IL PATTO DI FAMIGLIA In collaborazione con lo STUDIO LEGALE DALLA VERITÀ (Avv. Federico Dalla Verità, Avv. Anita Barisi, Avv. Lorenzo Reggianini, Avv. Chiara Pederzoli) I II SOMMARIO EXECUTIVE SUMMARY............................................................................. p. 1 INTRODUZIONE 1. Analisi del contesto: le imprese familiari in Italia e le criticità del passaggio generazionale ………………………………………………… p. 9 2. Il nuovo strumento per la successione “selettiva” nell’impresa: la legge 14 febbraio 2006, n. 55 ……………………………………….. p. 12 3. Strumenti di trasmissione dell’impresa di famiglia nel diritto comparato ..................................................................................................... p. 14 CAPITOLO PRIMO I SOGGETTI COINVOLTI NEL PATTO DI FAMIGLIA: L’IMPRENDITORE, GLI ASSEGNATARI, I LEGITTIMARI NON ASSEGNATARI E LE VARIAZIONI SOGGETTIVE SUCCESSIVE ALLA STIPULAZIONE 1. 2. 3. 4. 5. 6. Premessa: le parti del patto di famiglia. ................................................... p. 18 L’imprenditore e il suo impulso al patto di famiglia ................................ p. 19 I beneficiari “assegnatari” dell’impresa o di quote di essa ....................... p. 22 I legittimari non assegnatari e la loro partecipazione al patto .................. p. 26 La perdita della qualità di legittimario: la posizione del coniuge divorziato e i diritti del nuovo coniuge ..................................................... p. 30 I legittimari cd. “sopravvenuti” dopo la stipulazione del patto e la tutela dei loro diritti .................................................................................. p. 32 III CAPITOLO SECONDO L’OGGETTO DEL PATTO DI FAMIGLIA: L’IMPRESA, LE QUOTE DI PARTECIPAZIONE SOCIETARIE 1. I beni che possono essere oggetto del patto di famiglia...................... p. 36 2. Il titolare di impresa e/o di quote societarie non imprenditore ......... p. 40 3. Il trasferimento dell’azienda: rapporto con l’istituto dell’impresa familiare ................................................................................................. p. 43 4. Le quote di partecipazione societarie: rapporto con eventuali clausole di gradimento, o regolatrici del rapporto fra soci superstiti ed eredi del socio defunto ................................................................................................... p. 49 5. Il momento dell’efficacia del patto..................................................... p. 53 6. Le pattuizioni accessorie: termine, condizione................................... p. 55 7. La liquidazione dei legittimari non assegnatari; disattivazione dei meccanismi della collazione e della riduzione ...................................... p. 60 CAPITOLO TERZO ASPETTI PATOLOGICI DEL PATTO DI FAMIGLIA 1. Premessa.............................................................................................. p. 72 2. L’impugnazione per vizi del consenso e altre cause di annullamento. Legittimazione, prescrizione e conseguenze dell'azione di annullamento ………………………………………………………………...……… p. 73 3. Nullità per mancata partecipazione dei legittimari non assegnatari... p. 83 4. La rescissione per lesione e la risoluzione.......................................... p. 85 5. L’impugnazione del patto di famiglia per il mancato pagamento delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari.......................................... p. 87 6. Lo scioglimento e la modifica del patto di famiglia: requisiti del contratto................................................................................................... p. 88 7. Controversie........................................................................................ p. 92 IV EXECUTIVE SUMMARY Cosa s’intende per patto di famiglia? Il patto di famiglia è un contratto con il quale l’imprenditore (anche solo titolare di partecipazioni societarie) trasferisce, in tutto o in parte, ad uno o più dei propri discendenti in linea retta la sua azienda (o un ramo aziendale) o il suo pacchetto di partecipazioni societarie; al contempo, colui che ha ricevuto l’azienda in assegnazione dovrà liquidare le rispettive quote agli eredi legittimari dell’imprenditore. Qual è la funzione del patto di famiglia? Lo scopo di questo istituto è quello di evitare liti e conseguenti disfuzioni gestionali al momento della morte dell’imprenditore. Con il patto di famiglia l’imprenditore può: (i) selezionare, in vita, il discendente maggiormente adatto alla continuazione dell’attività aziendale e, così, evitare che dalla successione possa derivare pregiudizio alla azienda oppure possano determinarsi contrasti per effetto dell’instaurazione della comunione sui beni dell’impresa tra gli eredi (con conseguente inasprimento dei loro rapporti per l’eventuale difficoltà di accordo sulla divisione delle quote o sull’assunzione di decisioni strategiche); (ii) il patto va incontro all’esigenza dell’imprenditore, ad un certo punto della propria vita, di disinteressarsi all’attività di impresa senza il rischio che si creino conflitti tra i familiari per la successione nella gestione, in ragione del fatto che la selezione dei soggetti destinati alla continuazione è già stata effettuata; (iii) il discendente che riceve l’azienda o partecipazioni societarie in assegnazione è incentivato ad impegnarsi nella continuazione dell’attività e nella sua gestione, atteso che è obbligato in prima persona a liquidare agli altri eredi legittimi la quota parte corrispondente al valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie che a loro spetterebbero al momento dell’apertura della successione. Quali sono i vantaggi del patto di famiglia? Oltre a notevoli vantaggi fiscali, il patto di famiglia permette di “cristallizzare” la scelta effettuata dall’imprenditore. L’assegnazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie ad uno o più discendenti è “stabile”: una volta stipulato il patto e liquidate le quote agli eredi legittimi che non hanno ricevuto (in tutto o in parte) l’azienda o partecipazioni societarie, questi ultimi non potranno esercitare azioni in giudizio per modificare la situazione voluta in vita dall’imprenditore. Tecnicamente, le disposizioni del patto di famiglia sono sottratte sia a collazione (ex artt. 741 ss. c.c.), sia all’azione di riduzione (ex artt. 553 ss. c.c.). 1 Quando è stato introdotto il patto di famiglia in Italia? Con lo scopo di adeguare il diritto successorio alle esigenze del sistema economico e su spinta della Commissione Europea, la legge 14 febbraio 2006, n. 55 ha introdotto nel libro II del Codice Civile (“Delle Successioni”), al titolo IV, un nuovo capo V-bis rubricato appunto “Patto di Famiglia”, composto dagli articoli da 768-bis a 768-octies. Chi possono essere i soggetti scelti dall’imprenditore per continuare l’attività? Possono ricevere dell’imprenditore. l’azienda o le partecipazioni societarie i «discendenti» Per la dottrina maggioritaria la legge si riferisce solamente ai figli e ai nipoti – è questo il caso del passaggio generazionale per saltum. L’ampia locuzione «discendenti» comprende tanto quelli legittimi, quanto quelli naturali, in ragione della recente equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi e a quelli legittimati (cfr. D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154), anche i primi possono ricevere l’impresa familiare. Restano conseguentemente escluse sia la trasmissione collaterale (dunque, ai fratelli ed ai loro discendenti), sia quella effettuata in favore del coniuge. Chi deve partecipare al patto? Oltre all’imprenditore e al discendente che riceve l’azienda o partecipazioni societarie (cd. «assegnatario»), devono partecipare al patto anche i «legittimari non assegnatari», ai quali deve essere liquidata la quota spettante. Sono legittimari non assegnatari: il coniuge, anche se legalmente separato e sempre che la separazione non gli sia stata addebitata, posto che in tale ultimo caso il coniuge avrà diritto solo ad un eventuale assegno successorio; non invece il convivente more uxorio, atteso che a costui non spetta alcun diritto successorio per legge, né gli è attribuita la qualifica di legittimario, né è ammessa la partecipazione del coniuge già divorziato al momento della stipulazione del patto; sono legittimari altresì i figli (legittimi, naturali, legittimati o adottivi) che non hanno ricevuto l’azienda o le partecipazioni societarie, e qualora uno di questi fosse premorto all’imprenditore, i suoi discendenti. Cosa succede se, dopo la stipulazione del patto di famiglia, sopravvengono altri eredi legittimi (per esempio, perché l’imprenditore disponente ha avuto un altro figlio o ha riconosciuto un figlio nato fuori dal matrimonio)? Dopo la morte dell’imprenditore, all’apertura della successione, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al patto di famiglia possono chiedere ai 2 beneficiari del contratto (quindi, sia all’assegnatario, sia ai legittimari non assegnatari pro quota) il pagamento della somma loro spettante, aumentata degli interessi legali; qualora tali soggetti non ottengano la quota spettante, potranno impugnare il patto di famiglia. A favore dei legittimari pretermessi o sopravvenuti la legge riconosce un diritto di credito che questi possono esercitare nei confronti dell’assegnatario e dei legittimari non assegnatari per avere la quota spettante. Più in particolare, cosa succede se l’imprenditore ha divorziato dal coniuge che ha partecipato al patto di famiglia e si è successivamente risposato? Come sono tutelati i diritti del nuovo coniuge? Come gli altri legittimari sopravvenuti, il secondo coniuge potrebbe richiedere quanto gli sarebbe spettato se avesse partecipato alla stipulazione del patto, aumentato degli interessi. Ma verso chi avanzerà la sua pretesa? (a) (b) Per una parte della dottrina, il secondo coniuge potrebbe rivolgersi solo ed esclusivamente all’ex coniuge, dal quale potrà pretendere la liquidazione della quota, oltre agli interessi che essa ha prodotto. Per altri, invece, non esiste alcun diritto del secondo coniuge ad ottenere la parte già monetizzata a favore del primo. Per ovviare alle conseguenze paradossali che tale interpretazione, formalistica che – a parere di alcuni detrattori – rischierebbe di dare efficacia quoad effectum alla bigamia, è consigliabile nella pratica inserire nel patto di famiglia un’apposita clausola nel patto di famiglia che abbia natura di clausola risolutiva espressa, con conseguente venire meno, in caso di divorzio, dell’attribuzione eseguita in favore del primo coniuge. Quali beni possono essere oggetto del patto di famiglia? Con il patto di famiglia possono essere trasmessi solo beni produttivi: quindi l’impresa, se esercitata in forma individuale, ovvero le partecipazioni societarie, se l’impresa è esercitata in forma societaria. In ogni caso, è indispensabile che quanto viene trasmesso all’assegnatario lo legittimi ad esercitare il potere direttivo all’interno dell’impresa: per tale motivo, è dubbio che si possano trasmettere quote di partecipazione in società di capitali, o azioni, perché la parcellizzazione della partecipazione in tali tipi di società può essere incompatibile con la titolarità della gestione. Si possono trasmettere mediante il patto di famiglia quote di partecipazione acquisite a fini di risparmio o di investimento? No, perché tali finalità non comportano l’esercizio della gestione – cioè dell’attività imprenditoriale – da parte del loro titolare. 3 Si possono trasmettere mediante il patto di famiglia quote di partecipazione in società di mero godimento (quali le società immobiliari)? La legge non dice nulla, specificamente, su tale argomento, ma si ritiene generalmente di dare risposta negativa al quesito, considerando che la mera gestione di un patrimonio immobiliare non costituisca attività imprenditoriale nel senso inteso dalla normativa sul patto di famiglia. E’ vero, però, che in occasione della stipulazione del patto di famiglia il disponente può attribuire ai non assegnatari dei beni che non sono “strutturalmente” appartenenti al patto (nel senso che non hanno la caratteristica di essere beni produttivi) e che, per tale ragione, al momento dell’apertura della successione del disponente saranno assoggettati al regime ordinario, con lo scopo di rendere più appetibile l’accordo ai non assegnatari. Che cosa avviene se l’impresa è esercitata in forma di impresa familiare? La legge precisa che il patto di famiglia può essere stipulato «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare»: quindi, evidentemente, le disposizioni del patto di famiglia sono subordinate a quelle in tema di impresa familiare. Ne consegue che se un partecipante all’impresa familiare ha maturato un diritto di prelazione sull’impresa ed intende esercitarlo (ed ovviamente non è in condizioni per essere assegnatario dell’impresa mediante il patto, non essendo erede legittimario del titolare), il patto di famiglia non potrà essere stipulato. Che cosa avviene se l’impresa è esercitata in forma societaria ed i patti sociali o lo statuto contengono clausole che limitano la trasmissibilità delle partecipazioni societarie? Il conflitto tra patto di famiglia e disposizioni pattizie in tema di trasmissibilità delle partecipazioni va risolto in funzione delle singole specifiche clausole: se nei patti sociali o nello statuto di una società è prevista l’intrasferibilità delle quote, la clausola è sicuramente incompatibile con l’attribuzione delle quote ad un assegnatario mediante patto di famiglia; se è prevista una clausola di gradimento da parte degli altri soci o degli organi sociali, il patto di famiglia sarà realizzabile solo a condizione che venga manifestato il gradimento del soggetto assegnatario da parte degli altri soci o degli organi sociali; se esiste invece un divieto statutario di alienazione delle quote, esso non può avere durata superiore a cinque anni, decorrenti dalla costituzione della società, ovvero dall’introduzione del divieto (ove questo sia stato deliberato in un momento successivo alla costituzione della società: cfr. art. 2355-bis c.c., relativo alle S.p.A.), cosicché esso può precludere il patto di famiglia solo per un limitato periodo. 4 Che cosa avviene se l’impresa è esercitata in forma societaria ed il disponente ha voluto che l’efficacia del patto di famiglia fosse rinviata al momento della sua morte? Qual è il rapporto fra patto di famiglia e norme in tema di morte del socio? Nelle società di persone, l’art. 2284 c.c. rimette ai soci superstiti la scelta fra tre possibili sviluppi, alternativi fra loro, della situazione determinata dal decesso di un socio, ossia: (i) la liquidazione della quota del socio defunto agli eredi dello stesso; (ii) lo scioglimento della società; (iii) la prosecuzione della società con gli eredi. E’ evidente il conflitto di tale norma con il patto di famiglia, nel quale è il socio (poi defunto) ad avere individuato la persona che deve prendere il suo posto in seno alla società. Delle tre alternative indicate dall’art. 2284 c.c., soltanto la terza si presta ad essere compatibile con il patto di famiglia, perché può accadere che la prosecuzione della società con gli eredi del socio defunto avvenga con l’assegnatario delle quote, realizzandosi così un incontro di volontà “postumo” fra il disponente ed i soci superstiti; per quanto riguarda invece le altre previsioni, non sembra possibile trovare alcun punto di incontro fra di esse e la normativa sul patto di famiglia, la cui fattibilità rimane pertanto esclusa dalla esistenza di clausole statutarie di tale contenuto. Nel caso, invece, che sia lo statuto della società a regolamentare anticipatamente ciò che si verificherà in caso di morte del socio (ad esempio con una clausola che preveda: lo scioglimento automatico della società; oppure l’obbligo di prosecuzione della società con gli eredi del socio defunto; oppure la “consolidazione” – o accrescimento – delle quote del defunto in favore dei soci superstiti; oppure il diritto dei soci superstiti di acquistare le quote dagli eredi, a condizioni predeterminate) soltanto la clausola che prevede l’obbligo di prosecuzione della società con gli eredi del socio deceduto è certamente compatibile con la stipulazione di un patto di famiglia. Per quanto riguarda le altre clausole statutarie occorrerà invece che si verifichi di volta in volta se – per lo specifico contenuto dello statuto in cui sono inserite – esse si pongano in conflitto con il patto di famiglia, tenendo conto della generale tendenza del legislatore a subordinare la fattibilità del patto di famiglia al rispetto delle norme legali e pattizie che regolano le società Qual è il momento in cui il patto diviene efficace? Generalmente, il patto diviene efficace nel momento in cui viene stipulato. E’ però consentito che l’efficacia sia differita ad un momento successivo, oppure che sia condizionata sospensivamente ad un evento che si deve verificare in futuro (ad esempio, la liquidazione delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari; o la scadenza di un divieto statutario di alienazione di quote). Parimenti, è possibile che il patto sia sottoposto a condizione risolutiva, ad esempio per il caso della sopravvenienza di un nuovo legittimario, o per il caso di cattiva gestione dell’attività imprenditoriale da parte dell’assegnatario. 5 Qual è l’effetto del patto di famiglia sulla successione del disponente? La legge purtroppo non fornisce una risposta chiara al quesito. Molta parte della dottrina ritiene che a seguito del patto di famiglia si realizzi una sorta di doppia successione dell’imprenditore disponente, nel senso che con il patto viene devoluta una massa di beni che non sono destinati ad essere calcolati in alcun modo nella successione mortis causa dell’imprenditore, e che al momento della morte si aprirà la successione nel patrimonio relitto, da attribuirsi agli aventi diritto senza alcuna considerazione di quanto già assegnato in precedenza. Altri ritengono invece che i beni attribuiti con il patto siano – sì – protetti da eventuali pretese di altri eredi, ma in sede di successione debbano comunque essere calcolati al fine della determinazione dell’entità del patrimonio del disponente. Premesso che entrambe le teorie si fondano su argomentazioni ben motivate, sembra preferibile la prima, perché sembra meglio preservare la solidità e la convenienza economica del patto. Come avviene la liquidazione delle quote ai non assegnatari? La liquidazione delle quote dovrebbe essere eseguita dall’assegnatario, ma – nel silenzio della legge – si ritiene generalmente che il disponente possa provvedere personalmente. Seguendo la teoria della “doppia successione” di cui si è detto poc’anzi, l’attribuzione di beni produttivi all’assegnatario e la liquidazione delle quote ai non assegnatari rimangono atti a se stanti, che non influiranno sulla determinazione del valore dell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione mortis causa del disponente. Come si determina la quota dovuta ai non assegnatari? Anche su questo punto la legge non fornisce una risposta certa: l’interpretazione più ragionevole dice che le quote vadano commisurate al valore dell’azienda trasmessa all’assegnatario (in alternativa, dovrebbero essere commisurate al valore dell’intero patrimonio del disponente, ex art. 536 ss. c.c.). Come si determina il valore del bene produttivo trasmesso? La legge non dispone alcuna modalità obbligata per la determinazione del valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Sembra, peraltro, consigliabile che si proceda a far eseguire una perizia di stima, eventualmente asseverata. In ogni caso, anche nel silenzio della legge pare pacifico che il valore si cristallizzi alla data della stipulazione del patto, anche qualora l’esecuzione della liquidazione sia differita ad un momento successivo. 6 Quando si deve eseguire la liquidazione dei non assegnatari? In concomitanza con la stipulazione del patto, eventualmente in forma dilazionata, su accordo delle parti. Nel caso in cui il contratto sia stato sottoposto a condizione sospensiva o a termine iniziale, c’è contrasto fra una tesi che ritiene comunque immediatamente dovuta la liquidazione dei non assegnatari ed un’altra – preferibile – che ritiene che anche la liquidazione dei non assegnatari debba essere differita fino al momento in cui l’assegnatario entra effettivamente nella disponibilità del bene produttivo trasmessogli. Quali sono le conseguenze dell’annullamento del patto di famiglia? A seguito dell'annullamento del patto di famiglia: (a) viene invalidato il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie, e a ciò consegue il ripristino della titolarità del bene produttivo in capo al disponente; (b) viene meno l’aspetto della tacitazione delle ragioni dei legittimari non assegnatari, per cui la liquidazione delle loro spettanze ― con una somma corrispondente alle quote di legittima che essi possono vantare (v. art. 536 ss c.c.), ovvero, in alternativa, con beni in natura di valore equipollente rispetto alle dette quote di legittima ― è soggetta all’obbligo di restituzione; (c) non opera più l’esenzione dalla collazione e dall’eventuale esperimento dell’azione di riduzione per cui i legittimari non assegnatari rientrano nella piena titolarità dei diritti di legittima; (d) unica eccezione è la salvezza dei diritti dei terzi in buona fede (che per esempio hanno acquistato l’azienda o le quote della società dal beneficiario) a patto che tali diritti non siano sorti successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale di annullamento (art. 1445 c.c.). Quali sono le conseguenze della mancata partecipazione di tutti i legittimari? Secondo un primo orientamento dottrinale sarebbe necessaria la partecipazione di tutti i legittimari, pena la nullità del patto di famiglia. Si è osservato in proposito che l’intervento dei legittimari non assegnatari sarebbe stato previsto come indispensabile dal legislatore proprio per il sacrificio che essi subirebbero con la necessaria liquidazione della loro quota di riserva. Conseguenza diretta della mancanta partecipazione di alcuni aventi diritto sarebbe la nullità del patto, derivante dalla disposizione di cui all’art. 1418 c.c. e quindi dalla violazione di una norma imperativa (l’art. 768 quater c.c.), vuoi, per alcuni fra gli autori che la sostengono, dalla natura sostanzialmente divisoria del patto di famiglia e quindi dall’applicazione analogica delle norme applicabili alla divisione (art. 1113, comma III, c.c.). Altra parte della dottrina ritiene invece che il patto sia un contratto naturalmente bilaterale e che pertanto i soli soggetti che necessariamente devono parteciarvi sono il disponente e l’assegnatario. 7 Qual’è il rimedio alla sottostima del valore dell’azienda o delle partecipazioni oggetto del patto? Parte della dottrina ritiene che vi debba essere corrispondenza tra le attribuzioni effettuate a favore dei legittimari non assegnatari, a tacitazione delle loro ragioni, e le rispettive quote di legittima. L’eventuale sottostima del valore del bene trasferito avrà come effetto quello di determinare l’attribuzione al partecipante non assegnatario di una somma inferiore all’effettivo valore della sua quota (art. 768 quater, comma II, c.c.). Lo squilibrio viene in rilievo soltanto per il caso di lesione oltre un quarto, alla stessa stregua di quanto dispone l’art. 763, comma I, c.c. in tema di rescissione per lesione della divisione. E’ fatta salva la facoltà degli assegnatari di neutralizzare l’azione di rescissione provvedendo al supplemento a favore del legittimario leso. Il patto di famiglia è modificabile? Si, qualora i partecipanti al patto di famiglia intendano modificare il patto con un nuovo contratto, le opzioni sono molteplici: (a) modificare in tutto o in parte le assegnazioni fatte ai legittimari; (b) convenire la revoca alla rinunzia alla liquidazione da parte di uno dei legittimari non assegnatari; (c) disporre il trasferimento dell’azienda con modalità diverse rispetto a quelle originariamente previste. 8 INTRODUZIONE 1. Analisi del contesto: le imprese familiari in Italia e le criticità del passaggio generazionale Che il tessuto imprenditoriale sul territorio italiano sia connotato da un alto tasso di “familiarismo” è un fatto: oltre il 90% delle imprese italiane sono a carattere familiare 1 . Senza volersi calare nel tecnicismo giuridico, tra le oltre 90 definizioni di impresa familiare individuate a livello europeo da un’indagine della Commissione Europea il riferimento più ricorrente è quello ad un’impresa in cui la maggior parte del processo decisionale è in capo all’imprenditore fondatore, ai suoi parenti o eredi, o all’imprenditore che ha acquisito il possesso dell’impresa2. Proprio la peculiare composizione della grande maggioranza delle piccole e medie imprese italiane ha indotto il legislatore ad affrontare gli innumerevoli profili di criticità connessi al cd. “passaggio generazionale” dell’impresa: tornando ai dati statistici, colpisce che solo un’impresa su 5 sia in grado di superare incolume il mutamento dell’assetto proprietario al momento della morte dell’imprenditore 3 ; e procedendo oltre la seconda generazione, è 1 BANCA D’ITALIA, Proprietà e controllo delle imprese italiane. Cosa è cambiato nel decennio 1993–2003, Milano, 2004. 2 COMMISSIONE EUROPEA, Overview of family-business-relevant issues: research, networks, policy measures and existing studies, 2009. 3 P. ZANELLI, La riserva pretermessa nei patti di famiglia, Contratto e Impresa, 2007, p. 895; P. MANES, Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare, Contratto e Impresa, 2006, 545; M. DOGLIOTTI (a cura di), Il patto di famiglia. Aspetti civilistici e fiscali, Giuffré, Milano, 2012, p. 2. 9 indicativo che solamente una percentuale tra il 5% ed il 15% sopravviva alla terza generazione4. E’ pertanto sorprendente che all’individuazione di un momento di oggettiva e diffusa criticità come quello del passaggio generazionale non corrisponda l’atteggiamento di prudenza che ci potrebbe legittimamente attendere da parte dell’imprenditore. Ed infatti solo il 14% delle aziende italiane dichiara di aver implementato politiche per la gestione del passaggio generazionale, il 15% programma di avviarle e il restante 71% non valuta neppure di predisporre misure per affrontare il problema5. In Europa la condizione non è così dissimile, talché le istituzioni europee si sono occupate del tema a partire dalla metà degli anni ’90, la Commissione Europea sollecita l’intervento degli stati membri per l’adozione di strumenti atti a facilitare la successione nell’azienda, soprattutto quella familiare. Sulla stessa linea si pone il Small Business Act for Europe pubblicato dalla stessa Commissione per spianare la via ad una semplificazione legislativa che fosse di maggior supporto per le piccole e medie imprese nel passaggio generazionale6. Tuttora, l’attenzione della Commissione è elevata sul tema, anche in considerazione dei dati elaborati e diffusi: non può non considerarsi, ad esempio, che ogni anno sono a rischio circa 150.000 imprese e 600.000 posti di lavoro a causa dell’inefficienza nel programmare il “passaggio del testimone”7. Emblematica al riguardo è la tabella che segue, dalla quale si desume l’importanza del fenomeno a livello globale. 4 M. DOGLIOTTI (a cura di), Il patto di famiglia… cit., p. 2; analogamente, A. DELL’ATTI, Il trust: strumento di pianificazione e gestione della successione nelle imprese familiari, Economia Aziendale Online, 2008, ove si legge che solo il 30% delle imprese familiari superano il primo passaggio generazionale e di queste solo il 50% vedrà una terza generazione. 5 ASTRARICERCHE, InterAGEing, un patto tra generazioni in Azienda. Milano, 15/02/2013. Manageritalia. 6 COMMISSIONE EUROPEA, “Una corsia preferenziale per la piccola impresa”. Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la Piccola Impresa (un “Small Business Act” per l’Europa), 2008, disponibile sul sito: http://eur-lex.europa.eu. 7 Cfr. COMMISSIONE EUROPEA, Business Dynamics: Start‐ups, Business Transfers And Bankruptcy. Final Report, 2011, disponibile sul sito: http://ec.europa.eu. 10 Tabella 1 - Il peso delle imprese familiari nel mondo8 Imprese Contributo al familiari PIL Italia 90% 80% 75% Germania 60% 66% 71% Regno Unito 70% 65% 60% USA 96% 40% 50% Australia 80% 50% 45% Francia 60% 60% 43% Cile 75% 50-70% Finlandia 70% 40-45% Portogallo 70% 60% Spagna 75% 75% Belgio 75% 55% Paese Occupati Quanto sopra delineato costituisce il contesto nel quale anche le istituzioni nazionali, nell’ultimo decennio, si sono mosse al fine di sostenere e, in parte, agevolare l’avvicendamento generazionale nei beni produttivi dell’impresa. Tra le più interessanti novità legislative, invero ancora parzialmente inesplorata, almeno nella prassi, figura il patto di famiglia, istituto del quale si fornirà nel prosieguo analisi dettagliata. 8 P. SINGER, Il passaggio generazionale nell’impresa familiare tra continuità e cambiamento, 2005, Torino, Giappichelli. 11 2. Il nuovo strumento per la successione “selettiva” nell’impresa: la legge 14 febbraio 2006, n. 55 Con lo scopo di adeguare il diritto successorio alle esigenze del sistema economico, la legge 14 febbraio 2006, n. 55 ha introdotto nel libro II (“Delle Successioni”), al titolo IV del Codice Civile, un nuovo capo V-bis rubricato appunto “Patto di Famiglia”, composto dagli articoli da 768-bis a 768-octies. In via di prima approssimazione, il patto di famiglia è il contratto con il quale l’imprenditore trasferisce in tutto o in parte la propria azienda (o, in tutto o in parte, le proprie quote di partecipazione) ad uno o più discendenti, tendenzialmente selezionati per le loro capacità imprenditoriali. Coloro che ricevono, tramite il predetto patto, il tutto o una parte delle quote, dovranno poi corrispondere agli altri discendenti legittimi ai quali l’azienda non è stata assegnata un’equivalente somma in denaro o un bene in natura di equivalente valore. La novella legislativa introduce un’importante eccezione al rigido regime successorio ancorato al principio di inderogabilità della tutela dei legittimari, consentendo la stipula del patto di famiglia in deroga al divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c.9; quest’ultima norma vieta, infatti, di disporre mediante accordo dei beni che saranno oggetto della propria successione e vieta, altresì, di disporre di diritti che potrebbero pervenire da una successione non ancora aperta o di rinunciare ad essi10. In altre parole, con il patto di famiglia si concede all’imprenditore – per atto inter vivos immediatamente efficace – di individuare nella cerchia dei propri discendenti il soggetto o i soggetti più idonei a proseguire l’attività 9 Con la l. n. 55/2006, al primo periodo dell’art. 458 c.c. è stata premessa la seguente formula di “salvezza”: «fatto salvo quanto disposto dagli art. 768 bis e seguenti». 10 Come precisato da autorevole dottrina, l’art. 458 c.c. contiene tre distinti divieti: quante sono le categorie tipologiche dei patti successori, ovvero: patti successori istitutivi, dispositivi e rinunciativi, cfr. C. CACCAVALLE, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili funzionali e strutturali della fattispecie, Notariato, 3, 2006, p. 289 ss., spec. nt 12. 12 imprenditoriale, pur non pregiudicando gli altri discendenti che hanno il diritto a vedere liquidata la quota assegnata ad altri con un equivalente in denaro. In questo modo, il legislatore ha inteso «conciliare il diritto dei legittimari con l’esigenza dell’imprenditore che intende garantire alla propria azienda (o alla propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di uno o più dei propri discendenti, prevedendo, da un lato, la liceità di accordi in tal senso, e, dall’altro, la predisposizione di strumenti di tutela dei legittimari che siano stati esclusi dalla proprietà dell’azienda»11. Tra le finalità pratiche più rilevanti che l’istituto intende perseguire vi è quella di prevenire liti tra gli eredi, liti che potrebbero compromettere l’assetto organizzativo predisposto dall’imprenditore per la propria azienda, così evitando il fenomeno della cd. “deriva generazionale”, ossia del fallimento della società connesso ad un’errata gestione dei profili legati alla successione nell’impresa12. Il grande vantaggio del patto di famiglia, sul quale si tornerà nel prosieguo, risiede essenzialmente nella garanzia di stabilità del passaggio generazionale dell’azienda familiare, con un’anticipazione temporale delle vicende legate all’apertura della futura successione. Tale stabilità è garantita dal fatto che, una volta stipulato il patto, selezionati i discendenti idonei a proseguire l’attività di impresa e liquidati gli altri legittimari, questi ultimi non potranno più modificare la situazione successoria dell’azienda, come voluta e cristallizzata 13 dall’imprenditore . 11 Relazione alla proposta di legge C-3870 dell’8 aprile 2003. A. ANGRISANI, S. SICA, Il patto di famiglia e gli altri strumenti di successione nell’impresa, Giappichelli, Torino, 2007, p. 34. Come detto al § 1, le istituzioni europee hanno esercitato notevoli pressioni sugli ordinamenti nazionali al fine di agevolare il passaggio dell’impresa durante la vita dell’imprenditore, espressamente per ragioni di “salvataggio” e finanche miglioramento delle strutture produttive, cfr. Raccomandazione 94/1069/CE del 7 dicembre 1994 pubblicata nella G.U.C.E. n. L385 del 31 dicembre 1994, cui è seguita la comunicazione 98/C93/02 pubblicata nella G.U.C.E. n. C93 del 28 marzo 1998. 12 13 Più precisamente, rispetto ai beni di impresa oggetto del patto di famiglia è preclusa l’azione di riduzione o la richiesta di collazione. L’azione di riduzione (art. 553 e ss. c.c.) è un'azione che la legge concede ai legittimari per ottenere la reintegrazione della quota legittima (ossia: loro spettante per legge) mediante la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre (c.d. quota disponibile); la collazione è, 13 3. Strumenti di trasmissione dell’impresa nel diritto comparato Far fronte con strumenti efficienti al passaggio generazionale dell’impresa è un problema comune in diversi ordinamenti europei, nei quali sono state escogitate soluzioni diverse che vale la pena riepilogare brevemente prima di analizzare compiutamente lo scenario aperto con il patto di famiglia nel diritto italiano. Prendendo le mosse dall’imponente tradizione tedesca di diritto successorio, deve rilevarsi come in Germania, diversamente da quanto accade in Italia, i patti successori (Erbverträge) siano ammessi e trovino espresso riconoscimento nel codice civile (parr. 1941 e 2274 ss. BGB), a fianco del testamento. Il par. 1941 BGB consente al disponente (Erblasser) di ricorrere al contratto, sia per istituire eredi, disporre legati, imporre oneri14. Pertanto in Germania, per disporre dei propri bene dopo la morte, oltre al testamento, è previsto lo strumento del contratto. Per quanto strettamente attiene alla trasmissione dell’impresa, risulta assai diffuso il mandato post mortem, il quale, ove formalizzato per atto notarile, non si estingue a seguito della morte del mandante (par. 672 BGB). E’ evidente che, in un contesto internazionale, tale strumento sarà di difficile utilizzo, posto che in molti ordinamenti la morte invariabilmente estingue ogni procura15. D’altra parte, se l’impresa familiare costituisce la principale fonte di reddito ed è stata fondata dai coniugi, viene di regola impiegato il testamento congiuntivo, invece, l’istituto per il quale taluni soggetti che accettano l’eredità, i quali abbiano ricevuto donazioni in vita dal de cuius, hanno l’obbligo di conferire nell’asse ereditario quanto ricevuto. 14 Ampiamente, sul tema dei patti successori nell’ordinamento tedesco v. A. FUSARO, Uno sguardo comparatistico sui patti successori e sulla distribuzione negoziata della ricchezza d’impresa, Ricerche Giuridiche, Università Ca’ Foscari Venezia, 2013, p. 353 ss.; v. altresì P. MATERA, Il patto di famiglia. Uno studio di diritto interno e comparato, Giappichelli, Torino, 2012, p. 17 ss.. 15 R. KRAUSE, Planning Succession in International Family Business-Recent Developments in Germany, Family Finances, a cura di B. Verschraegen, Jan Sramek Verlag, 2008, p. 777 ss. 14 ovvero il testamento con il quale due persone, e non una soltanto, dispongono dei loro beni a favore di terzi16. In ogni caso, è chiaro che la stipula di un contratto successorio consente la prefigurazione del futuro assetto dell’impresa, per il quale l’impresa o parte delle sue quote può essere ceduta ad uno o più discendenti, escludendone altri, i quali rinunceranno ai loro diritti, dietro adeguata liquidazione. In Germania, lo strumento principale per mantenere l’impresa all’interno della famiglia a beneficio delle future generazioni è la nomina testamentaria di eredi successivi, attraverso la designazione dei soggetti destinati a subentrare al primo chiamato, al verificarsi di un certo evento (par. 2100 BGB). Di regola, l’abitazione e l’azienda sono attribuiti ad un soggetto per una durata vitalizia ed alla sua morte ad un altro, come accade anche nel Regno Unito17 . In buona sostanza, i chiamati in ordine successivo sono tutti eredi per un certo tempo, ma soggetti a limiti circa la facoltà di disposizione dei cespiti (parr. 2112-2115 BGB), in ragione dell’obbligo di conservare e trasmettere l’asse ai chiamati in subordine (par. 2130 BGB)18. Questa costruzione permette l’esclusione di taluni soggetti dall’asse ereditario (essenzialmente il nuovo coniuge del superstite) e paralizza le possibili pretese dei legittimari. Infine, la pianificazione della successione nell’impresa è perseguita anche tramite la fondazione di famiglia (Familienstiftung: par. 80 BGB ss.), la quale non presenta vantaggi fiscali, ma il conferimento in essa di partecipazioni sociali è immune dalle pretese dei legittimari dopo il decorso di un decennio. Più vicino per tradizione al sistema italiano, è il diritto successorio francese, imperniato sul divieto di patti successori, interpretato in modo particolarmente rigoroso dalla giurisprudenza. Tuttavia, sin dagli anni ’60, per la successione nell’impresa fu stabilita un’importante eccezione, quella dei fonds de commerce, 16 Tale figura è vietata nell’ordinamento italiano a norma dell’art. 589 c.c.. D. FISHER, The German Legal System, 2008, p. 89. 18 A. FUSARO, Uno sguardo comparatistico sui patti successori e sulla distribuzione negoziata della ricchezza d’impresa, Ricerche Giuridiche, Università Ca’ Foscari Venezia, 2013, p. 353 ss., spec. p. 358. 17 15 istituto che permette la conclusione di una convenzione matrimoniale per la quale il coniuge superstite collaboratore nell’attività commerciale può conservare l’immobile e liquidare gli altri19. L’istituto maggiormente valorizzato per il fine che qui interessa è stato, di recente, quello della donation-partage, disciplinata dal Code Civil nel capitolo settimo del titolo secondo del libro terzo. A seguito della riforma del 2006 questa disposizione, insieme a quella in materia testamentaria, è stata modificata e raccolta sotto l’etichetta comprensiva di «liberalités-partages». La legge 23 giugno 2006, n. 2006-728 è intervenuta, in concomitanza con la nostra riforma sul patto di famiglia, proprio in ragione dell’inadeguatezza rispetto alla trasmissione delle imprese. Pertanto, la novella legislativa ha ampliato l’autonomia privata, snellito la gestione del patrimonio e accelerato la liquidazione della successione 20 , senza tuttavia scardinare l’impianto tradizionale. La principale novità risiede nell’introduzione della possibilità di rinuncia anticipata all’azione di riduzione, oltre alla possibilità di tradurre in equivalente economico le liberalità lesive della quota di riserva (o legittima), novità che si sono accompagnate alla previsione della «donation-partage transgenerazionale», la quale asseconda la logica di solidarietà familiare discendente, confidando nell’adozione spontanea di altre misure a favore degli anziani – quali le assicurazioni sulla vita – nonché nell’intervento statale tramite la previdenza e l’assistenza21. Infine, quale breccia nel tradizionale sistema successorio per il quale al legittimario leso è concessa la reintegrazione della propria quota, la riforma ha introdotto la possibilità di rinuncia anticipata all’azione di riduzione, da formularsi tramite atto notarile (a norma dell’art. 930 del codice civile francese), a vantaggio di soggetti determinati, con la conseguenza di poter garantire 19 Cfr. L. 13 luglio 1965, n. 65-570. Esposé des motifs, projet de loi n. 2427 du 29 juin 2005. 21 A. FUSARO, Uno sguardo comparatistico sui patti successori e sulla distribuzione negoziata della ricchezza d’impresa... cit., p. 17 ss. 20 16 stabilità agli accordi familiari per la successione che siano stati effettuati prima dell’apertura della successione. Non va dimenticata, da ultimo, la figura del mandato post mortem, disciplinata in Francia all’art. 812 Code Civil, con la quale è data facoltà di attribuire a qualsiasi persona fisica o giuridica – non escluso un erede – mandato ad amministrare o gestire tutto o parte l’asse ereditario, per conto e nell’interesse di uno o più eredi individuati, subordinatamente alla sussistenza di un «interet serieux et legitime»22 relativo all’erede od al patrimonio. È in questo contesto di modernizzazione degli strumenti di diritto successorio, sotto la spinta europea e le ispirazioni di tradizione continentale, che anche il legislatore italiano si è deciso ad introdurre uno strumento ad hoc per il trasferimento generazionale dell’azienda, strumento che – occorre avvertire sin d’ora – è per certi versi inesplorato, capace di aprire scenari interessanti e, d’altra parte, dubbi interpretativi di non semplice soluzione. 22 Art. 812-1-1, co. 1, Code Civil. 17 I I SOGGETTI COINVOLTI NEL PATTO DI FAMIGLIA: L’IMPRENDITORE, GLI ASSEGNATARI, I LEGITTIMARI NON ASSEGNATARI E LE VARIAZIONI SOGGETTIVE SUCCESSIVE ALLA STIPULAZIONE Sommario: 1. Premessa: le parti del patto di famiglia. – 2. L’imprenditore e il suo impulso al patto di famiglia. – 3. I beneficiari “assegnatari” dell’impresa o di quote di essa – 4. I legittimari non assegnatari e la loro partecipazione al patto. – 5. La perdita della qualità di legittimario: la posizione del coniuge divorziato e i diritti del nuovo coniuge. – 6. I legittimari cd. “sopravvenuti” dopo la stipulazione del patto e la tutela dei loro diritti. 1. Premessa: le parti del patto di famiglia Sotto il profilo soggettivo, secondo quanto dispone l’art. 768-quater c.c., devono partecipare al patto di famiglia: L’imprenditore “cedente” o disponente, ovvero il soggetto titolare dell’interesse a trasferire, in tutto o in parte, la propria azienda o le proprie partecipazioni societarie ad uno o più discendenti, così regolamentando preventivamente il passaggio generazionale nella titolarità e/o gestione dell’impresa di famiglia; Il/i discendente/i assegnatario/i, ovvero il/i soggetto/i titolare/i dell’interesse ad ottenere l’acquisizione dell’azienda a titolo gratuito, evitando i problemi connessi alla collazione o alla successiva azione di riduzione spettante ai legittimari 18 (problemi, questi, che si presenterebbero ricorrendo ad altri strumenti giuridici, quale quello della donazione); I familiari/legittimari non assegnatari, ovvero coloro che sarebbero legittimari (i.e.: le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di crediti o altri diritti nella successione, cioè: il coniuge, i figli legittimi, i figli naturali, legittimati o adottivi e, in assenza di figli, gli ascendenti) ove alla data di stipulazione del patto di famiglia si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore; essi sono titolari dell’interesse ad essere definitivamente estromessi dall’azienda, in cambio della liquidazione della propria quota di legittima in via anticipata con riguardo al bene “azienda”23. Le posizioni dei soggetti sopra elencati saranno analizzate nel prosieguo, con particolare riguardo agli aspetti problematici e di criticità che possono porsi in relazione alla loro individuazione, alla loro mancata partecipazione o alla loro incapacità o sopravvenienza all’atto della redazione del patto di famiglia. 2. L’imprenditore e il suo impulso al patto di famiglia Come si è anticipato, il patto di famiglia è «il contratto con il quale [...] l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote» (art. 768-bis c.c.). È, dunque, l’imprenditore ovvero il socio24 ad imprimere l’impulso alla stipula del patto di famiglia per selezionare il discendente maggiormente adatto alla continuazione dell’attività ed al fine di evitare che dalla successione possa derivare pregiudizio alla gestione dell’azienda o delle partecipazioni societarie 23 Così G. RIZZI, Il patto di famiglia, Notariato, 2006, p. 429 ss. Come correttamente precisato in dottrina, dopo aver fatto riferimento all’imprenditore e al titolare di quote societarie nell’art. 768-bis c.c., il legislatore prosegue richiamando solo la prima delle due figura; tuttavia, la seconda (ovvero quella del socio) deve ritenersi implicitamente, seppur atecnicamente, richiamata, cfr. L. BALESTRA, Sub art. 768 bis c.c., in S. Delle Monache (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2007, p. 21 ss., spec. p. 29. 24 19 oppure possano determinarsi contrasti per effetto dell’instaurazione della comunione sui beni dell’impresa tra gli eredi (con conseguente inasprimento dei loro rapporti per l’eventuale difficoltà di accordo sulla divisione delle quote o sull’assunzione di decisioni strategiche). D’altro profilo, il patto va incontro all’esigenza dell’imprenditore, ad un certo punto della propria vita, di «disinteressarsi all’attività di impresa senza il rischio che si creino conflitti tra i familiari per la successione nella gestione»25, in ragione del fatto che la selezione dei soggetti destinati alla continuazione è già stata effettuata. Sono destinatari dell’azienda o di quote di essa, come meglio si vedrà nel paragrafo che segue, i suoi discendenti (ovvero: figli e nipoti), cosicché la trasmissione dei beni produttivi dell’impresa avvenga in linea retta. Volendo concentrare l’attenzione sul protagonista della vicenda, l’imprenditore (detto tecnicamente “disponente”, poiché per l’appunto dispone dell’impresa o di quote di essa) agisce attraverso il patto di famiglia per realizzare il passaggio dell’azienda con l’accordo di tutti i familiari, con la precisazione che: tutti coloro che sarebbero eredi legittimari se in quel momento si aprisse la sua successione mortis causa dovranno partecipare all’accordo; solo uno o alcuni discendenti (figli o nipoti) otterranno quote dell’azienda (cd. “assegnatari”, perché a loro è assegnata l’impresa); ovviamente per par condicio, i discendenti assegnatari dovranno liquidare in denaro gli altri eredi legittimari che non hanno ottenuto quote dell’azienda (cd. “non assegnatari”). Dal lato soggettivo, va ancora interpretato il riferimento al «titolare di partecipazioni societarie», data l’ampia e generica formulazione della norma. Ci si è domandati, in particolare, se il patto di famiglia possa essere adottato quale strumento per il trasferimento delle partecipazioni societarie anche quando la titolarità di queste in capo al disponente sia il frutto di una mera attività di 25 Così L. BALESTRA, Sub art. 768 bis c.c., in S. DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2007, p. 21 ss., spec. p. 29. 20 investimento. Come è stato evidenziato da autorevole dottrina, una soluzione di tal genere sarebbe in aperto conflitto con lo scopo ultimo del patto di famiglia, che è quello di favorire il passaggio generazionale dell’impresa o della società «di famiglia»26, che presuppone un impegno diretto del socio nella compagine societaria. Pertanto, per opinione maggioritaria, deve ritenersi che il patto di famiglia debba «aver ad oggetto una partecipazione che consenta (anche solo potenzialmente) al cessionario di continuare ad esercitare nell’azienda quel potere gestionale già presente in capo al cedente […] o, comunque, di influire sulle scelte gestionali della società»27. E’ evidente che il problema non si pone per le società di persone, nelle quali ogni socio è titolare del potere di amministrare, eccezion fatta per i soli accomandanti; diversamente, per le società di capitali, nella pratica delle operazioni societarie, l’individuazione di un criterio discretivo non è sempre univoca. Ad ogni modo, si ritiene debba privilegiarsi il criterio sostanzialistico dell’effettiva partecipazione del socio disponente all’impresa, il cui riscontro formale è da rinvenirsi nelle pattuizioni dell’atto costitutivo e dello statuto. Sotto il profilo operativo, dal lato dell’imprenditore disponente, può porsi il problema che l’azienda, o le quote di partecipazione societaria, siano in comunione, legale o ordinaria, con il coniuge. Possono al riguardo profilarsi due scenari: 26 Cfr. L. BALESTRA, Il patto di famiglia ad un anno dalla sua introduzione. Parte II, in Studi in onore di Antonio Palazzo, 2007, p. 1049, che rinvia a G. DE NOVA, Introduzione, in G. DE NOVA, F. DELFINI, S. RAMPOLLA, A. VENDITTI, Il patto di famiglia, Milano, IPSOA, 2006, p. 3, ove si sottolinea: «l’interprete deve specificare che deve trattarsi di partecipazioni societarie qualificate in società che svolge attività d’impresa, tali cioè da costituire un equipollente al trasferimento d’azienda, perché il trasferimento della partecipazione societaria di trascurabile entità in una società che svolge attività di impresa o il trasferimento di una partecipazione qualificata in una società che ha come unico bene immobile ad uso abitativo sono trasferimenti che non giustificano alcuna deroga al regime ordinario delle successioni»; in tema anche G. PETRELLI, La nuova disciplina del «patto di famiglia», Riv. Del Notariato, 2006, p. 401 ss., spec. p. 415; v. pure G. RIZZI, Il patto di famiglia, Notariato, 4/2006, p. 429 ss, spec. p. 447 ss., che propone di limitare il patto alle sole società di persone e alle s.r.l., ossia alle società aventi base personalistica. 27 F. DELFINI, Commento, Contratti, 2006, p. 512 ss; analogamente C. LEO, Il patto di famiglia, Contratti, 2006, p. 741 ss.. 21 (a) i coniugi possono stipulare il patto di famiglia congiuntamente se intendono attribuire l’azienda a discendenti comuni ad entrambi 28 , pur con la partecipazione dei legittimari di tutti e due i coniugi29; (b) quando, invece, i coniugi in comunione intendano trasmettere l’azienda ad un discendente non comune ad entrambi, il patto di famiglia dovrà essere stipulato da uno solo dei due coniugi limitatamente alla propria quota; (c) se, tuttavia, l’azienda soggiace a comunione legale, e non ordinaria, tra i coniugi occorrerà il previo scioglimento della comunione per l’azienda (art. 192, 2° comma c.c.) o una convenzione per la separazione dei beni quanto alle quote societarie30. Resta da precisare, infine, che il bene ricevuto dall’assegnatario non entra in comunione in quanto bene personale ai sensi dell’art. 179, let. B), c.c.31. 3. I beneficiari “assegnatari” dell’impresa o di quote di essa Come anticipato, con lo strumento del patto di famiglia l’imprenditore dispone dell’impresa o delle quote societarie in favore di «uno o più discendenti». Per la dottrina maggioritaria possono ricevere l’impresa solamente i figli o i nipoti – è 28 L. BALESTRA, Il patto di famiglia ad un anno dalla sua introduzione. Parte II, in Studi in onore di Antonio Palazzo, 2007, p. 1049. 29 E deve peraltro considerarsi che, in tal caso, ogni coniuge è legittimario non assegnatario nei confronti dell’altro ed ha, pertanto, diritto alla liquidazione della quota, cfr. M. DOGLIOTTI (a cura di), Il patto di famiglia… cit., p. 122, nt 7. 30 La questione è controversa, cfr. GENNARI, Lo scioglimento della comunione, in ZANATTI (diretto da), Trattato di Diritto di Famiglia, III, Milano, 2002, p. 404. Secondo alcuni, per le partecipazioni societarie dovrà procedersi alla stipula di una convenzione di separazione dei beni, poiché l’art. 191, 2° comma non è applicabile analogicamente al di fuori delle ipotesi di estromissione dell’azienda dalla comunione legale, cfr. L. GENGHINI, La volontaria giurisdizione e il regime patrimoniale della famiglia, in L. GENGHINI (a cura di), Manuali Notarili, Padova, 2010, p. 475. Come precisato in M. DOGLIOTTI (a cura di), Il patto di famiglia...cit., p. 113, la fattispecie è complessa: «è stato sì genericamente affermato che qualora le partecipazioni sociali facciano parte della comunione legale resta la possibilità per il coniuge di disporne liberamente salvo l’obbligo di indennizzare la comunione, ma la soluzione è più intricata dipendendo dall’intestazione della partecipazione, e soprattutto dalla natura di bene mobile o mobile registrato della quota di S.r.l.». 31 M. DOGLIOTTI (a cura di), Il patto di famiglia... cit., p. 118. 22 questo il caso del passaggio generazionale per saltum – in linea retta32. L’ampia locuzione «discendenti» comprende tanto quelli legittimi, quanto quelli naturali, con la precisazione che questi ultimi devono essere stati riconosciuti. Allo stesso modo, in ragione dell’equiparazione ai figli legittimi di quelli legittimati e adottivi (artt. 536, 2° comma, e 567, 1° comma, c.c.), anche questi possono ricevere l’impresa familiare33. Restano conseguentemente escluse sia la trasmissione collaterale (dunque, ai fratelli ed ai loro discendenti), sia quella effettuata in favore del coniuge. La scelta, motivata dall’intento di realizzare il passaggio generazionale dell’impresa, è comprensibile, sebbene generi perplessità l’esclusione della trasmissione zio/nipote o prozio/pronipote34. Ad ogni modo, per il passaggio, cd. “non generazionale”, dell’azienda a favore dei soggetti poc’anzi indicati, diversi dai discendenti, sono previsti altri strumenti giuridici, i quali, tuttavia, non potranno sottrarsi alle regole generali in materia ereditaria, in particolare per quanto riguarda la collazione e la riduzione, con la conseguenza che la pattuizione relativa resterà esposta al rischio di impugnazione da parte dei legittimari, e pertanto presenterà quel carattere di instabilità che il patto di famiglia vuole scongiurare. Irrisolto è rimasto, sinora, il quesito circa la possibilità di individuare come assegnatario dell’impresa un nascituro: alla domanda pare doversi dare risposta negativa, poiché la ratio del patto di famiglia è quella di consentire all’imprenditore di selezionare un proprio discendente “capace” per la continuazione dell’attività di impresa, valutazione quest’ultima che è naturalmente preclusa nei riguardi del nascituro35. 32 Per una parte minoritaria della dottrina possono ricevere l’azienda anche i discendenti collaterali, cfr. B. INIZIARI, P. DANGA, M. FERRARI, V. PICCININI, Il Patto di Famiglia, Negoziabilità del diritto successorio con la legge 14 febbraio 2006 n. 55, Torino, 2006, p. 104. 33 G. LABANCA, I patti di famiglia. Luci ed ombre di una recente novella, Bari, Laterza, 2007, p. 106. 34 Ibidem. 35 C. DI BITONTO, Patto di famiglia: un nuovo strumento per la trasmissione dei beni di impresa, Società, 2006, p. 797 ss., spec. p. 803. 23 Più interessante nella pratica è se il beneficiario assegnatario dell’impresa possa essere un discendente minore di età. In linea generale, dottrina e giurisprudenza escludono che il minore possa iniziare una nuova attività di impresa, potendo esclusivamente ottenere l’autorizzazione del giudice alla prosecuzione dell’attività aziendale già iniziata da altri (art. 320 c.c.), salva, inoltre, la possibilità di nominargli un curatore speciale, giusta l’art. 321 c.c., in caso che si manifesti un conflitto di interessi tra i genitori esercenti la responsabilità genitoriale ed il minore36. In ogni caso, parrebbe doversi escludere l’acquisto dell’azienda a titolo oneroso da parte del minore: si tratterebbe di un investimento troppo rischioso, e per questo si è ritenuto possibile l’acquisto dell’azienda da parte del minore solo per donazione o successione a causa di morte. Pur essendo il patto di famiglia un atto di liberalità, la sua stipulazione ha comunque un contenuto oneroso per l’assegnatario, perché esso comporta la sua obbligazione di liquidare agli altri legittimari il valore delle loro quote di legittima (sull’argomento si veda, ampiamente, nel Capitolo II): pertanto, l’acquisizione dell’azienda da parte del minore attraverso il patto di famiglia sarebbe incompatibile con il sistema di tutela del patrimonio del minore 37 . Potrebbe poi astrattamente profilarsi il caso del minore emancipato (ossia del minore, almeno sedicenne, non più soggetto alla potestà dei genitori), al quale si voglia assegnare il bene produttivo, prima che raggiunga la maggiore età: si può ritenere che in tal caso si applichi l’art. 397 c.c., il quale dispone in merito all’esercizio di una impresa commerciale da parte del minore emancipato, permettendo che costui eserciti l’impresa senza l’assistenza del curatore, qualora 36 Osserva T. BONAMINI, Sulla partecipazione di un incapace al patto di famiglia, Famiglia Persone e Successioni, 2012, p. 844, spec. nt 70 che, movendo dal presupposto che occorra un’oggettiva incompatibilità tra gli interessi del minore e quello dei genitori esercenti la potestà, onde sia nominato un curatore per il caso di conflitto di interessi, esclude che, nel patto di famiglia possa ravvisarsi un conflitto medesimo, L. BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di famiglia… cit., p. 383, ove l’Autore osserva che «se è vero che entrambi i genitori hanno un interesse autonomo rispetto a quello del minore al compimento dell'atto, non è dato ravvisare un'oggettiva incompatibilità tale che la realizzazione dell'interesse degli uni possa comportare un sacrificio dell'interesse dell'altro». 37 G. RIZZI, Il patto di famiglia… cit., p. 435. 24 sia in tal senso autorizzato dal Tribunale, previo parere del giudice tutelare, e sentito il curatore38. Da ultimo, se i discendenti assegnatari sono più di uno, si ritiene che essi costituiscano un’unica parte soggettivamente complessa 39 , salvo che essi ricevano separatamente singoli rami d’azienda 40 o singole partecipazioni: nell’un caso, trattandosi di trasferimento pro-indiviso, si instaurerà una comunione in relazione alle partecipazioni assegnate, dovendosi seguire le regole relative all’istituto; nell’altro, dovrà tenersi in adeguato conto il fatto che ogni assegnatario, che ha ricevuto un ramo dell’azienda, è al tempo stesso anche “legittimario-non assegnatario”, ed ha pertanto diritto alla liquidazione della propria quota di legittima in relazione all’altro o agli altri rami di azienda attribuiti ad altri. Più precisamente, ove l’imprenditore assegni la propria impresa congiuntamente a più discendenti, e costoro esercitino in comune l’attività aziendale, verrà tra essi in essere una società di fatto41. Pertanto, sorgerà «l’esigenza di procedere alla contestuale regolarizzazione della società di fatto che si è venuta a creare, nella forma di società in nome collettivo, il tutto al fine di ottenere l’iscrizione della società nel registro delle impresa»42, mentre ove si dovesse adottare la forma di società in accomandita semplice, società a responsabilità limitata o società per azioni si dovrebbe parlare più propriamente di trasformazione dal tipo di società di fatto in nome collettivo al diverso tipo voluto. 38 Ibidem. Nel senso che l’interesse dei discendenti è comune v. A. CATAUDELLA, Parti e terzi nel patto di famiglia, Rivista di Diritto Civile, I, 2008, p. 179 ss., spec. p. 182. 40 S. DELLE MONACHE, Funzione, contenuto ed effetti del patto di famiglia, in S. Delle Monache (a cura di), Tradizione e modernità nel diritto successorio. Dagli istituti classici al patto di famiglia, Padova, Cedam, 2007, p. 331. 41 G. OPPO, Patto di famiglia e “diritti della famiglia”, Rivista di Diritto Civile, 4/2006, p. 443. 42 G. RIZZI, Patto di famiglia. Analisi dei contratti per il trasferimento dell’azienda e per il trasferimento di azioni societarie, Padova, Cedam, 2008, p. 98, il quale precisa che: «di regolarizzazione di società di fatto si potrà parlare solo se si è in presenza di un’attività imprenditoriale imputabile ai contitolari dell’azienda, e quindi per il patto di famiglia solo nel caso in cui i discendenti beneficiari già prestino la loro attività lavorativa nell’azienda ed intendano proseguire in forma associata l’attività di impresa, cosicché alla comunione di azienda, determinata dal patto di famiglia, si accompagna anche l’esercizio dell’attività di impresa da parte dei contitolari». 39 25 4. I legittimari non assegnatari e la loro partecipazione al patto Oltre al cedente e agli assegnatari «al contratto devono partecipare il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore» (art. 768-quater c.c.). Tale disposizione è diretta ad impedire che, successivamente alla stipulazione del patto di famiglia, i legittimari non assegnatari (ovvero alcuni di essi) siano legittimati ad avanzare pretese sull’azienda data in assegnazione ad altri discendenti, introducendo la cd. azione di riduzione. Come si è già detto, infatti, la caratteristica del patto di famiglia è quella di realizzare ex ante (e cioè prima della morte dell’imprenditore) ed in maniera tendenzialmente stabile, la trasmissione dell’azienda, in modo tale da paralizzare future ed eventuali pretese, talché la partecipazione di tutti i legittimari all’atto è fondamentale perché questi possano manifestare il loro consenso all’operazione. Si annoverano tra i legittimari: il coniuge 43, anche se legalmente separato (e sempre che la separazione non gli sia stata addebitata, posto che in tale ultimo caso avrà diritto solo ad un eventuale assegno successorio, ricorrendone i presupposti a norma dell’art. 548 c.c. 44 ). Val la pena osservare che non rientra tra i partecipanti al patto il convivente more uxorio, atteso che a costui non spetta alcun diritto successorio per legge, né gli è attribuita la qualifica di legittimario; né è ammessa la partecipazione del coniuge già divorziato al momento della stipulazione del patto; i figli (legittimi, naturali, legittimati o adottivi), e, qualora uno di questi fosse premorto all’imprenditore, i suoi discendenti. 43 La norma di riferimento cita il coniuge separatamente dagli altri legittimari; la distinzione è, tuttavia, impropria, atteso che il coniuge è senz’altro uno dei legittimari ai sensi dell’art. 536 c.c., talché la dizione pare il frutto di un’imprecisione nell’applicazione della tecnica legislativa, cfr. in tal senso, G. LABANCA, I patti di famiglia… cit., p. 106. 44 Cfr. A. ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in Aa. Vv., I patti di famiglia per l’impresa, Fondazione italiana per il Notariato (a cura di), Milano, 2006, p. 279. 26 I soggetti così individuati parteciperanno al patto di famiglia personalmente o tramite procuratore, tale nominato mediante atto pubblico redatto alla presenza di testimoni45, posto che non si tratta di un cd. “atto personalissimo”. Alcuni rilievi merita il problema della partecipazione al patto degli ascendenti del disponente, che potrebbero diventare legittimari in caso di premorienza dei discendenti dell’imprenditore. Per la maggior parte degli interpreti, la partecipazione degli ascendenti al contratto deve ritenersi opportuna, per quanto essa non sia obbligatoria ai fini della validità del patto, affinché essi rinuncino, in sede di stipulazione, ai diritti di legittima che potrebbero loro spettare in futuro, garantendo in tal modo la stabilità del patto. Può accadere, inoltre, che l’imprenditore decida di assegnare l’azienda ad uno dei suoi nipoti, preferendolo ai figli. In tale ipotesi, i figli, in quanto genitori del beneficiario, dovranno partecipare alla stipulazione del patto quali legittimari non assegnatari46. Si pone, peraltro, di frequente, il caso che alcuni dei legittimari non assegnatari siano in stato di incapacità giuridica, totale o parziale. Si pensi all’ipotesi in cui l’imprenditore abbia tre figli, due dei quali maggiorenni individuati come assegnatari dell’impresa ed uno, invece, minorenne, che avrà diritto alla liquidazione della quota perché non assegnatario. Per la valida partecipazione all’atto del legittimario non assegnatario minore di età occorre il rispetto di alcune formalità: i genitori, esercenti la potestà sul minore, dovranno intervenire alla stipulazione in rappresentanza del figlio non ancora provvisto della capacità di agire, essendo autorizzati in tal senso con decreto del Tribunale del luogo di domicilio dell'incapace (ex art. 375 c.c.), previo parere del giudice tutelare e sentito il pubblico ministero. Tale procedimento è richiesto in quanto il legittimario, con la liquidazione della quota da parte degli assegnatari, perde il diritto ad agire, in seguito, con l’azione di riduzione sul bene trasferito: l’atto 45 46 Cfr. G. RIZZI, Il patto di famiglia… cit., p. 431. V. A. BUSANI, Accordi alla presenza di tutti i legittimari, Guida al Diritto, p. 49. 27 comporta, pertanto, una rinuncia da parte del minore, cosicché occorre che l’autorità giurisdizionale ne valuti la convenienza, nel suo interesse47. Altra ipotesi di incapacità del partecipante all’atto è quella del legittimario non assegnatario inabilitato48, il quale dovrà partecipare al patto con l’assistenza del curatore. Infine, se il legittimario non assegnatario fosse beneficiario di amministrazione di sostegno49, la disciplina applicabile sarà la medesima già vista per l’interdetto, o l’inabilitato, a seconda che nel decreto di nomina dell’amministratore si faccia riferimento alla legittimazione esclusiva o concorrente dell’amministratore con il beneficiario; in ogni caso, occorrerà che la stipulazione del patto di famiglia sia stata indicata tra gli atti oggetto del decreto di nomina e che l’atto sia stato autorizzato dal giudice tutelare. Occorre, altresì, domandarsi se il concepito, non ancora venuto alla luce, possa o debba intervenire al patto. Orbene, nella disciplina civilistica italiana, il concepito è soggetto legittimato a succedere ed in ciò è equiparato al soggetto già nato (art. 462 c.c.). Pertanto, il concepito parteciperà al patto di famiglia rappresentato da un curatore speciale, che sarà nominato tenendo conto del possibile conflitto di interessi tra il nascituro e i genitori50. Da ultimo, occorre chiedersi se, per la valida stipulazione del patto di famiglia (con annessi vantaggi, in particolare dal punto di vista fiscale, come si vedrà 47 In questo caso, il legittimario non assegnatario minorenne aliena all’assegnatario la porzione di legittima, a lui altrimenti spettante, oggetto del patto, almeno secondo quella dottrina che asserisce la natura divisoria del patto di famiglia, cfr. G. RIZZI, Il patto di famiglia... cit., p. 437. 48 L’inabilitazione è l’istituto che esclude parzialmente la capacità di agire di un soggetto, qualora ricorra uno dei seguenti presupporti: uno stato di infermità meno grave rispetto a quello che consente l’interdizione, alla quale si ricorre in caso di incapacità totale di intendere e volere; la prodigalità; l'abuso di bevande alcoliche o sostanze stupefacenti, che possano causare un grave pregiudizio economico al soggetto o alla sua famiglia; il sordomutismo o la cecità sin dalla nascita qualora sia mancata un’istruzione sufficiente. 49 Ai sensi dell’art. 404 c.c.: «La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio». 50 Il curatore sarà infatti nominato ai sensi dell’art. 320 c.c., ultimo comma: «Se sorge conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa potestà, o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la potestà, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Se il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la potestà, la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all'altro genitore». 28 infra al Capitolo IV) occorra la presenza di almeno un legittimario non assegnatario; in altre parole: l’imprenditore può ricorrere al presente istituto per trasmettere l’azienda al proprio figlio (o nipote) che sia l’unico erede del patrimonio? Al riguardo, la dottrina è divisa. Per una parte dei commentatori il legislatore pare aver disposto lo strumento del patto di famiglia per effettuare una trasmissione “concordata” dell’azienda e, dunque, solo nel caso in cui, oltre all’assegnatario, vi siano altri legittimari non assegnatari, la cui posizione debba essere regolata con liquidazione della loro quota parte51. Pertanto, ove non vi sia alcun legittimario oltre all’assegnatario, per trasmettere l’azienda all’erede l’imprenditore disponente dovrebbe ricorrere al contratto di donazione, salva la possibilità, in caso di sopravvenienza di uno o più legittimari, di stipulare «un contratto successivo, nel quale, con l’intervento di tutti i legittimari, recepire la donazione di azienda o di partecipazione sociale quale attribuzione propria del patto di famiglia, valorizzandola a tale momento ed effettuando l’opportuna liquidazione in favore del non assegnatario»52. Si tratterebbe, in tal caso, di una “conversione pattizia” dell’originaria donazione in patto di famiglia53. Secondo un diverso orientamento, invece, il patto di famiglia sarebbe un contratto normalmente a struttura plurisoggettiva, tuttavia idoneo ad assumere struttura soggettiva semplificata, qualora non vi siano legittimari non assegnatari al momento della sua stipulazione54. L’utilità di questa seconda interpretazione risiede nella possibilità di beneficiare, qualora sopravvengano nuovi legittimari, 51 G. OPPO, Patto di famiglia e “diritti della famiglia”...cit., p. 443; S. DELLE MONACHE, Funzione, contenuto…. cit., p. 338; A. CATAUDELLA, Parti e terzi nel patto di famiglia, Rivista di Diritto Civile, I, 2008, p. 185-186; L. CAROTA, Art. 768-quater, in V. CUFFARO, F. DELFINI, Commentario del Codice Civile. Delle Successioni, Torino, Utet, p. 435-436, per il quale: «il patto si sottrae al rilievo di produrre l’introduzione di un nuovo ed inammissibile privilegio solo in quanto realizzi la composizione dei contrapposti interessi in gioco»; A. ANGRISANI, S. SICA, Il patto di famiglia… cit., p. 70. 52 G. PETRELLI, La nuova disciplina del «patto di famiglia»... cit., p. 435. 53 M. DOGLIOTTI (a cura di), Il patto di famiglia… cit., p. 124. 54 F. MONCALVO, Del patto di famiglia (art. 768 bis-768 octies), in G. BONILINI, M. CONFORTINI, Codice Ipertestuale delle successioni e delle donazioni, Torino, Uter, 2007, p. 1118. 29 dell’esenzione da collazione o riduzione. Infine, secondo un’ultima ipotesi ricostruttiva, il patto stipulato senza la presenza di un legittimario non assegnatario sarebbe comunque validamente concluso, perché «gli eventuali legittimari sopravvenuti potranno aderire al patto stesso, ovvero rimanerne estranei, senza in tal modo subire alcuna eventuale conseguenza pregiudizievole»55. 5. La perdita della qualità di legittimario: la posizione del coniuge divorziato e i diritti del nuovo coniuge Non di rado, dopo la stipulazione del patto di famiglia, che può precedere di diversi anni la morte dell’imprenditore disponente e, dunque, l’apertura della successione, possono verificarsi mutamenti soggettivi nella sfera dei legittimari non assegnatari. Affrontare questo problema è di peculiare importanza, atteso che – come detto e come meglio si vedrà oltre, nell’affrontare i profili oggettivi concernenti la liquidazione della quota parte in favore dei legittimari non assegnatari, cfr. Capitolo II − ciò comporta conseguenze economiche di rilievo. La prima ipotesi da valutare concerne il caso in cui il rapporto matrimoniale tra il disponente e il suo coniuge al momento della stipulazione del patto di famiglia si sciolga per intervenuta pronuncia di sentenza di divorzio e l’imprenditore successivamente contragga nuovo matrimonio, sicché, al momento dell’apertura della successione, vi sia un nuovo legittimo coniuge. Lo scenario che si presenterebbe all’apertura della successione potrebbe quindi essere il seguente: l’ex coniuge ha già ricevuto la liquidazione della quota parte dell’impresa, ma ha perso – medio tempore – la qualità di legittimario, cosicché il nuovo coniuge – che è indubitabilmente legittimario – può agire ex art. 768sexies c.c., chiedendo all’assegnatario il pagamento della somma prevista dall’art. 768-quater c.c. (ossia, della propria quota di legittima), oltre gli 55 G. OBERTO, Lineamenti essenziali del patto di famiglia, Famiglia, Persone e Successioni, 2006, p. 419. 30 interessi legali. Tali ipotesi, assai dibattute, pongono in luce i profili di criticità legati al difficile coordinamento tra la disciplina del patto di famiglia e le regole dettate in materia successoria56. Secondo la lettera dell’art. 768-sexies c.c., il secondo coniuge potrebbe richiedere quanto gli sarebbe spettato se avesse partecipato alla stipulazione del patto, maggiorato degli interessi. Ma occorre stabilire, anzitutto, chi dovrebbe liquidare tale somma e come possono coordinarsi le norme in materia successoria, che prevedono una sola “quota-coniuge”, con la possibilità che il coniuge del disponente al momento della stipulazione sia persona diversa da quella che è coniuge al momento della successione. Parte della dottrina ritiene che il secondo coniuge potrebbe rivolgersi solo ed esclusivamente all’ex coniuge, dal quale potrà pretendere la liquidazione della quota, oltre agli interessi che essa ha prodotto. Si profila, in tal caso, una mancanza ex post della causa del contratto 57 , con conseguente necessità di restituzione di quanto percepito da parte dell’ex coniuge, che ha perso la qualifica di legittimario, in applicazione delle norme sull’indebito58. In sostanza, si ritiene che l’obbligo di restituzione gravi sull’ex coniuge per evitare che gli altri legittimari si trovino costretti a liquidare due volte la quota-coniuge. Altra dottrina ritiene, invece, che, posta la natura di atto tra vivi del patto di famiglia, e considerato che gli artt. 768-bis e seguenti che disciplinano il patto di famiglia non fanno alcun cenno all’eventualità della restituzione della quota liquidata, non esiste alcun diritto del secondo coniuge ad ottenere la quota già monetizzata a favore del primo59. Per ovviare alle conseguenze paradossali di tale interpretazione formalistica che – a parere di alcuni detrattori – rischierebbe di dare efficacia quoad effectum alla bigamia 60 , è consigliabile nella pratica 56 Evidenzia questo aspetto D. PIRILLI, Patto di famiglia interessi familiari, Diritto di famiglia e delle persone, 2013, p. 1534 ss. 57 G. BALESTRA, Attività di impresa e rapporti familiari, Padova, Cedam, 2008, p. 504. 58 F. DELFINI, Il patto di famiglia introdotto dalla legge n. 55/2006, Contratti, 2006, 512 ss. 59 G. OBERTO, Lineamenti essenziali del patto di famiglia... cit., p. 416. 60 F. GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, Giustizia civile, 2006, II, p. 217 ss., spec. p. 223. 31 inserire nel patto di famiglia un’apposita clausola, che abbia natura di clausola risolutiva espressa, con conseguente venire meno dell’attribuzione già eseguita in favore del primo coniuge, in caso di successivo divorzio. In sostanza, solo grazie ad una tale apposita previsione pattizia si potrebbe ottenere la restituzione della quota da parte dell’ex coniuge in favore del coniuge che ha acquisito la qualità di legittimario al momento dell’apertura della successione61. Infine, si ritiene che qualora l’imprenditore divorzi dal coniuge con il quale era sposato al momento della stipulazione del patto, ma successivamente non contragga nuovo matrimonio, l’ex coniuge non debba restituire la quota che gli è stata liquidata. 6. I legittimari cd. “sopravvenuti” dopo la stipulazione del patto e la tutela dei loro diritti Ai sensi dell’art. 768-sexies c.c.: «All’apertura della successione dell'imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell'articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali»; qualora tali soggetti non ottengano la quota loro spettante, essi potranno impugnare il patto di famiglia ai sensi del successivo articolo 768-quinquies c.c.. In buona sostanza, la norma dispone un diritto di credito a favore dei legittimari pretermessi o sopravvenuti, diritto che, come è stato sottolineato, costituisce rimedio «all’impossibilità di prefigurare, al momento della stipula del patto, il definivo assetto delle quote di riserva»62. Anzitutto, occorre precisare il significato della locuzione «gli altri legittimari che non abbiano partecipato al patto». 61 Così D. PIRILLI, Patto di famiglia interessi familiari… cit., p. 1534 ss., alla quale si rinvia per ulteriori riferimenti dottrinali. 62 S. RAMPOLLA, Sub. Art. 768 sexies, in G. DE NOVA, F. DELFINI, S. RAMPOLLA, A. VENDITTI, Il patto di famiglia, Milano, Ipsoa, 2006, p. 42. 32 Una parte della dottrina ritiene necessaria la partecipazione al patto di famiglia di tutti i legittimari, assegnatari e non assegnatari. Seguendo questa impostazione, gli unici legittimari che potrebbero rivendicare il diritto alla liquidazione della propria quota dopo la stipulazione del patto sarebbero i cd. “legittimari sopravvenuti”, ovvero quelli nati successivamente alla conclusione del patto o, al limite, coloro dei quali all’epoca del patto si ignorava l’esistenza. Risulta chiara la sussistenza di una disparità di trattamento tra i legittimari partecipanti e i legittimari sopravvenuti: ai primi è consentito manifestare la propria volontà, prestando, mediante la partecipazione al patto, il loro consenso alla volontà di assegnazione dell’impresa espressa dall’imprenditore; i secondi, invece, una volta stipulato il patto potranno solamente ottenere la liquidazione in denaro di quanto loro spettante, ma non anche opporsi (non partecipando al patto) all’assegnazione. Diversamente, per coloro che qualificano come necessaria solo la partecipazione al patto del disponente e dell’assegnatario, rientrano tra i «legittimari sopravvenuti» anche i non assegnatari già in vita e conosciuti al momento della stipulazione del patto, ma che comunque non vi hanno partecipato e non sono stati, dunque, liquidati. Infine, nettamente minoritaria è la tesi secondo cui l’art. 768 sexies c.c. si riferisce solamente ai legittimari non assegnatari già esistenti al momento del patto, mentre i sopravvenuti potrebbero solo rivalersi sui beni oggetto di successione ‘ordinaria’, con esclusione di quanto oggetto del patto63. Ampiamente si è discusso circa l’uso del verbo «possono» usato nell’art. 768sexies c.c., verbo che allude ad una possibilità o potenzialità. Per alcuni, il verbo «possono» indica che i beneficiari sopravvenuti hanno diritto di chiedere ai soggetti che hanno partecipato al patto la liquidazione della quota, solamente se i beni del patrimonio ereditario non sono sufficienti a fornire loro 63 G. SICCHERO, La causa del patto di famiglia, Contratto e Impresa, 2006, p. 1238; S. TONDO, Appunti sul patto di famiglia, Vita Notarile, 2009, p. 684. 33 l’equivalente della quota legittima 64 . Secondo questa interpretazione, in sostanza, il patto acquista una stabilità rafforzata, di modo che la richiesta della quota ai legittimari che non vi hanno partecipato è subordinata alla previa verifica di capienza del patrimonio ereditario. Per altri, tale termine indicherebbe solamente la disponibilità del diritto di liquidazione, sicché i non partecipanti potrebbero scegliere se chiedere la quota loro spettante oppure rinunciarvi, tacitamente o espressamente, non chiedendola affatto65. In ogni caso, si ritiene che i legittimari sopravvenuti non possano mettere in discussione il patto, chiedendo l’annullamento degli effetti che l’imprenditore ha voluto imprimervi, mediante l’azione di riduzione o collazione, poiché il patto di famiglia costituisce eccezione all’art. 1372 c.c. (secondo cui il contratto ha forza di legge fra le parti) e produce effetti anche nei confronti dei terzi che non vi hanno partecipato. Al di là delle disquisizioni teoriche, occorre a questo punto individuare i possibili legittimari che non avevano originariamente partecipato al patto. Oltre al nuovo coniuge dell’imprenditore che fosse coniugato con altra persona al momento della stipulazione del patto (cfr. § 5), si annoverano tra i legittimari non partecipanti anche i figli naturali successivamente riconosciuti. Si ponga il caso del riconoscimento del figlio, nato fuori dal matrimonio, effettuato dall’imprenditore mediante testamento. È questo uno dei casi in cui il legittimario aderirà successivamente al patto di famiglia tramite il meccanismo di cui all’art. 768-sexies c.c. e, cioè, mediante la liquidazione della quota a lui spettante, oltre agli interessi. Alle posizioni sopra descritte si affianca quella dei discendenti del legittimario che abbia sì partecipato al patto di famiglia, ma rinunciando alla propria quota. In tale ipotesi, opera l’istituto della rappresentazione, di talché i discendenti del rinunciante avranno titolo per chiedere la somma dovuta all’assegnatario. Per 64 65 G. RIZZI, I patti di famiglia... cit., p. 38. L. CAROTA, Art. 768 sexies... cit., p. 454-455. 34 questa ragione, all’atto pratico conviene che al patto partecipino anche i discendenti dei legittimari al fine di definire la loro posizione in caso di rinuncia del loro ascendente66. I soggetti passivi, invece, ovvero coloro che dovranno liquidare il dovuto ai legittimari sopravvenuti sono sia l’assegnatario, sia i legittimari non assegnatari che non abbiano rinunciato alla liquidazione della quota parte, poiché sono costoro i soggetti nei cui confronti opera (o, quantomeno, può operare) la rideterminazione della “compagine successoria” al presentarsi di nuovi eredi legittimi,67. Deve tenersi in conto che l’obbligazione dei coobbligati è solidale, per evitare che, in caso di inadempimento parziale, il contratto venga impugnato68. È chiaro che, qualora l’assegnatario non abbia ancora liquidato la quota agli altri legittimari, i sopravvenuti dovranno rivolgersi solo a colui che ha ricevuto l’azienda. Esaurita così l’analisi dei profili soggettivi, si lascerà al prossimo capitolo la trattazione concernente l’oggetto del patto di famiglia, con particolare attenzione alle modalità del trasferimento ed alla liquidazione delle quote; mentre, nel prosieguo, verranno approfondite le tematiche connesse all’impugnazione, alla risoluzione e allo scioglimento del patto. 66 M.C. LUPETTI, Patti di famiglia: note a prima lettura, in CNN Notizie del 14.2.2006, p. 13. Può accadere che le quote non si modifichino in caso di sopravvenienza di un nuovo soggetto. M. DOGLIOTTI (a cura di), Il patto di famiglia... cit., p. 142, riporta i seguenti esempi: 1) patto stipulato dal disponente con il proprio unico figlio, al quale viene attribuita l’azienda del valore di 900, con liquidazione al coniuge di 300 (1/3, mentre i 2/3 restano al figlio); 2) patto stipulato dal disponente a favore di uno dei due figli (legittima pari a 225 cadauno) al quale viene assegnata l’azienda del valore di 900, con conseguente liquidazione di 225 per il coniuge e 225 all’altro figlio non assegnatario. Qualora l’imprenditore riconosca un altro figlio dopo la stipulazione del patto, nel primo caso la quota del coniuge si riduce a 225 e anche quella del figlio, prima di 600, si riduce a 225; mentre, nel secondo caso, la quota del coniuge rimane invariata, mentre la nuova quota dei figli si riduce a 150 cadauno. Pertanto, in tale ultimo caso, il coniuge che non vede ridotta la propria quota non dovrà alcunchè al legittimario sopravvenuto. 68 A. MERLO, Il patto di famiglia, in CNN Notizie,14 febbraio 2006, p. 10; G. PETRELLI, La nuova disciplina del «patto di famiglia»... cit., p. 458; S. RAMPOLLA, Sub. Art. 768-sexies... cit. 45; GAZZONI, Appunti e spunti.... cit., p. 222, il quale rimane tuttavia dubbioso al riguardo, ritenendo che l’obbligazione possa intendersi invece come parziaria. 67 35 II L’OGGETTO DEL PATTO DI FAMIGLIA: L’IMPRESA, LE QUOTE DI PARTECIPAZIONE SOCIETARIE Sommario: 1. I beni che possono essere oggetto del patto di famiglia - 2. Il titolare di impresa e/o di quote societarie non imprenditore - 3. Il trasferimento dell’azienda: rapporto con l’istituto dell’impresa familiare 4. Le quote di partecipazione societarie: rapporto con eventuali clausole di gradimento, o regolatrici del rapporto fra soci superstiti ed eredi del socio defunto – 5. Il momento dell’efficacia del patto – 6. Le pattuizioni accessorie: termine, condizione – 7. La liquidazione dei legittimari non assegnatari; disattivazione dei meccanismi della collazione e della riduzione 1. I beni che possono essere oggetto del patto di famiglia Si è visto nelle pagine che precedono che la recente introduzione nell’ordinamento del patto di famiglia è stata dettata dall’esigenza di elaborare uno strumento giuridico che favorisca il “passaggio generazionale” nell’ambito dell’impresa a carattere familiare: la rilevanza – almeno potenziale – dell’istituto così introdotto apparirà notevolissima, ove si consideri che le imprese a carattere familiare (sia esercitate in forma individuale, sia esercitate in forma societaria) costituiscono la stragrande maggioranza delle imprese operanti in Italia (cfr. supra, in Introduzione, § 1). Prima dell’introduzione delle disposizioni relative al patto di famiglia, infatti, l’impresa non godeva di alcun trattamento particolare in sede successoria, rispetto agli altri beni, mobili ed immobili, appartenuti al de cuius: di conseguenza, al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore non era inconsueto che gli eredi non fossero in grado di “ricevere il testimone”, vuoi per impreparazione, vuoi per la difficoltà di trovare un accordo che permettesse di soddisfare i diritti ereditari di ciascuno senza che ciò andasse a pregiudicare l’integrità dell’impresa. Sotto questo profilo, appare impressionante la statistica 36 citata all’inizio del presente scritto, dalla quale emerge come solo il 20% delle imprese sia in grado di superare il mutamento dell’assetto proprietario conseguente alla morte dell’imprenditore, e come tale percentuale crolli ulteriormente nell’occasione dell’eventuale passaggio dell’impresa alla terza generazione della famiglia. Con il patto di famiglia è stata, quindi, data all’imprenditore la possibilità di gestire personalmente il passaggio generazionale, il che comporta evidenti vantaggi rispetto alla situazione che si presentava prima dell’introduzione del patto di famiglia nel nostro ordinamento, considerato che egli non solo può scegliere la o le persone che – fra i propri eredi legittimari – meglio mostrano di saper proseguire l’attività, ma può farlo nel momento che gli pare più opportuno, laddove la successione per causa di morte costringe gli eredi a prendere decisioni importanti relativamente all’esercizio dell’attività imprenditoriale, in un momento che, almeno in alcuni casi, li coglie impreparati, e nel quale essi sono altresì psicologicamente indeboliti dal lutto che li ha appena colpiti. Mediante il patto di famiglia, il legislatore vuole, quindi, prestare tutela all’attività imprenditoriale, non esclusivamente nell’interesse dell’imprenditore e della sua famiglia, ma anche, e forse soprattutto, ai fini di «tutela di interessi superindividuali alla conservazione di efficienza delle unità produttive e non già per rafforzare la posizione del disponente» 69 . Lo testimonia la scelta del legislatore di introdurre «un contratto a struttura rigida avente ad oggetto beni produttivi e che necessita, per il perfezionamento, della partecipazione di tutti i legittimari» 70 , benché fosse possibile procedere diversamente, per esempio prevedendo un contratto ereditario con cui attribuire agli eredi qualsiasi bene del patrimonio del dante causa; oppure prevedendo che le attribuzioni di beni 69 Cfr. IEVA, La disciplina del patto di famiglia e l’evoluzione degli strumenti di trasmissione dei beni produttivi, Casi e problemi di interesse notarile, 2007, p. 1091. 70 Ibidem. 37 produttivi ad un erede fossero esentate dalla collazione e dall’azione di riduzione, indipendentemente dall’acquiescenza degli altri legittimari. Da quanto si è detto finora a proposito del patto di famiglia, e particolarmente dall’individuazione della sua finalità di conservazione dell’efficienza dei beni produttivi, e di realizzazione della continuità della gestione dell’impresa all’interno della famiglia dell’imprenditore, discende – si potrebbe dire in maniera automatica – l’individuazione della caratteristica tipica dei beni che possono essere trasmessi con il patto, ossia la loro natura di beni produttivi. L’art. 768-bis c.c. individua, infatti, quale possibile oggetto del patto di famiglia, l’azienda71, ovvero, nel caso in cui l’impresa sia esercitata in forma societaria, le quote di partecipazione in una società detenute dal de cuius72. Com’è agevole notare, l’elemento caratterizzante comune a tali beni è da ravvisare nel fatto che sia l’azienda sia le quote costituiscono beni produttivi; ciò che la norma non dice, ma che può essere agevolmente desunto dalle considerazioni sopra svolte, è che si deve trattare di beni che effettivamente attribuiscono al loro titolare la veste di imprenditore, mentre restano escluse dal patto di famiglia le partecipazioni che hanno una mera rilevanza finanziaria, quali sono i titoli acquistati con finalità di risparmio o di investimento, oppure i pacchetti di quote o di azioni societarie che siano di entità percentuale tanto ridotta da non consentire l’esercizio del «potere di concorso e influenza nella gestione dell’impresa collettiva»73. E’ dubbio se il patto di famiglia possa essere applicato alla trasmissione di partecipazioni societarie in una società che non svolge attività imprenditoriale, e che è quindi una società “di mero godimento”, destinata esclusivamente allo sfruttamento dei beni in essa conferiti: tipico, in questo senso, è il caso delle 71 Ai sensi dell’art. 2555 c.c. “L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. 72 Come si dirà ampiamente infra, l’inclusione delle quote di partecipazione fra i beni trasmissibili mediante il patto di famiglia è stata oggetto di dibattito, e tuttora suscita forti perplessità da parte degli studiosi e dei tecnici del diritto. 73 Cfr. DELLE MONACHE, Sub art. 458 c.c., in S. DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, pagg. 21 ss. 38 società di gestione di un patrimonio immobiliare. Molta dottrina ritiene che le quote di partecipazione in tali società non siano trasmissibili mediante patto di famiglia, non costituendo partecipazioni in un’attività imprenditoriale74. Di più: il patto di famiglia avrà ragion d’essere principalmente in relazione ad imprese di piccole o medie dimensioni, nelle quali la maggioranza della proprietà è generalmente concentrata nelle mani di un unico soggetto imprenditore: in tale caso, infatti, il patto di famiglia permette di realizzare effettivamente la continuità di gestione dell’impresa da parte dei discendenti dell’imprenditore (di prima generazione e possibilmente delle generazioni successive), dato che questi può trasmettere la maggioranza – se non la totalità – della proprietà. E’ invece difficile, anche se non impossibile, che tale continuità di gestione si possa realizzare nell’ambito di un’impresa di grandi dimensioni, verosimilmente esercitata nelle forme di una società di capitali, e nella quale la titolarità delle partecipazioni è generalmente parcellizzata, a differenza di quanto avviene in un’impresa più ridotta. Si noti che non è, comunque, radicalmente escluso che anche le quote di società a responsabilità limitata o le azioni di una S.p.A. possano essere trasmesse ad un discendente mediante il patto di famiglia (dell’argomento si parlerà di qui a poco), ma è noto che la forma delle società di capitali viene generalmente utilizzata per l’esercizio di imprese di dimensioni rilevanti, partecipate da numerosi soggetti, per cui in tale situazione è più difficile che il titolare di quote o di azioni si trovi nella possibilità di trasferire ad un discendente un pacchetto di azioni che sia di entità sufficiente a permettergli di esercitare la gestione dell’impresa 75 : e, come si è appena visto, l’eventuale trasmissione di un 74 Cfr. PETRELLI, La nuova disciplina…, cit.; sembra più dubbiosa l’opinione di Ieva, Sub art. 768 quater c.c., in S. DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, pag. 48, il quale ravvisa il pericolo di «un uso inappropriato dell’istituto con la conseguenza di creare presupposti per un contenzioso destinato […] a modificare l’assetto negoziale voluto dalle parti». 75 Si è osservato, peraltro, che lo scopo del patto di famiglia sarebbe realizzato anche nel caso in cui il pacchetto di partecipazioni trasmesse all’assegnatario raggiungesse la sufficiente rilevanza 39 pacchetto di quote che non consente l’esercizio del potere direttivo all’interno della società tradirebbe lo spirito del patto, rendendolo illegittimo. Fermo il principio della necessaria finalità del patto, di garantire la prosecuzione dell’impresa da parte dell’assegnatario, si ritiene che il disponente, nella determinazione dell’ampiezza del bene attribuito all’assegnatario, possa esercitare un’ampia discrezionalità, includendovi – o escludendone – vari assets, quali i contratti aziendali, il marchio, la ditta, l’insegna, i brevetti, naturalmente sempre a condizione che l’esclusione di uno o più di tali beni non comporti la paralisi dell’impresa76. Per tale motivo, se un’impresa avesse come unico bene produttivo un brevetto, il cedente non potrebbe escluderlo dalla cessione, perché i restanti beni trasferiti non sarebbero idonei a consentire la prosecuzione dell’impresa. 2. Il titolare di impresa e/o di quote societarie non imprenditore E’ naturale che nella maggioranza dei casi il proprietario dell’azienda e/o delle partecipazioni societarie sia un imprenditore. Esiste, però, la possibilità che così non sia, nel caso in cui il proprietario non eserciti l’attività imprenditoriale, ad esempio perché ha concesso l’azienda a terzi, a titolo di affitto o di comodato; oppure perché ne è divenuto proprietario per successione dell’imprenditore, senza avervi svolto alcuna attività. Una simile situazione richiede che ci si interroghi sulla possibilità di stipulare un patto di famiglia che abbia ad oggetto l’azienda, o le quote, data in affitto o in comodato. In teoria, tale possibilità dovrebbe essere esclusa, perché la legge parla chiaramente di patto di famiglia stipulato dall’imprenditore (cfr. artt. 768-bis, percentuale solo grazie alla somma con le partecipazioni eventualmente già di proprietà dell’assegnatario: cfr. VINCENTI: Il patto di famiglia compie cinque anni: spunti di riflessione sul nuovo tipo contrattuale, in Il diritto di famiglia e delle persone, pag. 1445. 76 Cfr. G. PETRELLI. La nuova disciplina del patto di famiglia, cit. 40 768-quater, 768-sexies, c.c.), sicché chi imprenditore non è non potrebbe accedere all’istituto giuridico qui preso in esame. In realtà, peraltro, sembra evidente che il legislatore, in tutte le norme in cui si riferisce all’imprenditore senza ulteriori precisazioni, abbia voluto indicare in maniera generica il proprietario dell’azienda, includendo in tale categoria sia il titolare di quote societarie77, sia, sembra di poter interpretare, il proprietario che abbia concesso l’azienda in comodato ovvero in locazione a terzi. Ciò si dice in considerazione di due argomenti: innanzitutto, non avrebbe senso introdurre una distinzione fra la posizione dell’imprenditore e quella del titolare di quote societarie nelle norme che si occupano della successione dell’imprenditore (ossia gli artt. 768-quater c.c. e 768-sexies c.c.), quando le due differenti posizioni sono state, invece, equiparate nella norma che definisce l’ambito di applicazione del patto di famiglia78. In secondo luogo, dato che il fine del patto di famiglia è di favorire la continuità di gestione di un’impresa operante, non sarebbe coerente con tale finalità impedire la stipulazione di un patto di famiglia avente per oggetto un’azienda che è effettivamente operativa, solo perché per un certo periodo essa è stata concessa in affitto o in comodato. Ciò vale, a tanto maggior ragione, nel caso in cui l’affittuario o il comodatario siano essi stessi eredi legittimari del proprietario, perché – se in tali casi si escludesse l’applicazione del patto di famiglia – si produrrebbe una situazione assurda, in cui proprio colui o coloro che hanno già gestito l’azienda (quali comodatari o affittuari) non potrebbero poi usufruire della possibilità di riceverla mediante il patto di famiglia79. 77 Si noti che solo l’art. 768-bis c.c. contiene esplicito riferimento sia all’imprenditore sia al titolare di partecipazioni societarie, mentre i successivi artt. 768-quater c.c. e 768-sexies c.c. parlano di successione del solo “imprenditore”. 78 Cfr. PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, cit.; VINCENTI: Il patto di famiglia compie cinque anni, cit., pag. 1443. 79 Cfr. PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, cit.; di opinione contraria, nel senso di non ritenere che il patto di famiglia possa avere ad oggetto un’impresa concessa in affitto o in usufrutto: S. DELLE MONACHE, Nuove prospettive sul patto di famiglia, Rivista del Notariato, LXVI, pag. 475. 41 Diverso sembra essere il caso del proprietario (non imprenditore) che sia divenuto tale avendo ricevuto l’azienda o le quote per successione: in tale caso, ove l’impresa sia rimasta inattiva a seguito del decesso dell’imprenditore, sembra pacifico che essa non possa essere trasmessa mediante patto di famiglia, per il duplice motivo che si tratta di un’azienda non operativa e che l’istituto del patto di famiglia non può essere utilizzato per la trasmissione di beni inutilizzati80. Ma se l’impresa pervenuta al successore non imprenditore fosse rimasta operativa durante il periodo del trapasso della proprietà, allora non si vede perché al proprietario non imprenditore dovrebbe essere preclusa la possibilità di assegnarla ad un erede che gli appaia in grado di garantire la continuità dell’attività imprenditoriale. Finora si è parlato dell’oggetto del patto di famiglia con riferimento ai beni che possono essere trasmessi, quindi l’azienda (o un ramo di azienda) o le quote societarie: il discorso merita di essere integrato con l’esame di quali diritti possano essere trasmessi. Per quanto riguarda il diritto di proprietà non c’è molto da dire, essendo ovvia la sua trasmissibilità mediante il patto di famiglia: va precisato però che la trasmissione può avere ad oggetto non solo la piena proprietà, ma anche la nuda proprietà, con riserva dell’usufrutto a favore dell’imprenditore cedente81, ovvero con costituzione dell’usufrutto in favore di un erede diverso da quello cui è stata attribuita la nuda proprietà. Gli altri diritti reali, viceversa, non sono idonei ad essere trasferiti con il patto o perché non si applicano a beni produttivi (bensì a beni immobili, a prescindere dalla loro idoneità a produrre reddito), ovvero perché attribuiscono al loro titolare un mero diritto di uso del bene, e non sono pertanto idonei a costituire un mezzo di trasmissione di un bene produttivo. 80 ibidem. Cfr. PETRELLI: La nuova disciplina del patto di famiglia, cit.; contra: M. IEVA: La disciplina del patto di famiglia, cit., pag. 1096, che dubita della compatibilità fra usufrutto e patto di famiglia, muovendo dalla considerazione che il valore dei beni trasmessi rimane cristallizzato alla data di conclusione del contratto. 81 42 3. Il trasferimento dell’azienda: rapporto con l’istituto dell’impresa familiare La norma istitutiva del patto di famiglia pone la necessità che il trasferimento di azienda avvenga «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie». Al proposito, si ricorda che l’impresa familiare è un istituto che si applica al caso in cui nell’impresa operino continuativamente i familiari dell’imprenditore, i quali in tale ambito vedono riconosciuto il loro diritto sia alla retribuzione per l’attività prestata, sia alla prelazione in caso di cessione dell’azienda82. Alla domanda su quali siano le conseguenze che si producono a carico dell’impresa familiare, qualora l’imprenditore stipuli un patto di famiglia, la dottrina non ha dato risposta univoca: si è ritenuto – da parte di alcuni – che la stipulazione del patto determini in ogni caso l’estinzione del rapporto di impresa familiare preesistente83, e – da parte di altri studiosi – che invece l’estinzione, anche in tale caso, non si produca necessariamente. Secondo tale ultimo punto di vista, il patto di famiglia metterebbe fine all’impresa familiare solo nel caso in cui il disponente non proseguisse l’attività (vale a dire, nel caso in cui il trasferimento dell’impresa all’assegnatario fosse immediatamente efficace: che è, comunque, il caso più frequente); diversamente, qualora il disponente trasferisca solo la nuda proprietà dell’impresa, riservandosene l’usufrutto 84 e continuando a svolgere la propria attività imprenditoriale, non vi sono ragioni perché l’impresa familiare cessi di esistere. Nel caso in cui effettivamente il rapporto di impresa familiare si estingua, con conseguente interruzione della collaborazione dei familiari all’attività 82 Ai sensi dell’art. 230-bis, c. 3, c.c., dell’impresa di famiglia possono far parte i parenti dell’imprenditore entro il 3° grado e gli affini entro il 2°, oltre al coniuge. 83 Cfr. BALESTRA, Sub art. 768-bis c.c., in S. DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, pag. 35. 84 Cfr. PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, cit. 43 dell’imprenditore, gli stessi familiari maturano il diritto a ricevere la liquidazione della loro quota di partecipazione all’impresa, ex art. 230-bis, c. 1, c.c., comprensiva del diritto agli utili ed agli incrementi dell’azienda, del diritto sui beni acquistati con gli utili, ed eventualmente anche del diritto al mantenimento, ove il familiare non ne avesse usufruito nel corso del periodo in cui ha prestato la collaborazione. Tali crediti devono essere liquidati in favore dei collaboratori da parte dell’imprenditore cedente85, trattandosi di crediti nati dalla pregressa collaborazione prestata nell’impresa familiare, e quindi venuti ad esistenza a monte della stipulazione del patto di famiglia. Nessun pregiudizio o limitazione può essere arrecato a tali diritti per effetto della cessione dell’impresa. L’assegnatario dell’impresa può, a sua volta, dare vita ad un nuovo rapporto di impresa familiare, alla quale coloro che erano stati collaboratori dell’impresa familiare cessata potranno partecipare solo se si trovino in un grado di parentela o di affinità, con il nuovo imprenditore, compreso fra quelli indicati all’art. 230bis, c. 3, c.c.. Tutto ciò detto, occorre verificare in che modo si realizzi la richiesta compatibilità del patto di famiglia con le norme in materia di impresa familiare. Al riguardo, si osserva innanzitutto che il legislatore ha, pacificamente, voluto che quest’ultimo istituto sia prevalente sul patto86. La formulazione dell’art. 786-bis c.c. indica, infatti, chiaramente la volontà del legislatore di subordinare la stipulazione del patto di famiglia alla normativa preesistente, atteso che la sua fattibilità è stata espressamente condizionata alla sua compatibilità con le norme in materia di impresa familiare: “è patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare […] l’imprenditore trasferisce…”. 85 D. SCARPA, Riflessioni sulla compatibilità fra patto di famiglia e impresa familiare, Famiglia, Persone e Successioni, 2010, pagg. 9 ss.. 86 G. RIZZI (a cura di): Il patto di famiglia, Notariato, 2006, pagg. 440 ss.; D. SCARPA, Riflessioni sulla compatibilità fra patto di famiglia e impresa familiare, cit.. 44 Ne consegue che il patto di famiglia potrà essere stipulato soltanto qualora esso non risulti precluso dalle norme sull’impresa di famiglia, essendo tale eventuale preclusione ravvisabile nel caso che vi sia un conflitto fra i diritti nascenti dalla collaborazione all’impresa familiare e quelli attribuiti mediante il patto di famiglia. Si sono già ricordati poc’anzi i diritti che nascono, a favore del collaboratore, nel corso del rapporto di collaborazione all’impresa familiare (ossia: il diritto al mantenimento, agli incrementi dell’azienda, agli utili; il diritto sui beni acquistati con gli utili). Ma c’è un altro diritto, non meno importante, che viene ad esistenza non durante il rapporto, bensì proprio quando questo si interrompe: si tratta, naturalmente, del diritto di prelazione spettante ai collaboratori in caso di trasferimento dell’azienda a terzi. E’ l’esistenza di tale diritto che può, evidentemente, determinare un conflitto fra soggetti portatori di due diritti incompatibili, perché colui (o coloro) che sono titolari del diritto di prelazione possono non essere gli stessi soggetti cui l’imprenditore ha deciso di cedere l’impresa (ovviamente, se invece l’assegnatario era già collaboratore dell’impresa di famiglia, e non vi erano altri aventi diritto, il problema non si pone). Una parte della dottrina ha, peraltro, negato che il suddetto conflitto possa realizzarsi (e, quindi, che la compatibilità fra i due istituti dell’impresa familiare e del patto di famiglia possa costituire un problema), perché in realtà il diritto di prelazione verrebbe ad esistenza solo a fronte di un trasferimento dell’impresa a titolo oneroso87, mentre non opererebbe se il trasferimento avvenisse a titolo di liberalità: diversamente «si priverebbe il donante della possibilità di perseguire l’intento liberale e, dunque, le particolari motivazioni sottese all’atto donativo»88. 87 In tale ipotesi, il cedente è tenuto – secondo quanto disposto dall’art. 732 c.c., richiamato dall’art. 230-bis, c. 5, c.c. – a notificare ai collaboratori familiari la proposta di alienazione ed il prezzo richiesto. 88 così: BALESTRA, Sub art. 768 bis c.c., in S. DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, pag. 35. 45 Dunque, poiché il patto di famiglia è sicuramente da qualificare come atto di liberalità89, ecco che, secondo tale teoria, il trasferimento di impresa realizzato mediante il patto non potrebbe rimanere paralizzato dall’esistenza di un eventuale diritto di prelazione in favore dei collaboratori dell’impresa familiare. Tale considerazione è teoricamente corretta, ma manifesta una certa debolezza ove si consideri che seguendola si perviene a ravvisare una sostanziale prevalenza dell’istituto del patto di famiglia su quello dell’impresa di famiglia. Vale a dire che essa va in direzione opposta a quella che il legislatore ha manifestamente indicato. Secondo un’altra teoria, invece, il rispetto del rapporto di prevalenza fra l’impresa familiare ed il patto di famiglia si esplica proprio in relazione con l’esercizio del diritto di prelazione spettante al collaboratore dell’impresa familiare, ex art. 230-bis c.c.. Tale teoria risulta più convincente, perché è più aderente al dettato legislativo rispetto a quella contraria. Difatti, l’inciso contenuto nell’art. 768-bis c.c. («compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare») si spiega solo se lo si riferisce all’esercizio di un diritto che sia potenzialmente confliggente con il patto di famiglia. Non avrebbe alcun senso, infatti, subordinare la fattibilità del patto di famiglia alla sua compatibilità con diritti che in realtà viaggiano – per così dire – su un piano parallelo a quello del patto, nel senso che non interferiscono con esso, né possono subire la sua interferenza. Ed allora: si è già detto poc’anzi che nessuno degli altri diritti previsti dall’art. 230-bis c.c. (ossia: i diritti al mantenimento, alla partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati con essi, agli incrementi dell’azienda) può essere in alcun modo pregiudicato o condizionato dalla stipulazione del patto di famiglia, perché si tratta di diritti che vengono ad esistenza durante l’esercizio dell’impresa di famiglia, e che quindi sono già maturati nel momento in cui questa cessa. 89 Ancorché esso comporti, a carico dell’assegnatario, l’assunzione dell’onere economico di liquidare gli altri legittimari: cfr. supra, Capitolo I, § 3, nonché infra Capitolo II, § 7. 46 Essi si collocano logicamente e cronologicamente a monte della stipulazione del patto di famiglia, e vengono esercitati dal collaboratore nei confronti del titolare dell’impresa di famiglia in quanto tale (e non già in quanto “disponente” nel patto di famiglia). Di conseguenza, non si vede in che modo tali diritti già perfetti potrebbero interferire con la fattibilità del patto di famiglia, né si ravvisa alcuna ragione per cui il legislatore avrebbe subordinato il patto al loro esercizio. Al contrario, si è visto che il diritto di prelazione non solo non preesiste alla cessione dell’impresa, ma viene ad esistenza proprio a causa di essa: si tratta quindi dell’unico, fra i diritti del collaboratore familiare, che possa, almeno in teoria, essere condizionato, ovvero pregiudicato, dalla stipulazione del patto di famiglia. Ne discende che, nel momento in cui il legislatore ha affermato che il patto di famiglia può essere stipulato «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare», si deve necessariamente essere riferito all’unico diritto che può risultare incompatibile con il patto, e cioè al diritto di prelazione dei collaboratori all’impresa familiare90. L’inciso contenuto nell’art. 768-bis c.c. si presta, quindi, ad essere convincentemente interpretato nel senso che il patto potrà essere stipulato compatibilmente con l’esercizio – da parte di chi vi abbia diritto – della prelazione ex art. 230-bis c.c., nel senso che non lo si potrà stipulare nel caso in cui il titolare del diritto di prelazione abbia manifestato di volere esercitare il proprio diritto. Vi è, peraltro, un problema legato alle concrete modalità di esercizio del diritto di prelazione: difatti, ai sensi dell’art. 732 c.c. (richiamato dall’art. 230-bis c.c.) il prelazionario deve ricevere dall’imprenditore la comunicazione del prezzo per il quale quest’ultimo si appresta a cedere l’impresa, in modo da potersi determinare ad acquistarla personalmente, pareggiando l’offerta fatta dal terzo. 90 Cfr.: G. RIZZI (a cura di): Il patto di famiglia, cit. 47 Tali modalità sono evidentemente impraticabili nel caso in cui l’imprenditore si appresti non ad alienare, ma a cedere gratuitamente l’impresa. A tale considerazione si è data risposta sostenendo che il diritto di prelazione si esplicherebbe non nell’offerta di un prezzo uguale a quello già offerto all’imprenditore da un acquirente terzo, ma nella possibilità, data all’avente diritto, di acquistare l’impresa a titolo oneroso. A seguito dell’esercizio della prelazione da parte dell’avente diritto, l’imprenditore cedente sarebbe quindi tenuto a modificare il proprio progetto iniziale, stipulando un contratto diverso da quello – il patto di famiglia – che inizialmente intendeva porre in essere91. Qualunque teoria si ritenga preferibile, va detto che probabilmente il problema non è destinato a porsi con frequenza, perché è molto verosimile che il patto di famiglia venga stipulato con uno o più soggetti che erano già collaboratori dell’impresa familiare: sarebbe, infatti, bizzarro se il titolare di un’impresa familiare la destinasse, mediante il patto di famiglia, ad un erede legittimario che fino a quel momento non ha mai collaborato con lui. Quindi, se si realizza piena coincidenza fra collaboratori dell’impresa familiare ed assegnatari del patto, non c’è, naturalmente, alcun ostacolo alla stipulazione del patto di famiglia. Ove, però, fra i collaboratori dell’impresa familiare ci fossero soggetti che – non essendo discendenti legittimari – non hanno titolo per essere parti del patto di famiglia, si porrebbe il problema di come soddisfare il loro diritto di prelazione. In tale eventualità (ammesso di voler seguire la teoria che ritiene tale diritto esistente anche a fronte di un atto di liberalità dell’imprenditore), il conflitto fra i due diritti si manifesterebbe assolutamente insanabile, e le possibilità si ridurrebbero a due: da un lato, la rinuncia dell’imprenditore a stipulare il patto di famiglia; dall’altro, la rinuncia degli aventi diritto all’esercizio della prelazione. 91 Cfr.: G. RIZZI (a cura di): Il patto di famiglia, cit.; D. SCARPA, Riflessioni sulla compatibilità fra patto di famiglia e impresa familiare, cit., pagg. 9 ss.. 48 Dunque, nel caso di un patto di famiglia avente per oggetto un’impresa esercitata nelle forme dell’impresa familiare, il notaio rogante dovrebbe richiedere la partecipazione all’atto anche da parte dei collaboratori familiari dell’impresa, perché dichiarino in sede di comparizione alla stipula dell’atto pubblico la loro rinuncia al diritto di prelazione92. In ogni caso, è pacifico che la stipulazione del patto, che sia avvenuta in violazione del diritto di prelazione di un collaboratore dell’impresa familiare, non determini l’invalidità del patto e/o l’insorgenza del diritto di riscatto in favore dell’avente diritto (quindi: non abbia l’effetto di porre nel nulla il patto), ma origini unicamente il suo diritto al risarcimento del danno subito. Il fatto che la violazione del diritto di prelazione abbia unicamente conseguenze di natura obbligatoria – e non reale – va letto, evidentemente, come un ulteriore indice della dichiarata volontà del legislatore di assicurare al patto di famiglia una stabilità pressoché assoluta, al fine del perseguimento della tutela di interessi “superindividuali”, consistenti nella preservazione delle attività produttive93. 4. Le quote di partecipazione societarie: rapporto con eventuali clausole statutarie di gradimento La norma istitutiva del patto di famiglia fa espressamente salve, oltre alle norme sull’impresa familiare, anche quelle che regolano le «differenti tipologie societarie». In teoria, il passaggio di quote societarie da un soggetto ad un altro non dovrebbe porre problemi, in ragione della tendenziale trasferibilità, sia per atto fra vivi, sia a causa di morte, disposta dalla legge per le quote societarie (cfr. art. 2469 c.c.): in realtà, tale tendenziale trasferibilità trova frequentemente un limite, se non un vero e proprio divieto, nella regolamentazione interna delle 92 93 L. DONEGANA: Il punto sul patto di famiglia, Rivista del Notariato, 2008, pag. 977. Cfr. IEVA, La disciplina del patto di famiglia, cit., pag. 1091. 49 società, che nei propri statuti includono spesso clausole di gradimento nei confronti dei nuovi soci; ovvero divieti di alienazione delle quote; ovvero ancora l’intrasferibilità delle stesse (facendo così eccezione al principio generale). Oltre a quanto sopra (di cui si dirà meglio qui di seguito), è da ricordare che un primo limite all’incondizionata trasferibilità delle quote societarie mediante il patto di famiglia è già stato incontrato nel corso della presente trattazione: si tratta di un limite non dettato dalla struttura della società, né dai patti che ne regolamentano la vita, bensì dall’esigenza che venga trasmesso un pacchetto di quote di entità percentuale tale da realizzare l’attribuzione all’assegnatario del potere di amministrazione della società. Ciò non costituisce un ostacolo alla trasmissione delle quote di società di persone, i cui soci sono tutti investiti dell’amministrazione della società, con l’unica eccezione del socio accomandante – che viceversa, com’è noto, gode di responsabilità limitata a fronte della sua completa estraneità 94 all’amministrazione . Nel caso, invece, delle società di capitali si è già visto che il trasferimento delle relative partecipazioni è più difficilmente compatibile con le finalità del patto di famiglia, in ragione della maggiore parcellizzazione della compagine societaria e del fatto che – almeno tendenzialmente – esse sono prescelte per l’esercizio di imprese di dimensioni rilevanti (laddove il patto di famiglia si indirizza alle imprese di dimensioni piccole e medie). Nondimeno, non può essere escluso a priori che il patto di famiglia abbia per oggetto le quote di una s.r.l. o addirittura un pacchetto di azioni di una S.p.A., se 94 Secondo alcuni, le quote dell’accomandatario potrebbero essere trasmesse mediante patto di famiglia solo nel caso previsto dall’art. 2320, c. 2, c.c., in cui all’accomandatario sia consentito di «dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e compiere atti di ispezione e di sorveglianza»: ciò in quanto si ritiene che tali attribuzioni comportino il concorso dell’accomandatario alla gestione della società (cfr. PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, cit.). Si tratta di un’interpretazione non del tutto condivisibile, atteso che l’ingerenza dell’accomandatario nell’amministrazione societaria sarebbe comunque circoscritta a specifiche ipotesi, nonché limitata ad una presa d’atto – sia pure al fine di dare un’autorizzazione - delle deliberazioni degli accomandatari. 50 il disponente sia in grado di trasmettere un pacchetto di entità percentuale sufficiente a garantire all’assegnatario l’esercizio del potere di gestione sulla società 95 . Resta fermo il principio per cui si deve trattare di azioni che rappresentino effettivamente l’esercizio dell’attività imprenditoriale da parte del disponente, e non siano invece rappresentative di un mero investimento patrimoniale. Proprio tale principio, apparentemente privo di aspetti problematici, si rivela invece difficile da applicare alle situazioni che concretamente si possono presentare. Si è osservato, infatti, che non è necessariamente facile individuare le situazioni in cui la partecipazione posseduta conferisce al titolare la possibilità di esercitare un significativo potere di ingerenza nella gestione della società96. In proposito non ci si può limitare a prendere in considerazione il dato numerico, relativo alla percentuale di partecipazione di cui è titolare il soggetto interessato, perché i rapporti di forza all’interno di una società di capitali possono essere determinati dall’esistenza di patti parasociali, ovvero dall’attribuzione ad un singolo socio di particolari diritti amministrativi (quale il diritto di nominare uno dei membri del consiglio di amministrazione, ex art. 2468 c.c.)97, con la conseguenza di rendere rilevante ai fini gestori anche una quota di partecipazione percentualmente non elevata. La norma è stata pertanto criticata sia sotto un profilo sostanziale (per la scelta di includere nel patto di famiglia anche le partecipazioni societarie, cosa che era stata, invece, esclusa nella prima proposta di riforma del regime successorio dei 95 Si tratta, evidentemente, di un’ipotesi non frequente: la stessa formulazione dell’art. 768-bis c.c. si riferisce esclusivamente alle “quote” – e non alle azioni – dimostrando che il legislatore ritiene improbabile l’attribuzione di azioni societarie mediante il patto di famiglia. 96 S. DELLE MONACHE, Nuove prospettive sul patto di famiglia, Rivista del Notariato, 2012, pag. 476. 97 ibidem. Si noti che la norma qui citata è considerata come un segnale della volontà del legislatore di offrire «efficaci strumenti per la pianificazione del trasferimento delle partecipazioni societarie in funzione successoria, il che induce a ritenere non del tutto felice la scelta del legislatore del patto di famiglia di avere reso oggetto del nuovo istituto anche le partecipazioni societarie»: così: M. IEVA, La disciplina del patto di famiglia, cit., pag. 1089. 51 beni produttivi, nella quale erano stati ipotizzati due istituti distinti, rispettivamente relativi alla trasmissione dell’azienda – il patto di famiglia – ed alla trasmissione delle partecipazioni societarie – il patto di impresa98), sia sotto un profilo formale, perché la sua formulazione generica non permette di definire in modo certo quali siano le condizioni che legittimano il ricorso all’istituto in esame laddove l’impresa sia esercitata in forma societaria. Di più, la norma è stata criticata anche perché essa appare suscettibile di lasciare aperta la possibilità che vengano realizzati espedienti non corretti, quale il conferimento in società di tutto il patrimonio di un soggetto, al fine di eludere le norme inderogabili in materia successoria mediante la stipulazione del patto di famiglia99. Venendo all’esame della compatibilità fra i limiti alla trasferibilità delle quote societarie che possono essere convenuti negli statuti societari o nei patti sociali, e la stipulazione del patto di famiglia, occorre considerare che taluni vincoli possono essere del tutto incompatibili con l’organizzazione datasi dalla società, mentre altri possono comunque consentire l’assegnazione delle quote dell’imprenditore al discendente prescelto. Al riguardo, si osserva: (i) la previsione di intrasferibilità delle quote non incontra alcun limite nella legge (vale a dire che essa non è subordinata a particolari condizioni, né è applicabile solo per un tempo limitato), e pertanto dà luogo ad una sicura incompatibilità con l’attribuzione delle quote ad un assegnatario. Di fronte a tale ipotesi, quindi, la sola possibilità di stipulare legittimamente un patto di 98 Si tratta del progetto elaborato a mettà degli anni novanta dalla Commissione MASIRESCIGNO, con il quale si sarebbero dovuti introdurre nel codice civile l’art. 734–bis (“Patto di famiglia”) e l’art. 2355-bis (“Patto di impresa”). La norma poi effettivamente introdotta all’art. 2355-bis c.c., pur avendo contenuto diverso, realizza comunque la finalità di «ampliare l’autonomia statutaria […] ampliando correlativamente le ipotesi in cui al socio compete il diritto di recesso»; in tale modo, la riforma del diritto societario «aveva già consegnato efficaci strumenti per la pianificazione del trasferimento delle partecipazioni societarie in funzione successoria»: cfr. IEVA, La disciplina del patto di famiglia, cit., pagg. 1088-1089. 99 Cfr. M. IEVA, La disciplina del patto di famiglia, cit., pag. 1094. 52 famiglia dipende dalla preventiva modifica dello statuto, così da rimuoverne il divieto di trasmissibilità delle quote100. (ii) Parimenti, la previsione che l’ingresso in società di un nuovo socio possa avvenire solo in caso di gradimento da parte degli altri soci o degli organi sociali non è compatibile con l’attribuzione delle quote ad un assegnatario, a meno che questi non sia già socio, ovvero a meno che effettivamente il gradimento venga manifestato dagli altri soci. (iii) Per quanto riguarda, invece, il caso di divieto statutario di alienazione delle quote, esso preclude la possibilità della loro assegnazione a terzi, ma si tratta di una preclusione che la legge sottopone al limite temporale di cinque anni, decorrenti dalla costituzione della società, ovvero dall’introduzione del divieto (ove questo sia stato deliberato in un momento successivo alla costituzione della società: cfr. art. 2355-bis c.c., relativo alle S.p.A.), cosicché essa non è indefinitamente, bensì solo temporaneamente, ostativa alla stipulazione del patto di famiglia101. 5. Il momento dell’efficacia del patto: rapporto con le norme di legge e la regolamentazione pattizia del rapporto fra soci superstiti ed eredi del socio defunto Tutto quanto si è detto finora riguarda il caso in cui il patto di famiglia sia immediatamente efficace, e quindi realizzi l’immediata attribuzione dell’impresa, ovvero delle quote societarie, all’assegnatario. Poiché, peraltro, è legittimo che l’efficacia del patto venga differita, per volontà del disponente, alla morte del medesimo, occorre prendere in considerazione la compatibilità del patto con il regime legale e/o statutario del trasferimento delle quote per causa di morte (nessuno specifico problema, viceversa, viene ad 100 così: BALESTRA, Sub art. 768 bis c.c., in S. DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, pag. 36. 101 ibidem. 53 esistenza in relazione al differimento della efficacia di un patto di famiglia avente per oggetto un’impresa non esercitata in forma societaria). Per quanto riguarda il possibile conflitto fra l’istituto qui in esame e le norme che disciplinano il caso della morte di un socio, esso si manifesta particolarmente evidente per quanto riguarda le società di persone, alla luce del disposto dell’art. 2284 c.c. che prevede tre possibili sviluppi, alternativi fra loro, della situazione determinata dal decesso di un socio, ossia: (i) la liquidazione della quota del socio defunto agli eredi dello stesso; (ii) lo scioglimento della società; (iii) la prosecuzione della società con gli eredi. L’aspetto che va sottolineato è che la legge rimette ai soci superstiti la scelta fra tali possibili sviluppi, il che evidentemente rappresenta un ostacolo sostanziale all’attuazione del patto di famiglia, nel quale, viceversa, è il socio (poi defunto) ad avere individuato la persona che deve prendere il suo posto in seno alla società102. Si osserva, in proposito, che, delle tre alternative indicate dall’art. 2284 c.c., sopra riportate, soltanto la terza si presta ad essere interpretata in maniera tale da renderla compatibile con il patto di famiglia, perché può ben accadere che la prosecuzione della società con gli eredi del socio defunto avvenga con l’assegnatario delle quote, realizzandosi così un incontro di volontà “postumo” fra il disponente ed i soci superstiti; per quanto riguarda invece le altre previsioni, non sembra possibile trovare alcun punto di incontro fra di esse e la normativa sul patto di famiglia103, la cui fattibilità rimane pertanto esclusa dalla esistenza di clausole statutarie di tale contenuto. La prassi conosce, inoltre, clausole statutarie che regolamentano anticipatamente quanto si verificherà in caso di morte del socio: fra le possibili ipotesi vi è la clausola che prevede, per tale caso, lo scioglimento automatico 102 Nelle società di capitali la stessa situazione (cioè la remissione ai superstiti della facoltà di decidere se proseguire nel rapporto societario con gli eredi del socio defunto) viene generalmente raggiunto mediante le clausole di gradimento contenute nello statuto sociale. 103 Cfr.: L. BALESTRA, Sub art. 768-bis c.c., in S. DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, pag. 37. 54 della società; ovvero l’obbligo di prosecuzione della società con gli eredi del socio defunto; ovvero la “consolidazione” – o accrescimento – delle quote del defunto in favore dei soci superstiti; ovvero ancora, il diritto dei soci superstiti di acquistare le quote dagli eredi, a condizioni predeterminate. Ora, a prescindere dalla legittimità dell’una o dell’altra di tali clausole statutarie (tale legittimità è stata frequentemente messa in dubbio, in particolare per quanto riguarda l’ipotesi della consolidazione e quella del diritto di acquisto delle quote da parte dei soci superstiti, che sembrano violare il divieto di patti successori 104 ), è evidente che soltanto quella che prevede l’obbligo di prosecuzione della società con gli eredi del socio deceduto è compatibile con la stipulazione di un patto di famiglia. Per quanto riguarda le altre clausole statutarie occorrerà invece che si verifichi di volta in volta se – per lo specifico contenuto dello statuto in cui sono inserite – esse si pongano in conflitto con il patto di famiglia, tenendo conto della generale tendenza del legislatore a subordinare la fattibilità del patto di famiglia al rispetto delle norme legali e pattizie che regolano le società. 6. Le pattuizioni accessorie: termine e condizione Si è scritto ripetutamente che lo scopo del patto di famiglia risiede nella volontà di offrire all’imprenditore, titolare di un’impresa piccola o media (ovvero di partecipazioni societarie), la possibilità di trasmettere la proprietà della medesima ad uno o più discendenti da lui individuati come idonei a proseguire l’attività, in modo da permettere un passaggio generazionale che non si traduca nella cessione a terzi dell’impresa, ovvero che ne provochi addirittura la chiusura. Alla luce di tale considerazione appare naturale che il patto sia destinato ad essere immediatamente efficace, e quindi ad immettere immediatamente 104 Cfr. L. BALESTRA, ibidem; F. SCAGLIONE: Clausole societarie di successione familiare, Contratto e Impresa, 2009, pagg. 943 ss. 55 l’assegnatario nella proprietà dell’impresa e dell’azienda, liberando il cedente – verosimilmente non più giovane – dal carico della gestione dell’attività. Peraltro, grazie alla modifica dell’art. 458 c.c., che ha circoscritto il divieto dei patti successori, si è reso legittimo non solo il patto di famiglia, ma anche l’inserimento nel patto di quegli elementi “accidentali”, previsti dall’ordinamento, che sono in linea generale apponibili ai contratti in applicazione del principio dell’autonomia contrattuale 105 . Nel vigore della precedente formulazione dell’art. 458 c.c., viceversa, né il patto di famiglia, né qualsiasi diverso atto di liberalità il cui termine iniziale fosse stato rinviato alla data della morte del disponente sarebbe stato legittimo106. Merita di segnalare che secondo alcuni commentatori l’applicabilità al patto di famiglia del termine iniziale o della condizione sospensiva è, in realtà, puramente teorica, perché in entrambi i casi si determinerebbe a carico dell’assegnatario una situazione eccessivamente gravosa, nella quale egli sarebbe tenuto a soddisfare gli altri legittimari calcolando la loro legittima sul valore che i beni trasmessi hanno al momento della sottoscrizione del patto senza poter entrare immediatamente nella disponibilità di tali beni e così sopportando non solo un esborso immediato, ma anche il rischio che al momento in cui il patto diverrà efficace essi abbiano perduto parte del loro valore107. Da un punto di vista normativo, comunque, nulla osta all’applicazione al patto di famiglia di elementi “accidentali” quali la condizione ed il termine, che hanno in comune l’effetto (i) di differire il momento in cui il contratto acquisisce efficacia (rispetto al momento della stipulazione del contratto), ovvero (ii) di 105 F. VOLPE, L’uso delle pattuizioni accessorie nel patto di famiglia, Contratto e Impresa, 2014, pagg. 503 ss.; L. BALESTRA, Il patto di famiglia a un anno dalla sua introduzione, Studi in onore di Antonio Palazzo, 2007, pagg. 738-741. 106 L. BALESTRA, Il patto di famiglia a un anno dalla sua introduzione, cit., pagg. 743-744. 107 M. IEVA, Art. 768 quater, Il patto di famiglia (a cura di Delle Monache), pag. 54. 56 cagionarne l’eventuale perdita di efficacia, in presenza di specifiche circostanze108. Ciò perché si ritiene che il disponente debba avere la possibilità di decidere non solo le modalità, ma anche i tempi del passaggio generazionale dell’impresa di cui è proprietario, e che quindi possa decidere che esso si verifichi – solo per fare qualche esempio – alla sua morte, ovvero al compimento del suo settantacinquesimo anno, o in un qualsiasi diverso momento, comunque non coincidente con la data della stipula. Lo stesso risultato – ossia il differimento dell’efficacia del patto – si ottiene, d’altronde, mediante l’attribuzione all’assegnatario della nuda proprietà dell’impresa, con riserva dell’usufrutto in favore del disponente: sotto il profilo giuridico la situazione che ne deriva è, evidentemente, molto diversa da quella che consegue all’apposizione al contratto di un elemento accidentale quale la condizione sospensiva o il termine iniziale, perché l’assegnatario diviene immediatamente titolare del diritto di proprietà dell’impresa (rectius della nuda proprietà), ma da un punto di vista pratico si produce, in entrambi i casi, una situazione in cui il disponente prosegue nella gestione dell’impresa, per un periodo determinato o vita natural durante, e ciò benché abbia già designato il soggetto destinato a succedergli in tale attività. Altro elemento accidentale che può essere apposto al contratto di patto di famiglia è la condizione, nella sua doppia configurazione della condizione sospensiva, ovvero della condizione risolutiva. Ad esempio, l’efficacia del patto può essere sottoposta alla condizione che l’assegnatario abbia provveduto a liquidare ai legittimari del disponente non assegnatari quanto loro spettante secondo il disposto dell’art. 768-quater, c. 2. c.c.: si tratta, in questo caso, di una condizione sospensiva, atteso che essa 108 Per completezza, si osserva che la distinzione fra “termine” e “condizione” si fonda sul fatto che mentre il termine si riferisce ad un evento di cui è certo il verificarsi, ma incerto il momento in cui si produrrà, la condizione si riferisce ad un evento il cui verificarsi è incerto. Pertanto, integra un termine la clausola “quando morirò”, mentre integra una condizione la clausola “se premorirò al mio discendente X”. 57 sospende il momento dell’acquisizione di efficacia del patto fino al compimento di un’attività da parte dell’assegnatario. L’apposizione di tale condizione è stata ritenuta particolarmente adeguata alla ratio dell’istituto, dato che la liquidazione dei legittimari non assegnatari è «uno degli aspetti essenziali della disciplina, tanto da assurgere ad elemento imprescindibile dello schema negoziale in esame»109. Un diverso tipo di condizione applicabile al patto di famiglia, che a sua volta appare particolarmente appropriata all’istituto in questione ed alle sue finalità, è la condizione di reversibilità, mediante la quale il disponente può prevedere che l’impresa ritorni nella sua disponibilità ove si verifichino determinate circostanze. Si tratta, in questo caso, evidentemente, di una condizione risolutiva, in conseguenza del cui avverarsi l’impresa ritorna nella titolarità del disponente, dopo un periodo nel quale è stata immessa nella disponibilità dell’assegnatario ed è stata dallo stesso effettivamente di gestita. Frequentemente una simile circostanza si produce in conseguenza del comportamento tenuto dall’assegnatario, cioè nel caso in cui il disponente abbia ravvisato a posteriori l’inadeguatezza dell’assegnatario rispetto a quelle che egli ritiene essere le modalità corrette ed adeguate di svolgimento del compito attribuitogli. In tale situazione, il comportamento dell’assegnatario produce, quindi, una sorta di lesione della fiducia che il disponente aveva manifestato nei suoi confronti mediante la stipulazione del patto110, cosicché, avvalendosi della condizione risolutiva, il disponente può riportare l’impresa nel proprio patrimonio, sottraendola ad un soggetto che non ha riscontrato le aspettative che erano state riposte nei suoi confronti. 109 Cfr. L. CAROTA, art. 768-quater c.c., in Comm. Cod. Civ. – Delle Successioni, citato da F. VOLPE, L’uso delle pattuizioni accessorie, cit., pagg. 503 ss.. 110 Cfr. F. VOLPE, L’uso delle pattuizioni accessorie, cit., pagg. 503 ss.. 58 E’, peraltro, possibile che la reversibilità del patto sia prevista in relazione ad avvenimenti del tutto diversi da quello considerato qui sopra, quale – ad esempio – la nascita di un nuovo legittimario. E’ ben vero che tale eventualità trova una regolamentazione nella legge (all’art. 768-quater, comma 2°, c.c.), e che quindi il disponente potrebbe non farsene carico. Ma è vero altresì che la norma che regola tale fattispecie ha un contenuto piuttosto penalizzante nei confronti del legittimario sopravvenuto (o comunque non partecipante alla stipulazione del patto: su tale argomento si dirà infra), per cui non è sorprendente che il disponente voglia, invece, predisporre una successione diversa da quella prevista per legge, nell’interesse del legittimario sopravvenuto. In tale ipotesi, quindi, la reversibilità del patto non è pensata al fine di rimediare ad una scelta dell’assegnatario rivelatasi errata, ma ha piuttosto lo scopo di rimettere nelle mani dell’imprenditore la possibilità di determinare la propria successione nell’esercizio dell’impresa, tenendo conto dell’esistenza e dei diritti di tutti i propri discendenti legittimari, ivi inclusi quelli sopravvenuti alla stipulazione del patto. Ancora in tema di elementi che possono essere inseriti nel contratto in applicazione del principio dell’autonomia negoziale, si ritiene legittimo prevedere a carico dell’assegnatario un divieto di alienazione dell’impresa, a condizione che si tratti di un divieto operante per un periodo di tempo limitato (diversamente, si realizzerebbe un’inammissibile compressione dei diritti del proprietario dell’impresa), secondo il disposto, e quindi entro i limiti, dell’art. 1379 c.c.111). 111 Art. 1379 c.c.: «Il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo fra le parti, e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde ad un apprezzabile interesse di una delle parti». 59 7. La liquidazione dei legittimari non assegnatari; disattivazione dei meccanismi della collazione e della riduzione L’attribuzione dell’impresa di famiglia (ovvero delle partecipazioni azionarie di proprietà del disponente) ad uno o più soggetti scelti dal disponente comporta, evidentemente, una rilevante deroga alle norme in tema di successione ereditaria. Tale deroga, che integra «la disattivazione degli ordinari mezzi di tutela» 112 della posizione dei legittimari non assegnatari (ottenuta grazie all’esclusione dei beni trasmessi con il patto da collazione o riduzione, di cui si dirà ampiamente infra) non comporta, peraltro, che questi vengano privati di quanto loro spettante secondo le norme dettate negli artt. 536 ss. del codice civile (ossia, dei diritti riservati ai legittimari): l’art. 768-quater c.c. prevede, quindi, un meccanismo di soddisfazione della loro pretesa successoria (salvo che essi vi rinuncino espressamente), mediante la liquidazione della loro quota in denaro o in natura, ed esige altresì la loro partecipazione all’atto pubblico con cui viene stipulato il patto 113 , affinché il loro consenso alla stipulazione del contratto venga espressamente dichiarato in tale sede e venga riportato nell’atto. La norma in esame prevede, altresì, che con lo stesso contratto – o con altro «che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti» – possano essere attribuiti altri beni ai legittimari non assegnatari. Si ritiene che tali attribuzioni, avendo per oggetto beni diversi da quelli che possono essere oggetto del patto di famiglia (ossia, beni che non sono 112 Cfr. IEVA, La disciplina del patto di famiglia e l’evoluzione degli strumenti di trasmissione dei beni produttivi, Casi e problemi di interesse notarile, 2007, p. 1091. 113 Si osserva che l’art. 768-quater c.c. richiede che «Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore»: tale formulazione è sorprendente perché il coniuge è, inequivocabilmente, un legittimario, cosicché non si comprende perché il legislatore abbia ritenuto di dover menzionare specificamente la sua partecipazione all’atto. 60 caratterizzati dall’avere attitudine produttiva), non facciano «strutturalmente» parte del patto stesso, ma che siano ad esso connessi al fine di agevolarne la stipulazione, perché evidentemente la loro attribuzione ai legittimari è funzionale al raggiungimento di un equilibrio fra gli interessi dei vari soggetti coinvolti114. Inoltre, la normativa sul patto di famiglia, perseguendo – come si è già detto ripetutamente – il fine di rendere inattaccabili le determinazioni del disponente (il che costituisce la differenza sostanziale fra gli effetti del patto di famiglia e quelli della donazione), contiene, sempre all’art. 768-quater c.c., anche disposizioni che escludono l’applicazione della collazione e della riduzione «a quanto ricevuto dai contraenti», cioè sia all’attribuzione dell’impresa all’assegnatario, sia alla liquidazione delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari. SULLA LIQUIDAZIONE DEI LEGITTIMARI NON ASSEGNATARI La norma contenuta nell’art. 768-quater, comma 2°, c.c. sembra non avere dubbi sul fatto che la liquidazione degli altri legittimari debba avvenire ad opera dell’assegnatario («Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto […]»). Al contrario, i dubbi sull’argomento sarebbero legittimi, e difatti molti ne sono stati formulati nel contesto dei commenti alla normativa, considerando che nella realtà è molto verosimile che il destinatario dell’assegnazione dei beni produttivi non sia in condizione, per mancanza di mezzi economici propri, di fare fronte 114 Cfr. IEVA, La disciplina del patto di famiglia e l’evoluzione degli strumenti di trasmissione dei beni produttivi, Casi e problemi di interesse notarile, 2007, p. 1092. Di parere contrario è G. RIZZI (a cura di): Il patto di famiglia, cit., secondo cui la norma in esame ha lo scopo di fare sì che i legittimari non assegnatari siano tenuti ad imputare alla legittima quanto loro corrisposto dall’assegnatario (e non dal disponente), per evitare che, in sede di successione, l’assegnatario sia penalizzato, essendo tenuto ad imputare alla propria quota di legittima il valore dell’azienda ricevuta, laddove gli altri legittimari, non avendo ricevuto nulla dal disponente, non sarebbero tenuti ad imputare alcunché alle proprie quote di legittima. Secondo l’Autore, il disponente può comunque attribuire altri beni di sua proprietà ai legittimari non assegnatari, ma in tale caso il contratto avrebbe un duplice contenuto – di patto di famiglia per quanto riguarda il bene produttivo, e di donazione per quanto riguarda gli altri beni trasmessi. 61 alle pretese degli altri legittimari. Basti considerare che, nella maggioranza dei casi, si tratterà di un soggetto ancora relativamente giovane, che potrebbe non avere ancora maturato esperienze lavorative importanti, e non avere quindi acquisito un patrimonio personale sufficiente a sostenere l’onere della liquidazione degli altri legittimari115. Le interpretazioni date alla norma hanno quindi cercato di individuare se esista, senza forzare il dato legislativo, la possibilità che la liquidazione dei legittimari venga validamente eseguita dallo stesso disponente. A tale quesito, secondo la maggior parte degli studiosi, si può dare risposta positiva: difatti, se si considera che lo stesso art. 768-quater c.c. esclude che quanto assegnato ai partecipanti al contratto sia soggetto a “riduzione” o a “collazione”, se ne dovrà concludere che tali esclusioni si riferiscano a quanto si sarebbe potuto verificare nel corso della successione del disponente, per cui il fatto che gli importi sottratti alla riduzione o alla collazione siano usciti dal patrimonio di quest’ultimo risulta perfettamente congruo con la regolamentazione dell’istituto116. Parte della dottrina ritiene, pertanto, corretto che la liquidazione dei legittimari non assegnatari avvenga ad opera del disponente, ma non in quanto tale, bensì mediante la donazione – diretta o indiretta – all’assegnatario della somma dovuta al fine dell’estinzione del debito verso gli altri legittimari; ovvero in forza di accollo, da parte del disponente, del debito dell’assegnatario; ovvero 115 E’ il caso di segnalare che un recente progetto di riforma del patto di famiglia, inserito nel testo originario del decreto sviluppo (progetto non divenuto legge), prevedeva espressamente che fosse il disponente a farsi carico della liquidazione delle quote dei partecipanti all’atto non assegnatari dei beni produttivi: cfr. DALLE MONACHE, Nuove prospettive sul patto di famiglia, cit, pag. 481. 116 Cfr. L. BALESTRA, Il patto di famiglia a un anno dalla sua introduzione, cit., pagg. 747-748. Di avviso contrario è F. VOLPE, L’imputazione ex se nel patto di famiglia, Famiglia e Diritto, 2014, pag. 628, secondo cui la disposizione qui considerata consentirebbe, eccezionalmente, «di imputare alla quota di legittima – riferita alla successione dell’imprenditore o titolare di partecipazioni – un’attribuzione patrimoniale che non proviene dal di lui patrimonio, bensì dal patrimonio dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni». Contrari a ritenere ammissibile la liquidazione dei legittimari ad opera del disponente sono anche: G. RIZZI (a cura di), Il patto di famiglia, cit. - si veda in proposito la precedente nota 114; L. DONEGANA: Il punto sul patto di famiglia, cit., pag. 972. 62 ancora mediante il semplice adempimento del terzo, con rinuncia alla surrogazione117. In caso di donazione eseguita dal disponente all’assegnatario, questa deve però trovare un bilanciamento in un’analoga disposizione eseguita in favore dei non assegnatari, ai quali dovrebbe pertanto essere eseguita una duplice attribuzione, cioè (a) la liquidazione di quanto loro dovuto a titolo quota di legittima, e (b) una donazione di importo uguale a quella eseguita dal disponente in favore dell’assegnatario118. Naturalmente, tutte le suddette eventualità possono essere praticabili solo in quanto nel patrimonio del disponente vi sia capienza – ossia, vi siano mezzi finanziari o patrimoniali sufficienti – per fare fronte a tutte le operazioni ipotizzabili: mentre, nel caso che una simile disponibilità non vi fosse (e sempre che fosse parimenti impossibile per l’assegnatario procedere al pagamento in favore degli altri legittimari), l’unica possibilità di stipulare il patto di famiglia resterebbe affidata alla disponibilità dei legittimari non assegnatari a rinunciare alle proprie quote, ex art. 768-quater, comma 2°, c.c.. L’ESCLUSIONE DEI BENI TRASMESSI DA COLLAZIONE E RIDUZIONE L’esclusione da collazione e riduzione dei beni trasmessi costituisce l’elemento caratterizzante del patto di famiglia (l’art. 768-quater, comma 4°, c.c., recita, infatti: «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione»), ed è funzionale ad assicurare che tali beni siano sottratti – definitivamente – a qualsiasi pretesa degli altri eredi. Ma anche tale disposizione è solo apparentemente inequivocabile, mentre in realtà solleva gravi problemi di interpretazione, dovuti alla mancanza di un raccordo fra la preesistente normativa in tema di successione e quella recentemente introdotta sul patto di famiglia. 117 118 Cfr. M. IEVA, La disciplina del patto di famiglia, cit., pag. 1093. Cfr. M. IEVA, La disciplina del patto di famiglia, cit., pag. 1093. 63 Il coordinamento fra le attribuzioni eseguite in sede di patto di famiglia e la successione mortis causa del disponente costituisce, infatti, uno dei punti più controversi della normativa sul patto di famiglia; in assenza di norme dal contenuto inequivocabile, esso impone pertanto di procedere ad un’interpretazione, il che ha portato alla formazione di due teorie opposte. Più precisamente: alcuni studiosi ritengono che quanto devoluto mediante il patto di famiglia costituisca una massa del tutto separata dal restante patrimonio, destinato ad essere devoluto nella successione mortis causa, al punto che si è addirittura paragonata la vicenda della trasmissione dei beni produttivi mediante il patto (da un lato) e quella della successione negli altri beni che rimangono nel patrimonio del disponente (dall’altro) alla «successione di due persone diverse»119. Altri ritengono, al contrario, che quanto ricevuto mediante il patto di famiglia vada calcolato, al momento dell’apertura della successione mortis causa, ai fini della riunione fittizia richiesta dall’art. 564, comma 3°, c.c., ed incida pertanto sulla quantificazione delle porzioni di eredità spettanti ai legittimari. In proposito, si osserva innanzitutto che il legislatore, laddove ha sottratto a pretese di riduzione o di collazione sia i beni produttivi trasmessi, sia la liquidazione delle quote dei non assegnatari, ha voluto indicare che nessun altro erede avrebbe potuto avanzare pretese su tali beni. Ciò non significa necessariamente, ed il legislatore non lo ha meglio precisato, che il trasferimento dei beni mediante il patto di famiglia sia escluso dalla riunione fittizia e dalla imputazione ex se, secondo il disposto dell’art. 564 c.c., laddove per riunione fittizia si intende quel meccanismo con cui il legittimario che ha ricevuto una donazione deve collazionarla, cioè riconferirne il valore nell’asse ereditario, così realizzando appunto la riunione fittizia fra i beni donati e quelli residui; mentre l’imputazione ex se è il procedimento mediante il quale 119 TASSINARI, Il patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivo e requisiti formali, Patti di famiglia per l’impresa, nei Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, 2006, pag. 160. 64 la donazione ricevuta da un legittimario viene imputata alla sua quota di legittima120. La dispensa da collazione (e quindi da riunione fittizia) ha l’effetto di permettere al donatario di ritenere il bene, mentre la dispensa da imputazione ha l’effetto di far gravare il lascito sulla porzione disponibile del patrimonio del de cuius. L’art. 768-quater, comma 3°, c.c. si limita ad affermare che gli «altri beni» trasmessi ai non assegnatari in concomitanza con la stipulazione del patto, pur essendo strutturalmente estranei ad esso (cfr. supra) sono imputati alle quote di legittima loro spettanti, al valore loro attribuito in contratto: ma nulla precisa in ordine ai beni produttivi trasmessi con il patto, né alla liquidazione delle quote di legittima in favore dei legittimari non assegnatari121. Nel silenzio della legge, si è formata una tesi interpretativa secondo cui l’assegnatario sarebbe comunque tenuto ad imputare alla propria quota di legittima quanto ricevuto con il patto di famiglia (al netto dell’importo liquidato agli altri legittimari), atteso che la normativa tende sì alla stabilità dell’attribuzione del bene produttivo, ma non vuole «riconoscere al beneficiario anche l’ulteriore vantaggio costituito dall’esenzione legale dell’imputazione ex se, salvo dispensa da parte del disponente, e dalla riunione fittizia» 122. Inoltre, non vi sarebbe giustificazione per derogare al principio generale di cui all’art. 564 c.c.123, la cui applicabilità è espressamente estesa alle liberalità dall’art. 809 c.c.124. Secondo la teoria opposta, invece, né il bene produttivo né la liquidazione delle quote spettanti ai legittimari devono essere imputati alla quota di legittima degli 120 Ovviamente, nel caso di beni attribuiti mediante il patto di famiglia, collazione ed imputazione dovrebbero avvenire per la differenza fra il valore del bene attribuito all’assegnatario e quello da lui liquidato agli altri legittimari. 121 IEVA, Il patto di famiglia, cit., pag. 54. 122 C. CICALA, Patto di famiglia e riunione fittizia del bene produttivo, Famiglia, Persone e Successioni, 2009, pagg. 622 ss.. 123 E. LUCCHINI GUASTALLA, Art. 768-quater c.c., II parte, Il patto di famiglia (a cura di S. Delle Monache), pag. 58. 124 G. RIZZI, Il patto di famiglia, cit. 65 eredi, perché il patto di famiglia avrebbe l’effetto di dare luogo ad una successione anticipata (cioè una successione in vita) del disponente, avente la caratteristica di essere del tutto separata dalla successione mortis causa, nonché priva di alcuna connessione con essa125. Alla stessa conclusione, ovvero alla considerazione che i beni trasmessi con il patto di famiglia rimangano estranei all’asse trasmesso mortis causa, si può pervenire anche considerando il diverso regime della loro stima: difatti, mentre ai beni attribuiti nel contratto ai non assegnatari si deve, per espressa previsione di legge, attribuire il valore che essi hanno al momento della stipulazione del contratto, agli altri beni – trasferiti durante la vita del de cuius, utilizzando il “tradizionale” strumento della donazione – si deve invece attribuire il valore che essi hanno al momento dell’apertura della successione. I due criteri di stima sono, pertanto, disomogenei e, come tali, inapplicabili126, ove si consideri che la finalità della riunione fittizia è di eseguire «una comparazione il più possibile equa tra quanto ricevuto dai legittimari a titolo di successione e quanto conseguito a titolo di liberalità dal de cuius»127. Vi è poi il problema di quantificare le quote di legittima da liquidare ai legitimari non assegnatari. Ovviamente, tale problema non riguarda le percentuali – che sono inequivocabilmente dettate nel codice civile in funzione della composizione del nucleo familiare del de cuius (cfr. artt. 536 ss. c.c.) – bensì la base di calcolo cui esse devono essere applicate. Si consideri, infatti, che ai sensi dell’art. 768-quater, comma 2°, c.c., ai legittimari spetta «il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli artt. 536 ss. c.c.»; quindi, se si devono applicare gli artt. 125 S. DELLE MONACHE, Nuove prospettive sul patto di famiglia, cit., pagg.481-482: si noti che l’autore cita la tesi, senza aderirvi; F. LAUS, Profili oggettivi di tutela dei legittimari nel patto di famiglia, Rivista del Notariato, LXII, pag. 727. 126 C. CICALA, Patto di famiglia e riunione fittizia del bene produttivo, cit., pagg. 622 ss. 127 E. LUCCHINI GUASTALLA, Art. 768 quater c.c., II parte, cit., pag. 59: si noti che l’autore riferisce la tesi qui riportata senza aderirvi (cfr. supra, nota 122). 66 536 ss. c.c., si dovrebbe procedere alla quantificazione del dovuto secondo i criteri che valgono quando si apre la successione mortis causa di un soggetto. Ma qui due questioni si impongono: innanzitutto, se si ritiene che il patto di famiglia realizzi una successione anticipata, totalmente distinta dalla successione mortis causa, non ha alcuna logica affermare che l’assegnatario del patto debba liquidare il legittimario con una somma calcolata sull’intero patrimonio del disponente (inclusi i beni oggetto di eventuali atti di liberalità, come avverrebbe in sede di successione, in applicazione di quanto previsto dagli artt. 536 ss.), anziché essere rapportata al valore del bene trasmesso mediante il patto di famiglia. Inoltre, poiché la liquidazione della quota ai legittimari va eseguita contestualmente alla stipulazione del patto di famiglia, l’applicazione rigorosa degli artt. 536 ss. c.c. in tale sede farebbe sì che la quantificazione della quota dei legittimari non assegnatari venisse eseguita su beni che non sono ancora stati devoluti dal disponente. E’ di tutta evidenza che in tale modo il valore delle quote da liquidare ne verrebbe alterato, finendo per risultare sproporzionato rispetto al valore dell’azienda trasmessa (in estrema ipotesi, potrebbe addirittura risultare superiore al valore dell’intera azienda), con conseguente grave pregiudizio a carico dell’assegnatario, che nell’immediato si troverebbe «costretto ad effettuare degli esborsi in misura pari o addirittura superiori al valore di quanto ricevuto dall’imprenditore o dal socio»128. Tale paradosso – che tra l’altro si pone in antitesi con il generale favor mostrato dalla normativa nei confronti dell’assegnatario – è stato superato, dalla maggior parte dei commentatori della norma, interpretando il richiamo agli artt. 536 ss. c.c. contenuto nell’art. 768-quater c.c. come uno strumento volto unicamente ad indicare la misura percentuale delle quote spettanti ai legittimari, il cui valore deve però essere calcolato però con riferimento al valore del bene oggetto del 128 Cfr. L. BALESTRA, Il patto di famiglia a un anno …, cit., pag. 745. 67 patto e non all’intero asse ereditario del disponente, in modo da evitare una situazione fortemente penalizzante per l’assegnatario129. La liquidazione delle quote in favore dei non assegnatari può essere eseguita, su accordo delle parti, «in tutto o in parte in natura». Al riguardo, si segnala che la formulazione della norma, e la stessa scelta del termine «liquidazione», concorrono ad indicare che il pagamento in denaro costituisce la modalità ordinaria, tipica, con cui l’assegnatario deve procedere alla soddisfazione dei non assegnatari, laddove la corresponsione di beni in natura rappresenta, invece, l’eccezione: non a caso, tale modalità può essere applicata solo a seguito di espresso accordo fra le parti. A tale interpretazione viene però sollevata un’interessante osservazione da parte di chi segnala che, ove si consideri la soddisfazione attuata in natura come una datio in solutum, si apre la possibilità alla qualificazione di tale atto come una “mezzo anormale di pagamento”, con quanto ne consegue in sede fallimentare130. Merita segnalare che un esame della normativa condotto sotto una luce eminentemente pratica 131 perviene alle seguenti conclusioni: da un lato, la liquidazione dei legittimari da parte dell’assegnatario deve essere eseguita utilizzando come base di calcolo il valore che l’azienda ceduta ha nel momento in cui viene stipulato il patto di famiglia, determinandolo preferibilmente mediante una perizia di stima (benché la legge non richieda tale procedimento), o quantomeno mediante una situazione patrimoniale da allegare al contratto; dall’altro, l’assegnatario deve imputare l’azienda trasmessa mediante il patto di famiglia alla propria quota di legittima (perché così vuole il combinato disposto degli artt. 809 e 564 c.c.), e lo stesso devono fare gli altri legittimari con i beni che hanno ricevuto a titolo di liquidazione della loro quota. Alla luce di tale 129 Cfr. G. PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, cit.; G. RIZZI (a cura di): Il patto di famiglia, cit.; F. LAUS, Profili oggettivi di tutela dei legittimari nel patto di famiglia, cit., pag. 723. 130 L. DONEGANA, Il punto sul patto di famiglia, cit., pag. 971. 131 E’ quello che si trova in G. RIZZI (a cura di): Il patto di famiglia, cit., pagg, 429 ss. 68 interpretazione, l’art. 768-quater, comma 3°, c.c. avrebbe la finalità di mettere sullo stesso piano, ai fini successori, quanto ricevuto dall’assegnatario (cui l’azienda viene trasmessa dal disponente) e quanto ricevuto dagli altri legittimari (la cui liquidazione è posta a carico dell’assegnatario). Le conseguenze pratiche della scelta di ritenere applicabile l’una o l’altra delle teorie sono molto rilevanti. Si consideri il caso di un soggetto che mediante il patto di famiglia trasferisce ad un figlio un’impresa di valore 30. L’assegnatario liquida al fratello (assumendo che i due figli siano gli unici legittimari) la sua quota di legittima, pari a 10. Supponendo che alla morte del padre il patrimonio relitto abbia il valore di 30 e che il padre lo abbia destinato interamente, per testamento, al figlio non assegnatario dell’impresa, potrà avvenire che il figlio assegnatario agisca in riduzione della disposizione testamentaria, sostenendo di avere diritto alla legittima (pari a 1/3) sul patrimonio relitto del padre. Tale pretesa risulterà fondata se si segue la tesi secondo cui i beni attribuiti con il patto di famiglia non devono essere imputati alla legittima dell’assegnatario (perché, in tale caso, è come se questi non avesse ricevuto ancora nulla); mentre risulterà infondata, se si segue la tesi secondo cui i beni ottenuti mediante il patto devono essere imputati ex se alla legittima (perché in tale caso il valore 20 rimasto nel patrimonio dell’assegnatario corrisponde a 1/3 del totale valore del patrimonio, costituito dall’impresa assegnata mediante il patto di famiglia e dal patrimonio relitto)132. Come si è detto, la normativa vigente non fornisce una risposta certa al dubbio interpretativo di cui si è detto (anzi, è la normativa vigente che ne è la causa): dovendo operare una scelta fra le due interpretazioni – comunque entrambe fondate su argomentazioni pregevoli – sembra preferibile la teoria secondo cui i 132 Il recente progetto di riforma del patto di famiglia, inserito nel testo originario del decreto sviluppo avrebbe potuto eliminare le incertezze, poiché prevedeva espressamente che tutte le attribuzioni eseguite con il patto dovessero essere imputate alla quota di legittima di ciascun assegnatario: cfr. DALLE MONACHE, Nuove prospettive sul patto di famiglia, cit., pag. 482. 69 beni attribuiti con il patto di famiglia non devono essere oggetto di collazione né di imputazione ex se, perché essa appare più in linea – rispetto all’altra tesi – con la volontà del legislatore di attribuire al patto di famiglia una stabilità che lo ponga al riparo da qualsiasi tipo di contestazione futura. Si pone poi il problema di individuare qual è il momento in cui i legittimari non assegnatari devono essere soddisfatti. Ovviamente, non solleva particolari perplessità il caso in cui il contratto abbia efficacia immediata, perché in tale caso la liquidazione dei legittimari non assegnatari deve avvenire contestualmente alla trasmissione del bene produttivo all’assegnatario, anche in forma dilazionata133. Ma si è già visto al precedente § 6 che al patto di famiglia possono essere apposti elementi accidentali, la cui finalità è di differire nel tempo il momento in cui esso diviene efficace, ad esempio rinviandola al momento della morte del disponente: in tale caso, dunque, occorre chiedersi se il differimento dell’efficacia comporti anche differimento della liquidazione dei non assegnatari. Se alla domanda si dà risposta negativa, ne rimane fortemente condizionata, in negativo, la possibilità che elementi accessori del contratto quali condizione sospensiva e termine iniziale vengano applicati. Come si è già osservato in precedenza, sarebbe infatti economicamente rischioso per l’assegnatario obbligarsi a pagare immediatamente quanto dovuto agli altri legittimari, pur non potendo entrare altrettanto rapidamente nel possesso dei beni attribuitigli, ed esponendosi all’alea di ricevere, in futuro, un bene produttivo di valore depauperato rispetto a quello indicato in contratto134. A tale interpretazione se ne oppone un’altra, secondo la quale, nel caso in cui il patto di famiglia sia destinato a spiegare i suoi effetti in un momento non 133 G. RIZZI (a cura di): Il patto di famiglia, cit.. Secondo l’Autore, in tal caso dovrebbe comunque essere esclusa la subordinazione del passaggio del bene produttivo all’avvenuta completa esecuzione dei pagsmenti in favore dei legittimari non assegnatari. 134 Cfr. M. IEVA, Art. 768-quater c.c., 1^ parte, in Il Patto di Famiglia (a cura di Delle Monache), pag. 54. 70 coincidente con la stipulazione del contratto, non si può verificare la “cristallizzazione” del valore dei beni alla data del contratto: in tale situazione, quindi, anche la valutazione del bene produttivo dovrebbe essere rinviata fino al momento dell’efficacia del contratto, dovendosi soltanto stabilire già nel testo contrattuale i criteri da applicare nella valutazione. Né, una volta che fosse stato differito il momento dell’acquisizione di efficacia del contratto, sarebbe concepibile l’esecuzione della liquidazione dei legittimari non assegnatari prima ancora che il patto divenga efficace135. In tale ottica, evidentemente, si restituisce ragionevolezza alle possibilità che il contratto sia sottoposto a clausola sospensiva, o a termine iniziale, ovvero anche a clausola risolutiva (considerando che anch’essa, pur consentendo all’assegnatario di subentrare immediatamente nella gestione del bene produttivo, comporta un’alea quanto alla stabilità dell’assegnazione, ed espone l’assegnatario al rischio di perdere l’azienda, dopo avere liquidato gli altri legittimari), laddove tali ipotesi apparirebbero invece ben poco praticabili seguendo la teoria della cristallizzazione del valore del bene produttivo. Occorre, peraltro, osservare che la grande maggioranza dei commentatori non condivide tale impostazione, ritenendo che il valore del bene azienda debba essere stimato alla data della stipulazione del patto di azienda, non essendo sufficiente la mera determinazione in contratto dei criteri di valutazione da applicare. 135 Cfr. L. BALESTRA, Il patto di famiglia a un anno dalla sua introduzione, cit., pagg. 739-740. 71 III ASPETTI PATOLOGICI DEL PATTO DI FAMIGLIA Sommario: 1. Premessa. – 2. L’impugnazione per vizi del consenso e altre cause di annullamento. Legittimazione, prescrizione e conseguenze dell’azione di annullamento. – 3. Nullità per mancata partecipazione dei legittimari non assegnatari. – 4. La rescissione per lesione e la risoluzione – 5. L’impugnazione del patto di famiglia per il mancato pagamento delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari. – 6. Lo scioglimento e la modifica del patto di famiglia: requisiti del contratto. – 7. Controversie 1. Premessa Come già anticipato al Capitolo I, lo scopo dell’istituto del patto di famiglia consiste nel dare stabilità al passaggio generazionale dell’azienda familiare, con un’anticipazione temporale delle vicende legate all’apertura della futura successione. Dunque una parte del patrimonio dell'imprenditore disponente viene “isolata” o “cristallizzata” ai fini successori; tuttavia è nella natura di ogni cosa il costante mutamento, perciò è necessario indagare come eventuali alterazioni dei rapporti patrimoniali e/o personali tra le parti possano riflettersi sul patto. Le situazioni concrete che si possono venire a creare sono le più varie e disparate in quanto ogni famiglia ha le proprie caratteristiche umane, caratteriali e patrimoniali, che assai spesso coinvolgono non solo un nucleo familiare, ma più persone, o meglio più famiglie sia in linea verticale che orizzontale; assai di frequente il passaggio generazionale interessa un gruppo di famigliari, dal nonno al nipote, dallo zio al cugino, ciascuno con un proprio coniuge. Basti pensare al quotidiano per comprendere come la stipula di un patto di famiglia coinvolga non solo i potenziali legittimari in senso tecnico, ma anche altri soggetti, coniugi, parenti, terzi che sono in qualche modo interessati. Il legislatore dimostra di aver avuto presente l’eventualità del verificarsi di tali mutamenti eppure è intervenuto timidamente sul profilo della patologia del patto di famiglia, limitandosi a disciplinare espressamente il solo rimedio 72 dell’annullamento (peraltro in conseguenza anche di un inadempimento), lasciando ai giudici (e alla dottrina) l’onere di far emergere ulteriori rimedi attraverso l’interpretazione del complesso normativo. Purtroppo, se da una parte la dottrina tra il 2006 (anno di entrata in vigore della legge che ha introdotto i patti di famiglia nel panorama del diritto italiano) e oggi, ha sfornato un considerevole numero di contributi, non ugualmente si può dire della giurisprudenza, anzi. Ad oggi non risulta pubblicata alcuna sentenza di merito o di legittimità in tema di annullamento, risoluzione o altro rimedio contro un patto di famiglia, cosicché tutte le ipotesi interpretative che di seguito verremo ad esporre trovano origine dalla sola dottrina. Nei prossimi paragrafi approfondiremo dunque gli istituti dell’impugnazione per vizi del consenso di cui all’art. 768-quinquies c.c. (§ 2), la nullità per mancata partecipazione al patto di famiglia dei legittimari non assegnatari (§ 3) la rescissione per lesione e la risoluzione (§ 4), l’impugnazione del patto di famiglia per il mancato pagamento delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari (§ 5) e infine lo scioglimento e la modifica del patto di famiglia (§ 6). Da ultimo ci soffermeremo sulle controversie in materia di patto di famiglia e sul procedimento di conciliazione stragiudiziale (§ 7). 2. L’impugnazione per vizi del consenso. Legittimazione, prescrizione e conseguenze dell’azione di annullamento L’art. 768-quinquies c.c. così dispone: I. Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti. II. L'azione si prescrive nel termine di un anno. 73 Il legislatore ha previsto che il patto di famiglia possa essere impugnato per i classici vizi del consenso136 in virtù del rinvio operato dalla norma in parola. Si tratta di norma criticata da molta parte della dottrina perché ritenuta pleonastica dal momento che il patto di famiglia è un contratto137 e perciò solo sarebbe stato comunque assoggettato alle regole generali in materia di contratti, comprese quelle che attengono alla fase patologica del rapporto. A interpretazione della scelta legislativa, in dottrina si è sostenuto che probabilmente la decisione di specificare che il patto di famiglia è sottoposto alle norme in tema di vizi del consenso dipende dalla considerazione che il patto di famiglia potrebbe essere terreno fertile per il verificarsi dei classici vizi del consenso, cosicché con lo specifico rinvio agli artt. 1427 e ss. c.c. non si è voluto lasciare spazio a dubbi interpretativi. Si ritiene, difatti, che tale rinvio si estenda sino a comprendere la possibilità di convalidare il contratto annullabile ai sensi dell’art. 1444 c.c., ove per convalida si intende il rimedio attraverso il quale chi avrebbe diritto a chiedere l’annullamento del contratto esprima, al contrario, una valutazione positiva di adeguatezza ai suoi attuali interessi di quel regolamento contrattuale, fissando definitivamente il valore impegnativo della regola negoziale e stabilizzando quindi gli effetti derivanti dal contratto annullabile138. 136 Art. 1427 c.c.: «Il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l'annullamento del contratto secondo le disposizioni seguenti»; art. 1428 c.c.: «L'errore è causa di annullamento del contratto quando è essenziale ed è riconoscibile dall'altro contraente»; art 1434 c.c.: «La violenza è causa di annullamento del contratto, anche se esercitata da un terzo»; art. 1439 c.c.: «Il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l'altra parte non avrebbe contrattato. II. Quando i raggiri sono stati usati da un terzo, il contratto è annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio». 137 In particolare è un contratto a forma solenne, consensuale in quanto il semplice consenso legittimamente espresso dalle parti produce immediatamente il trasferimento dei diritti relativi all’azienda e/o alle partecipazioni societarie in capo all’assegnatario a titolo gratuito , avvenendo il trasferimento dei beni e dei diritti da parte del disponente senza corrispettivo, con le caratteristiche proprie degli atti di liberalità, pur non essendo il patto di famiglia una donazione. 138 PIAZZA G., La convalida nel diritto privato. I. La convalida espressa, Napoli, 1973, 108 s.; ROPPO V., Il contratto, cit., 850. 74 Unica eccezione all’integrale rinvio al complesso normativo sui vizi del consenso è rappresentata dal termine di prescrizione, che per la domanda di annullamento del patto di famiglia non è quinquennale come previsto per i vizi del consenso nella normativa sui contratti in generale, ma, per espressa previsione dell’art. 768-quinquies, comma 2°, c.c., annuale, così da conferire maggiore stabilità e certezza degli effetti al patto di famiglia. Veniamo ora all’esame dei singoli vizi del consenso. Errore: tra le cause di impugnazione, assume evidentemente maggior importanza l'errore. Perchè il patto di famiglia possa essere annullato, l’errore deve essere caratterizzato dagli elementi previsti dalla normativa codicistica, ovvero deve essere essenziale ai sensi dell’art. 1429 c.c.139 e riconoscibile140. A tal proposito le fattispecie maggiormente frequenti potranno essere quelle relative all'errore sull'oggetto del contratto (a fronte, ad esempio, di partecipazioni relative a società la cui consistenza patrimoniale non è nota ai contraenti; ovvero a complessi aziendali di cui non si conoscono le dimensioni dell'avviamento, i crediti, i debiti aziendali, ecc.). Appare opportuno, quindi, far precedere la stipula del patto di famiglia da apposite perizie, che identifichino con certezza l'oggetto del trasferimento. La previsione della necessità che il patto sia stipulato per atto pubblico, con l'obbligatoria indagine della volontà delle parti da compiersi ad opera del notaio, assicura d'altronde, almeno in parte e soprattutto per quanto attiene 139 «L'errore è essenziale: 1) quando cade sulla natura o sull'oggetto del contratto; 2) quando cade sull'identità dell'oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso; 3) quando cade sull'identità o sulle qualità della persona dell'altro contraente, sempre che l'una o le altre siano state determinanti del consenso; 4) quando, trattandosi di errore di diritto, è stato la ragione unica o principale del contratto». 140 Art. 1431 c.c.: «L'errore si considera riconoscibile quando in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo». 75 all'eventualità dell’errore di diritto, la conoscenza da parte dei contraenti dei termini del contratto, dei relativi presupposti e del relativo significato. La fattispecie che probabilmente si presenterà con maggiore frequenza è quella del patto che assegni partecipazioni in società, o complessi aziendali, la cui effettiva consistenza patrimoniale sia di difficile individuazione. In questo caso si potrebbe verificare un errore sull’oggetto del contratto, o meglio sulle qualità essenziali del bene assegnato 141 . La dottrina ha distinto tra (i) errore nella determinazione del valore dei beni oggetto del patto ed (ii) errore sulla redditività dei medesimi: il primo va considerato quale errore incidente sul metodo di determinazione dei valori attribuibili all’oggetto dell’assegnazione, qualora ad esempio per determinare il valore dell’azienda non si sia tenuto conto di un ramo di essa; dunque tale errore si qualificherà come errore sulla qualità del bene (e non sui redditi che si spera di poterne trarre). Vanno distinte due ipotesi: la prima, in cui il valore attribuito al bene assegnato derivi da una decisione arbitraria dei contraenti, in quanto in tal caso l’eventuale relativo errore in cui una delle parti lamenti di essere incorsa rimane irrilevante, perché cade sulla convenienza del contratto142; la seconda, in cui invece il valore del bene emerga da una perizia di stima, ed in tale caso rileverà l’errore relativo al metodo di stima adottato, non invece quello sui risultati raggiunti, salvo che risulti da errore materiale (es. il prezzo di borsa delle quotazioni delle azioni), e quindi assumono rilevanza i casi in cui il perito non adotti i criteri stabiliti dalle parti o non li utilizzi a dovere. L’errore sub (ii), vale a dire l’errore sulla redditività dei beni oggetto del patto, è invece da farsi rientrare nella categoria dell’errore sui motivi143, in quanto tale giuridicamente irrilevante: il beneficiario che aderisce al patto in virtù delle 141 L’errore sul valore commerciale è di per sè irrilevante. E’ il caso in cui, ad esempio, il legittimario non assegnatario, in mancanza di una stima dell’azienda il cui valore viene determinato forfettariamente tra le parti, aderisce al patto che prevede una liquidazione della propria quota, che non rispecchia il reale valore dell’azienda. 143 I motivi costituiscono lo scopo individuale che ha spinto un soggetto a porre in essere un negozio giuridico. 142 76 aspettative future di reddito derivante dall’azienda, non potrà invocare l’annullamento per errore, se la sua speranza non si concretizzerà.144 L’errore può invece cadere sulla natura del contratto, nel caso in cui l’assegnatario si sia ingannato, non comprendendo di essere tenuto personalmente al pagamento delle somme spettanti ai non assegnatari; ovvero qualora un legittimario non assegnatario, in mancanza di corrispettivo versato dal beneficiario al disponente, ritenga trattarsi di donazione, mentre invece aderendo al patto ha rinunciato all’azione di riduzione. Si deve poi considerare un’altra fattispecie di possibile errore, ossia quello dell’errore sulle qualità soggettive dell’assegnatario, o sull’esistenza di un requisito necessario per l’utilizzo dell’azienda secondo la sua destinazione economica (assenza delle autorizzazioni richieste dalla legge per l’esercizio dell’azienda o l’assenza dei requisiti sanitari o di sicurezza sul lavoro in relazione all’immobile aziendale). Non rappresenta causa di annullamento l’errore di calcolo (ad esempio nella liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari: l’azienda viene stimata 100, i legittimari non assegnatari sono 4, a ciascuno viene liquidato 30), che al più potrà dare luogo ad una mera rettifica (art. 1430 c.c.). Gran parte degli autori sostengono che i legittimari o i discendenti potrebbero impugnare il patto solo per errore sulla qualità essenziale della cosa, non invece per errore sul valore della stessa, 145 sia per la mancanza di una specifica disposizione in tal senso, sia perché tale possibilità sarebbe in contrasto con le regole del diritto contrattuale. 144 FERRARI G., Il patto di famiglia, Giuffrè, 2012, p. 284 ss.; F. GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giustizia Civile 2006, II, pag. 220 «Forse, ma la questione è ben dubbia, i discendenti o i legittimari, se il valore pattuito per la liquidazione fosse nettamente superiore o inferiore a quello reale, potrebbero, se del caso, tentare di invocare l’errore sulla qualità essenziale della cosa, cioè dell’azienda, posto che quello sul valore commerciale è di per sé irrilevante. Per la partecipazione societaria, in caso di società di capitali, il problema è complicato dallo schermo della persona giurdica, salvo ritenere che i beni sociali non possano considerarsi estranei all’oggetto del contratto di cessione della partecipazione (da cui si potrebbe argomentare per i rapporti tra discendenti e legittimari), con rilevanza quindi non solo dell’errore sulla qualità, ma anche, per i discendenti, dell’aliud pro alio e della mancanza della qualità promessa ex art. 1497 c.c.». 145 77 Violenza: il caso di violenza morale, riferita alla stipulazione del patto di famiglia, non si discosta dalla normale fattispecie che, in generale, dà luogo a tale causa di annullamento del contratto: la violenza morale si produce, pertanto, a fronte di una minaccia, che abbia i requisiti individuati dalla giurisprudenza di legittimità. Il patto di famiglia sarà, dunque, annullabile per violenza, «qualora uno dei contraenti subisca una minaccia specificamente finalizzata a estorcere il consenso alla conclusione del contratto, proveniente dal comportamento posto in essere dalla controparte o da un terzo, e risultante di natura tale da incidere, con efficienza causale, sul determinismo del soggetto passivo, che, in assenza della minaccia, non avrebbe concluso il negozio» (cfr. Cass. 12 marzo 10, n° 6044, in Guida al diritto 2010, 15, 67). La regola per valutare se si sia in presenza di una minaccia rilevante agli effetti dell’annullabilità del contratto richiede di verificare preliminarmente se il male prospettato al soggetto passivo possa ritenersi ingiusto, prima che notevole. Può essere, infatti, che il male prospettato sia contrario al diritto in sé e per sé, ad esempio se si minacci il compimento di una violenza alla persona o alle cose, mentre non lo sarebbe qualora avesse per oggetto l’esercizio di un diritto spettante al “minacciante”. Tuttavia anche l’esercizio di un diritto, che in astratto non costituisce minaccia di male ingiusto, può assumere tale consistenza allorché sia sproporzionato, ovvero sia esercitato in mala fede ed abusivamente, e denoti, in definitiva, un impiego strumentale del diritto, finalizzato al perseguimento di un fine altrimenti non ottenibile. Per essere rilevante, la minaccia deve essere seria, nel senso che essa deve avere un contenuto idoneo a fare impressione ad una persona sensata, ovvero consistere in una prospettazione credibile di conseguenze negative a suo carico. Ad esempio, si dovrà escludere che costituisca minaccia, idonea ad integrare violenza, il caso in cui venga ventilata la diseredazione al legittimario che si rifiuti di partecipare al patto, essendo notorio ― e comunque facilmente accertabile da chiunque ― che il nostro ordinamento non ammette tale facoltà. 78 Qualora manchi invece qualsiasi comportamento tendente ad esercitare, anche in maniera implicita, purché evidente, una pressione finalizzata a coartare il legittimario, deve escludersi che il semplice timore in capo al futuro erede giustifichi l’annullamento del patto per violenza. Dolo: per quanto riguarda il dolo, la Cassazione ha fissato il principio secondo cui «In tema di vizi del consenso, il dolo, a norma dell'art. 1439 c.c., è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da una parte abbiano determinato la volontà a contrarre del deceptus, avendo ingenerato in lui una rappresentazione alterata della realtà, che abbia provocato nel suo meccanismo volitivo un errore essenziale ai sensi dell'art. 1429 c.c. In particolare, ricorre il dolus malus solo se, in relazione alle circostanze di fatto e personali del contraente, il mendacio sia accompagnato da malizie ed astuzie volte a realizzare l'inganno voluto ed idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza e sussista, quindi, in chi se ne proclami vittima, assenza di negligenza o di incolpevole ignoranza» (Cass. 23 giugno 2009, n° 14628, in Giust. civ. Mass. 2009, 6, 963). L’annullamento potrà aversi anche se il dolo riguardi il valore del bene, perché ciò incide sulla libera determinazione del soggetto interessato: si pensi ad esempio al caso in cui ad una parte sia stata comunicata una quotazione falsa delle partecipazioni oggetto del patto. E’ interessante notare come l’errata indicazione del valore dell’azienda non rilevi ai fini dell’annullamento per errore, mentre sia decisiva se derivi dagli artifici e raggiri posti in essere da chi voglia condizionare l’accettazione del patto. Anche il dolo, come la violenza, può essere posto in essere sia da una delle parti sia da un terzo: tuttavia in quest’ultimo caso il dolo è causa di annullamento solo a condizione che i raggiri posti in essere fossero noti al contraente che ne ha tratto vantaggio, anche laddove questi non ne fosse partecipe. I contraenti che traggono vantaggio dal dolo del terzo sono quelli che ricevono un’attribuzione (azienda o partecipazioni) che altrimenti il disponente avrebbe tenuto per sé; 79 ovvero il beneficiario, allorché il dolo abbia avuto l’esito di indurre i legittimari a rinunciare in tutto o in parte al valore loro spettante, ovvero di attribuire loro (ad esempio in forza di una perizia falsa) una quota inferiore rispetto a quella cui avrebbero avuto diritto in relazione al reale valore dell’azienda; ovvero ancora il legittimario non assegnatario allorché, in forza di perizia falsa, riceva una liquidazione maggiore di quella che gli sarebbe spettata. Come anticipato, al patto di famiglia, trattandosi di contratto, si applicano le regole generali dei contratti, quindi anche quella che dispone l’annullabilità del contratto qualora una delle parti fosse incapace di contrattare (art. 1425 c.c.), ovvero incapace d'intendere o di volere (art. 428 c.c.) al momento della sua manifestazione del consenso. Sono legalmente incapaci di contrattare coloro che non hanno ancora acquistato la legale capacità di agire (minori di anni diciotto) e coloro che, avendola acquistata, l’hanno successivamente perduta (gli interdetti, i condannati all’ergastolo in stato di interdizione legale). In tali casi, a partecipare al patto dovranno essere i loro rappresentanti (genitore, tutore o curatore) muniti di giusti poteri e con le autorizzazioni necessarie a compiere atti di straordinaria amministrazione. Sul punto vale quanto già riferito al § I.4 riguardo agli interdetti, inabilitati, minori e beneficiari dell’amministrazione di sostegno. Teoricamente, si potrebbe verificare anche il caso del partecipante al patto che sia incapace di intendere e volere (in quanto infermo mentale non ancora interdetto o inabilitato, ovvero incapace per cause transitorie, quali l’ubriachezza, l’intossicazione da sostanze stupefacenti, ecc.): ma, data la necessità che il patto di famiglia sia stipulato nella forma dell’atto pubblico, è lecito aspettarsi che la presenza del notaio, e l’accertamento che egli è tenuto a svolgere in ordine alla piena consapevolezza e capacità di coloro che contraggono, siano garanzie sufficienti a declassare tali evenienze a semplici casi di scuola non riscontrabili all’atto pratico. Ulteriore ipotesi di possibile annullamento del contratto si verifica quando il disponente è coniugato in regime di comunione di beni, e l’azienda rientri tra i 80 beni in comunione immediata: in tale caso, per la stipula del patto di famiglia sarà necessario (ai sensi e per gli effetti degli artt. 180 e 184 c.c.) il consenso del coniuge, cosicché in difetto di tale consenso il patto sarà annullabile146. La legittimazione a far valere l’annullamento del patto è attribuita al partecipante (o ad un suo erede) tutelato dalla norma di legge invocata (colui che è incorso in errore, colui che è stato vittima di dolo, ecc.) ― ovvero del coniuge in comunione dei beni che non ha prestato il proprio consenso ― entro il breve termine di un anno. Vi è però l’importante eccezione per cui l’annullamento può essere opposto da parte di chi è convenuto per l’esecuzione del patto di famiglia, anche se l’azione di annullamento è prescritta. Quanto alla decorrenza del termine annuale, pare corretto ritenere che essa debba essere individuata facendo ricorso alle disposizioni generali sull’annullamento dei contratti: di conseguenza, il termine annuale decorrerà dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto l’errore o il dolo (art. 1442, comma 2°, c.c.) 147 , o dal compimento della maggiore età per il minorenne, anche se esiste una corrente dottrinale148 che fa coincidere il dies a quo con la data di apertura della successione, ed un’altra che lo fa invece coincidere con il momento di costituzione in mora dei debitori, cioè dei beneficiari del patto di famiglia. Infine, il termine per chiedere l’annullamento del contratto decorrerà dalla scoperta dell’esistenza del patto di famiglia da parte del coniuge che non ha prestato il consenso necessario, in caso che il contratto abbia per oggetto beni in comunione . E’ discussa l’applicabilità al patto di famiglia dell’art. 2941, n. 1, c.c., che prevede la sospensione della prescrizione nei rapporti tra coniugi. Prevale la tesi 146 Del patto di famiglia che prevede un disponente in comunione dei beni si è già trattato al § I.2. 147 Così M.C. LUPETTI, Patto di famiglia. Note a prima lettura, in CNN Notizie, 14 febbraio 2006, 3; G. RECINTO, Il patto di famiglia, in Diritto delle successioni, a cura di Calvo, G. PERLINGERI, Napoli, 2008, pag. 644; G. PETRELLI, La nuova disciplina dela “patto di famiglia”, in Rivista del Notariato 2006, 2, pag. 457; P. VITUCCI, Ipotesi sul patto di famiglia, in Rivista del diritto civile 2006, pag. 455 nota 22. 148 R. D’IPPOLITO I Rapporti con i terzi e la tutela dei non partecipanti, Il Patto di famiglia, Atti e contratti nel diritto civile e commerciale, Torino, 2007, pag. 201. 81 negativa, poiché tale causa di sospensione non dovrebbe trovare applicazione qualora, come accade nel patto di famiglia, la partecipazione all’atto da parte del coniuge che ha interesse all’annullamento sia necessaria, e non eventuale. Da ultimo, veniamo ed esporre quali sono le conseguenze pratiche dell’accoglimento della domanda giudiziale di annullamento del patto di famiglia. Anzitutto va ricordato il carattere retroattivo del rimedio: laddove il contratto venga annullato, si produce la totale cancellazione di tutti i suoi effetti giuridici, come se il negozio non fosse mai venuto a esistenza. In pratica, dovranno essere restituite tutte le prestazioni eventualmente eseguite in adempimento del negozio annullato: a) viene annullato il trasferimento dell’azienda, e a ciò consegue il ripristino della titolarità del bene produttivo in capo al disponente; b) viene meno l’aspetto della tacitazione delle ragioni dei legittimari non assegnatari, per cui la liquidazione delle loro spettanze ― con una somma corrispondente alle quote di legittima che essi possono vantare (v. art. 536 ss c.c.), ovvero, in alternativa, con beni in natura di valore equipollente rispetto alle dette quote di legittima ― è soggetta all’obbligo di restituzione; c) non opera più l’esenzione dalla collazione e dall’eventuale esperimento dell’azione di riduzione per cui i legittimari non assegnatari rientrano nella piena titolarità dei diritti di legittima; d) unica eccezione è la salvezza dei diritti dei terzi in buona fede (che per esempio hanno acquistato l’azienda o le quote della società dal beneficiario) a patto che tali diritti non siano sorti successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale di annullamento (art. 1445 c.c.). 82 3. Nullità per mancata partecipazione dei legittimari non assegnatari Ai §§ I.1 e I.3, si è detto chi sono i soggetti che secondo l’art. 768-quater c.c. «devono partecipare» al patto di famiglia (disponente, assegnatario e legittimari non assegnatari). Va ora indagato quali siano le conseguenze della mancata partecipazione di tutti i predetti soggetti. (A) Secondo un primo orientamento dottrinale 149 sarebbe necessaria la partecipazione all’atto di tutti i legittimari, pena la nullità del patto di famiglia. La tesi si fonda sul dato letterale dell’art. 768-quater c.c. e sull’esame dei lavori preparatori della legge istitutiva. Si è anche osservato in proposito che l’intervento dei legittimari non assegnatari sarebbe stato previsto come indispensabile dal legislatore, proprio per il sacrificio che essi subirebbero con la necessaria liquidazione della loro quota di riserva. Conseguenza diretta della loro mancata partecipazione all’atto sarebbe, quindi, la nullità del patto, che deriverebbe vuoi dalla disposizione di cui all’art. 1418 c.c., e quindi dalla violazione di una norma imperativa (l’art. 768-quater c.c.); vuoi – secondo alcuni autori – dalla natura sostanzialmente divisoria del patto di famiglia, e quindi dall’applicazione analogica della norma, in tema di divisione, che prevede la necessaria partecipazione all’atto di coloro che hanno acquistato diritti sull’immobile, 149 N. DI MAURO, Il Patto di Famiglia, Commentario alla Legge 14 febbraio 2006 n. 55, Le Nuove Leggi Civili, di N. DI MAURO- E. MINERVINI- V. VERDICCHIO, Milano, 2006, p. 41 e ss.; AMADIO, Patto di famiglia e funzione divisionale, in Rivista di diritto civile, 2007., p. 886; F. GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia,Giustizia Civile,2006, II,, p. 218 e ss.; I. AMBROSI e F. BASILE, Le nuove norme in tema di patto di famiglia, in Famiglia persone successioni, 2006, p. 376; A. MERLO, Divieto dei patti successori e attualità degli interessi tutelati, Profili civilistici del Patto di famiglia, in Patti di famiglia per l’impresa, Quaderni della fondazione italiana per il notariato, Milano, 2006, p. 106 e ss.; B. INZITARI, P. DAGNA, V. FERRARI, V. PICCININI, Il Patto di Famiglia, Negoziabilità del diritto successorio con la legge 14 febbraio 2006 n. 55, Torino, 2006, p. 105; A. ZOPPINI, Profili sistematici della successione "anticipata", in Rivista di diritto civile, 2007, p. 292). 83 affinché la divisione abbia efficacia nei loro confronti (art. 1113, comma 3°, c.c.). (B) Altra parte della dottrina 150 ritiene invece che il patto sia un contratto naturalmente bilaterale. La tesi secondo cui la partecipazione di tutti i legittimari sarebbe facoltativa è sostenuta dall’orientamento in esame sulla base di una serie di argomenti letterali. Anzitutto, la norma definitoria del patto di famiglia (l’art. 768-bis c.c.) mette in primo piano l’accordo tra disponente e assegnatario, tralasciando la figura dei non assegnatari. In secondo luogo, lo stesso art. 768-sexies, comma I, c.c. fa riferimento a legittimari che non hanno partecipato al patto, potendosi ritenere che tale definizione si riferisca anche a chi era già legittimario al momento della stipula. L’art. 768-quater, comma 3°, c.c. prevede, poi, che l’assegnazione possa essere effettuata anche con un contratto successivo. Si è ritenuto che tale assegnazione sia quella effettuata dal beneficiario ai non assegnatari, i quali, dunque, non dovrebbero essere necessariamente presenti alla stipula del contratto fra assegnatario dell’azienda e disponente imprenditore. Altra considerazione in favore di tale tesi è stata scorta nella disomogeneità di trattamento, e nella differente tutela, che i legittimari riceverebbero semplicemente in relazione al momento in cui gli stessi vengono ad esistenza: difatti, la mancata adesione al patto di coloro che sono già esistenti al momento della sua stipulazione sarebbe causa di nullità del contratto; viceversa, coloro che non erano esistenti al momento della stipulazione del contratto avrebbero diritto unicamente a ricevere la 150 U. LA PORTA, Il patto di famiglia. Struttura e profili causali del nuovo istituto tra trasmissione dei beni di impresa e determinazione anticipata della successione, cit., p.23; G. PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Rivista del notariato, 2006, p. 428 e ss.; C. CACCAVALE, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, Appunti per uno studio sul Patto di famiglia:profili strutturali e funzionali della fattispecie, in Quaderni della fondazione italiana per il notariato, Milano, 2006, p. 38 e ss.; F. CORRENTE, Il patto di famiglia: una nuova legge al servizio dell’impresa, in Gazz. Not., 2006, 1-3, p. 5; R. D’IPPOLITO, I Rapporti con i terzi e la tutela dei non partecipanti, Il Patto di famiglia, Atti e contratti nel diritto civile e commerciale, Torino, 2007, p. 189 ss.). 84 corresponsione della quota di legittima. La funzione della partecipazione dei non assegnatari è poi stata diversamente interpretata all’interno dell’orientamento in esame. Secondo Alcuni151, il patto sarebbe opponibile anche ai non partecipanti, fatta eccezione per la determinazione del quantum da liquidare loro: la partecipazione potrebbe essere necessaria ai fini di tale effetto, in riferimento analogico alla disciplina dell’art. 1113, comma 3°, c.c.. Secondo Altri152, la partecipazione dei non assegnatari al patto sarebbe condizione di vincolatività del patto nei loro confronti: nel caso in cui non abbiano partecipato, essi potranno esperire l’azione di riduzione e chiedere la collazione anche dei beni componenti l’azienda o delle partecipazioni. In mancanza di pronunce sul punto, è difficile prevedere quale sarà l’orientamento che adotterà la Giurisprudenza: tuttavia si rileva come, ove dovesse prevalere la tesi sub (A), ciò comporterebbe inevitabilmente un ostacolo alla concreta diffusione del patto di famiglia, in quanto lo renderebbe eccessivamente fragile di fronte alla indisponibilità dei legittimari non assegnatari. Basti pensare che un solo legittimario contrario alle previsioni del patto potrebbe tenere in scacco l’intero nucleo familiare, decidendo di non partecipare all’atto e così condannando alla nullità il patto concluso in sua assenza. 4. La rescissione per lesione e la risoluzione Come si è accenato supra, parte della dottrina153 attribuisce al patto di famiglia natura divisoria, mettendone in luce l’attitudine a realizzare effetti divisori. 151 Cfr. C. CACCAVALE, vedi nt. 150. Cfr. G. PETRELLI, vedi nt. 150. 153 G. AMADIO, Profili funzionali del patto di famiglia, in Rivista di diritto civile, 2007, p. 882; G. BONILINI, Il patto di famiglia, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, p. 639; F. GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia,Giustizia Civile,2006, II, p. 217; B.INZITARI, P. DAGNA, V. FERRARI, V. PICCININI, Il Patto di Famiglia, Negoziabilità del diritto successorio con la legge 14 febbraio 2006 n. 55, Torino, 2006, p. 70. 152 85 Ne conseguirebbe che il patto di famiglia sia riconducibile all’area indistinta degli atti diversi dalla divisione, che abbiano però l’effetto di fare cessare la comunione dei beni ereditari (art. 764 c.c.), e quindi che tra i rimedi azionabili per determinare lo scioglimento del patto, debba ritenersi ammissibile l’azione di rescissione per lesione (art. 764, comma 1°, c.c.). Secondo questa ricostruzione, il patto di famiglia, in quanto atto caratterizzato da una funzione essenzialmente divisoria, postula che vi sia corrispondenza tra le attribuzioni effettuate a favore dei legittimari non assegnatari, a tacitazione delle loro ragioni, e le rispettive quote di legittima. Questa corrispondenza tra quanto ricevuto dai legittimari non assegnatari a titolo di liquidazione ex art. 768-quater c.c., a titolo di liquidazione dei loro diritti di legittima, e quanto spetterebbe loro in base alle quote di legittima, è il risultato di un’operazione “materialmente” divisoria (v. analogie tra art. 768-quater, comma 2°, c.c. e art. 720 c.c.). Questo equilibrio potrebbe venire meno ove, in sede di determinazione del valore del bene da assegnare (azienda o partecipazioni sociali), questo fosse stato sottostimato, cagionando l’effetto di determinare l’attribuzione al partecipante non assegnatario di una somma inferiore all’effettivo valore della sua quota (art. 768-quater, comma 2°, c.c.). A tale squilibrio la legge attribuisce rilevanza soltanto per il caso di lesione oltre un quarto del valore, alla stessa stregua di quanto dispone l’art. 763, comma 1°, c.c., in tema di rescissione per lesione della divisione. In tale eventualità agli assegnatari è attribuita la facoltà di neutralizzare l’azione di rescissione provvedendo a corrispondere un importo supplementare a favore del legittimario leso. Conseguenza del positivo esperimento dell’azione di rescissione è, analogamente a quanto accade in caso di annullamento, l’eliminazione degli effetti del patto e il ripristino dello status quo ante. Per quanto riguarda la risoluzione del patto, l’applicazione dell’istituto in questione va desunta, in mancanza di una norma specifica, in via interpretativa, 86 come rimedio esperibile in ipotesi di inadempimento dell’obbligo di liquidazione della quota di legittima ai non assegnatari, di cui all’art. 768quater, comma 2°, c.c.. Una parte della dottrina154 esclude che siano gli stessi legittimari non assegnatari ad avere titolo per lamentare tale inadempimento, riservando tale legittimazione esclusivamente al disponente, in virtù della mancanza del carattere di sinallagmaticità nel patto di famiglia ― ovvero affermando che il patto di famiglia non è un contratto a prestazioni corrispettive tra i partecipanti – e così attribuendo ai legittimari non assegnatari esclusivamente la possibilità di esperire un’azione di adempimento. 5. L’impugnazione del patto di famiglia per il mancato pagamento delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari L’art. 768-sexies, comma 1°, c.c. prevede l’ipotesi in cui, all’apertura della successione, siano venuti ad esistenza altri legittimari, oltre quelli che hanno partecipato alla stipulazione del patto di famiglia, e stabilisce che tali soggetti possano chiedere ai beneficiari del patto di famiglia il pagamento di una somma di denaro, pari a quella che sarebbe loro spettata ai sensi dell’art. 768-quater, comma 2°, c.c.. Si tratta di una norma di chiusura, volta a garantire e preservare la stabilità del patto, anche nel caso in cui intervengano nuovi legittimari successivamente alla sua sottoscrizione. Vengono così derogati due veri e propri capisaldi del diritto successorio: il principio dell’intangibilità della legittima ― in quanto con il patto di famiglia si impone ai legittimari sopravvenuti la conversione della propria quota di riserva in un diritto di credito ― ed il principio per cui la determinazione del valore dei beni ereditari deve essere compiuta al momento dell’apertura della successione. 154 G. OPPO, Patto di famiglia e “diritti della famiglia”, in Rivista di Diritto Civile, 4, 2006, p. 439. 87 L’art. 768-sexies, comma 2°, c.c. stabilisce poi che il legittimario non partecipante al patto può impugnarlo chiedendone l’annullamento in caso di inadempimento dell’obbligazione di pagamento da parte dei partecipanti. Si ritiene, in virtù del rinvio operato dalla norma all’art. 768-quinquies, c.c., che il termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione sia anch’esso annuale. Rimane da stabilirne il termine di decorrenza: parte della dottrina indica il dies a quo nella data dell’apertura della successione; la dottrina più attenta ha, però, rilevato che, se così fosse, il legittimario non partecipante accetterebbe implicitamente l’eredità, con il far valere il proprio diritto su di essa, ma così perderebbe il diritto di accettazione o rifiuto dell’eredità stessa nell’ordinario termine decennale. La singolarità della norma consiste proprio nella differenza dei poteri attribuiti dalla stessa ai legittimari sopravvenuti rispetto ai partecipanti al patto: i diritti dei primi cedono il passo di fronte alla necessità di garantire la stabilità del patto, talché essi si trovano di fatto vincolati a ricevere quanto deciso da terzi (i partecipanti al patto), ma in caso di mancato pagamento della quota di riserva, questi hanno la possibilità di annullare il patto con efficacia ex tunc, ovvero sin dalla sua origine. Altra peculiarità è che la legittimazione ad agire è in capo a soggetti estranei al patto, in deroga quindi alla disciplina generale sui contratti (art. 1441 c.c.). Rimane comunque impregiudicata l’azione che i legittimari sopravvenuti potranno far valere sull’eventuale quota di legittima in natura sugli altri beni facenti parte dell’asse ereditario del disponente. 6. Lo scioglimento e la modifica del patto di famiglia: requisiti del contratto L’art. 768-septies c.c. prevede che: «Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti: 88 1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo; 2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio». Qualora i partecipanti al patto di famiglia intendano modificare il patto con un nuovo contratto, le opzioni loro offerte sono molteplici: a) modificare in tutto o in parte le assegnazioni fatte ai legittimari; b) convenire la revoca alla rinunzia alla liquidazione da parte di uno dei legittimari non assegnatari; c) disporre il trasferimento dell’azienda con modalità diverse rispetto a quelle originariamente previste. Dunque, si possono mutare sia contenuti soggettivi (ad es. aggiungendo al patto nuovi legittimari, così rafforzando la stabilità del patto) sia contenuti oggettivi (ad es. inserire nel patto rami d’azienda prima non contemplati), mutando sia gli effetti già prodotti, sia quelli ancora da venire (ad esempio, rinuncia alla liquidazione da parte di legittimari non assegnatari sopravvenuti). Naturalmente la peculiarità di questa disposizione ha sollevato molte critiche in dottrina, soprattutto circa la possibilità di risolvere consensualmente il contratto, o di recedere dallo stesso benché esso abbia già realizzato i suoi effetti. Quanto al «diverso contratto» di scioglimento (o modifica) del patto di famiglia, la dottrina più attenta lo inquadra come un vero e proprio negozio solutorio, volto a ripristinare lo status quo ante. I requisiti per l’efficacia del negozio di scioglimento o di modificazione sono quelli già delineati per il negozio costitutivo dall’art 768-bis c.c. (forma dell’atto pubblico, capacità e rappresentanza dei soggetti che vi partecipano, ecc.) compresi gli oneri pubblicitari. Nell’ipotesi sub 1 dell’art. 768-septies c.c. è necessaria la partecipazione delle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia o, in caso di morte di 89 un legittimario, dei suoi successori (non per l’ipotesi sub 2 perchè il recesso è un atto unilaterale). In particolare: in caso di sopravvenuta morte dell’assegnatario, si ritiene che al contratto di scioglimento o di modifica debbano intervenire in sua vece, gli eredi, secondo le regole generali; qualora a decedere sia un legittimario liquidato col patto, si ritiene che i legittimati ad intervenire siano i sostituti di cui all’art. 768-quater c.c.. La modifica del contratto naturalmente può intervenire sino all’apertura della successione mortis causa del disponente. L’art. 768-septies c.c. prevede l’ipotesi di un recesso convenzionale riconducibile all’art. 1373 c.c., lasciato alla piena libertà delle parti quanto a presupposti soggettivi (chi può esercitarlo) e oggettivi (recesso per giusta causa o ad nutum), venendosi così a minare i principi di stabilità e continuità dell’attività d’impresa, protetti dalle altre norme dell’istituto. Si pensi all’esempio del disponente che per l’eventualità di una cattiva gestione dell’azienda da parte degli assegnatari (poco oculata o non produttiva) abbia previsto la possibilità di recesso ad nutum dal patto (con conseguente restituzione a lui dell’azienda). Ma la facoltà di recesso può essere prevista nel patto anche a favore degli altri soggetti partecipanti, come i legittimari non assegnatari o gli assegnatari stessi. Quanto all’aspetto funzionale, il recesso deve essere esercitato mediante dichiarazione recettizia da indirizzare a tutti i contraenti (ivi compresi quelli eventualmente intervenuti con diverso contratto modificativo) entro il termine eventualemnte stabilito nel patto o, al più tardi, entro il decesso del disponente. Anche il recesso può avere diversi effetti alternativi: eliminativo: a seconda del contraente che ha tale facoltà si avranno effetti diversi: (i) se il recesso spetta al disponente o all’assegnatario, il suo esercizio determina necessariamente lo scioglimento del contratto (il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali costituiscono il cardine del patto di famiglia); (ii) se il recesso spetta a uno o più legittimari 90 non assegnatari, il suo esercizio pare comporti solo l’obbligo di restituzione della somma ricevuta a titolo di liquidazione della quota di legittima sul bene assegnato, con i relativi interessi (se liquidazione con beni in natura, si ha la retrocessione dei beni medesimi) e la riviviscenza del diritto a esercitare l’azione di riduzione e collazione, venendo meno l’effetto preclusivo di cui all’art. 768-quater, comma 4°, c.c.. Trattandosi di recesso di fonte convenzionale, giurisprudenza e parte della dottrina sono concordi nel ritenere che il recesso sia esercitabile benché il contratto abbia avuto un principio di esecuzione (l’art. 1373, comma 1°, c.c. è derogabile convenzionalmente); modificativo: al soggetto a favore del quale è previsto viene attribuito un diritto di opzione ad adottare modifiche unilaterali all’accordo iniziale. Può realizzare: (i) una modificazione, totale o parziale, delle quote precedentemente stabilite a favore dei legittimari non assegnatari; (ii) la rinunzia alla liquidazione da parte dei legittimari non assegnatari, se la liquidazione è successiva alla stipula; (iii) il trasferimento dell’azienda con modalità diverse rispetto a quelle originarie. E’ essenziale che il patto di famiglia individui con sufficiente precisione il contenuto delle successive modifiche cosicché l’opzionario possa limitarsi ad esercitare l’opzione a condizioni già predeterminate. La dichiarazione di recesso deve essere «certificata da un notaio» (art. 768-septies, n. 2, c.c.): questa oscura terminologia, che non corrisponde ad alcun contenuto tecnico specifico in diritto italiano, pare doversi interpretare, per ragioni di simmetria, nella necessità che l’atto abbia la forma dell’atto pubblico, analogamente a quanto previsto per lo scioglimento di cui all’art. 768-septies, n. 1, c.c.. 91 7. Controversie Il legislatore ha previsto all’art. 768-octies c.c. il ricorso alla preventiva conciliazione quale strumento di soluzione dei conflitti alternativa a quella giudiziale. Benché non sia esplicitamente indicato, è lecito ritenere che, in caso di mancato esperimento della procedura conciliativa, il giudizio intrapreso sia sospeso dal Giudice in attesa che le parti tentino la conciliazione. Il provvedimento di sospensione da parte del Giudice non è certo, dato che la norma codicistica non prevede alcuna sanzione conseguente al mancato accesso alla procedura conciliativa: tuttavia, l’esperienza insegna che gli organi giurisdizionali tendono a fare largo uso di ogni strumento deflattivo del carico processuale a loro disposizione. Una clausola di conciliazione nel patto di famiglia non è necessaria in quanto l’obbligo di preventiva conciliazione è di fonte legale; essa parrebbe, peraltro, utile per predeterminare quale sia l’organismo di conciliazione cui le parti si rivolgeranno in caso di controversie. 92