Logos e trascendenza nell’Islam. Nel decennale del Discorso di papa Benedetto XVI a Regensburg
di Massimo Campanini*
Cristianesimo e Islam sono religioni che derivano dal medesimo ceppo abramitico.
Condividono molti concetti teologici e religiosi, ma anche si differenziano in molti altri. Il confronto
comparativo tra le due teologie è un esercizio ermeneutico mai abbastanza praticato.1 Il controverso
discorso di papa Benedetto XVI a Regensburg nel 2006,2 di cui appunto nel 2016 ricorre il decennale,
ha vigorosamente sostenuto la fondazione della teologia cristiana nel Logos, mentre al riguardo l’Islam
professa un approccio sostanzialmente divergente, nonostante alcune convergenze. Questo articolo è
dedicato a puntualizzare criticamente questa osservazione. Partiamo col considerare un paio di
premesse.
La frattura del monoteismo rispetto alle religioni del mondo antico, soprattutto mediterraneo, è
consistita in almeno due elementi qualificanti. In primo luogo, nella rivelazione di un Dio persona,
liberamente agente e volente, che conferisce all’universo le sue leggi di funzionamento e dirige la
storia verso un fine teleologico. In secondo luogo, nel proporre il messaggio religioso attraverso
l’invio di profeti, apportatori di libri rivelati. L’Islam, ultimo in ordine cronologico dei tre monoteismi,
conferma e riafferma comunque questi due pilastri teologici fondativi, ma per quanto riguarda Dio, ne
accentua il carattere di sovrano del mondo (Dio è sia malik cioè re, sia mālik cioè padrone
dell’universo)3 e il carattere della trascendenza (tanzīh). Per quanto riguarda la profezia, l’Islam, come
l’Ebraismo e il Cristianesimo, riconosce sostanzialmente al profeta un ruolo di testimonianza, di
annunciazione di (liete) novelle, di ammonizione. In tal senso, si tratta di una funzione eminentemente
dialogica e non è un caso – relativamente all’Islam – che un filosofo come al-Farabi abbia individuato
realizzata nel profeta la massima perfezione della facoltà immaginativa utile a persuadere e a guidare
le masse.4 Naturalmente, nell’Ebraismo e nell’Islam il profeta può essere anche apportatore della
Legge, qualifica che nel Cristianesimo è andata perduta.
Quanto al concetto di Logos, prima di essere assimilato dalla teologia cristiana, a partire dal
famoso incipit del Vangelo di Giovanni, esso è stato formulato nell’ambito della filosofia greca.
Anassagora ed Eraclito hanno teorizzato il Nous (o intelletto) e il Logos come principi di ordinamento
e organizzazione della realtà cosmica. Socrate ha enfatizzato il carattere dialogico del Logos come
strumento di comunicazione, ma anche di educazione degli uomini. Anche Platone ha posto il Logos al
centro della sua filosofia, come dialogo umano, nella pluralità delle opinioni e delle idee che si
confrontano nell’arena filosofica in uno stile di pensiero aperto e flessibile.5 Il concetto greco di Logos
sembra perciò intersecare aspetti antropologici con aspetti cosmici relativi a una potenziale “mente” o
ratio che governa il reale.
Stabilite queste premesse, un discorso comparativo sull’idea di Logos nella teologia cristiana e
in quella musulmana può svolgersi su due livelli: il livello dell’esegesi testuale dei libri sacri e il
livello dell’elaborazione teologica. Si tratta, dal mio punto di vista, eminentemente di chiarire la
posizione musulmana che appare non solo meno nota, ma anche più controversa.
1
Fondamentale resta ancora il contributo di L. Gardet e M.M. Anawati, Introduction à la théologie musulmane,
Vrin, Paris 1981 (1° ed. 1948).
2
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2006/september/documents/hf_benxvi_spe_20060912_university-regensburg.html (consultatazione: 13.05.2016).
3
E in tal senso ne dà una caratterizzazione teologico-politica, del resto pienamente operante nel Cristianesimo.
Cfr. G. Filoramo (a cura di), Teologie politiche. Modelli a confronto, Morcelliana, Brescia 2005; M. Scattola,
Teologia politica, Il Mulino, Bologna 2007.
4
Al-Farabi, La città virtuosa, a cura di M. Campanini, BUR Rizzoli, Milano 1996.
5
M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003.
A livello dell’esegesi testuale deve essere indagata la figura di Gesù nel Corano,6 premesso
che, nel Cristianesimo, Gesù è il Logos. Orbene, notoriamente, l’Islam rifiuta l’idea che Gesù Cristo
sia Dio e persona di una Trinità. Gesù è stato solo e completamente uomo, un grande profeta peraltro,
forse il più grande dopo Muhammad. Tuttavia, il Corano elabora teologicamente in senso positivo
sulla figura di Cristo. La cristologia coranica è molto complessa e non può essere analizzata qui nei
dettagli. Forse basterà ai nostri fini studiare brevemente il versetto coranico 4,171: «O gente del Libro
(ahl al-kitāb), non siate eccessivi (lā taghlū) nella vostra religione e non dite di Dio se non la verità
(haqq): che il messia (masīh) Gesù (‘Isā) figlio di Maria è un messaggero (rasūl) di Dio, una sua
parola (kalima) che Egli ha posto (alqāhā) dentro Maria, uno Spirito (rūh) proveniente da Lui. Credete
in Dio e nei suoi messaggeri e non dite “tre” (thalatha). Smettetela! È meglio per voi, poiché Dio è
Uno (ahad) – sia lode a Lui! – e non ha figli.»
La “gente del Libro” sono genericamente coloro cui è stata rivelata una Scrittura, ma chiaramente,
in questo caso si allude solo ai cristiani. Essi sono accusati di “eccedere” nella religione, non di essere
miscredenti, e in particolare è chiaro dal contesto che l’“eccesso” riguarda la Trinità, condannata con
un linguaggio particolarmente reciso. Tuttavia, se non lo riconosce come Dio e persona della Trinità, il
versetto definisce Gesù come: messia (masīh); messaggero (rasūl); parola (kalima); spirito (rūh).
Ognuno di questi quattro aggettivi merita una breve puntualizzazione.
Gesù coranicamente non è un “messia” nel senso ebraico del termine: il suo compito non è quello
di riscattare gli israeliti o qualche altro popolo in particolare, né quello di redimere il genere umano (la
gran parte della teologia musulmana ritiene che Gesù non sia morto in croce né quindi risorto e ciò,
evidentemente, ne compromette la funzione redentiva). Gesù è comunque in Islam una figura
escatologica: sarà lui a manifestarsi, quando Dio vorrà, per sconfiggere il “Dajjāl” (l’Anticristo7) e
preparare l’avvento della fine del mondo.
Gesù è uno dei sei grandi “messaggeri-legislatori” (rasūl) dell’umanità: gli altri sono Adamo, Noè,
Abramo, Mosè e naturalmente Muhammad. I “messaggeri-legislatori” sono coloro che, oltre a portare
agli uomini l’ammonizione dell’unicità di Dio e del giudizio finale, apportano anche una Legge
(sharīʻa). Ovviamente la Legge di Mosè era racchiusa nella Torah, quella di Gesù nel Vangelo e
quella definitiva è racchiusa nel Corano trasmesso da Muhammad.
Che Gesù sia “parola” (kalima) di Dio potrebbe, a una prima approssimazione, dare ad intendere
che si tratta del Logos, in armonia con la definizione giovannea. Sarebbe però una distorsione
linguistica e/o un’indebita espansione metafisica del significato del termine kalima. Dal punto di vista
semantico, la radice k-l-m ha a che fare col “parlare” nel senso fisico di comunicare e colloquiare, non
in qualsiasi senso metafisico. Verosimilmente, il Corano intende dire che Gesù è stato un trasmettitore
della parola di Dio, dunque una “lingua” attraverso la quale Dio ha parlato. Gesù ha in tal senso una
funzione comunicativa del messaggio, analoga a quella posteriormente svolta da Muhammad. È
piuttosto Muhammad, secondo la pia tradizione teologica musulmana, ad essere il Logos: egli esiste
dalla pre-eternità, è l’uomo perfetto e la sua realtà (haqīqa muhammadiyya) è la matrice da cui
derivano tutti i profeti: «[la] haqīqa muhammadiyya – un termine spesso tradotto come “l’archetipo
Muhammad” – si manifesta in primo luogo in Adamo, poi in tutti gli altri profeti fino a trovare la sua
espressione massima nel Muhammad storico, che così diviene, per così dire, l’Alfa e l’Omega della
creazione. Muhammad il Profeta è la manifestazione onnicomprensiva e perfetta della luce
6
Molto si è scritto al proposito. Due testi di riferimento classici sono: G. Parrinder, Jesus in the Qur’an,
Oneworld, Oxford 1995; N. Robinson, Christ in Islam and Christianity: the Representation of Jesus in the
Qur’an and the Classical Muslim Commentaries, Macmillan, Basingstoke 1991. In italiano, ricordo: G. Rizzardi,
‘Isa ibnu Maryam. Lo sguardo dell’Islam su Gesù, Centro Ambrosiano, Milano 2007.
7
Cfr. M. Campanini, Il Dajjal. Escatologia e politica nell’Islam, in “Politica e religione”, 2, annuario 20082009, pp. 81-94.
primordiale, e con lui si completa il ciclo delle manifestazioni, poiché egli è il Sigillo dei Profeti».8
Oppure Logos è il Corano in quanto parola diretta di Dio. È stato detto più volte, credo abbastanza
correttamente, che nell’Islam il Corano svolge la funzione di Gesù nel Cristianesimo.
Ma, per tornare al testo coranico, dal punto di vista metafisico, Dio ha “posto”, “collocato” la sua
parola, Gesù, nel grembo di Maria (la cui concezione, per l’Islam, è stata verginale cfr. Corano 19,1626), per cui si tratta di un intervento divino straordinario che ha consentito a una donna di procreare
senza atto sessuale. Ma ciò non implica una eccezionalità extra-umana del frutto di quel
concepimento. Gesù infatti è creato da Dio col suo ordine, come qualsiasi altra creatura: «Presso Dio
la somiglianza (mathal) di Gesù è quella di Adamo, Egli [Dio] lo ha creato dall’argilla e quindi gli ha
detto: ‘Sii!’ ed egli [Gesù] fu» (Corano 3,59). La stessa resurrezione potrebbe, da un punto di vista
islamico, essere spiegata come un intervento miracoloso di Dio su un uomo comune.
L’attribuzione a Gesù della qualifica di “spirito” (rūh) è più controversa. Il termine “spirito” (rūh)
è tra i più complessi e sfumati dell’intero Corano,9 e può intendere l’angelo che comunica la
rivelazione, l’ordine divino (amr) che organizza e struttura l’universo, l’ispirazione che Dio insuffla ai
profeti, eccetera. Un versetto coranico cruciale è 17,85: «Lo Spirito (rūh) [procede] dall’ordine (amr)
del mio Signore». In questo caso, “ordine” può intendere l’atto di “ordinare” in senso proprio, cioè
“comandare”, e in tal caso è opportuno l’utilizzo del termine amr. Ma il “comando” realizza un
“ordine” nel senso di una struttura connessa e articolata, cioè nel senso di un nazm. Il tutto ha a che
vedere con l’onnipotenza divina, di un Dio che è onnipotente in quanto crea, struttura (“ordina”) e
conserva nella sua forma razionale l’universo. Il versetto coranico 41,11-12 è particolarmente
significativo: «Poi [Dio] si volse al cielo, che era tutto fumo, e disse a esso e alla terra: “Venite
obbedienti (tawʻan) o costretti (karhan)”. Dissero: “Veniamo obbedienti”. E li strutturò/determinò
(qadāhunna) in sette cieli nel tempo di due giorni e rivelò (awhā) ad ogni cielo il suo posto/ordine
(amr). Ornammo [è sempre Dio che agisce, ma la terza impersonale diventa con uno scarto improvviso
la prima personale] il cielo che sovrasta il mondo terrestre (al-samāʼ ad-dunyā) di lampade, come a
proteggerlo. Questo è l’ordinamento (taqdīr) del Possente, Sapiente». In questo versetto appaiono
entrambi i termini che saranno significativi nella teologia musulmana riguardo al problema della
predestinazione e del libero arbitrio, cioè qadā (qadāhunna) e qadar (taqdīr). I termini significano
esplicitamente la “determinazione” divina, il suo “decreto” (qadā) e l’“ordinamento” (razionale) che
ne deriva (taqdīr), che è ordine (amr) nel senso di struttura (nazm). L’intervento di Dio è diretto e
coibente, il suo decreto “costringe” la realtà a essere quello che è, secondo una determinazione cui non
si può sfuggire. Dio trasmette all’universo le leggi di funzionamento come una “rivelazione” o
“ispirazione” (wahy). Se, utilizzando le categorie coraniche, Gesù fosse lo “spirito” attraverso cui
l’“ordine” di Dio scende e determina la realtà, sarebbe uno strumento della volontà divina, che
obbedientemente trae a Dio i cieli e la terra. Infine, certamente – credo – non è possibile leggere
nell’idea di Gesù come “spirito” una “islamizzazione”, per così dire, della terza persona della Trinità
cristiana, lo Spirito Santo, anche perché Gesù finirebbe per coincidere con lo Spirito Santo.
In conclusione, partendo dal Corano sarebbe molto difficile individuare in Gesù le caratteristiche
del Logos cristiano. Questa osservazione ci consente di trascorrere sul piano dell’elaborazione
teoretica, e di rilevare che le vie percorse dalla teologia, soprattutto dalla teologia delle origini, del
Cristianesimo e dell’Islam sono state diverse.
La teologia cristiana infatti è stata fin dall’inizio “contaminata” per così dire dal pensiero greco,
per il cui mezzo il concetto di Logos è divenuto operativo. Come ha scritto Claudio Moreschini: «A
8
A Schimmel, And Muhammad is His Messenger. The Veneration of the Prophet in Islamic Piety, University of
North Carolina Press, Chapel Hill and London 1985, p. 132.
9
Cfr. T. O’Shaughnessy, The Development of the Meaning of Spirit in the Qur’an, Orientalia Christiana
Analecta, Roma 1953.
partire dal II secolo, anche se non si può parlare più, come si faceva nel secolo XIX, di ellenizzazione
pura e semplice, si ha a che fare pur sempre con un adeguamento del messaggio cristiano alle nuove
esigenze di una società fortemente acculturate e specificatamente caratterizzata, e quindi con una
trasformazione di tale messaggio. Un esempio stupefacente di questa ellenizzazione del Cristianesimo
primitivo, nella quale la componente semitica continuò ad avere un maggiore o minor peso, fu
l’impiego e la trasformazione del Logos giovanneo e del suo significato».10 Nel Cristianesimo, il
Logos si è identificato con l’essenza divina e, in particolare, con la Parola di Dio (Cristo) incarnatasi
per la salvezza del genere umano. I padri della Chiesa svilupparono in senso trascendentale e
metafisico l’idea del Logos e la maggior parte di essi era neoplatonica. Il richiamo al neoplatonismo è
quasi obbligato. La seguente espressione di Bertrand Russell, icastica come sempre, è significativa:
«La metafisica di Plotino comincia con una Santa Trinità: l’Uno, lo Spirito e l’Anima».11 La teoria di
Plotino echeggia la Trinità cristiana: neoplatonismo e Cristianesimo convergevano in alcuni paradigmi
essenziali. Il senso della ricezione del Logos è così sintetizzato ancora da Moreschini: «Giustino
sviluppa una teologia del Logos partendo dalle parole d’esordio del Vangelo di Giovanni: il Logos è,
dunque, il Figlio di Dio, non solamente incarnato, ma anche già presente “dall’inizio”, e quindi anche
nella storia dell’umanità. Ma il Figlio è anche somma sapienza e razionalità. Giustino, quindi, per
primo, elabora in modo organico quella interpretazione di tipo filosofico e “greco” del Logos
giovanneo, che caratterizza tutta la speculazione patristica».12
Al contrario, ribattuto che, semmai, in Islam il Logos è Muhammad o il Corano e non Gesù, il
ruolo della filosofia greca nella formazione della prima teologia musulmana è stato molto meno
decisivo che nel Cristianesimo.13 Il pensiero muʻtazilita, per esempio, recepì bensì alcune suggestioni
dello speculare greco, ma rimase fondamentalmente legato, nel metodo e nelle tematiche, all’orizzonte
speculativo teologico, e quindi islamico. Gli ashʻariti poi condannarono esplicitamente la filosofia in
nome di un razionalismo non dimostrativo, ma analogico e in cui importanza centrale hanno le
tradizioni profetiche nella loro testualità. Non è un caso che un grande teologo, di orientamento
ashʻarita, come al-Ghazali sostenga che i fondamenti del sillogismo argomentativo si trovino nel
Corano e non nei libri di Aristotele.14
Ma quel che è più importante è che la teologia islamica rompe soprattutto con le idee di
relazione, mediazione, analogia o similarità tra Dio e le creature. I due luoghi coranici centrali sono il
versetto 112,4: «Nulla è pari a Lui (wa lam yakun lahu kufu’an ahad)»; e il versetto 42,11: «Non v’ha
di simile a Lui cosa alcuna (laysa ka-mithlihi shayy’un)». Si tratta di versetti su cui la riflessione
teologica islamica ha lungamente elaborato. La presa di distanza dalle idee di relazione, mediazione,
analogia o similarità tra Dio e le creature evidentemente ostacola la comprensione sia della Trinità sia
della incarnazione.
Massimo Parodi ha colto un punto essenziale evidenziando che, dal punto di vista teologico, il
Cristianesimo con Agostino descrive Dio come relazione, mentre con Tommaso d’Aquino identifica
Dio come sostanza.15 D’altra parte ha scritto: «Le religioni che derivano dalla comune radice
10
C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Morcelliana, Brescia 2004, p. 8.
B. Russell, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano 1983, p. 288.
12
Moreschini, Storia della filosofia patristica, cit. p. 73.
13
Sulla teologia dell’Islam cfr. la monumentale opera di J. Van Ess, Teologie und Gesellschaft im 2. und 3.
Jahrhundert Hidschra, De Gruyter, Berlin and New York 1991-1997 (6 voll.), la già citata opera di L. Gardet e
G. Anawati, Introduction à la théologie musulmane, Vrin, Paris 1981; R. Caspar, Traité de Théologie
musulmane, Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, Roma 1987.
14
Al-Ghazali, La retta bilancia (al-Qistās al-mustaqīm), in Id., La Bilancia dell’azione e altri scritti, a cura di
M. Campanini, Utet, Torino 2005.
15
Cfr. M. Parodi, Il paradigma agostiniano, Lubrina, Bergamo 2006. Ho discusso questa ipotesi in: M.
Campanini, Philosophical Perspectives on Modern Qur’anic Exegesis: Key Paradigms and Concepts, Equinox
Publishing, Sheffield (in corso di stampa).
11
abramitica si confrontano con la cultura classica greca, mantenendo al centro della propria
elaborazione un elemento che a quella tradizione era totalmente estraneo. L’Ebraismo prima, poi il
Cristianesimo e l’Islam sono religioni monoteistiche e il monoteismo mette radicalmente in
discussione la struttura del pensiero classico, costruendo una visione del mondo che si fonda sul
concetto di una divinità personale, creatrice perché volente e potente. Ma il monoteismo accentua la
trascendenza di Dio ponendolo al di là della razionalità e dell’ordine del mondo che, nella cultura
antica e tardo antica, si può identificare con il livello del logos. È ben noto che entro la pluralità di
significati che tale termine può acquistare e che da questo termine sono nati, si snoda gran parte del
pensiero occidentale, e quindi non avrebbe senso cercare qui di approfondire il discorso: limitiamoci
ad assumere che, rispetto a un livello di razionalità intrinseca del mondo e di ordine naturale e
comprensibile delle cose, il Dio trascendente del monoteismo islamico e cristiano sta al di là,
trascende quest’ordine di cui è fonte e da cui è quindi indipendente. Il nostro problema sta, da un
punto di vista logico, immediatamente dopo l’affermazione della trascendenza. Secondo una
espressione di Campanini, il Cristianesimo scende a patti con il logos, o, volendo riferirsi a un
concetto già emerso e che pare qualificare profondamente tutta la tradizione culturale occidentale, il
Cristianesimo afferma un dato essenziale di mediazione.
Il fatto stesso dell’incarnazione, come ha sottolineato Vattimo, depotenzia la componente
metafisica della religione cristiana e avvia una riflessione teologica in cui saranno centrali la
componente etica e quella conoscitiva, spesso tra loro strettamente intrecciate, come in Agostino.
L’idea di incarnazione è decisiva per colmare il salto ontologico che separa Dio – uno e trascendente –
dal molteplice mondo creato, ma da un certo punto di vista può anche mettere a rischio la
trascendenza. Forse ancora più pericolosa, in questa prospettiva, è l’idea di un Dio trinitario, che nasce
anche come modo di dare ragione, per quanto possibile, della natura divina di Cristo, ma poi diviene,
nella riflessione agostiniana in particolare, contenuto e strumento per una vera rivoluzione nel modo di
concepire Dio, il mondo e i loro rapporti. La struttura trinitaria diventa la forma pura della relazione
analogica che in Agostino collega tra loro i diversi livelli dell’essere e consente di radicare in Dio
anche la molteplicità e il movimento che caratterizzano la regione della dissimilitudine. E per
l’ennesima volta siamo ricondotti al tema del diverso, del movimento, del tempo; una concezione
rigidamente monoteista e assolutamente trascendente di Dio o, filosoficamente, del principio assoluto,
sarà inevitabilmente sospettosa di fronte a un modo di concepire Dio che mette in forse entrambi i
caratteri».16
L’Islam ha una posizione divergente. Dio non è né sostanza né relazione, ma è appunto
eterogeneo rispetto a qualsiasi qualificazione. D’altro canto, da un punto di vista musulmano, relazioni
e mediazioni rischiano di pluralizzare l’essenza di Dio.17 Il pensiero teologico islamico è attentissimo a
garantire la totale diversità ontologica tra Dio e le creature. Essa dipende da una diversità delle loro
nature. La superiore essenza di Dio lo rende irriducibile alla materialità e addirittura impossibilitato a
materializzarsi (cioè a incarnarsi). Dio è assoluta esistenza, poiché la sua “coseità” risiede appunto
nell’essere esistente. Vi è anzi una super-essenzialità di Dio nel suo essere massimamente esistente; a
tal punto che mu‘taziliti come ‘Abbad Ibn Sulayman arrivano a negare l’assunto che Dio è un
16
M. Parodi, Il tempo del confronto e dell’ascolto, in: AA.VV., L’Islam e la filosofia. Tradizioni, identità e
confronto, a cura di M. Bianchetti, Edizioni Albo Versorio, Milano 2006, pp. 21-22.
17
Per vero la possibilità della comparazione e dell’analogia sembra essere ammessa da esoteristi come Muhy alDin Ibn ‘Arabi (†1240), per esempio nei Fusūs al-hikam (La sagesse des prophètes, ed. T. Burckhardt, Albin
Michel, Paris 1974 e 2008), ma questo esoterismo spiritualista è lontanissimo dal Corano e dal suo razionalismo,
e si fonda su una concezione monista della realtà.
“essente”, cioè un ente (ka’in), e riducono l’espressione «Dio è esistente» all’attribuzione a Dio di un
“nome” (ithbat ismin li’llah)18. Si tratta di una forma estrema di tanzīh, trascendenza.
Nella teologia islamica, dunque, a parte la funzione comunicativa attraverso la profezia, il
Logos si risolve nella trascendenza, ed è nella dimensione della trascendenza assoluta che Dio esercita
la sua determinazione onnipotente. La superessenzialità di Dio, d’altro canto, impedisce la prospettiva
dell’incarnazione. Le idee di incarnazione e di redenzione configgono col dettato coranico che insiste
sulla irriducibilità divina alle cose del mondo e sul rapporto diretto, senza mediazioni, tra il credente e
Dio. Ciò emerge in modo estremamente pregnante. Ciò emerge in modo estremamente pregnante in
Abu Hamid al-Ghazali. Si ricordi la densissima analisi: «Nella frase “Non vi è altra divinità se non
Lui” (lâ ilâh illâ huwa), “divinità” (al-ilâh) è un’espressione che indica ciò verso cui sono rivolti i visi
dei credenti nell’atto del culto e nell’esaltazione della Sua sublimità. Intendo i visi dei cuori giacché
essi sono le luci e gli spiriti. Anzi, come “non vi è altra divinità se non Lui”, così “non v’è altro lui se
non Lui” [l’ipseità: kamâ lâ ilâh illâ huwa lâ huwa illâ huwa], poiché “Lui” è espressione con cui
solo Dio può essere designato. Anzi, tutto ciò che si indica non è in realtà che indicazione di Lui,
anche se non lo sapevi perché hai trascurato la verità delle verità di cui abbiamo parlato. Non si indica
la luce del Sole, ma il Sole stesso. Quindi, tutto quel che esiste lo è in relazione a Lui, così come,
facendo un chiaro paragone, la luce è in relazione al Sole. Dunque, «non v’è altro dio se non Dio» (lâ
ilâh illâ Allâh) è la professione dell’Unicità di Dio fatta dalla gente comune, mentre «non v’è altro lui
se non Lui» [l’ipseità: lâ ilâh illâ huwa] è la professione dell’Unicità di Dio fatta dagli eletti, poiché la
prima è più generale, mentre la seconda è più particolare, più completa, autentica e precisa, e consente
a chi la usa di penetrare nell’individualità pura e nell’Unicità perfettissima di Dio19.
La parabola metafisica di al-Ghazâlî lo porta al riconoscimento del fatto che Dio è identità
assoluta, per cui è l’Essere che si manifesta negli enti pur conservando la sua trascendenza. Possiamo
forse affermare che Dio è l’Essere nella sua essenza, ma non come presenza, bensì come dinamicità:
Dio è l’Essere come inveramento di tutte le potenzialità, l’Essere che sta dietro all’ente e si rivela
nell’ente. In tal senso è oggetto di domanda e di ricerca, mai di coglimento o di incarnazione, ancora
una volta marcando la distanza dalla teologia cristiana.20
*Massimo Campanini (1954), orientalista e islamologo italiano, ha studiato filosofia e lingua
araba. Ha insegnato nelle Università di Urbino, Milano e Napoli L’Orientale e attualmente è
professore associato di studi islamici all’università di Trento. Ha pubblicato oltre 100 articoli
e 33 monografie, tra cui cinque sul Corano: la traduzione commentata delle sure 12 e 18, la
traduzione delle Perle del Corano di al-Ghazali e in inglese The Qur'an the Basics
(Routledge) e The Qur'an: modern muslim interpretations (Routledge).
18
Al-Ash‘arī, Maqālāt al-islāmiyyin wa ikhtilāf al-musalliyyin (I detti dei musulmani e le differenze delle
opinioni di coloro che praticano la preghiera), ed. M. ‘Abd al-Hamīd, Maktabat al-Nahda al-Misriyya, Cairo
1969, 2 voll., vol. II, p. 204.
19
Al-Ghazâlî, Miškât al-Anwâr, a cura di A. ‘Izz ad-Dīn al-Sirwân, ‘Âlam al-Kutub, Beirut 1986, p. 144. Trad.
it. Di M. Campanini in : Al-Ghazālī, Le luci della sapienza, Mondadori, Milano 2012, p. 102.
20
Ci troviamo assai accosti all’“evento” o Ereignis di Heidegger. Rimando ancora a: M. Campanini,
Philosophical Perspectives on Modern Qur’anic Exegesis: Key Paradigms and Concepts (in corso di stampa).