Il governo dell’impresa in una società complessa:
la ricerca di un equilibrio tra economia ed etica
SERGIO SCIARELLI*
Abstract
Il saggio affronta alcuni interrogativi che si annodano sul tema dell’etica e della
responsabilità sociale d’impresa. Strutturato infatti per quesiti, il lavoro si propone
innanzitutto di pervenire ad una più chiara definizione del concetto e dei contenuti della
responsabilità sociale, in considerazione di una discordanza di opinioni prevalente in
dottrina su questo punto. Successivamente indaga sulla possibilità e sulla necessità di
coesistenza tra responsabilità economica e responsabilità sociale identificando le modalità
per raggiungere un giusto equilibrio tra le due in un’ottica di sopravvivenza, continuità e
sviluppo dell’organismo aziendale. Il lavoro si conclude interrogandosi sulle modalità di
inquadramento dell’etica nel governo aziendale. Il ruolo cruciale che viene riconosciuto
all’etica d’impresa suscita delle riflessioni sulla necessità di promuoverne lo sviluppo di un
più solido corpo disciplinare in ambito scientifico.
Key words: etica d’impresa, responsabilità sociale
The article focuses on some questions arising from the issues of ethics and corporate
social responsibility. The article argues the necessity of a clear definition of the concept and
the content of social responsibility, taking into consideration the disagreement of the main
opinions on the subject, the article, also, looks into how possible and how necessary it is for
economic responsibility and social responsibilit to coexist. The ways of reaching an
equilibrium between those two (as far as the company’s survival, continuity and development
are concerned) are outlined. Finally, the ways of introducing the ethics issue into the
company’s administration are considered. The fact that a crucial role is given to the ethics
matter, leads to the reflection on the fact that it is necessary to promote the development of a
more solid discipline in a scientific field.
Key words: business ethics, corporate social responsability
*
Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Napoli
Federico II
e-mail: [email protected]
Il contributo è stato pubblicato sul numero 45, gennaio-aprile 1988, contenente gli atti del
Convegno di Sinergie sul tema “Il governo dell’impresa e nella società tra continuità e
cambiamento” svoltosi a Firenze il 17 ottobre 1997.
sinergie 61-62/03
98
IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
Il tema da affrontare in questa relazione, vale a dire “la ricerca di un equilibrio
tra economia ed etica nel governo d’impresa in una società complessa”, è
certamente tra i più dibattuti ed ardui nell’attuale evoluzione della teoria
dell’impresa.
La dimostrazione della necessità e della convenienza di pervenire a tale
equilibrio richiede, difatti, un percorso logico articolato, sviluppabile mediante una
serie di domande successive. I quesiti principali a cui occorre fornire una risposta
esauriente appaiono i seguenti:
1. L’impresa è gravata da una responsabilità sociale nettamente distinta da quella
economica?
2. Se sì, come si configura, al giorno d’oggi, questa responsabilità sociale?
3. La responsabilità sociale può o deve coesistere con quella economica?
4. Se sì, com’è possibile raggiungere un corretto equilibrio tra questi due tipi di
responsabilità?
5. Ancora, in rapporto ad eventuali più ampie responsabilità da perseguire, come
debbono essere ridisegnati i confini dell’impresa?
6. Ed, infine, qual è il ruolo che può rivestire l’etica nel governo dell’impresa
moderna?
Come si può intuire, in questo sviluppo concettuale i nodi principali sono
rappresentati: dalla più chiara definizione della responsabilità sociale, che risulta
certo non univoca in dottrina; dalla possibile coesistenza e complementarità tra
responsabilità economica e responsabilità sociale; e dalle modalità di
inquadramento dell’etica nel governo aziendale. Il riconoscimento della
responsabilità sociale dell’impresa non può prescindere dalla più precisa
individuazione dei contenuti che a questa debbono essere attribuiti. La discordanza
di opinioni, che emerge dall’analisi della letteratura, può difatti collegarsi, in buona
parte, alla differente estensione che viene data al concetto.
Che cosa si deve intendere per responsabilità sociale dell’impresa? Deve
intendersi la responsabilità nei confronti di tutti i suoi partecipanti, rivolta ad
assicurare, a ciascuno di essi, un giusto equilibrio tra contributo offerto
all’organizzazione e corrispettivo ricevuto in termini economici e morali? Ma
questo equilibrio deve riguardare soltanto i gruppi interni tra cui dividere il valore
economico creato oppure deve estendersi anche ai gruppi esterni legati, in ogni
caso, all’impresa, da rapporti contrattuali? O deve ampliarsi, ancora, a tutta la
comunità nella quale l’impresa vive e per la quale svolge la sua operatività?
Dai quesiti proposti si deduce il progressivo allargamento dei contenuti della
responsabilità sociale, dall’interno dell’organizzazione verso l’ambiente esterno. Se
volessimo usare una terminologia convenzionale per la distinzione accennata in
precedenza, potremmo parlare di responsabilità sociale nell’impresa, responsabilità
sociale verso i mercati e responsabilità ambientale.
SERGIO SCIARELLI
99
Non è pertanto infrequente, in dottrina, trovarsi di fronte ad interpretazioni più o
meno late del concetto, da cui derivano - ovviamente - differenti prese di posizione
in ordine al riconoscimento di obbligazioni a carico dell’impresa.
Responsabilità
sociale
dell’impresa
Responsabilità nell’impresa
Partecipanti interni
Responsabilità verso i
mercati
Contraenti esterni
Responsabilità ambientale
Comunità
Fig. 1: L’articolazione della responsabilità sociale dell’impresa
Secondo certi autori, ad esempio, la responsabilità sociale non rientrerebbe
affatto tra i fini dell’impresa perché questa non dovrebbe occuparsi dei problemi di
crescita culturale e spirituale dei suoi dipendenti, delle questioni della piena
occupazione, delle esigenze di un ambiente pulito e gradevole. Tali compiti
spetterebbero, in sostanza, ad altre organizzazioni, come la Chiesa, la pubblica
amministrazione, le associazioni ambientalistiche, ecc.1. Chi ragiona in tal modo
tende, in effetti, a ribadire che il compito fondamentale dell’impresa, che è poi
quello che la differenzia da altri tipi di organizzazione, rimane la creazione di
ricchezza ovvero la massimizzazione del valore economico per gli azionisti.
Questa affermazione parte, però, da un concetto molto ampio di responsabilità
nel quale si ricomprendono obiettivi generali di sviluppo economico ed ambientale,
con il sostenimento di costi certamente non irrilevanti2. Da ciò l’avvertimento circa
la contrapposizione da evitare tra risultati economici e risultati sociali e il timore
che l’impresa finisca per perdere la sua originale connotazione economica. Da
sempre, del resto, il dilemma tra “economicità” e “socialità” delle scelte
nell’impresa ha travagliato la mente degli studiosi di economia aziendale3. Non di
1
2
3
V. Bowie N.E., “New directions in corporate social responsibility”, Business Horizons,
July-August, 1991.
Un’analisi storica del concetto di responsabilità sociale è proposta, con spunti molto
interessanti, da Matacena A., “La responsabilità sociale: da vincolo ad obiettivo. Verso
una ridefinizione del finalismo d’impresa”, in Scritti in onore di Carlo Masini, pp. 699700.
Basti, in proposito, leggere con attenzione la produzione scientifica dei Maestri della
nostra Economia Aziendale (Zappa, Onida, Amaduzzi, Guatri e tanti altri).
100
IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
rado, difatti, e stato proposto di abbandonare questo concetto di obbligazioni sociali
dell’impresa per una serie di ragioni, tra cui preminenti sono state considerate quelle
di non creare confusione nel governo aziendale per quanto riguarda i fini da
raggiungere (che devono essere esclusivamente economici) e di non chiedere ai
manager di occuparsi di cose (esigenze sociali) di cui non hanno competenza ed
esperienza4.
Alla base di queste affermazioni, rimane, tuttavia, l’interpretazione molto ampia
del concetto di “esigenze sociali”, tra le quali tendono ad assumere una posizione di
sempre maggiore preminenza le cosiddette responsabilità ambientali. E’ dunque
necessario insistere su questo primo passaggio definitorio, per potere pervenire ad
un inquadramento concettuale, che ci consenta di progredire nel ragionamento
avviato in questa sede. Tra i contributi presenti in letteratura sul tema delle
responsabilità dell’impresa, il più noto è quello dovuto al Carroll, studioso
statunitense di grande prestigio. Questo autore propone, infatti, la cosiddetta
“piramide delle responsabilità dell’impresa”, all’interno della quale appaiono
inseriti, ai vari livelli, quattro differenti tipi di responsabilità.
Il Carroll sostiene che ogni impresa si trova ad operare assolvendo, allo stesso
tempo, responsabilità economiche, giuridiche, etiche e umanitarie (o
filantropiche)5. Nella sua costruzione concettuale il fondamento (ovvero la base
della piramide) è rappresentato dalla responsabilità economica di creazione del
valore; al secondo livello egli pone la responsabilità giuridica, che si concreta
nell’agire nel rispetto della legge; al terzo colloca la responsabilità etica, che
risponde alle finalità sociali da soddisfare; e al quarto, ovvero alla cuspide della
piramide, situa la responsabilità filantropica, che, comportando investimenti
discrezionali a favore della comunità, non s’inserisce, a suo parere, tra quelle che
l’impresa deve obbligatoriamente assolvere.
La costruzione prospettata è interessante, a nostro avviso, non solo per
l’ordinamento gerarchico dei vari tipi di responsabilità (che vede giustamente al
primo posto la responsabilità economica), ma anche per una chiara distinzione tra
responsabilità etica e filantropica. La distinzione tra questi due tipi di responsabilità
ha una sua ragione d’essere nel differente grado d’impegno che viene chiesto
all’impresa. La prima, difatti, rappresenterebbe parte integrante delle responsabilità
aziendali, mentre la seconda risponderebbe ad una libera scelta di chi governa
l’impresa.
Per chiarire meglio questa differenza, dobbiamo fare brevemente riferimento
alla teoria degli stakeholder, che ampio seguito ha trovato nella letteratura
economico-aziendale.
4
5
V. Freeman-Liedtka, “Corporate social responsibility: a critical approach”, Business
Horizons, July-August, 1991.
V. “The pyramid of corporate social responsibility”, Business Horizons, July-August,
l991.
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FILANTROPICHE
ETICHE
GIURIDICHE
ECONOMICHE
Fig. 2: La piramide delle responsabilità dell’impresa
Partendo da un inquadramento allargato, che peraltro appare corrispondere
meglio alla situazione in cui oggi operano le imprese, gli stakeholder, o - con un
termine della nostra lingua - gli interlocutori aziendali o portatori d’interessi, si
suddividono in “primari” e “secondari”: i primi sono quelli che intessono rapporti
contrattuali con l’impresa (lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori), mentre i
secondi sono quelli che esercitano soltanto rapporti d’influenza (collettività locali,
gruppi di opinione, mass-media, partiti politici, ecc.). In effetti, gli stakeholder
primari costituiscono il sistema sociale che interagisce con l’impresa, laddove gli
stakeholder secondari rappresentano il più vasto contesto ambientale, all’interno del
quale l’impresa stessa svolge le sue funzioni.
Questa distinzione consente di definire meglio la responsabilità sociale, che
sarebbe in realtà costituita dalla responsabilità etica e filantropica. In questo senso, i
destinatari sarebbero tutti gli stakeholder (primari e secondari) e le obbligazioni
sociali si amplierebbero ben al di là dei confini dell’impresa per riflettersi
nell’ambiente esterno. In rapporto a queste ultime si potrebbe, però, operare
un’ulteriore differenziazione, individuando quali:
a) responsabilità sociali in senso stretto quelle attinenti alla ripartizione, in modo
socialmente corretto, del valore economico creato tra i partecipanti diretti
(stakeholder primari);
b) responsabilità ambientali quelle che si sostanziano nell’obbligo, da parte
dell’impresa, di ripagare almeno i costi esternalizzati a carico dell’ambiente (per
esempio, per effetto dei vari processi di inquinamento);
c) responsabilità comunitarie quelle connesse con la volontà (e non l’obbligo)
dell’impresa di contribuire al miglioramento del benessere della collettività e, in
definitiva, all’innalzamento della qualità della vita.
102
IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
I concetti di fondo sui quali si giustificano la responsabilità (e il ruolo) sociale e
pubblico dell’impresa appaiono dunque essenzialmente due:
a) l’azienda, una volta creata, diviene patrimonio di tutti coloro che - direttamente
e indirettamente - vi partecipano: essa finisce così per trascendere la proprietà e,
se economicamente valida, raggiunge la legittimazione a sopravvivere
indipendentemente dal volere della stessa proprietà (che, al limite, troverà
conveniente cederla, ma non liquidarla)6;
b) l’azienda è responsabile verso la comunità, a cui addossa dei costi (in termini di
impatto ambientale, conseguenze sul tessuto urbano, ecc.) e verso cui assume
dei doveri.
Il concetto del “diritto di cittadinanza” dell’impresa è fondamentale per allargare
la sua sfera di responsabilità in senso pubblico o più marcatamente ambientale,
tenuto anche conto che i rapporti tra impresa ed ambiente sono divenuti molto più
critici con il crescere dell’efficienza tecnologica, che ha concorso a spostare costi e
sacrifici dall’interno dell’organizzazione al contesto esterno in cui l’impresa svolge
la sua funzione7.
In effetti, bisogna osservare che coloro che sottolineano il dovere assunto
dall’impresa nei confronti della società sostengono che tale responsabilità è
teoricamente giustificata dalle risorse che la comunità concede gratuitamente alle
imprese (infrastrutture, sicurezza, formazione scolastica e professionale, ecc.),
poiché il pagamento delle imposte non è mai equivalente al costo delle risorse
acquisite. In altri termini, come le persone fisiche, anche le imprese sono cittadini
all’interno della comunità ed hanno l’obbligo di concorrere a risolvere i problemi
sociali8. La separazione, dunque, tra finalità economiche e sociali, nel senso prima
precisato, consente di rendersi conto dell’evoluzione del ruolo dell’impresa, che
appare oggi sicuramente più ampio in funzione, appunto, delle accresciute
responsabilità attribuite alle organizzazioni aziendali. Al riguardo, potremmo
affermare che, nel tempo, la visione dell’impresa si è progressivamente dilatata da
un’ottica prevalentemente imprenditoriale ad inquadramenti di tipo sociale e
comunitario.
6
7
8
L’affermazione che l’azienda viene prima dei lavoratori e della stessa proprietà (vedi le
recenti affermazioni dell’imprenditore Miroglio condivise pubblicamente dal prof.
Dematté) sembra esaltare i contenuti e il valore della responsabilità sociale dell’impresa,
che, nella promozione e salvaguardia di interessi sempre più generali, può includere
giustamente anche quelli dei lavoratori e dell’imprenditore.
Sul concetto di “socializzazione dei costi di produzione” e sulle responsabilità
dell’impresa nei confronti dell’ambiente, si vedano le chiare considerazioni in PanatiGolinelli, Tecnica economica industriale e commerciale, La Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1992, pp. 125 e ss.
V. Bowie, op. cit., p. 58.
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103
La visione imprenditoriale, com’è ovviamente noto, definisce l’impresa quale
struttura patrimoniale appartenente ad una o più persone o gruppi, che ne detengono
il governo e che si attendono dal suo funzionamento un adeguato corrispettivo in
termini economici. E’ la visione classica, che ruota intorno alla figura
dell’imprenditore-proprietario, che appare predominante nei confronti degli altri
gruppi sociali interni ed esterni con i quali l’impresa si trova o viene ad essere in
contatto.
La visione sociale amplia il ruolo dell’impresa in rapporto sia alle funzioni da
soddisfare sia agli interlocutori da considerare. La funzione dell’impresa diviene
quella di creare valore economico da distribuire tra tutti i partecipanti alla vita
aziendale: il centro di osservazione non è più la struttura patrimoniale, ma il sistema
sociale che si crea intorno all’impresa stessa e che partecipa ovviamente al
complesso degli scambi in entrata e in uscita.
Anche questa visione non appare però corrispondere al ruolo effettivo richiesto
attualmente all’impresa, che è quello di essere “cittadina del mondo” in senso
proprio. La sua sfera d’influenza non può cioè limitarsi agli interlocutori con cui
sviluppa la sua rete di scambi (stakeholder primari), ma deve allargarsi all’ambiente
ovvero all’intera comunità, in cui e per cui opera. La visione comunitaria estende,
dunque, la funzione dell’impresa da creatrice del valore economico a creatrice di un
più ampio valore sociale e pubblico. All’interno di quest’ultimo dovranno infatti
combinarsi aspetti economici, sociali ed ambientali secondo equilibri difficili, ma
destinati ad assicurarle la sopravvivenza nel tempo lungo. Gli investimenti sociali,
tra i quali vanno inclusi sicuramente quelli discrezionali, concorrono difatti a
consolidare la presenza dell’impresa nella società.
In conclusione, quando si parla di “responsabilità sociale” dell’impresa si vuole
fare riferimento a questo concetto allargato, che comprende non solo gli obblighi
verso i diretti partecipanti al sistema aziendale, ma anche - e oggi potremmo dire
soprattutto - i doveri verso la comunità con particolare rilievo ai problemi della
salvaguardia dell’ambiente naturale e della promozione di una migliore qualità della
vita. In tal modo, secondo, una visione da noi condivisa, l’impresa da protagonista
economico si trasforma in protagonista sociale, accollandosi contemporaneamente
responsabilità economiche e sociali in senso ampio9.
9
Un’interpretazione certamente originale della funzione sociale dell’impresa e
dell’imprenditore è proposta da Gianfranco Dioguardi quando sostiene che “la funzione
sociale dell’imprenditore consiste nella sua opera di costante innovazione” e precisa che
“l’impresa, in tutte le sue componenti, sia (è) un costante agente di modificazione
innovativa sul territorio” perché i singoli partecipanti portano la loro cultura
dell’innovazione al di fuori dell’impresa nell’ambiente familiare, amicale e istituzionale
in cui vivono. Egli conclude il suo ragionamento, sviluppato ulteriormente nella
prospettiva dell’impresa-rete, ribadendo “la funzione dell’impresa come fattore di
innovazione culturale”. (V., “L’imprenditore sociale”, Micro Mega, n. 4/96).
104
IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
Ed è proprio la gravosità di questi compiti che provoca il vivace dibattito in
dottrina, con prese di posizione a volte estreme. Inquadrata in confini così estesi, la
responsabilità sociale potrebbe difatti apparire in contrapposizione con la
responsabilità economica. Da ciò affermazioni decise, come quelle di Friedman, sul
fatto che l’unica responsabilità dell’impresa è quella di fare profitti oppure, come
quelle del Levitt, che, senza mezze misure, quaranta anni fa scrisse un articolo
intitolato “i pericoli della responsabilità sociale” nel quale sosteneva le debilitating
consequences dei discorsi sulla responsabilità sociale10.
E’ del resto intuibile che, se si vede la socialità in antinomia con l’economicità
della gestione, non si può non rimarcare la primazia della responsabilità economica
e mettere in guardia contro il riconoscimento di obbligazioni sociali a carico
dell’impresa11. Tuttavia, questo modo di vedere è stato da tempo superato perché
non si può oggi non attribuire all’impresa una più ampia responsabilità sociale e
pubblica, dato il ruolo ch’essa è destinata a svolgere non solo all’interno dei
mercati, ma nell’intera società12. D’altra parte, la presenza sempre più diffusa della
grande impresa ha accentuato la necessità di bilanciare obiettivi economici e sociali
in senso lato. Quando un’organizzazione dà reddito a centinaia di famiglie, crea
problemi urbani per la sistemazione e la mobilità di queste persone, sviluppa
rapporti d’affari con varie migliaia di interlocutori (consumatori, fornitori di beni e
di servizi, amministrazioni locali e centrali, ecc.), determina effetti ambientali di
rilevante impatto (rifiuti solidi e liquidi, fumi, odori, polveri, ecc.), come si possono
delimitare i suoi obiettivi solo all’area economica e disconoscere il ruolo sociale
ch’essa sostanzialmente è chiamata ad esercitare?
10
11
12
V., “The dangers of social responsibility”, Harvard Business Review, SeptemberOctober, 1958.
Sugli elementi a favore e contro il riconoscimento della responsabilità sociale
dell’impresa, vedi De Santis G., “Responsabilità sociale”, pp. 503-504., in Caselli L., Le
parole dell’impresa, Angeli, Milano, 1995, p. 27.
Nella dottrina anglosassone si tende a focalizzare meglio questo concetto, operando una
distinzione tra “responsibility” e “responsiveness”: la prima intesa a riconoscere
l’obbligo per l’impresa di rispettare le leggi e i dettami imposti dalla società; la seconda
inquadrata come “sensibilità” sociale ovvero come l’attitudine dell’impresa a darsi carico
di problemi che si pongono nella società. In altri termini, la responsibility si configura
come uno stato mentre la responsiveness è un’azione, ossia la propensione ad intervenire
là dove si riscontra possibile e utile l’intervento dell’impresa.
In rapporto a questa “sensibilità” sociale le strategie di risposta da parte dell’impresa
sono suddivise in: passive (inactive), di risposta (reactive), d’intervento (proactive) e
interrelate (interactive) (v. Post-Frederick-Lawrence-Weber, Business and society, ottava
edizione, Mc Graw Hill, New York, 1996, p. 64). Cioè, le imprese più attente ai
mutamenti ambientali cercano di interagire con questi secondo un principio di costante
interrelazione, quelle più dinamiche si pongono l’obiettivo di influenzare il processo di
cambiamento, mentre le altre imprese preferiscono o non modificare la struttura e la
strategia oppure mutarla solo dopo l’evoluzione del contesto esterno.
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Il secondo passaggio del ragionamento che stiamo svolgendo ci porta, dunque, a
ribadire che nel governo dell’impresa responsabilità economica e sociale debbono
necessariamente coesistere, anche se per certi versi possono apparire in
contrapposizione e creare, quindi, dei problemi per chi amministra l’impresa. E’
perciò evidente che il problema da affrontare riguarda le modalità secondo cui le
differenti responsabilità possono combinarsi nell’ottica della sopravvivenza,
continuità e sviluppo dell’organismo aziendale. Si è detto in precedenza che la
responsabilità economica è quella di creare valore per tutti i partecipanti, mentre
quella sociale riguarda sia la più equa distribuzione di tale valore tra gli stakeholder
primari sia la risposta positiva agli interessi degli stakeholder secondari,
racchiudibili per semplicità nel concetto di “comunità” esterna all’impresa. Il punto
di differenza tra questi due aspetti della responsabilità aziendale può essere però
visto non solo in rapporto ai destinatari delle obbligazioni aziendali, ma anche in
funzione dell’elemento “tempo”.
Questo perché la responsabilità economica, in modo non corretto, viene ad
essere più fortemente condizionata al tempo breve (esigenza di chiudere il bilancio
d’esercizio in utile e di potere distribuire dividendi), mentre quella sociale produce
effetti, anche economici, nel tempo medio-lungo, perché dà maggiore coesione ai
gruppi sociali legati all’impresa, migliora l’immagine e crea avviamento per le
attività produttive aziendali.
A questo proposito, è il caso di commentare, ad esempio, che Friedman non
sbaglia allorché sostiene che il risultato economico caratterizza e differenzia
l’impresa da altri tipi di organizzazioni, ma cade in errore quando non riconosce che
il puntare al profitto “per sé” può essere controproducente per lo stesso risultato da
raggiungere. E’ stato infatti giustamente affermato che “se l’impresa è destinata a
durare, un buon rapporto con il personale e un’immagine favorevole nei confronti
degli altri stakeholder possono agevolare il conseguimento del profitto nel lungo
termine”13. Vista in questa ottica, appare chiara non solo la possibilità di coesistenza
tra responsabilità economiche ed extra-economiche, ma soprattutto il carattere
complementare assunto dalle stesse nella prospettiva del tempo lungo. In altri
termini, l’adempimento di responsabilità sociali, o pubbliche che dir si voglia,
risulta strumentale per il raggiungimento di finalità economiche perché è in grado di
concorrere alla sopravvivenza e allo sviluppo futuro dell’impresa14. Se ciò è
vero, com’è vero, il problema diviene allora quello di trovare un corretto
equilibrio tra le due, ovvero quello di stabilire i limiti entro cui il perseguimento di
obiettivi sociali risulti compatibile con le potenzialità economiche dell’impresa. Per
spiegarci in parole ancora più chiare, l’impresa - secondo i canoni della buona
13
14
V. Vallance E., Business Ethics at Work, University Press, Cambridge, 1995, pp. 50-51.
Assolvere obblighi rientranti in quella che è correntemente considerata la responsabilità
sociale dell’impresa significa, in effetti, compiere “investments in the future” (v.
Stroup-Neubert, “The evolution of social responsibility”, Business Horizons, March,
1987).
106
IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
amministrazione - non può darsi carico di responsabilità sociali che compromettano
il suo assetto economico e ne minaccino la continuità. In una prospettiva del genere,
appoggiata a quella che abbiamo definito come visione “comunitaria” d’impresa,
il giusto equilibrio dev’essere dunque ritrovato tra tutti gli “stakeholder” (primari
e secondari) in funzione del tempo. Il problema diviene quello di individuare dei
limiti o dei rapporti di equilibrio secondo cui rispondere alle accresciute
obbligazioni a carico dell’impresa.
I limiti entro cui quest’ultima può assolvere la responsabilità sociale sono stati
esaurientemente individuati in quattro condizioni essenziali15. La prima è
rappresentata dalla non legittimazione ad occuparsi di problemi a cui sono
istituzionalmente preposte altre organizzazioni (Governo, enti locali, famiglia,
Chiesa, ecc.); la seconda è collegata all’esigenza di incorrere in costi sopportabili
senza compromissioni dell’equilibrio economico, che dev’essere in ogni caso
salvaguardato per la sopravvivenza dell’impresa; la terza risiede nell’evitare che
l’assunzione di decisioni socialmente utili possa porre in pericolo l’efficienza
operativa dell’organizzazione; e la quarta, infine, si correla all’ampiezza e complessità
dei problemi sociali da affrontare, che non potrebbero essere soddisfatti nemmeno
dall’impresa più orientata in senso sociale e, quindi, nella necessità di porre comunque
dei confini agli sforzi ch’essa vorrà produrre in questo campo.
La dottrina ed anche la pratica convengono, dunque, sul ruolo sociale che
l’impresa è chiamata a svolgere e sull’esigenza di pervenire ad un equilibrio
corretto rispetto alle finalità economiche16. In altri termini, qui conviene ribadire
che il dilemma non è nel riconoscimento o meno di una funzione sociale in senso
ampio, ma nel perseguimento di una ridefinizione delle responsabilità aziendali, che
veda però la socialità quale elemento collegato nel tempo alla redditività
dell’impresa17.
Questo risultato è peraltro legato alla trasparenza e visibilità dell’azione esercitata
dall’impresa, che ha interesse a sfruttare strumentalmente soprattutto gli investimenti di
tipo comunitario. Da ciò la pratica, che comincia a diffondersi, di pubblicare accanto al
bilancio d’esercizio - un “rapporto sociale”, nel quale potere segnalare gli investimenti
15
16
17
V. Post-Frederick-Lawrence-Weber, op. cit., pp. 4649.
Afferma chiaramente Caselli che “la responsabilità sociale è elemento costitutivo, fattore
dell’essere e del fare impresa. Non è un di più” (v., “Per un’economia al servizio
dell’uomo”, Prisma, n. 1/96 p. 33).
“L’obiettivo del management per problemi è di individuare ed analizzare questioni
sociali emergenti e di introdurre norme etiche nei processi decisionali delle imprese...”
Uno dei principi alla base del management per problemi è la convinzione a priori che
un’impresa socialmente responsabile sia in condizione di individuare le opportunità di
maggiori profitti e di minimizzare il rischio di perdite, riconoscendo i problemi sociali sul
nascere e ponendo in atto adeguate risposte (v. Wemer J.B., “Il movimento di riforma
dell’etica degli affari negli Stati Uniti: rassegna ventennale”, in Problemi di gestione,
supplemento al n. 5, vol. XIX, p. 89).
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compiuti nella protezione dell’ambiente, nella promozione della cultura,
nell’assistenza e beneficenza, ecc. Naturalmente, si è ancora molto lontani da quello
che potrebbe intendersi per bilancio sociale18, che peraltro appare abbastanza
utopistico, anche se i più frequenti tentativi realizzati denotano il crescente interesse
nel sociale delle maggiori imprese19.
18
19
Sul tema del bilancio sociale interessanti contributi sono stati apportati da Vermiglio F.,
Il “bilancio sociale” nel quadro evolutivo del sistema sociale d’impresa, Grafo Editor,
Messina, 1984; Rusconi G., Il bilancio sociale d’impresa. Problemi e prospettive,
Giuffrè, Milano, 1988; Pulejo L., Esperienze in tema di bilancio sociale. “Il modello
francese”, Giappichelli, Torino, 1996.
In Italia ancora limitati sono i casi di costruzione del bilancio sociale, che del resto - in
senso proprio - non viene predisposto neanche in altri Paesi. Sovente si parla, difatti, di
bilancio sociale per intendere un rapporto sociale, nel quale si riportano gli interventi
(investimenti in denaro e uomini) nei vari campi della socialità. E’ questo il caso del
rapporto sociale 1996 della Telecom Italia, all’interno del quale sono rilevate e
commentate le varie iniziative promosse da questa grande impresa nei settori della
cultura, sanità, volontariato, protezione civile, ambiente e sicurezza del lavoro, attività
sportive e aree in via di sviluppo. Gli interventi sono sempre quantificati secondo
parametri fisici e non monetari, che consentono comunque di valutare l’entità e
l’incisività degli sforzi compiuti in ambito sociale. Sempre a questo riguardo, è il caso di
osservare che altre imprese predispongono il loro rapporto sociale per rendere conto
pressoché esclusivamente dell’attività filantropica in campo culturale, assistenziale,
sportivo e religioso. Nell’ambito di uno dei bilanci sociali che abbiamo avuto modo di
esaminare, si è potuto constatare il tentativo di presentare un conto sintetico del valore
aggiunto lordo e della sua distribuzione tra i vari stakeholder: come si può osservare dallo
schema posto a pagina seguente, si tratta, in effetti, di un’interessante ripartizione del
valore aggiunto per grandi destinatari, che permette di misurare le variazioni avutesi
rispetto all’esercizio precedente.
Totale Produzione Lorda
Totale Consumi
Valore Aggiunto Lordo
Ripartito tra:
SOCI
Dividendi distribuiti ai Soci del Credito Valtellinese
Utile netto di pertinenza di terzi
1996
1.195.406
-817.672
377.734
1995
+/1.121.063
769.678
351.385 +7.50
19.789
6 479
26.268
15.663
2.350
18.013
+45.83
171.498
171.498
164.413
164.413
+4.3
23.034
60.525
83559
29.315
43.561
72.876
+14.66
RISORSE UMANE
Costo del lavoro
ENTI/ISTITUZIONI (STATO)
Imposte e tasse indirette e patrimoniali
Imposte sul reddito dell’esercizio
Conto sintetico del valore aggiunto lordo e della sua distribuzione (dati in milioni)
Fonte: Gruppo Bancario Credito Valtellinese, Bilancio sociale 1996.
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
Una volta accolta la stretta complementarità tra responsabilità economiche e
sociali dell’impresa, bisogna ora interrogarsi sul come potere raggiungere il
migliore equilibrio tra le due, tenuto conto del potere assai differente degli
stakeholder aziendali. In altri termini, c’è da chiedersi se è possibile stabilire dei
criteri o meglio delle regole, che tutelino i partecipanti più deboli e, nel tempo
lungo, privilegino gli interessi generali rispetto a quelli particolari, consentendo nel
complesso di elevare il valore morale dei comportamenti aziendali.
A questo punto ci sia consentita una breve digressione di carattere più generale,
peraltro legata in qualche modo al discorso che stiamo conducendo.
Nel mondo moderno uno degli elementi di maggior dubbio è rappresentato dal
ruolo delle “regole” di comportamento. Chi deve garantire l’equità, la giustizia, la
difesa dei più deboli: lo Stato, la Chiesa, le altre Istituzioni, le associazioni tra
cittadini, consumatori e così via? Le regole, e quali regole, debbono essere
necessariamente stabilite per assicurare il rispetto dei doveri morali da parte di tutti?
Fino a quale punto queste regole o la morale collettiva devono sostituirsi alla
coscienza individuale, ovvero in quale misura è possibile contare sulla morale dei
singoli per la realizzazione di obiettivi di equità e di giustizia? Tutto ciò come
s’inquadra nel mondo dell’economia e delle imprese, che - da tempo - ha mostrato
una più netta propensione per la deregulation? E’ vero, dunque, che oggigiorno
cresce l’esigenza di codici morali o etici nell’impresa e, contemporaneamente,
occorre fare sempre più affidamento sui valori morali degli individui che operano
nel mondo degli affari?
Per rispondere a questa serie di quesiti, è opportuno dedicare alcune riflessioni al
tema dell’etica degli affari o etica d’impresa, con l’obiettivo di dimostrare che l’etica
non solo può facilitare il raggiungimento dell’equilibrio tra responsabilità economiche
e sociali, tra interessi particolari e generali, tra tempo breve e tempo lungo, ma - e
questo è fatto da porre nel dovuto risalto - soprattutto rispondere ad aspirazioni che
dovrebbero essere proprie di tutti i membri della società, operanti all’interno o
all’esterno delle imprese.
Ci sembra qui il caso di rinviare a quanto già scritto in altra sede sulla definizione
del concetto di etica, sul suo stretto collegamento con le finalità imprenditoriali e sui
problemi connessi con il suo corretto inquadramento nella gestione aziendale20. Basti
solo ricordare che l’etica d’impresa è un tipo particolare di etica, che necessariamente
si discosta da quella assolutistica o kantiana per assumere contenuti più pragmatici,
idonei a contemperare finalità sociali ed economiche. Introdurre l’etica nell’impresa
significa assumere un differente orientamento rispetto alla visione contrattualistica e
conflittuale delle relazioni aziendali; significa, cioè, puntare a creare l’elemento fiducia nei
rapporti interni ed esterni tra i vari stakeholder per esaltare l’aspetto cooperativo al livello
del sistema più ampio degli interlocutori aziendali. Inserire valori morali come quelli
20
V. Sciarelli S., “Etica aziendale e finalità imprenditoriali”, in Economia e Management,
n. 6/96.
SERGIO SCIARELLI
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dell’equità, della correttezza, della giustizia, della trasparenza, della lealtà nelle
relazioni endo ed extra-aziendali, vuol dire mirare a creare alleanze durevoli, ad
accentuare il senso di partecipazione nell’organizzazione, a far crescere l’immagine
dell’impresa nei confronti dei vari pubblici cui essa si rivolge21. Tutto ciò cambia
profondamente l’ottica della teoria dell’impresa e dei mercati perché mira a
sostituire alla logica della contrapposizione e dell’asimmetria informativa quella
della mutua cooperazione all’interno di un quadro informativo completo e
trasparente per tutti i partecipanti.
L’introduzione dell’etica è dunque proiettata a produrre effetti nel tempo lungo
ed appare, oggi, come la via più idonea per consentire alle imprese di sopravvivere
in un’epoca di ipercompetizione22. Solo facendo crescere il livello morale dei
comportamenti e rafforzando la fiducia appare possibile raggiungere l’efficienza di
“sistema” anziché limitarsi a quella aziendale, ormai non più sufficiente ad
assicurare il durevole successo gestionale.
A noi sembra che una definizione concreta dell’etica d’impresa possa, in certi
termini, coincidere con quella del principio di equità teorizzato dal Rawls, secondo
cui “... quando un certo numero di persone s’impegnano in un’impresa cooperativa
reciprocamente vantaggiosa, nel rispetto di certe norme e quindi limitando
volontariamente la propria libertà, coloro che si sono sottomessi a queste restrizioni
hanno diritto a un atto analogo da parte di coloro che hanno tratto beneficio della
loro sottomissione. Non ci è dato - conclude il Rawls - di trarre un guadagno dagli
sforzi cooperativi altrui, se non facciamo la nostra equa parte”23.
Inquadrata appropriatamente, l’etica si pone dunque come una via preziosa, e
potremmo dire obbligata, per rispondere alle più ampie responsabilità attribuite
all’impresa. Appare difatti chiaro che l’effetto di esaltazione del mercato, dovuto al
crollo delle economie collettivistiche e all’avvento della deregulation nelle
economie occidentali, ha richiesto una revisione delle teorie economiche
tradizionali, fondate essenzialmente sull’utilitarismo, sulla convergenza pressoché
automatica tra perseguimento d’interessi particolari e conseguimento del benessere
collettivo24. E’ il fallimento, sotto il profilo efficientistico, delle economie di piano e
21
22
23
24
Il Coda opportunamente sottolinea che nell’impresa il passaggio dalla concezione
antagonista a quella collaborativa costituisce un importante elemento di convergenza tra
etica ed economia aziendale ... capace di promuovere la ricerca di una convergenza di
fondo tra le esigenze economico-aziendali e le istanze etico-sociali (v., “Il rapporto tra
impresa e lavoro: prospettive di evoluzione”, in Scritti in onore di Carlo Masini, p. 59).
Caselli propone molto opportunamente la visione dell’impresa come “protagonista etico”
dei nostri tempi, il cui futuro “si esprimerà sempre nella sua capacità di creare valore,
scegliendo tra le molteplici strade e modalità di realizzazione dell’obiettivo del profitto di
medio-lungo termine, quelle che meglio rispondono ad istanze di modernità e di sviluppo
sociale” (v., Le parole dell’impresa, Angeli, Milano, 1995, p. 27).
V. Rawls J., La teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 286-287.
“In realtà almeno da una decina d’anni è presente in un numero sempre maggiore di
economisti la consapevolezza che diversi problemi emergenti evidenziano ad
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
anche delle varie forme di presenza del pubblico nell’economia che ha portato alla
rivalutazione del liberismo economico, delle privatizzazioni, al riconoscimento del
valore del mercato quale regolatore ottimale degli scambi.
E’ dunque intuibile da dove nasce la richiesta di revisione delle teorie sul
comportamento economico, l’esigenza di superamento del concetto di razionalità
economica, l’invocazione dell’etica nel governo dell’impresa. Si tratta di bilanciare
valori economici e valori etici, di trovare una giusta combinazione fra i due, che
tenga conto delle leggi dell’efficienza economica e, contemporaneamente, di quelle
della giustizia ed equità nello sviluppo sociale.
In conclusione, si può dunque giungere ad una considerazione più ampia circa
l’evoluzione teorica del concetto d’impresa e la diffusione dell’etica aziendale. E’
indubbio, difatti, che recenti costruzioni teoriche, come l’impresa cognitiva di Peter
Senge, la teoria della qualità totale di Deming, la teoria degli stakeholder di
Freeman hanno concorso a dare maggiore importanza alla responsabilità sociale
dell’impresa e hanno creato i presupposti migliori per l’introduzione dell’etica
aziendale. Questa osservazione può spiegare meglio anche il più recente
intensificarsi degli studi sulla materia, assurta ormai in più Paesi a disciplina dotata
di autonomia di ricerca e di insegnamento.
L’esigenza dell’applicazione dell’etica non solo nell’impresa, ma anche in tutti i
rapporti umani si collega alla necessità di promuovere e realizzare, come
mirabilmente auspica Sen, “una buona società in cui vivere”. Se, difatti, gli
individui e i gruppi si regolassero, nei loro rapporti economici e sociali, secondo i
principi fondamentali dell’equità, della correttezza, della giustizia e della lealtà,
sicuramente crescerebbe il benessere dell’umanità e si ridurrebbero
contrapposizioni, tensioni e conflitti nella produzione, amministrazione ed uso delle
risorse disponibili. Quando e come è possibile realizzare, dunque, il grande salto di
qualità culturale che porta a sostituire principi di fiducia e di lealtà a stati d’animo di
sospetto, diffidenza e chiusura nei confronti degli altri? Si tratta di far conto su
un’evoluzione morale, basata sulla maturazione della coscienza individuale e su
credenze religiose, oppure di promuovere una crescita culturale fondata sulla
comprensione della necessità di costruire relazioni di reciproca fiducia in tutti gli
aggregati sociali?
Limitandoci al profilo aziendale, non possiamo non sottolineare che la fiducia,
all’interno dell’organizzazione, è sicuramente un attributo che migliora l’efficienza
e diminuisce i costi di controllo. Con essa, difatti, aumenta la motivazione a
produrre, cresce lo spirito di corpo e si riducono le risorse umane e finanziarie da
impiegare nell’attività di controllo. E’ ovvio che, in tali condizioni, quest’ultimo
abundantiam l’incapacità della teoria economica dominante, fondata sull’utilitarismo
individualista, di fornire soluzioni, ad un tempo efficienti e giuste, alla complessità
economica e sociale” (v . AA.VV., Etica e democrazia economica, presentazione, p. 8,
Marietti, Genova, 1991). E’ da tenere presente che il volume pubblica gli Atti di un
Convegno tenutosi nel 1989, vale a dire otto anni fa.
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potrà diventare meno continuo, approfondito e sistematico, anche se dovrà sempre
riuscire effettivamente a ridurre il rischio di una fiducia mal riposta. Si tratta,
dunque, di esaltare i meccanismi di autocontrollo, di contare sullo spirito di lealtà
verso l’azienda, che deve indurre il singolo individuo a fondare essenzialmente sulla
fiducia riposta negli altri il raggiungimento dei risultati di gruppo.
Se, in realtà, la fiducia è un vero e proprio fattore di efficienza
nell’organizzazione, è evidente la ragione per cui occorre investire su di essa. Gli
investimenti tesi a creare, mantenere e sviluppare la fiducia trovano, peraltro, una
loro sistematicità se sono inseriti nel disegno di rafforzamento dell’etica d’impresa.
Quest’ultima, come si è tentato di dimostrare, tende a rispondere efficacemente al
concetto allargato di responsabilità sociale ovvero a promuovere comportamenti
moralmente corretti da parte di chi governa l’impresa, in rapporto sia ai gruppi
sociali sia alla comunità in senso ampio.
D’altra parte, le prospettive di cambiamento per l’impresa, al volgere del
secondo millennio, appaiono dirompenti rispetto a strutture ed equilibri attuali.
La diffusione della tecnologia elettronica nella produzione di beni e di servizi, il
progresso straordinario dell’information technology, che ha di fatto già reso
l’informazione disponibile in ogni parte del mondo, l’introduzione crescente di
forme particolari di prestazione del lavoro (telelavoro, part-time, lavoro interinale),
il potere acquisito dai mercati finanziari (la cui regolazione sfugge ai custodi
istituzionali di livello nazionale, sovranazionale e internazionale), l’accentuarsi
della disparità tra i costi di acquisizione dei fattori di produzione in Paesi diversi,
stanno conducendo all’avvento di una “new economic age”, nella quale il concetto
di impresa dovrà essere completamente rivoluzionato.
L’impresa dovrà avere una “dynamic flexibility” e chi governa dovrà essere in
grado di realizzare una “strategic flexibility”. Ciò non potrà non fondarsi su alcuni
fattori fondamentali, come ad esempio:
a) l’avvento di leader dotati di forti capacità di “vision” e di promozione del
cambiamento;
b) la dotazione di risorse umane di livello molto elevato, da addestrare con
massicci investimenti in formazione professionale;
c) l’adozione di strategie di cooperazione e di alleanze per approfittare di economie
di scala, d’interrelazioni, di gamma, ecc.25;
d) la crescita del senso “morale” di tutti i protagonisti dello sviluppo economico e
sociale.
25
Velo, nella relazione presentata a questo stesso Convegno, approfondisce l’evoluzione
delle forme organizzative dell’impresa e individua nell’outsourcing l’elemento
principale nel cambiamento delle relazioni interaziendali, nell’ambito delle quali
avviene questo profondo mutamento delle logiche del comportamento imprenditoriale
(v., Nuovi assetti del governo d’impresa nel mutato contesto competitivo, stesura
provvisoria della Relazione al Convegno di “Sinergie”, Firenze, 17 ottobre 1997).
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA
Il tema dell’equilibrio tra economia ed etica, cui è stata dedicata questa
relazione, è oggi al centro dell’attenzione della nostra dottrina più avveduta, con un
`dibattito ricco di spunti problematici.
E’ evidente che esso ha assunto un’importanza determinante nella definizione
del concetto stesso d’impresa per una serie di motivi temporalmente abbastanza
concomitanti, tra cui si possono segnalare:
a) il compimento del processo di ricostruzione e di sviluppo economico con
l’affermarsi di esigenze ambientali prima meno sentite a causa dell’emergenza
economica da superare;
b) la maturazione di una cultura più attenta ai problemi della società in cui vivere,
nel tentativo di ridurre gli eccessi e le degenerazioni del capitalismo;
c) il crescere della complessità dell’ambiente economico-sociale per effetto della
globalizzazione dei mercati, della compressione del tempo e dello spazio, del
ridursi del potere locale più prevedibile e condizionabile rispetto a quello
nazionale, internazionale e mondiale;
d) la maturazione di un atteggiamento di ricerca di valori superiori e sovrannaturali
dopo i guasti del consumismo e dell’eccessiva economia del benessere.
Si tratta, come si può constatare, di fenomeni che attengono alla coscienza
dell’individuo, all’organizzazione dell’attività economica, all’ordinamento politico
sovranazionale.
In questo intenso ed eccezionale processo di cambiamento il ruolo dell’etica
nell’impresa comincia a delinearsi in termini più chiari e corretti. Essa, infatti,
deve contribuire alla più equa distribuzione del valore prodotto dall’impresa e,
nel tempo lungo, è in grado di ampliare anche il valore economico: in questo
senso non si pone e non può porsi in contrapposizione con l’economia, non
genera antinomia tra efficienza e socialità26. Questa contrapposizione emerge
invece nettamente se si segue la logica della massimizzazione del profitto ovvero
del vantaggio per l’interlocutore solitamente più forte. Ma poiché l’imprenditore,
26
Molto penetranti sono le considerazioni di Zamagni che, riprendendo la conclusione del
Gauthier che “la moralità sorge dall’insufficienza del mercato”, osserva che “è dalla
scoperta che l’etica serve all’efficienza, che essa è diventata condizione necessaria al suo
raggiungimento, che deriva l’interesse crescente a discutere di questioni etiche negli
stessi ambienti imprenditoriali”. Egli tuttavia si domanda se è credibile una posizione del
genere e conclude affermando chiaramente che “dopo parecchi decenni di sfibranti
tentativi volti a dimostrare la “chiusura” delle categorie di pensiero economiche,
s’intravede oggi un orizzonte nuovo, una prospettiva di discorso entro la quale l’etica
cessi di essere invocata solo come strumento o come condizione necessaria per
conseguire l’efficienza” (v., Sul reinserimento della dimensione etica nel discorso
economico, pp. 40-55).
SERGIO SCIARELLI
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nella misura in cui si identifica nell’impresa, persegue una molteplicità di
obiettivi di ordine economico e sociale, cade anche questa ipotetica contraddizione.
Come si è sostenuto in altra sede, l’adozione dell’etica nel governo dell’impresa
si rivela infatti strumentale al raggiungimento del successo sociale, ovvero alla
realizzazione del profitto, alla conquista del potere competitivo e al consolidamento
del prestigio sociale27. Per qualsiasi individuo la scalata al successo comporta, in
sostanza, l’affermazione nella società e quest’ultima, per l’imprenditore, non può
che essere legata al contributo che l’impresa riesce a dare al benessere generale
della collettività. Prima di concludere, ci sia consentito ancora di approfittare di
un’occasione così importante come questa odierna, per rivolgere un invito
soprattutto ai docenti più giovani delle nostre discipline.
I quesiti posti in questa sede sono interrogativi che interessano qualsiasi persona
dotata di sensibilità sociale, perché si collocano al centro di un dibattito importante
nella ricerca di quella “buona società in cui vivere”, cui si faceva cenno in
precedenza, e non possono quindi non richiedere particolare attenzione da parte
degli studiosi dell’impresa.
A tale riguardo, occorre fare insieme una riflessione sul perché una Scuola di
tradizioni illustri, come dev’essere giustamente considerata quella degli aziendalisti
italiani, appaia in qualche ritardo sulle tematiche oggetto di questo importante
convegno. Pur annoverando nella nostra letteratura contributi di rilievo sull’etica
d’impresa, non si è ancora formato un più solido corpo dottrinale, com’è accaduto,
ad esempio, nei Paesi di lingua inglese. Questo fatto, oltre che essere il riflesso di
una nostra differente impostazione culturale, al cui interno i valori morali legati alla
religione cattolica sono stati sempre preminenti ed hanno forse fatto avvertire di
meno il problema, può dipendere da una minore consuetudine con studi di carattere
interdisciplinare e da un maggiore distacco tra studiosi e mondo delle imprese.
L’etica aziendale è certamente materia che va affrontata sotto un profilo
interdisciplinare perché richiede competenze filosofiche, giuridiche, sociologiche ed
economiche. All’estero, infatti, la disciplina è presente nei Dipartimenti di filosofia
morale, al cui interno lavorano anche aziendalisti, economisti e giuristi. E’ chiaro
che la compresenza di queste differenti competenze disciplinari ha reso meno arduo
il distacco e la rivisitazione del paradigma economico classico sul governo
dell’impresa. E, in realtà, ha contribuito in modo significativo alla più ampia
evoluzione del concetto d’impresa, fondata sulla teoria degli stakeholder e sulla
piramide delle responsabilità aziendali. Oggi, è questa è una constatazione che
dovrebbe preoccuparci, lo studio dell’impresa è affidato sempre più a gruppi
interdisciplinari, capaci di cogliere la profonda modificazione della società in cui
viviamo. L’interrelazione tra l’impresa e la società non consente cioè di
salvaguardare la presunta autonomia dell’economia aziendale, che appare per
molti versi largamente superata dai tempi.
27
V. Sciarelli S., op. cit., pp. 17-20.
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Questa considerazione trova, purtroppo, elementi di rafforzamento nel distacco,
ancora grande, che da noi esiste tra mondo dell’Università e mondo delle imprese.
Lo studioso che opera in un ambiente esclusivamente speculativo, che non trae
elementi di riflessione e di revisione critica dall’osservazione del reale, è ancora più
esposto alla naturale vischiosità dell’elaborazione puramente dottrinale. Non solo,
ma non è in grado di ricevere dal mondo delle imprese i messaggi sulle
problematiche di maggiore momento e sulle esigenze del loro approfondimento
scientifico. Una situazione del genere, se non corretta tempestivamente, può far
perdere posizioni preziose alla nostra Scuola con il rischio di trasmettere concetti
parziali quando non superati. Ma il problema della formazione è più generale
perché, come viene giustamente osservato, l’etica dell’impresa è da ritenersi
un’etica secondaria, in quanto derivante dall’etica degli individui in essa operanti. I
suoi effetti dipendono, infatti, dai valori morali posseduti dai principali organi
decisionali e dalle regole codificate di comportamento, intese a disciplinare
l’esercizio delle responsabilità discrezionali. In questo senso, la formazione
interessa l’intera classe imprenditoriale e manageriale, chiamata a svolgere compiti
sempre più ardui in una società a complessità crescente. Per questo s’impone un
recupero del “gap” che ci divide dai Paesi anglosassoni, dove la ricerca e la
didattica sull’etica nell’impresa sono comuni a tutte le scuole di management e dove
si è formato un gruppo di studiosi di eccellenza, di varia estrazione disciplinare, che
si sta dedicando all’approfondimento di problemi sicuramente centrali nella teoria
dell’impresa.
Da ciò l’invito soprattutto ai giovani, più adusi all’approccio interdisciplinare e
ai collegamenti internazionali, a volere contribuire, con la loro capacità e soprattutto
con il loro entusiasmo, ad un’azione di recupero importante e con scadenze che
appaiono certamente caratterizzate da grande urgenza.
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IL GOVERNO DELL’IMPRESA IN UNA SOCIETA’ COMPLESSA