il nulla dell’opera è il nulla della
differenza, è il nulla della significazione. Il movimento appropriante e traspropriante
dell’Ereignis è all’opera nell’opera.
Al di là dei problemi aperti e delle questioni irrisolte, l idea dell’opera come tratto, come
figura, come di-segno, mi pare stimolante perché riconduce l’opera alla dimensione del
simbolico e fa parlare le scarpe di Van Gogh: “la lotta che viene condotta nel tratto – ed in
tal modo ricondotta alla Terra ed in essa fissata – è la figura. Questa è la disposizione
secondo cui si dispone il tratto. Il tratto così disposto è l’ordinamento dell’apparizione della
verità”256. Il frammezzo (Zwischen) dell’opera, il suo stare tra la cosa ed il mezzo, si istalla
sul tratto (Riss) che unisce e separa l’ente e l’essere: un tratto sul tratto, una croce.
L’opera si impone non in virtù di chi la fa, non in relazione ad un qualche processo di
istituzionalizzazione e neppure per la particolarità della sua fattura, ma semplicemente
perché è , “anziché non essere”257: v’è una calma, un riposo nell’opera, come un’intima
sicurezza, come un senso di compiutezza, come un’autonomia. Gli enti sono, ma il loro
esserci si confonde nella loro utilizzabilità, la loro prossimità li nasconde nell’oblio
dell’abitudinario; l’ esserci dell’opera, il suo che, è un evento assoluto, l’ora del suo esserci
è irriducibile: è ora per sempre. “Quanto più l’opera, fissata nella sua forma, sta solitaria in
se stessa, quanto più puramente essa sembra far dileguare ogni rapporto con gli uomini e
253
254
255
256
257
Ivi, p. 34.
Ivi, p. 48.
Ivi, p. 49.
M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 48.
Ivi, p. 49.
52
tanto più recisamente viene all’Aperto l’urto che tale opera è e ci colpisce l’urto del
prodigioso, respingendo ciò che fino allora appariva normale”258. Qui emerge un'altra
valenza del tratto: l’urto. Con tale termine viene indicato l’irrompere dell’opera nel mondo, i
suoi effetti di verità che “trasformano i nostri rapporti abituali col mondo e con la Terra”259,
sospendendo il nostro modo di conoscere, di fare, di vedere. L’urto è la linea di
demarcazione tra l’ordinario e lo straordinario, la continuità del tempo e la discontinuità di
un nuovo inizio. L’opera offre alla nostra vista “d’habitude vagabonde, esthétiquement
infidèle, bref enfant de bohème qui passe d’un spectacle à un autre sans s’y attarder jamais,
un visible tel quelle en puisse plus, pour une fois, peut-être même pour la première fois, s’en
détourner et passer au suivant, mais s’en découvre éprise, prisonière et dépendant pour un
assez long temps.”260. Con l’esporsi dell’opera si apre una nuova possibilità di senso, è lì,
per sempre, donata alla salvaguardia degli uomini. “Quanto più essenzialmente l’urto
irrompe nell’Aperto e tanto più sorprendente ed unica si rivela l’opera”261. Il suo essere
collocata sulla linea della differenza porta l’opera oltre la linea (über die Linie), nel senso
della produzione di effetti di differenza, nel senso di un continuo rinvio che è la natura
propria del segno: “Alla cosa fabbricata l’opera d’arte riunisce anche qualcos’altro”262:
“l’opera d’arte è simbolo”263. L’essere tratto dell’opera moltiplica i tratti, le cesure, i
margini, quasi il suo esporsi dilatasse continuamente i contorni, quasi l’opera nel donare al
mondo la propria figura, di-segnasse il mondo.
Nella testura del mondo il quadro è un urto, un evento unico, “un sigillo”, “un disegno
prima della lettera”, “corrispondente all’esperienza del tratto (linea tirata, Zug, confine,
superamento, rapporto con l’altro, Zug, Bezug, ferenza, referenza ad altra cosa che sé, differenza), il secondo tempo (après coup) (…)”264. Il tratto, nell’ interpretazione di Derrida, ha
a che fare essenzialmente con il limite e quest’ultimo indica un dentro ed un fuori,
un’appartenenza ed un’estraneità, il proprio e l’esproprio, la presenza e l’assenza: il limite è
il movimento stesso della differenza.
Il quadro è “uno spazio problematico: quello dell’orlo, della cornice, del posto della
firma e, in generale, della struttura parergonale.”265. E’ un di-fuori assegnato ad un di-dentro,
nella forma di una rappresentazione a cui il di dentro è irriducibile; è un di-dentro esposto,
nella forma di un di-fuori che irrompe nell’urto. Attraversamento di linee, gioco di orli, di
cesure, di margini, tratti di separazione tra sfondi diversi: lo sfondo del mondo circostante
da cui il quadro si distacca in forma di cornice; lo sfondo del quadro da cui l’opera si separa
258
259
260
261
262
263
264
265
Ivi, p. 50.
Ivi, p. 51.
J.L. Marion, De surcroît, Presses Universitaires de France, Paris 2001, p. 72.
M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 50.
Ivi, p. 6.
Ibidem.
J. Derrida, Il segreto del nome, trad. F. Garritano, ed. Jaca Book, Milano 1997, p. 154.
J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 286.
53
in forma di disegno; i contorni particolari, i lacci, che entrano ed escono dallo sfondo del
disegno; la firma, il nome proprio, che volteggia all’orlo dell’ opera, come un insieme di
tratti stranieri in cui il tormento delle linee grafiche si prolunga sino ai grafemi del nome.
Bisognerà interrogarsi anche su questa strana familiarità del tratto del di-segno con il tratto
del segno. “Regola del parergon che comprende tutto senza comprendere e che altera tutti i
rapporti esistenti tra la parte e il tutto”266. Ma nel contempo la profondità dell’opera, il suo
essere tutta rappresa in quello che è, nel gioco delle orlature che la costituiscono,
trasgredisce continuamente i suoi orli, per farsi esposizione, apertura dell’ente nella
differenza ontologica. L’opera evade dai suoi limiti, si dona al mondo, prendendosi cura, si
consegna alla cura dei “salvaguardanti”: “(…) evasione nel senso di scavalcamento di un
limite pittorico (…), nel senso di un superamento della rappresentazione dentro la cornice,
dell’immediatezza visibile, se pur esiste qualcosa di simile, nel quadro.”267
Il dentro del quadro di Van Gogh è un vecchio paio di scarpe con i lacci ma ciò
significa che tutta la struttura parergonale del quadro è volta a questo oggetto, ad un
accessorio, ad un parergon: “un supplemento che non supplisce nulla, ma che, al contrario fa
riferimento a ciò che supplisce come al proprio supplemento”268. Il quadro di Van Gogh è il
supplemento di un supplemento, un parergon senza ergon, un “supplemento «puro». Il
margine arretra, l’orlo si estende, il laccio snodato continuamente si riannoda, la
destricturation si alterna alla stricturation, lo Zwischen che l’opera è, sposta continuamente
le sue referenze. E’ un po’ come se quest’opera fosse il fuori-opera dell’opera. Ma se la
scissura, il tratto, la linea, è il luogo del segno e del simbolo, la scissura della scissura che
cosa è? Risponderei, come ho già fatto, una croce ed a questo punto forte è la suggestione di
quella croce che nel tardo Heidegger sovrasta la parola essere, ad indicarne l’indicibilità, in
un gesto grafico che la consegna ad un secondo piano, rispetto alla quadratura dei Quattro:
enigmatico supplemento, il supplemento dell’indicibile, la supplenza di un’assenza. Mi pare
di essere su di un piano di eccessiva generalità: il quadro di Van Gogh mi chiama. Dunque
cosa significa quella croce che il quadro è? Il segno del segno, il simbolo del simbolo: nella
esplosione dei suoi colori, nei gesti dei suoi tratti, nella particolarità dei suoi segni, si
manifesta il gesto pittorico come tale. Nel suo mondo si apre la possibilità dell’apertura del
Mondo; la sua Terra è ogni Terra; il suo cammino è ogni cammino; il suo limite è ogni
limite: il suo di-segno fa segno della possibilità del segno. “Qualcun altro potrebbe dire: le
scarpe tengono un discorso sulla pittura, sulla cornice, sui tratti. Queste scarpe sono
un’allegoria della pittura, una immagine della separazione pittorica. Esse affermano: noi
siamo la pittura in immagine. O anche: questo quadro potrebbe essere intitolato: l’origine
della pittura. Mette il quadro sotto quadro e vi invita a non dimenticare; proprio quello che
266 J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 323.
267 Ivi, p. 304.
268 Ivi, p. 287.
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si fa dimenticare: avete sotto gli occhi una pittura (…) , la pittura è originariamente questa
separazione che perde la bussola.”269.
Rimane da capire il nesso tra l’essere segno dell’opera e l’essere segno del linguaggio. Il
tema del tratto (Riss) è presentato da Heidegger in un luogo di In cammino verso il
linguaggio in cui la problematizzazione del linguaggio mette in campo il tema
dell’impossibilità di esperirne l’unità: siamo nel linguaggio, parliamo nel linguaggio, il
linguaggio custodisce il senso, ma cosa sia questo evento nella sua complessità, l’essere del
linguaggio, è enigmatico. “A indicare l’unità del linguaggio, che veniamo cercando, valga il
termine profilo (Aufriss) (…) L’Aufriss è l’insieme dei tratti di quella trama che salda in
unità l’aperta libertà del linguaggio. L’Aufriss è la trama del linguaggio, la struttura di un
indicare entro il quale i parlanti e il loro parlare, ciò che si fa parola e l’inespresso di tale
parola, restano saldati insieme dalla Parola.”270. Come dire, al di là del dire, la totalità del
linguaggio, i suoi contorni? Qual è la parola che nomina la parola? E se ciò che fa essere il
linguaggio come linguaggio è il dire in quanto mostrare (zeigen), qual è il gesto che
originariamente mostra, cioè fa segno? Heidegger fa riferimento al mostrarsi della presenza,
ma la presenza non si mostra forse originariamente nei grafemi del corpo, nella valenza
simbolica del corpo proprio? E quel contorno del linguaggio che istituisce l’economia del
dire, non è forse il Di-segno, gesto che si fa tratto simbolico? “Resta da sapere qualcosa(…)
sul rapporto tra il tratto di non colleganza (…) e la parola che permette di dire della pittura
che essa ha parlato da sola - come può questa parola - che non è un discorso - intrattenersi
con questo tratto? Come può intrecciarsi a lui?”271. Prima della parola c’è il gesto del corpo
che si fa tratto, linea e di-segno: “l’arte è nella sua essenza origine e null’altro: una maniera
eminente in cui la verità si fa essente, ossia storica”272. I segni del linguaggio sono bisferici,
sono suono e visione, perché prima di tutto, in origine, i segni grafici sono pittura di
un’immagine (Kallir, Sini) e questa origine è trattenuta nei segni alfabetici che conservano,
in forma di tratto, i segni grafici arcaici: di-segno, gioco di tratti o di linee in cui si fa
presente il rapporto dell’uomo con il mondo. All’orlo del dire, nella terra di confine del
senso, laddove il solco custodisce e fa germinare il seme (soma, sema), possiamo ancora
dire che “la poesia è la saga del non-essere-nascosto dell’ente”273, ossia l’arte più originaria
in senso essenziale?
269
270
271
272
273
J. Derrida, La verità in pittura, cit., pp. 322/323.
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 197/198.
J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 335.
M. Heidegger, l’origine dell’opera d’arte, cit., p. 61.
Ivi, p. 57.
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