FONDAMENTO DELLA MORALITA’ SECONDO DUNS SCOTO
Per cogliere il senso del fondamento della legge morale e della moralità dell’atto umano,
secondo Duns Scoto, bisogna sottendere da un lato la sua visione teologica generale del
cristocentrismo, come presupposto dottrinale specifico di ogni moralità, e dall’altro le
condizioni essenziali che costituiscono la bontà di un atto umano: libertà del soggetto agente,
bontà dell’oggetto in discussione, circostanze positive che circoscrivono l’atto e fine buono
per cui si compie l’azione. Condizioni tutte che determinano nello specifico la bontà di un
atto umano.
A queste condizioni, il Maestro francescano aggiunge di suo un elemento nuovo, il
concetto di merito, secondo cui un atto buono diventa meritorio, ossia caro e gradito a Dio e
idoneo per il premio eterno. Condizione che si realizza con la “grazia” o “carità” con cui si
compie l’opera buona, e in quanto meritoria essa diventa idonea per entrare nel regno dei
cieli. L’esplicitazione dell’intenzione a voler compiere l’opera buona per amore di Dio o per
amore di Cristo può essere esplicita o implicita, e sottende sempre un profondo atto di fede in
Cristo. Difatti, compiere un’opera per amore di Cristo implica nell’agente la fede che
riconosce nell’altro la presenza dell’immagine di Cristo, che spinge ad agire; per cui l’azione
buona, in ultima analisi, è compiuta sempre per amor di Cristo o in modo diretto o in modo
indiretto, e Cristo, da parte sua, ricompensa con la donazione del regno dei cieli. E questo in
ossequio anche all’adagio medievale, noto anche a Francesco d’Assisi: «l’uomo tanto vale,
quanto vale presso Dio»1.
La presente riflessione, pertanto, accenna a queste condizioni in una forma abbastanza
essenziale, meno storica che sistematica, per tentare di mettere in luce il pensiero del Maestro
francescano circa il fondamento della moralità dell’atto umano e del suo apporto specifico a
una questione delicata e complessa. In fondo, essa rimanda sempre all’interpretazione
cristocentrica della Parola rivelata.
1. LA LIBERTÀ DELL’UOMO
Della lilbertà sembra si possa dire ciò che Aristotele diceva circa i primi principi della
dimostrazione, di cui non si dà dimostrazione2, e quello che Duns Scoto osservava a chi
voleva cercare come coesistessero in Dio libertà e necessità: «non bisogna cercare la
spiegazione di ciò che non ha spiegazione»3. L’esistenza della libertà appartiene, perciò, a
quella forma di esperienza umana immediata semplice fondamentale e originaria che si
ritrova in ogní azione responsabile dell’uomo. Per questo motivo, Duns Scoto non si
preoccupa di dimostrare l’esistenza della libertà nell’uomo, quanto di metterne in luce il
sostrato metafisico e il meccanismo delle sue manifestazioni.
All’immediatezza con cui l’uomo sperimenta la sua libertà si può avvicinare anche quel
sentimento con cui avverte originariamente la dipendenza fondamentale del proprio essere da
qualcuno diverso da sé, cioè ab alio. Le due esperienze o i due sentimenti possono
tranquillamente essere interpretati come interagenti e complementari, quasi sinonimi. La
presa di coscienza della propria dipendenza originale avviene, secondo Duns Scoto, attraverso
un lungo e complesso processo che porta a scoprire apoditticamente l’Altro, nell’Essere
Infinito, dotato di assoluta Volontà e assoluta Libertà4, che vive necessariamente e agisce
liberamente, in cui necessità e libertà s’identificano a tal punto che il Principio dell’Essere
vuole liberamente e si ama liberamente5.
Accettando il concetto di uomo come imago Christi, ossia come dono determinante l’atto
creativo di Cristo e come espressione responsabile della potentia oboedentialis verso il suo
Creatore, Duns Scoto considera la libertà umana come massimo “dono” di Cristo, che lo
caratterizza da tutti gli altri esseri creati. In tal modo non solo contraddistingue la libertà
umana dalla “necessità” greca, ma si preoccupa anche di trovarle il fondamento ontico nella
stessa esperienza umana, considerata da tre punti di vista differenti: in se stessa, in quanto
riguarda il termine e in quanto si rapporta all’agente. Qui interessa ricordare solo il terzo
1 Adm 19, 2: «quantum est homo coram Deo, tantum est et non plus», C. ESSER, Die Opuscula, p. 114; Opuscula, p. 75; C.
PAOLAZZI, Scritti, p. 370.
2 Metafisica, 1011a 12-13.
3 Quaestiones quodlibelales, q. 16, n. 9, (n. 53): «non est quaerenda ratio eorum quorum non est ratio».
4 Ordinatio, I, d. 2, qq. 2-3; De primo principio, cap. 2-4.
5Quaestiones quodlibetales, q. 16, n. 2, (n. 6): «dico quod in actu voluntatis divinae est necessitas simpliciter, et hoc tam
in actu diligendi se quam in actu spirandi amorem procedentem, scilicet Spiritum Sanctum»; Ibidem, n. 2, (n. 7): «Hoc sic
patet: quia Deus necessario est beatus, igitur necessario videt et etiam diligit obiectum beatificum»; Ibidem, n. 2, (n. 8):
«Similiter, Spiritus Sanctus est Deus, et per consequens summe necessarius in essendo, igitur cum accipiat esse procedendo,
actus ille quo procedit est simpliciter necessarius».
punto, che permette di considerare l’atto umano in relazione alla sua causa ultima, che lo
traduce in praxis.
In riferimento alla causa ultima dell’azione umana, Duns Scoto afferma che le potenze
spirituali dell’uomo sono idonee a svolgere azione di critica in rapporto agli oggetti rispettivi,
benché il modo di riferirsi al rispettivo oggetto sia fondamentalmente diverso: l’intelletto si
rapporta necessariamente come natura e la volontà invece liberamente come libertà. Questo
significa che la volontà è essenzialmente libera, e che i suoi atti partecipano della stessa
libertà di Dio6. Anzi il Dottor Sottile va oltre: identifica volontà con libertà7, e definisce la
volontà come «potenza sufficientemente attiva e non determinata per sé verso un oggetto»8.
E’ vero che si trovano altre definizioni nelle
opere di Duns Scoto, ma quasi tutte
dipendono da quelle di Anselmo, specialmente quando si parla della “possibilità di peccare”.
In forma positiva, Duns Scoto afferma che «la libertà è la facoltà di conservare la rettitudine9
per se stessa»10; e soprattutto essa è «una perfezione semplice»11. Accettando e discutendo12
6 Lectura II, d. 23, q. un., n. 39: «libertas, unde libertas, potest esse sine illo [scil. sine ‘posse peccare’], quia libertas in
communi, ut quae est in Deo».
7 Ibidem, d. 25, q. un., n. 74: «quomodo est libertas in voluntate».
8 Ordinatio, I, d. 45, q. un., n. 4, (n. 11): «Potest enm voluntas…causare in obiecto illo [ad fine] …quia non est in
obiecto ex natura rei sed ex comparatione voluntatis conferentis».
9 Lectura II, d. 7, q. un., n. 40: «libertas est potestas servandi rectitudinem».
10 Ibidem, n. 4: «‘posse peccare’ non est libertas nec pars libertatis; igitur tantum ‘posse bene velle’ est libertatis»;
Reportata Parisiensia, II, d. 7, q. 1, n. 1, (n. 4): «Anselmus De libero arbitrio, cap 10: ’Libertas est potestas servandi
rectitudinem propter se’; igitur cum damnati habeant libertatem, possunt servare rectitudinem propter se; igitur poenitere»;
Ibidem, n. 20, (n. 51): «cum dicit Anselmum, quod ‘liberom arbitrium est potestas servandi iustitiam et rectitudinem’, verum
est, si insist, non tanten potest eam acquirere cum deest».
11 Reportata Parisiensia, II, 44, un., 3, (n. 8): «libertas est perfectio simpliciter, tamen loquendo de potestate, qua
voluntas potest peccare, est aliquid liberi arbitrii creari».
12 Lectura II, d. 23, q. un., n. 39: «per ‘posse peccare’ intelligitur ordo ad actum, vel principium elicitivum actus. Primo
modo, nihil est potentiae, quia est relatio; et tamen non sequitur quod fieri potest sine eo, quia est respectus qui necessario
sequitur fundamentum. Secundo modo, duo dicit: et principium et limitationem in principio; et proportionaliter sunt duo in
actu peccati: substantia actus et deformitas. Concedendo igitur singula singulis, concedo quod ‘posse peccare’ - prout dicit
limitationem vel defectibilitatem in voluntate respectu deordinationis in actu - non sit libertas»; Reportata Parisiensia, II, d.
7, q. 3, n. 25, (n. 60): «cum dicit Anselmus, ‘posse peccare nihil libertatis est’, dico quod posse peccare dicit ordinem ad
actum difformem, et ille ordo neque est potentia, neque potentiae; sed potentia, quae dicit rationem principii, quo potest elici
actus difformis, potest fundare istum ordinem immediate, sicut potentia visiva fundat ordinem ad actum visionis, atque ita
liberum arbitrium est id, quo habens ipsum potest peccare; et quia illud quo habens peccare potest, est prosimum
fundamentum ordinis, dupliciter adhuc potest intelligi illud quod fundat istum ordinem, secundum quod duo sunt, ad quae
l’affermazione di Anselmo che «la possibilità di peccare non è né libertà né parte di essa»13,
ma l’uomo conserva la sua libertà anche nell’atto di peccare14, perché la libertà è
radicalmente legata alla bontà15, altrimenti non sarebbe responsabile e né la volontà sarebbe
più libera16. La volontà, quindi, è essenzialmente libera in quanto perfezione semplice e
buona, ed è sempre «padrona dei suoi atti»17.
Questa “sufficienza”, di cui parla Duns Scoto, è da intendersi naturalmente nel senso che
la volontà non riceve alcun atto dall’esterno per poter agire per sé, ossia non subisce
l’influenza determinante delle altre facoltà. Affermazione che può dare adito a diverse
interpretazioni. Quella più conosciuta e fondamentale è l’interpretazione ontologico-teologica
della libertà nell’essere umano, anche se da alcuni è stata fraintesa18. L’altra interprerazione,
più caratteristica, si basa sull’analisi strutturale dell’essere umano, che, per Duns Scoto, è una
unità a più strati di formalità. Per fugare ogni sorta di dubbio circa le tendenziose
interpretazioni sul volontarismo scotiano sembra utile precisare che Duns Scoto intende i
riflessi sociali della libertà, ossia i diritti fondamentali umani, come scaturenti dallo stesso
concetto di persona.
potest comparari, positivum et privativum, substantiam actus, et deformitatem actus, ideo potest intelligi liberum arbitrium
esse fundamentum ordinum, vel eo modo quo est ad positivum in actu elicito, vel eo quo est ad deformitatem actus. Secundo
modo liberum arbitrium in communi, prout convenit Deo et Beatis, non est ratio fundanti istum ordinem ad actum ut
deformis; et tamen liberum arbitrium creatun non confirmatum potest esse ratio fundandi immediata ordinis huiusmodi»;
Ordinatio, II, d. 23, q. un., n. 9, (n. 31): «de posse peccare, prout dicit ordinem ad actum talem, qui quidem ordo est relatio,
quae nihil est sui fundamenti vel potentiae, quae est principium illius actus, et sic posse peccare non est libertas vel pars
libertatis».
13 Lectura II, d. 23, q. un., n. 4: «Posse peccare non est pars libertatis nec libertas».
14 Ibidem, n. 38: «in illam deformitatem [peccati] non est libertas nec pars libertatis; posse tamen in actum (qui potest
esse peccatum), est aliquid libertatis».
15 Ibidem, d. 7, q. un., 40: «non ideo potentia est perfecta quia potest peccare, sed ille actus substratus pertinet ad
libertatem, et ille actus substratus potest esse bonus ex genere».
16 Ordinatio, II, d. 5, q. 2, n. , n. 6, (n. 60): «omnis libertas arbitrii tolletur, nam voluntas in isto instanti non elicit actum
libere, et non elicit illum libere antequam eliciat; si ergo nunc elicit de necessitate per te, quia pro nunc non potest non
elicere; ergo nunquam libere eliciet».
17Ordinatio,
III, d. 17, q. un., n. 4, (n. 16): «concedo…quod omnis voluntas est domina sui actus»; Reportata
Parisiensia, III, d. 17, q. 2, n. 4, (n. 9). «concedo quod non potest esse voluntas, nisi domina sui actus».
18 Si pensi per es. a B. LANDRY, Duns Scot, Paris 1922, che M. DE GANDILLAC giudicò opera «poco seria, ma ha trovato
troppi lettori negli ambientiuiversitari», in Op. cit., p. 475.
Anche se elaborato in relazione a un problema teologico, il concetto di persona scotiano
presenta delle valide motivazioni di ordine metafisico. Due erano le definizioni di persona al
tempo di Duns Scoto, quella di Boezio, rationalis naturae individua substantia, e quella di
Riccardo di S. Vittore, intellectualis naturae incomunicabilis exsistentia. La prima ha un
carattere più “essenzialistico” e specifico (si predica solo dell’uomo); la seconda, invece, più
“esistenzialistico” e generico (si può predicare dell’uomo, di Cristo, di Dio...). Di fronte a
quest’alternativa Duns Scoto opta decisamente per la definizione riccardiana, perché in essa
vede meglio realizzata la caratteristica fondamentale della persona umana come esistenza
unica e irripetibile. Difatti è proprio nella “incomunicabilità” che Duns Scoto considera la
ragione ultima della persona sia divina che umana, non correlativo a nessun altro concetto, in
quanto essa costituisce la realtà esistente in quanto esistente. Al concetto di persona, pertanto,
si richiede che sia “incomunicabile” e quindi un’identità irripetibile19,
Per spiegare tale singolarità irripetibile, Duns Scoto fa uso del concetto di dipendenza,
distinguendolo in actualis, potentialis et aptitudinalis. A questi tre gradi di dipendenza fa
corrispondere tre gradi di negazione: dell’atto di dipendere, della possibilità di dipendere e
dell’attitudine a dipendere20. Alla concetto di persona si richiede una duplice negazione di
dipendenza, quella attuale e quella attitudinale21, cioè la duplice indipendenza permette alla
“natura intellettuale” di costituirsi “esistenza incomunicabile”, ossia permette alla natura
singolare di diventare la vera completezza di persona. Al suo costitutivo, perciò, non ripugna
per sé la dipendenza potentialis, perché essa viene identificata con quella “dipendenza
radicale” o ontologica, che ogni essere esistente ha con l’Essere Infinito e Creatore.
Dipendenza che ben si può chiamare potentia oboedientialis in quanto inerisce
ontologicamente alla stessa costituzione dell’esistenza.
19 Ordinatio, I, d. 23, q. un., n. 4, (n. 17): «Respondeo ad quaestionem quod accipiendo definitionem personae quam
ponit Richardus IV De Trinitate, cap. 22, quod est ‘intellectualis naturae incommunicabilis exsistentia».
20Quaestiones Quodlibetales, q. 19, n. 19, (n. 91): «natura vero creata personata in se… non habet repugnantiam ad
posse dependere, sed tantum ad actu dependere, et hoc secundum quid, scilicet dum sibi inest negatio dependentiae actualis»;
Ibidem, n. 18, (n. 85): «Potest autem intelligi triplex negatio communicabilitatis sive dependentiae. Sicut enim possumus
intelligere dependentiam actualem, potentialem et aptitudinalem».
21 Ordinatio, III, d. 1, q. 1, n. 17, (n. 74): «ad personalitatem requiritur ultima solitudo, sive negatio dependentiae
actualis et aptitudinalis ad personam alterius naturae»; Quaestiones quodlibetales, q. 19, n. 19, (n. 90): «Ad personalitatem
igitur propriam sive creatam oportet concurrere duas negationem, prima et tertiam; ita quod tertia est quasi habitualis
necessario conveniens naturae cui convenit, sive sit personata in se, sive in persona aliena; sed alia negatio, scilicet actuali
dependentiae, superveniens isti negationi, complet personalitatem propriam».
La caratteristica della duplice negazione di dipendenza permette a Duns Scoto di definire
la persona come solitudine metafisica (ultima solitudo), nel senso che la persona umana è la
realtà più perfetta dell’esistenza naturale, al di là della quale non c’è altra realtà che possa
competere, eccetto Dio, che è la vera perfezione della personalità; e che la sua perfezione è
tale che, nei casi limiti, può vivere anche da solo, in quanto per sé non ha bisogno di alcuno.
In linea ordinaria, però, Duns Scoto riconosce che l’autoaffermazione del proprio essere si
concretizza solo quando entra in comunione spirituale con “altri”, cioè è in relazione con altre
persone.
L’ermetica definizione della persona come ultima solitudo esprime da un lato la relazione
trascendentale con l’Essere Infinito, e dall’altro rivela all’uomo la sua finitudine metafisica e
la sua metafisica apertura all’“Altro”, che lo fa essere trascendendolo. Questa apertura al
trascendente teologico è garanzia per l’apertura al sociale verso gli “altri”. In questo modo, la
persona umana supera la sua solitudo e inizia insieme agli “altri” il cammino della speranza
verso l’Altro22.
Da questo riferimento sul concetto di persona, appare chiaro che i riflessi sociali della
libertà umana, ossia i diritti fondamentali, hanno il loro fondamento proprio nella costituzione
della persona umana come ultima solitudo, in quanto, nella rivelazione della sua radicale
finitudine, apre radicalmente l’uomo all’Altro, e quindi agli altri. Come a dire che nell’uomo
la libertà inizia nel momento in cui si riconosce dipendente dall’Altro, verso il quale esprime
la sua responsabile obbedienza radicale. La consapevoleza di questa “dipendenza ontologica”
è la massima garanzia della libertà dell’uomo. Concetti altamente teologici da cui si possono
ricavare importanti conseguenze antropologiche.
2 - FONDAMENTO DELL’ ATTO UMANO
L’uomo comunemente è definito un viator, cioè un essere in cammino verso la sua
perfezione massima, che estende il suo ambito non solo nella quotidianità esistenziale, ma si
proietta anche verso la realtà assoluta o Dio. Sia come imago Christi che come capax Dei,
l’uomo è un pellegrino in continuo divenire verso l’imitazione del Cristo con l’esercizio del
settenario delle virtù e il raggiungimento del fine ultimo, ossia della beatitudine divina. Di
fronte a questa complessa realtà ontologica e dinamica insieme dell’uomo, anche la
22 Riecheggia tutta la profondità del “Cantico delle creature” di Francesco d’Assisi.
concezione etica di Duns Scoto viene concepita eminentemente pratica e attiva, che si può
ben definire anche come etica dell’azione, perché basata fondamentalmente sulla legge
dell’amore come dono-di-sé e non su quella della rivalità e del risentimento.
Punto di partenza dell’etica scotista è il principio teologico dell’amore che si dona
liberamente in Cristo, affinché tutti gli essere intelligenti possano in lui amare Dio come
condiligenti o coamanti. Come liberamente Dio ha trasceso l’infinito per vincolarsi al finito
con l’Incarnazione, così l’uomo liberamente deve saper trascendere il finito per vincolarsi a
Dio in Cristo. L’etica di Duns Scoto si configura essenzialmente come etica dell’amoreagape e non come amore-eros, cioè più come amore teologico che come amore metafisico. È
un’etica del soprannaturale e non del semplice naturale, che, di per sé, secondo il Maestro
francescano, non esiste, in quanto lo stesso concetto di “naturale” è ordinato al
soprannaturale. Il modello comportamentale dell’uomo esistenziale è Cristo, ossia l’amore
pratico vivente attivo palpitante donativo, fino alla morte.
Per Duns Scoto non c’è alcun dubbio che il fondamento dell’ordine etico o, meglio, della
legge morale riposa sulla stessa volontà di Dio. Il volere divino è la causa del bene, nel senso
che ciò che vuole è buono. La volontà di Dio è ordinatissima e rationabilissima, nel senso che
esclude a qualsiasi titolo ogni parvenza di capricciosità o arbitrarietà. In virtù della
distinzione formale, Duns Scoto afferma la priorità logica all’intelletto divino, in quanto vede
le leggi che sono più conformi alla natura umana, ma esse acquistano forza obbligante solo
tramite la libera volontà divina. In altre parole, la legge morale eterna e immutabile, pur
essendo perfettamente conforme all’essenza divina, deriva dalla stessa volontà divina.
Dalla volontà divina deriva non il contenuto della legge, ma l’obbligatorietà della legge e
la sua forza vincolante. La volontà divina è sovranamente libera: può volere e fare qualsiasi
cosa, eccetto la contraddizione. Con ciò a Duns Scoto non balena minimamente per la mente
che Dio possa ordinare o permettere atti contrari ai principi morali evidenti o alle conclusioni
pratiche da essi derivanti. La legge naturale contiene i primi principi della ragione pratica e le
sue necessarie conseguenze. Il principio fondamentale si esprime nel “fare il bene” ed
“evitare il male”.
Per facilitare il comportamento umano, dice Duns Scoto, lo stesso Dio ha promulgato i
dieci Comandamenti, divisi in due tavole: la prima tavola contiene i principi assolutamente
necessari o assoluti, perché si riferiscono direttamente a Dio stesso; e la seconda tavola, i
precetti relativamente necessari o contingenti, perché si riferiscono all’ordine contingente
dell’uomo e delle cose. Proprio perché contingenti, il legislatore li può revocare o sospendere
la loro efficacia. In questo delicatissimo passaggio, Duns Scoto, seguendo la tradizione
interna dell’Ordine, presenta tutta al sua novità e diversità dall’altra ipotesi che accetta invece
tutti e dieci i Comandamenti in forma assoluta.
3 - DIFFERENZA TRA ETICA E MORALE
Oltre a questi cenni, è d’uopo accennare anche alla differenza concettuale tra etica e
morale, benché i due termini vengano usati come sinonimi o in modo inverso. L’uso però non
deve far dimenticare la distinzione che pure è fondamentale per comprendere il pensiero di
Duns Scoto, che ha segnato una certa istanza critica contro l’opinione comune del tempo, così
da anticipare per certi aspetti la stessa posizione kantiana e dall’altra di superarla.
Comunemente per etica s’intende quella scienza umana che permette di raggiungere il fine
perfettivo dell’uomo, utilizzando i mezzi che si ricavano dalla stessa natura umana. L’uomo,
perciò, è la fonte sia del fine che dei mezzi per raggiungerlo. Questa concezione, d’origine
greca, viene precisata dallo Stoicismo con la massima fondamentale del “vivere secondo
ragione”, deducendo le regole della condotta dalla natura razionale e perfetta della realtà
umana. Tra le diverse dottrine etiche medievali, cui soggiacciono diverse teologie e
antropologie, quella di Duns Scoto se ne distacca proprio nella determinazione del
fondamento dell’etica, che non poggia più sulla semplice natura naturale dell’uomo, bensì
sulla natura naturale ordinata al soprannaturale, ossia sulla volontà di Dio. E questo per il
concetto storico della natura, che affonda le sue origini del mistero della creazione e, quindi,
della volontà di Dio che autonomamente si autorivela in Cristo e per mezzo di Cristo.
Questo, il passaggio critico della differenziazione dall’etica alla morale: l’etica ha come
centro la concezione astratta e pura della natura dell’uomo secondo la visione della filosofia,
che non tiene conto della creazione; la morale ha come centro la concezione storica della
natura dell’uomo, proveniente per creazione da Dio in Cristo, e responsabilmente accettata
dall’uomo. Il concetto di morale, perciò, implica l’idea della risposta dell’uomo all’azione
creatrice divina, accettandone anche la legge dell’amore che la ispira, i cui principi
costituiscono la guida alle sue azioni, orientate e finalizzate verso la prospettiva escatologica.
Il concetto del Dio nomoteta - colui che dà la legge (all’uomo) - è completamente estraneo al
mondo greco, e costituisce la nuova base del comportamento dell’uomo, che si concretizza
nella risposta alla legge. L’uomo che risponde è ontologicamente implicito nel concetto
dell’imago: l’uomo è immagine di Cristo, verso il quale tende naturalmente - natura naturale
ordinata al soprannaturale - se non interviene un esplicito diniego della volontà, che rifiuta di
accettare la sua dipendenza ontologica o creaturale da Dio.
La novità dell’etica scotiana affonda le sue radici non tanto nell’uomo puro e semplice come nell’etica greca o filosofica - ma nell’uomo finalizzato ed elevato all’ordine
soprannaturale, ossia nella legge rigorosamente naturale di amare e venerare Dio in ogni
tempo e luogo. È un rapporto che nasce dall’alto, si sviluppa nell’orizzonte esistenziale e
termina ugualmente in Dio come fine ultimo. In breve, come non è possibile un’etica senza
metafisica, così non è possibile una morale senza teologia.
Questa, la differenza fondamentale tra etica e morale secondo Duns Scoto.
4 - BONTÀ DELL’ATTO UMANO
Prima di entrare nello specifico dell’atto umano, sembra utile qualche pensiero di Duns
Scoto circa la moralità in genere delle azioni dell’uomo. Oltre alla bontà naturale della
volizione dell’agente, in quanto essere libero e responsabile, egli riconosce una triplice bontà
morale: materiale o generale; virtuosa o situazionale; meritoria o gratuita e accettata da Dio in
ordine al premio finale.
La “bontà materiale” corrisponde all’atto della volizione che passa sopra l’oggetto
conveniente naturalmente a tale atto secondo il dettame della retta ragione, ossia l’oggetto sia
un bene autentico in sé e come tale riconosciuto da chi emette l’atto; essa si può chiamare
anche bonitas ex natura rei o ex genere, perché è considerata quasi materia o fondamento
rispetto a ogni altro bene ulteriore dell’ordine morale. La “bontà virtuosa”, invece, procede
dall’atto della volontà emesso per un fine e con tutte le circostanze dettate dalla retta ragione,
che circonstanziano l’atto nella sua causa integra; e in quanto possiede tutte le caratteristiche
morali che contrassegnano un bene generale e si può chiamare bonitas virtuosa o ex
circumstantia; delle circostanze principale è il fine. La “bontà meritoria”, infine, corrisponde
all’atto della volizione che, supposta la duplice bontà materiale e virtuosa, si compie in
conformità al principio del merito, cioè con la grazia di Dio e da Dio accettata in relazione al
premio finale, e si può chiamare bonitas meritoria o gratuita, perché donata da Dio.
Come esempio Duns Scoto porta il gesto di fare l’elemosina. Si ha la bontà semplicemente
materiale elargendo un’elemosina a un povero senza alcuna motivazione; quella virtuosa,
elargendo un’elemosina a un povero, perché bisognoso e nel modo a lui più conveniente; e,
infine, quella meritoria, elargendo un’elemosina non soltanto per inclinazione naturale di fare
del bene a qualcuno, ma specialmente per amore di Dio, ossia come amico di Dio o di Cristo imago Dei o imago Christi - e come tale diventa caro a Dio o a Cristo.
Queste tre forme di bontà sono così ordinate: la seconda presuppone la prima, e non
viceversa; e la terza la seconda, e non viceversa23.
Un atto umano, pertanto, è moralmente buono quando risponde a tutti gli elementi
oggettivi richiesti dalla retta ragione. Primo elemento: libertà dell’agente nel compiere l’atto,
altrimenti non può essere giudicato. Secondo elemento: conformità dell’atto con la retta
ragione. Terzo elemento: l’atto deve riguardare un oggetto che sia oggettivamente buono.
Quarto elemento: la bontà dell’atto non dipende solamente dall’oggetto, ma anche dalle
circostanze, tra cui il fine occupa il primo posto. Ora, secondo Duns Scoto, un fine qualsiasi,
nobile quanto si vole, non può costiture il fondamento ultimo dell’atto morale, ma solo il fine
assoluto, ossia Dio, può costituire il fine che dà valore e dignità morale all’attività dell’uomo.
Pertanto, solo chi ordina il proprio fine all’amore di Dio, realizza alla perfezione la gerarchia
delle diverse bontà dell’atto morale, perché il fine dell’amore di Dio è moralmente buono in
modo assoluto. Solo Dio, infatti. è buono per natura e costituisce il fondamento e il vertice di
tutti gli atti umani, bisognosi di essere determinati nella bontà.
Che cosa determinata un atto buono o cattivo moralmente?
Per determinare la bontà di un atto moralmente, cioè meritevole davanti a Dio, il Dottor
Sottile precisa le seguenti condizioni necessarie: libertà della volontà, bontà dell’oggetto per
sé, bontà delle circostanze in cui l’atto viene compiuto e bontà del fine. Sono requisiti tutti
necessari per la bontà di un atto umano moralmente meritevole di lode da parte di Dio. Nella
sua analisi, elenca quattro gradi di moralità: meritoria buona cattiva e indifferente. Per il
primo vuol dire che un atto buono deve essere fatto con grazia e per amore di Cristo; mentre
per gli altri due non ci sono problemi da risolvere: è buono quando risponde a tutti gli
elementi di cui sopra; è cattivo quando viene a mancare un elemento o più elementi; più
delicata è la determinazione dell’atto indifferente per sé, ma può diventare buono o cattivo
per le circostanze e per il fine.
La possibilità dell’atto indifferente riposa sul modo come la volontà desidera qualcosa: può
desidera una cosa per se stessa, ossia come fine; può desiderarla in vista di un’altra realtà,
cioè come mezzo; può desiderarla né per l’una né per l’altra, cioè in modo neutro, nel senso
che in se stesso non è né buono né cattivo.
Ancora l’esempio dell’elemosina. Dare l’elemosina a un povero con buone intenzioni è un
atto moralmente buono; darla con cattive intenzioni è moralmente cattivo; darla con nessuna
intenzione particolare ma per istinto immediato è un atto moralmente indifferente; darla con
grazia e per amore di Cristo è meritoria per i cieli.
L’ipotesi di Duns Scoto intorno all’atto indifferente acquista luce in riferimento al primo
principio pratico essenziale: “Dio dev’essere amato”. L’uomo, però, non è obbligato a
23 Per questi testi cf G. DUNS SCOTO, Antologia, pp. 526-529.
orientare esplicitamente o implicitamente tutti i suoi atti a Dio, che non ha imposto tale
obbligo. L’obbligo di Dio si riferisce esclusivamente a tutto ciò che riferisce alla legge
naturale, sia in senso assoluto che relativo, e non a ciò che è impossibile per l’uomo. In
questo modo Duns Scoto avvalora di più il senso e l’ambito della libertà umana, che può agire
anche in modo disinteressato e indifferente. Posizione molto vicina alla posizione kantiana.
L’ipotesi di Duns Scoto, oltre che novativa e molto delicata, risponde meglio all’esigenza
evangelica di fare il bene per amore di Cristo, perché si crede l’altro essere l’immagine di
Cristo, e, quindi, l’azione direttamente è fatta sempre a Cristo.