NIHIL SUB ASTRIS NOVUM N. 8 – 15 DICEMBRE 1996 a cura di Cristina Bernasconi, Elia Cozzi e Massimo Zoggia ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– A Newsletter of Gruppo Astrofili “Giovanni e Angelo Bernasconi” Via S. Giuseppe, 34–36 21047 Saronno (VA) Italy http://www.logicom.it/personal/Bernasconi http://www.pangea.va.it/bernasconi ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– eseguire calcoli più precisi sulla velocità e direzione dei venti di GRAZIE! Nettuno, con un conseguente miglioramento delle comprensione Con l’uscita della Newsletter di Domenica 27/10/96 apprendo della dinamica meteorologica del pianeta. con molto piacere che è stato pubblicato in N° 1 del mensile “A Guide to Deep Sky Observations”. Nettuno in colori originali Per questo motivo mi sento di ringraziare Cristina, Elia e Massimo per l’impegno dedicato alla creazione di questa rivista, che permette al Gruppo di farsi conoscere anche fuori dai confini di Saronno. Inoltre la rivista permette agli appassionati del cielo di veder pubblicate le proprie considerazioni e osservazioni, facendole uscire dalle quattro mura domestiche. Pertanto tutti noi dobbiamo incoraggiare questi ragazzi che dedicano molto del loro tempo libero affinché il Gruppo continui a vivere e progredire. Gianfranco Bonfiglio Non posso fare altro che approfittare di questa lettera, che ho ricevuto con molto piacere, per rinnovare nuovamente l’invito a partecipare a questa pubblicazione. Purtroppo mi sto accorgendo che il nostro Gruppo Astrofili sta lentamente perdendo quella caratteristica di scambio reciproco di esperienze, notizie e informazioni riguardanti le scienze astronomiche, spostandosi sempre più verso un qualcosa di unilaterale in cui i Soci non si sentono coinvolti nelle attività. Fortunatamente c’è ancora qualcuno come Lei che ci aiuta nel difficile compito di rendere viva la nostra l’associazione. IL TELESCOPIO SPAZIALE REALIZZA UN FILMATO SULLA ROTAZIONE E SULLA METEOROLOGIA DI NETTUNO L’Hubble Space Telescope è stato utilizzato per assemblare un filmato a colori che mostra il periodo di 16 ore di rotazione del pianeta Nettuno. Il filmato, composto da una serie di osservazioni dell’Hubble eseguite durante nove orbite successive, permette agli astronomi di determinare il moto delle nuvole nell’atmosfera del pianeta. Le immagini mostrano la potente corrente equatoriale a getto di Nettuno, immensi uragani e la macchia scura nell’emisfero nord del pianeta, identificata per la prima volta lo scorso anno da un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology utilizzando sempre Hubble. Il filmato è stato realizzato da un team di scienziati guidato da Lawrence Sromovsky del Madison’s Space Science and Engineering dell’Università del Wisconsin ed è stato presentato alla conferenza annuale del Dipartimento di Scienze Planetarie della Società Astronomica Americana, a Tucson, in Arizona. Gli astronomi hanno combinato le osservazioni dell’Hubble e del Telescopio Infrarosso (Infrared Telescope Facility (IRTF)) del Mauna Kea, sulle Isole Hawaii, in modo tale da osservare il pianeta in una varietà di lunghezze d’onda, ognuna delle quali fornisce un’informazione diversa sulle nuvole di Nettuno, sulla loro struttura e sui loro movimenti. Gli scienziati possono ora Queste due fotografie eseguite mediante l’Hubble Space Telescope forniscono una visione degli emisferi opposti di Nettuno. Le immagini, riprese il 13 agosto 1996, con la Wide Field and Planetary Camera 2, sono una composizione di ulteriori immagini a diverse lunghezze d’onda realizzate per seguire i cambiamenti meteorologici di Nettuno. Il colore blu predominante è conseguenza dell’assorbimento della luce rossa ed infrarossa da parte del metano presente nell’atmosfera del pianeta. Le nuvole che si elevano sopra la maggior parte del metano appaiono bianche, mentre quelle nell’altissima atmosfera tendono ad apparire giallo–rosse come è possibile vedere nella zona luminosa in alto nell’immagine di destra. La potente corrente equatoriale e getto, una regione dove i venti soffiano a quasi 1500 chilometri orari, è centrata sulla fascia blu scuro appena più a sud dell’equatore di Nettuno. Ancora più a sud, la fascia verde indica una regione dove l’atmosfera assorbe la luce blu. Le immagini fanno parte di una serie di riprese eseguite dal Telescopio Hubble durante nove orbite coprenti le 16.11 ore di rotazione del pianeta. Il team che ha eseguito le osservazioni è diretto da Lawrence Sromovsky del University of Wisconsin– Madison’s Space Science and Engineering Center. GLI ANELLI DI SATURNO Quando Galileo puntò il suo nuovo telescopio verso Saturno, osservò uno strano rigonfiamento sui lati del pianeta che non riuscì a spiegare. Nel 1610, quando rese pubbliche le osservazioni, pensò che si trattasse di corpi separati ai lati di Saturno. Tuttavia, nel 1612, queste protuberanze, che egli battezzò “orecchie”, sembrarono scomparire. La natura del fenomeno rimase incompresa fino al 1659, quando Christiaan Huygens vide che le protuberanze erano parte di un anello che non toccava il pianeta. Quando la Terra si trova direttamente nel piano degli anelli, questi sono visti di taglio 1 e, quindi, sembrano scomparire. Usando un telescopio a lunga focale da lui progettato, Huygens scoprì anche Titano. Nel 1675, l’astronomo Italiano Gian Domenico Cassini, che all’epoca era direttore dell’Osservatorio di Parigi, scoprì una discontinuità negli anelli che prese il suo nome: “Divisione di Cassini”. Composizione degli anelli Con i telescopi disponibili all’epoca di Cassini, gli anelli di Saturno apparivano così opachi da sembrare solidi. Adesso è risaputo che essi consistono di innumerevoli particelle con densità media vicina a 1, che indica una composizione ghiaccio d’acqua e polvere, simile ad una palla di neve sporca. Le particelle sembrano variare molto in dimensione. La maggior parte non è più grande di un pollice, tuttavia alcuni corpi hanno una dimensione compresa tra diversi metri fino a quasi un chilometro. Per ogni oggetto gigante negli anelli ce ne sono molti di più di taglia media, e ancora di più di taglia piccola e così via fino agli oggetti più minuscoli. Se tutte le particelle che costituiscono gli anelli di Saturno venissero raggruppate per formare un unico satellite, questo avrebbe un diametro di circa 100 km. Lo spessore del sistema principale di anelli di Saturno varia tra i 10 e i 100 chilometri, ma la sua larghezza è di circa 45000 km. La dimensione dell’intero sistema di anelli raggiunge i 400000 km. Il sistema è costituito da diversi anelli chiaramente visibili, di differente luminosità e con qualche discontinuità tra loro. Le immagini del Voyager hanno rivelato che gli anelli maggiori sono formati da molti anelli più sottili di cui ne sono stati identificati circa 1000. Sull’anello principale o anello “B” sono stati osservati alcune “raggiere” scure che appaiono e scompaiono. Si ritiene che il campo magnetico di Saturno carichi elettrostaticamente le particelle di polvere che salgono temporaneamente sopra l’anello formando le raggiere. Origine degli anelli Gli anelli di Saturno si svilupparono da una nube di particelle provenienti da un satellite distrutto o da materiale che non è riuscito a formare una o più lune. La maggior parte degli anelli è situata all’interno di quello che viene chiamato “limite di Roche” del pianeta, dal nome del matematico francese, Edouard Roche, che propose la sua teoria nel 1850. Nella regione compresa entro questo limite le forze mareali distruggono i satelliti. Nella nuvola primordiale di particelle, le collisioni e le mutue attrazioni provocarono una riduzione delle velocità e un appiattimento sul piano equatoriale, formando appunto un anello intorno al pianeta. Le particelle che si trovano più vicine al pianeta si muovono più velocemente di quelle che si trovano più all’esterno. L’interazione tra le particelle veloci e quelle lente produce una spinta di quelle veloci verso l’interno e di quelle lente verso l’esterno causando un allargamento dell’anello. La presenza di satelliti sia all’interno sia all’esterno degli anelli influenza fortemente la loro struttura. L’attrazione 2 gravitazionale dei satelliti modifica l’orbita delle particelle causando delle discontinuità negli anelli. Questi satelliti prendono il nome i “satelliti pastori” perché confinano le particelle in anelli stretti. I satelliti contenuti negli anelli hanno solamente la funzione di rifornitori di nuovo materiale. Il sistema degli anelli Il sistema degli anelli di Saturno viene identificato con le lettere alfabetiche generalmente in ordine di scoperta dell’anello. Vicinissimo a Saturno si trova il debole anello D. Il suo confine interno si trova a soli 6700 dalle nuvole del pianeta. L’anello D si estende per 7500 km, fino all’inizio dell’anello C. Quest’ultimo ha una larghezza di circa 17500 km, ponendo il suo limite esterno a 60000 km di distanza dalle nuvole di Saturno. Successivamente si trova il brillante anello B. Si tratta dell’anello più denso di Saturno, sufficientemente opaco da causare un’ombra su Saturno. L’anello B è largo circa 25500 km e il suo bordo esterno segna l’inizio della Divisione di Cassini. Osservata per la prima volta da Casini nel 1675, la Divisione di Cassini è una spaccatura di 4700 km che separa l’anello B dall’anello A. La divisione è probabilmente il risultato delle interazioni gravitazionali tra le particelle degli anelli e il satellite Mimas. L’anello A ha una larghezza di 14600 km, il suo limite esterno è situato a 77000 chilometri dalle nuvole del pianeta. A 80000 km si trova l’anello F che presenta una larghezza variabile tra i 30 e i 500 km. Le particelle dell’anello F sono tenute confinate da due satelliti pastori: Prometheus e Pandora. Oltre l’anello F si trova l’anello G, scoperto dalla sonda Voyager, e l’ancora più tenue anello E. L’indistinguibile confine esterno dell’anello E è situato presumibilmente ad una distanza i 420000 km dalle nuvole di Saturno. TEMPESTA PRIMAVERILE DI POLVERE SUL POLO NORD MARZIANO Due immagini dell’Hubble Space Telescope, riprese a circa un mese di distanza il 18 settembre e il 15 ottobre 1996, mostrano una tempesta di sabbia in prossimità del confine della calotta polare nord. La tempesta polare è probabilmente una conseguenza delle notevoli differenze di temperature tra il ghiaccio polare e le regioni scure a sud che sono riscaldate dal sole primaverile. L’incremento della quantità di luce solare causa anche la sublimazione del ghiaccio della calotta polare. Marte è famoso per le sue enormi e globali tempeste di polvere. Le piccole tempeste simili a quella vista qui vennero osservate dalla sonda Viking verso la fine degli anni ‘70. Tuttavia, questa è la prima volta che un simile evento viene registrato in prossimità della recedente calotta polare nord. Le immagini di Hubble forniscono un valido supporto per la comprensione delle tempeste di sabbia localizzate, che sono tipicamente al di sotto della risoluzione dei telescopi terrestri. Questo tipo di “rapporto meteorologico” si dimostrerà di valore inestimabile durante le preparazione della missione Pathfinder, che la NASA si appresta a lanciare nel luglio 1997 e per il presunto arrivo della Mars Global Surveyor nel settembre del 1997. Nell’immagine superiore, ripresa il 18 settembre 1996, la macchia scura (bianca nell’immagine in negativo) è una tempesta di sabbia di circa 1000 chilometri, approsimativamente la dimensione del Texas. La polvere luminosa può essere vista anche sopra la superficie scura che circonda la calotta polare, dove viene catturata dalle correnti atmosferiche marziane e spostata in direzione est. Le nuvole bianche ad altitudine inferiore sono per la maggior parte associate al maggior vulcano marziano, l’Olympus Mons. Questa immagine è stata ripresa quando Marte si trovava a più di 300 milioni di chilometri dalla Terra, e il pianeta presentava una dimensione angolare inferiore alla Grande Macchia Rossa di Giove. chimici che colorano l’atmosfera di Giove. Le tre riprese nell’infrarosso riprendono strati sempre più alti dell’atmosfera gioviana. Le caratteristiche più alte, come la nebbia diffusa sopra la macchia rossa e le piccole nubi a nord–est di essa, sono più appariscenti nella ripresa a 886 nm. In tutte le immagini il nord è in alto. Ogni pixel riprende una zona di circa 30 chilometri di lato. Le immagini sono state ottenute il 26 giugno 1996 dal sistema di ripresa a stato solido a bordo della sonda Galileo. Lanciata nell’ottobre del 1989, la sonda Galileo è entrata in orbita intorno a giove il 7 dicembre 1995. La missione Galileo ha lo scopo di eseguire studi dettagliati sul pianeta gigante, sui suoi satelliti maggiori e sul campo magnetico di Giove. EUROPA Nell’immagine in basso, ripresa il 15 ottobre 1996, una conformazione a forma di “virgola” è visibile sulla calotta polare. Questa forma è tipica dei fronti freddi terrestri, associati a sistemi a bassa pressione. Nulla di simile a questo era mai stato visto in precedenza, né con osservazioni terrestri, né con le riprese ravvicinate delle sonde. La linea di demarcazione della calotta polare si è spostata verso nord (rispetto all’immagine precedente) di circa 200 km, mentre la distanza del pianeta rosso è diminuita a circa 275 milioni di chilometri. Note tecniche: per aiutare a paragonare la localizzazione e la dimensione delle caratteristiche, la proiezione riportata a destra di ogni immagine è centrata sul polo nord geografico. Le mappe sono orientate con lo zero di longitudine in alto e mostrano i meridiani ogni 45 gradi, la longitudine aumenta in senso orario; i cerchi di latitudine sono a 40, 60 e 80 gradi. Le immagini sono state assemblate partendo da esposizioni separate riprese con la Wide Field and Planetary Camera 2. QUATTRO “VISTE” DELLA GRANDE MACCHIA ROSSA DI GIOVE Questi fotomosaici di 6 immagini ciascuno, mostrano la Grande Macchia Rossa in luce viola (415 nm, in alto a sinistra), nell’infrarosso (757 nm, in alto a destra), nella banda di assorbimento debole del metano (732 nm, in basso a sinistra) e nella banda di assorbimento forte del metano (886 nm, in basso a destra). Le immagini sono state riprese a pochi minuti l’una dall’altra. La luce solare riflessa a queste lunghezze d’onda penetra a diverse profondità ed è diffusa o assorbita dai diversi componenti dell’atmosfera. Il mosaico violetto mostra l’abbondanza relativa dei composti Questa immagina mostra un emisfero del satellite gioviano ricoperto di ghiaccio, Europa. Le regioni scure identificano materiale roccioso proveniente dall’interno, derivante da impatti, o da una combinazione di sorgenti interne ed esterne. Le lunghe e scure linee sono fratture della crosta, alcune delle quali sono lunghe più di 3000 km. La zona chiara con una macchia centrale scura situata nel terzo inferiore dell’immagine è un giovane cratere da impatto largo circa 50 chilometri. Il cratere è stato provvisoriamente battezzato “Pwyll” in onore di una divinità celtica. Europa, con un diametro di 3160 km, ha dimensioni molto simili a quelle della nostra Luna. Questa immagine è stata ripresa il 7 settembre 1996 da una distanza di 677000 chilometri da una telecamera allo stato solido a bordo della sonda Galileo durante la sua seconda orbita intorno a Giove. 3 HUBBLE SEGUE I RAPIDI CAMBIAMENTI DELL’AURORA DI GIOVE Lo studio della veloce e spettacolare danza dei gas luminescenti nell’alta atmosfera di Giove, meglio conosciuta come aurora, eseguito con l’Hubble Space Telescope, sta permettendo agli astronomi di mappare l’immenso campo magnetico di Giove e di capire meglio come si genera tale fenomeno. “Ora che abbiamo individuato la localizzazione generale delle aurore e mappato i loro cambiamenti giornalieri, dovremmo essere in grado di scoprire le cause che generano le aurore su Giove”, dice John T. Clarke, un astronomo del College of Engineering dell’Università del Michigan. Le nuove osservazioni di Hubble mostrano simultaneamente degli anelli ovali ripiegati sia sul polo nord sia sul polo sud (spostati di 10–15 gradi dall’asse di rotazione di Giove), unitamente a un’impronta di un’aurora creata da un flusso di corrente di circa un milione di ampere tra Giove e la luna vulcanica Io. Le immagini di Hubble forniscono sufficienti dettagli da consentire a Clarke e ai suoi colleghi di registrare i cambiamenti giornalieri dell’intensità e dei movimenti dell’aurora. Essi hanno scoperto che le variazioni di luminosità avvengono durante il corso di un giorno gioviano, probabilmente a causa della compressione del campo magnetico di Giove sulla faccia del pianeta rivolta verso il Sole. Sono state individuate anche determinate caratteristiche che co–ruotano con il pianeta. Questa visione globale è completata dalle misure del campo magnetico e delle particelle cariche eseguite sul luogo dalla sonda Galileo, ora in orbita intorno al pianeta. Confrontando le riprese globali e quelle ravvicinate, gli scienziati ritengono di perfezionare le teorie riguardanti le cause e i meccanismi alla base della creazione e del mantenimento di questi spettacoli luminosi Il team di scienziati, all’Università del Michigan di Ann Arbor, il Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, l’Università del Wisconsin a Madison, il Goddard Space Flight Center a Greenbelt, e altre istituzioni hanno studiato per due anni le aurore di Giove utilizzando la Wide Field and Planetary Camera 2. I loro risultati hanno portato alla pubblicazione di due articoli, uno firmato da Clarke e l’altro da Gilda Ballester, entrambi del College of Engineering dell’Università del Michigan. I due articoli sono apparsi nel numero del 18 ottobre della rivista Science. Le immagini, riprese in luce ultravioletta, risultano le più sensibili e dettagliate riprese delle aurore del pianeta gigante. Le precedenti osservazioni delle aurore erano state eseguite con la Faint Object Camera di Hubble e con telescopi terrestri tramite filtri nel vicino infrarosso. Le immagini del Telescopio Spaziale presentano dettagli di 300 chilometri di diametro. Questo permette a Clarke e ai suoi colleghi di analizzare i rapidi cambiamenti che avvengono su piccola scala nella struttura delle aurore, consentendo una mappatura delle variazioni sui poli magnetici e sugli effetti derivanti dalle emissioni del satellite Io. Le aurore si manifestano quando le particelle cariche (elettroni, protoni e ioni positivi) vengono catturate dal campo magnetico che circonda il pianeta. Cadendo verso i poli magnetici nord e sud, esse collidono con le molecole e gli atomi presenti nell’atmosfera del pianeta. Gli atomi acquistano energia che viene poi rilasciata sotto forma di emissione luminosa, esattamente come i gas delle luci fluorescenti e al neon quando gli viene applicata una corrente elettrica. Studiando le immagini dell’intero disco di Giove, gli astronomi hanno trovato con sorpresa, che le aurore si presentano in modo speculare ai poli nord e sud. Sebbene anche sulla terra le aurore sopra ogni polo sono una la copia dell’altra, le precedenti osservazioni di Giove a bassa risoluzione spaziale avevano suggerito che alcuni punti dell’ovale dell’aurora apparissero più luminosi. Questo fenomeno veniva spiegato, nel caso di Giove, con le grandi asimmetrie nel campo magnetico che avrebbero prodotto una maggior concentrazione di particelle cariche nei punti di 4 debole campo magnetico con conseguente creazione di zone aurorali più luminose. Le aurore terrestri sono determinate dal flusso di particelle proveniente dal Sole. Diversamente, l’immenso campo magnetico di Giove, unitamente alla sua elevata velocità di rotazione (10 ore) contribuiscono a generare aurore 1000 volte più luminose di quelle terrestri. La situazione viene complicata ulteriormente dal materiale rilasciato dalla luna Io. Gli scienziati ritengono che le eruzioni vulcaniche di Io producano una gran quantità di particelle che vengono ionizzate, si espandono radialmente e vengono catturate dal campo magnetico di Giove. Queste cariche sono costrette a co– ruotare con il pianeta, creando un immenso foglio di corrente che modifica il campo magnetico del pianeta. Quello che non è ancora chiaro è la relazione tra i processi interni e quelli causati dal Sole, e come questi processi producano le aurore. Sulla Terra, le tempeste magnetiche correlate con i grandi cambiamenti del flusso di particelle provenienti dal Sole, causano aurore molto luminose. Questo tipo di tempeste può disturbare i segnali radio e i sistemi di comunicazione, interferire con la navigazione aerea e creare black–out elettrici. Il team di scienziati ha scoperto le tempeste magnetiche anche su Giove, tuttavia, in questo caso, il regolatore del sistema non è il Sole ma un processo interno. Alcuni dei materiali rilasciati da Io producono una corrente di particelle cariche. Queste particelle si ionizzano e vengono guidate nel campo magnetico di Giove lungo gli invisibili “tubi di flusso” che collegano Giove con Io. Questo genera le piccole macchie aurorali in prossimità degli ovali intorno ai poli magnetici. Studiando i cambiamenti dell’intensità di queste macchie, Clarke e i suoi colleghi sono stati in grado di mappare il campo magnetico di Giove mentre Io vi orbitava attraverso. Gli scienziati hanno collegato le macchie al “tubo di flusso” di Io in quanto le emissioni aurorali ruotano con Giove, mentre le macchie rimangono in una posizione fissa relativamente a quella di Io. “Le dimensioni dell’aurora variano da 1000 a 2000 chilometri”, dice Clarke. “Se vi trovaste sulle nubi di Giove, al di sotto del satellite Io, l’aurora ricoprirebbe tutto il cielo. Dovreste vedere un’esplosione causata dai gas che 400 chilometri sopra di voi vengono riscaldati rapidamente ad una temperatura di più di 5000 gradi. La velocità di spostamento dell’aurora da est a ovest è superiore ai 5 km al secondo in quanto la rapida rotazione di Giove sposta il pianeta più rapidamente di quanto lo faccia Io in orbita.” Clarke e i suoi colleghi sperano che le future osservazioni contribuiscano a fornire ulteriori informazioni sulle aurore. Il team sta condividendo i dati raccolti con gli scienziati responsabili della sonda Galileo, che si sta attualmente muovendo ripetutamente attraverso il campo magnetico del pianeta durante le sue orbite. Galileo è in grado di rilevare le particelle cariche (ioni, protoni e elettroni) che vengono intrappolate dal campo magnetico e di determinarle la loro posizione e la loro energia. Le informazioni raccolte da Hubble e dalla Galileo dovrebbero consentire agli astronomi di determinare una più accurata disposizione delle particelle cariche, che potrebbe eventualmente portare all’individuazione della loro sorgente su Io. Le immagini di Hubble rivelano le aurore di Giove Queste immagini, riprese con l’Hubble Space Telescope, rivelano cambiamenti nelle emissioni aurorali di Giove e come le piccole macchie aurorali appena all’esterno degli anelli di emissione sono collegate al satellite vulcanico Io. Queste immagini rappresentano le riprese più dettagliate e sensibili delle aurore gioviane. La parte alta mostra l’effetto delle emissioni da Io, che ha dimensioni paragonabili a quelle della nostra Luna. L’immagine a sinistra, ripresa in luce visibile, mostra come Giove ed Io siano legati da un’invisibile corrente elettrica di particelle cariche chiamata “tubo di flusso”. La particelle – espulse da Io (la macchia luminosa (scura nell’immagine in negativo) dalle eruzioni vulcaniche – fluiscono lungo le linee del campo magnetico di Giove, che “collegano” il satellite ai poli magnetici nord e sud del pianeta. Questa immagine mostra anche le bande nuvolose del pianeta e la Grande Macchia Rossa. L’immagine a destra, ripresa in luce ultravioletta circa 15 minuti dopo, mostra le emissioni aurorali di Giove sui poli nord e sud. Appena all’esterno di queste sono visibili le macchie aurorali. Denominate “impronte” [trad. “footprint”], le macchie sono create quando le particelle presenti nel tubo di flusso di Io raggiungono l’alta atmosfera di Giove interagendo con l’idrogeno e causando la fluorescenza. In questa immagine, Io non è visibile in quanto il satellite è molto debole in ultravioletto. Le due immagini ultraviolette in basso mostrano i cambiamenti di luminosità e struttura delle aurore causate dalla rotazione di Giove. Queste immagini mostrano anche come il campo magnetico sia spostato rispetto all’asse di rotazione di 10–15 gradi. Nell’immagine di destra, l’emissione aurorale nord sta sorgendo sopra l’orizzonte; mentre l’ovale aurorale sud sta iniziando a tramontare. L’immagine a sinistra, ottenuta in un momento diverso, mostra una visione completa dell’aurora nord, con una forte emissione all’interno dell’ovale principale. Le immagini sono state riprese con la Wide Field and Planetary Camera 2 tra il maggio 1994 e il settembre 1995. UNA LUMINOSA REGIONE DI FORMAZIONE STELLARE IN UNA GALASSIA DEBOLE Nell’immagine di destra è visibile un ammasso stellare e una nube di gas luminescente di NGC 2363, una regione gigante di formazione stellare nella galassia magellanica NGC 2366. Nonostante la sua distanza di 10 milioni di anni luce, l’Hubble Space Telescope è stato in grado di risolvere dettagli paragonabili alle nebulose presenti nella nostra galassia. Questa regione è luminosa tanto quanto la nebulosa gigante 30 Doradus nella Grande Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea. La stella più luminosa visibile in questa immagine appartiene a una rara classe denominata “Luminos Blue Variable” (Variabile blu luminosa – LBV). Queste stelle mostruose, con una massa compresa tra le 30 e le 60 masse solari, si trovano in una fase molto instabile ed eruttiva della loro vita. Le immagini del Telescopio Spaziale sono le uniche in grado di mostrare le stelle isolate dal resto dell’ammasso. Solamente quattro LBV giganti eruttive erano state individuate nella storia, la più famosa delle quali era quella di Eta Carinae (1837–1860) e P Cygni (1600), all’interno della nostra Galassia. Questa LBV venne scoperta nelle immagini di Hubble riprese nel gennaio 1996, confrontandole con immagini riprese da telescopi terrestri. Una ricerca negli archivi delle immagini precedenti mostra che questa stella è aumentato la sua luminosità di 40 volte (dalla magnitudine 21.5 alla magnitudine 17.8) in meno di tre anni, diventando ora la stella più luminosa della sua galassia. L’immagine di Hubble, ripresa con la Wide Field Planetary Camera–2 (WFPC2), mostra anche due densi ammassi di stelle massive, che si trovano in due fasi diverse della loro evoluzione. I venti stellari e le esplosioni di supernovae hanno “spazzato” via il gas dall’ammasso più vecchio (4–5 milioni di anni) visto nella parte alta dell’immagine. Questo fenomeno ha creato una cavità all’interno della nebulosa. In contrasto, l’ammasso più luminoso (nella parte bassa del centro) ha un’età probabilmente inferiore a 2 milioni di anni e presenta ancora resti di gas e polvere dal quale si è formato. Le osservazioni di galassie come NGC 2366 aiuteranno gli astronomi a capire meglio perché le galassie irregolari deboli presentano questo tipo di attività di formazione stellare, e quali processi determinano il limite delle dimensioni delle regioni di formazione stellare appartenenti ad un determinato ambiente galattico. Una possibilità è che il gas orbitante intorno alla galassia formi una struttura a barra al termine della quale il gas si accumula causando la formazione di una nube gigante. L’immagine di sinistra mostra la galassia irregolare NGC 2366 ottenuta il 7 febbraio 1996 con il telescopio da 3.6 metri dell’osservatorio Canada–France–Hawaii, situato sul Mauna Kea. Il riquadro bianco (nero nell’immagine in negativo) evidenzia il campo ripreso nell’immagine della WFPC2 del Telescopi Spaziale Hubble. VEICOLI DI LANCIO SOVIETICI Vostok Con i suoi 38 metri di altezza, con un motore principale e quattro booster, il Vostok (letteralmente “Est”) è stato il primo missile balistico intercontinentale sovietico. Fu progettato da Sergei Korolev nei tardi Anni ‘50. I Vostok hanno lanciato le missioni non pilotate Luna, Electron e Meteor, e le navicelle pilotate Vostok. Le navicelle Vostok lanciate dai razzi Vostok portarono a 5 termine numerose missioni storiche. La Vostok 1, lanciata il 12 aprile 1961, portò il primo uomo nello spazio: il cosmonauta Yuri Gagarin. La Vostok 2, lanciata lo stesso anno, fece compiere ai cosmonauti 17 orbite terrestri. Entro il 1963, la Vostok 5 avrebbe completato il volo più lungo con un singolo cosmonauta (quasi cinque giorni); la Vostok 6, completò una missione di tre giorni con la prima donna nello spazio: Valentina Tereshkova. Soyuz I Soyuz (letteralmente “unione”) erano derivati dai razzi Semiorka. Anch’esso progettato da Korolev, era costituito da quattro booster da primo stadio ancorati ad un corpo centrale. Ogni booster aveva un motore a razzo con quattro camere di combustione e quattro ugelli che bruciavano kerosene ed ossigeno liquido. Il primo stadio, prelevato dai missili intercontinentali SS–6 Sapwood, sviluppati sempre da Korolev, lanciò lo Sputnik, nel 1957, e i successivi Sputnik 2 e 3. Gli stadi superiori vennero aggiunti per portare gli equipaggi sulle stazioni spaziali orbitanti. Il secondo stadio ha due motori. Il Soyuz è ancora oggi il vettore utilizzato per le missioni in orbita terrestre bassa. Ha una lunghezza di 50 metri e può portare in orbita bassa un carico di 6.8 tonnellate. È stato utilizzata per il lancio delle navicelle Soyuz e dei veicoli di supporto Progress. I razzi della serie Soyuz vennero utilizzati nel programma Voskhod e sono ancora in uso oggi per portare i cosmonauti sulla stazione Spaziale Mir. Cosmos L’utilizzo principale dei vettori della serie Cosmos è stato quello di lanciare satelliti per utilizzi militari, scientifici e civili. Basato sul disegno di un missile militare, il Cosmos originale era un piccolo lanciatore a due stadi. A partire dal marzo 1962 ha lanciato più di un centinaio di satelliti scientifici della serie Cosmos. Venne messo fuori servizio nel 1977. La versione attuale del Cosmos è lunga 32 metri ed è stata derivata dai missili balistici a media gittata Skean, ai quali è stato aggiunto un secondo stadio. Utilizzati per lanciare centinaia di piccoli satelliti, i Cosmos generano 160 tonnellate di spinta nel primo stadio. Proton I vettori della serie Proton hanno lanciato le principali sonde per l’esplorazione lunare e planetaria. I Proton hanno il primo stadio a sei motori; al primo stadio possono essere aggiunti un secondo stadio e uno stadio di “escape”. I Proton possono portare 18150 kg in orbita terrestre bassa, 5170 kg sulla Luna e 4540 kg come carico utile per le missioni interplanetarie. I lanciatori Proton vennero utilizzati per mandare sonde verso la Luna a partire dal 1967, ma non ci riuscirono fino al 21 luglio 1969, quando la sonda Luna 15 raggiunse il nostro satellite il giorno seguente allo storico sbarco dell’Apollo 11. I Proton non trasportarono mai cosmonauti in quanto per questo scopo c’erano le navicelle Soyuz. Nell’aprile del 1971 un Proton lanciò la prima stazione spaziale Salyut (letteralmente “salute”). Per una decina d’anni i Proton vennero utilizzati per trasportare le sonde dedicate all’esplorazione del pianeta Venere. Nel febbraio 1986 i Proton vennero utilizzati per mettere in orbita l’attuale stazione spaziale Mir (letteralmente “pace” o “mondo”). Energiia Usato fino ad oggi soltanto due volte, Energiia venne lanciato per la prima volta nel 1987. 6 Con due stadi ricuperabili e una massa di lancio di circa 2180 tonnellate, Energiia può portare in orbita terrestre bassa un carico di 91 tonnellate e in orbita geostazionaria 16.3 tonnellate. Inoltre, Energiia è abbastanza potente da riuscire a trasportare 29 tonnellate in orbita lunare e 25 tonnellate verso Marte! Una versione di questo vettore venne utilizzata per il primo volo (non pilotato) dello space shuttle sovietico Buran, nel novembre 1988. Energiia è alto 61 metri e ha un peso di 2 milioni di kg. Il primo stadio sviluppa una potenza di 3 milioni di kg. Lo stadio principale ha quattro motori a ossigeno e idrogeno liquidi. I quattro booster riutilizzabili sono alimentati da kerosene e ossigeno liquido. HUBBLE ESPLORA LA “CASA” DEI QUASAR Due team di astronomi hanno mostrato drammatiche immagini riprese dall’Hubble Space Telescope che mostrano come i quasar “vivano” in una gran varietà di galassie, molte delle quali si trovano in una situazione di violenta collisione. Questa complicata figura suggerisce l’esistenza di una varietà di meccanismi per “accendere” i quasar, gli oggetti più luminosi dell’universo. I ricercatori sono inoltre affascinati dal fatto che i quasar studiati non sembrerebbero aver danneggiato le galassie in cui si trovano. Questo potrebbe significare che i quasar sono un fenomeno relativamente breve a cui molte galassie, compresa la Via Lattea, sono state sottoposte molto tempo fa. John Bahcall, dell’Istituto per gli Studi Avanzati di Princeton, evidenzia che la chiarezza delle immagini del Telescopi Spaziale mette in risalto una situazione più complessa. “Se pensavamo di avere una teoria completa sui quasar, adesso sappiamo che ciò non è vero”, dice Bahcall. “Non si evidenzia alcun comportamento univoco e coerente dei quasar. L’assunzione fondamentale era che ci fosse un solo tipo di galassie in grado di ospitare i quasar e di eventi catastrofici in grado di alimentarli. In realtà ora non abbiamo una semplice idea, abbiamo una gran confusione. Mike Disney, dell’Università del Galles, Gran Bretagna, leader del team europeo, dice, “Era stato presupposto che le collisioni avrebbero potuto essere un importante meccanismo tramite il quale venivano alimentati i buchi neri e si generava la gran quantità di energia emessa dai quasar. Ora sappiamo che queste idee sono realmente vere, ma non lo sapevamo prima di questa scoperta di Hubble. Questo è veramente un successo affascinante.” Sebbene un numero di immagini mostri collisioni tra coppie di galassie che potrebbero causare la nascita dei quasar, alcune immagini rivelano galassie apparentemente normali e indisturbate che possiedono un quasar. “Siamo stupiti dalla bellezza e dalla chiarezza delle immagini di dell’Hubble Space Telescope, e allo stesso tempo dalla varietà degli ambienti in cui si trovano i quasar”, afferma Donald Schneider della Pennsylvania State University, University Park, PA. Scoperti solamente 33 anni fa, i quasar sono tra gli oggetti più stravaganti dell’universo a causa delle loro dimensioni ridotte e della prodigiosa emissione di energia. I quasar non sono più grandi del nostro Sistema Solare, ma emettono un’energia da 100 a 1000 volte superiore a quella di una galassia contenente centinaia di miliardi di stelle. Un buco nero super massivo, che catturi stelle, gas e polveri, potrebbe essere il “motore” che aziona il quasar. La maggior parte degli astronomi concorda con l’idea che un buco nero sia l’unica possibilità credibile in grado di giustificare la possibilità di oggetti così compatti, variabili e potenti. Tuttavia, l’evidenza di tali affermazioni è sempre stata elusiva a causa dell’elevata luminosità dei quasar che nasconde qualsiasi dettaglio dell’”ambiente” in cui si trovano. “Questi problemi non avrebbero potuto essere risolti senza il Telescopio Spaziale”, afferma Disney. “Smisi di studiare i quasar vent’anni fa perché avevo capito che dovevamo aspettare un telescopio spaziale che fornisse immagini sufficientemente chiare per poter risolvere il problema.” Le osservazioni del team europeo, eseguite tramite la Wide Field and Planetary Camera 2 (WFPC2) in modalità ad alta risoluzione, mostrano come i quasar appaiano nascere in ambienti in cui due galassie stanno interagendo violentemente e probabilmente collidendo. “Questa meccanismo è sospettato da lungo tempo come la più probabile causa di “accensione” dei quasar ma, prima della scoperta di Hubble, nessuno sapeva se l’idea fosse realmente esatta”, dice Peter Boyce. “In quasi tutti i quasar vediamo chiaramente una galassia che ne inghiotte apparentemente un’altra”, afferma Disney. Egli selezionò tre quasar conosciuti come intensi emettitori infrarossi, fatto che suggerisce la possibilità che siano galassie a spirale che contengono normalmente una gran quantità di polvere e gas. “Quando abbiamo osservato le immagini di Hubble abbiamo visto la catastrofe più colossale: due galassie a spirale come la nostra Via Lattea si erano scontrate reciprocamente e stavano espellendo materia in tutte le direzioni. Parte di questo materiale sembra addirittura essere finito nel nucleo di una delle spirali dove probabilmente si trova un gigantesco buco nero che alimenta il quasar”. Bahcall, Schneider e Sofia Kirkahos hanno utilizzato la WFPC2 in modalità wide–field, per analizzare 20 quasar. Bahcall ha trovato che la metà dei quasar studiati si trovano in galassie che sembrerebbero indisturbate. “O la compagna interagente è vicina al nucleo al punto tale da essere sotto la capacità risolutiva di Hubble, o c’è un altro meccanismo che da origine al quasar.” Entrambi i team sono concordi nell’affermare che le immagini del Telescopio spaziale mostrano in modo conclusivo che: • la maggior parte dei quasar si trova nel nucleo delle galassie luminose, sia spirali che ellittiche. Sebbene l’esistenza di galassie sottostanti sia suggerita dalle osservazioni eseguite con telescopi terrestri, gli astronomi dovrebbero aspettare le capacità di Hubble per mostrare le galassie ospitanti in modo sufficientemente chiaro da permettere una classificazione morfologifa; • le interazioni tra le galassie, sia attraverso le collisioni dirette, sia negli incontri ravvicinati, possono essere importanti nell’”accesnsione” di un quasar, spingendo la materia all’interno di un buco nero. Tuttavia, dal momento che alcuni quasar appaiono imperturbati, potrebbe esserci un altro meccanismo che porti all’alimentazione del buco nero. “Alcune delle galassie che abbiamo osservato non sembrerebbero avere un quasar al loro interno”, afferma Bahcall. “Questo potrebbe essere un punto fondamentale dal momento che è un risultato del tutto inaspettato”; • i quasar che sono radio quieti si trovano spesso nelle galassie ellittiche e non, come ritenuto in precedenza, in quelle a spirale. Ulteriori ricerche sui quasar rappresentano una sfida considerevole per le capacità dei mezzi disponibili a causa della loro grande distanza. “È come avere ancora pochi fotogrammi di una partita di calcio [trad. “football”] e provare a determinare sia le regole del gioco sia il risultato finale. È una vera sfida, ed è molto affascinante, ma si è ovviamente soggetti alla probabilità di commettere gli errori più giganteschi. Prima o poi ci riusciremo, ma potremmo aver bisogno di una gran quantità di immagini di Hubble per essere certi di quello che accade veramente”, sostiene Disney. Adesso che si conosce qualcosa di più sull’ambiente in cui si trovano i quasar i team di ricerca invitano gli astronomi ad indirizzare le loro ricerche su un campo più vasto. La maggior parte dei quasar brilla per un breve periodo della vita di una galassia (100 milioni di anni o meno)? Se è così, significa che la maggior parte delle galassie, compresa la Via Lattea potrebbero aver ospitato dei quasar. Se, diversamente, i quasar hanno una vita lunga, significa che sono più rari. “Questo vuol dire che pochi massivi buchi neri si formarono nei primi istanti di vita dell’universo”, dice Disney. Gli astronomi stanno risolvendo il problema dell’uovo e della gallina anche a proposito della nascita dei quasar. I buchi neri massivi si sono formati prima e poi le galassie si sono nate intorno ad essi, oppure la nascita delle galassie ha preceduto quella dei buchi neri che sono cresciuti al loro interno in seguito a collisioni e fusioni stellari? Gli strumenti avanzati progettati per il Telescopio Spaziale dovrebbero aiutare gli astronomi a risolvere questi problemi mostrando maggiori dettagli. La Near Infrared Camera e il Multi– Object Spectrometer (NICMOS), che verranno installati nel 1997, e la Advanced Camera, che verrà installata nel 1999, avranno un dispositivo coronografico che fermerà la luce del quasar per permettere agli astronomi di vedere più vicino al nucleo della galassia. Osservando la struttura galattica in infrarosso, il NICMOS dovrebbe essere in grado di fornire importanti dettagli a proposito della galassia ospitante il quasar. Una survey delle galassie che ospitano i quasar I quasar risiedono in una varietà di galassie, da quelle normali a quelle altamente perturbate. Quando vengono osservati da terra, queste compatte ed enigmatiche sorgenti luminose, sembrano stelle, sebbene diano miliardi di anni luce più distanti e centinaia di miliardi di volte più luminosi delle stelle normali. Le immagini riprese dall’Hubble Space Telescope mostrano ambianti diversi per ogni quasar. Tuttavia ogni oggetto deve provvedere al rifornimento di “combustibile” per l’alimentazione dei quasar. Gli astronomi ritengono che un quasar si “accenda” quando un buco nero massivo nel nucleo di una galassia viene alimentato da stelle e gas. Quando la materia cade nel buco nero, viene emessa un’intensa radiazione. Eventualmente il buco nero smetterà di emettere radiazione quando avrà consumato tutta la materia circostante. Risultano quindi necessari i “detriti” derivanti dalle collisioni di galassie, o un altro processo, per fornire nuovo combustibile. La colonna di immagini a sinistra rappresenta galassie normali; quella centrale, galassie in collisione; e quella a destra, galassie peculiari. In alto a sinistra: Questa immagini mostra il quasar PG 0052+251, distante 1.4 miliardi di anni luce dalla Terra, nel core di una normale galassia a spirale. Gli astronomi sono sorpresi dal trovare un quasar in questo tipo di galassie, che appaiono indisturbate dalla forte radiazione del quasar. In basso a sinistra: Il quasar PHL 909 si trova a 1.5 miliardi di anni luce dalla Terra e giace nel core di una galassia ellittica apparentemente normale. In alto al centro: La foto mostra l’evidenza di una catastrofica collisione tra due galassie che si muovono a circa 1.5 milioni di chilometri orari. I detriti provenienti da questa collisione possono alimentare il quasar IRAS04505–2958, che si trova a 3 miliardi di anni luce da noi. Gli astronomi ritengono che la galassia disposta verticalmente attraverso il piano di una galassia a spirale, “strappi” il suo core e lasci l’anello a spirale (in basso nella foto). 7 Il core si trova di fronte al quasar, l’oggetto luminoso al centro dell’immagine. Intorno al core c’è una regione di formazione stellare. La distanza tra il quasar e l’anello a spirale è di 15000 anni luce, corrispondente ad un settimo del diametro della Via Lattea. Una stella di campo di trova appena sopra il quasar. In basso al centro: Hubble ha catturato il quasar PG 1012+008, situato a 1.6 miliardi di anni luce dalla Terra, durante la “fusione” con una galassia luminosa (l’oggetto appena sotto il quasar). I due oggetti sono separati di 31000 anni luce. Gli “sbuffi” di polvere e gas che circondano il quasar e la galassia forniscono una forte evidenza dall’interazione tra i due oggetti. La galassia compatta a sinistra del quasar potrebbe iniziare a fondersi con il quasar. In alto a sinistra: Il Telescopio Spaziale ha ripreso la “coda” mareale di gas e polveri del quasar 0316–346, a 2.2 miliardi di anni luce da noi. La forma peculiare della coda suggerisce che la galassia ospitante ha interagito con una galassia “di passaggio” che non è ripresa nell’immagine. In basso a destra: Hubble mostra l’evidenza di una danza tra due galassie interagenti. Le galassie potrebbero aver orbitato reciprocamente diverse volte prima della fusione, lasciando anelli si gas attorno al quasar IRAS13218+0552. Il quasar si trova ad una distanza da noi pari a 2 miliardi di anni luce. Il core elongato al centro dell’immagine potrebbe comprendere i due nuclei delle galassie interagenti. Esplorare la “casa” di un quasar Le immagini riprese dal Telescopio Spaziale Hubble hanno permesso agli astronomi di vedere chiaramente il collegamento tra i quasar e le loro galassie compagne. Alcuni quasar, come quello ritratto in questa immagine, sono stati ripresi nell’istante di fusione o di collisione con la loro galassia compagna. L’immagine di sinistra mostra il braccio mareale di una galassia associata con il luminoso quasar, ad una distanza di 1.5 miliardi di anni luce dalla Terra. La strana forma dei bracci suggerisce un incontro tra il quasar e la galassia compagna. La spessa e luminosa linea sopra il quasar è una galassia di campo vista di taglio. L’immagine a destra, è la stessa di quella di sinistra ma ad un livello di contrasto diverso, permette agli astronomi di indagare più a fondo nel nucleo della galassia (situata appena sopra il quasar). La galassia è simile per dimensioni e luminosità alla Grande Nube di Magellano. La galassia è più vicina al centro del quasar di quanto lo sia il nostro Sole al centro della Via Lattea. Il quasar e la galassia sono tenuti insieme da notevoli forze gravitazionali. Eventualmente, la galassia cadrà all’interno del motore del quasar, il buco nero. Questo buco nero inghiottirà la galassia compagna in non più di 10 milioni di anni. Il quasar ripreso in questa immagine appare grande, ma in realtà è un oggetto compatto e potente. Per dare un’idea della sua luminosità è sufficiente notare gli effetti della diffrazione nell’immagine ripresa dalla Wide Field and Planetary Camera 2 dell’Hubble Space Telescope. 8 LOGO DELLA MISSIONE STS–80 SOMMARIO Grazie! 1 Il Telescopio Spaziale realizza un filmato sulla rotazione e sulla meteorologia di nettuno 1 Gli anelli di Saturno Composizione degli anelli Origine degli anelli Il sistema degli anelli 1 2 2 2 Tempesta primaverile di polvere sul polo nord marziano 2 Quattro “viste” delle Grande Macchia Rossa di Giove 3 Europa 3 Hubble segue i rapidi cambiamenti dell’aurora di Giove Le immagini di Hubble rivelano le aurore di Giove 4 4 Una luminosa regione di formazione stellare in una galassia debole 5 Veicoli di lancio sovietici Vostok Soyuz Cosmos Proton Energiia 5 5 6 6 6 6 Hubble esplora la “casa” dei quasar Una survey delle galassie che ospitano i quasar Esplorare la “casa” di un quasar 6 7 8 Logo della missione STS–80 8 For further information about this paper please contact: Elia Cozzi Via Borghi 14 22076 Mozzate (CO) Italy Phone and Fax: +39–331–830704 Fidonet: 2:331/101 E–mail: [email protected] E–mail: [email protected]