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"LA PREVENZIONE E LA GESTIONE DELLE
COMPLICANZE IN CHIRURGIA IMPLANTARE".
SIO (Società Italiana di Implantologia Osteointegrata)
Autori: Matteo Chiapasco & Grazia Tommasato
1 Introduzione
2 Valutazione dello stato di salute generale e controindicazioni
locali e sistemiche agli interventi di chirurgia implantare
3 Prevenzione e gestione delle complicanze vascolari
4 Prevenzione e gestione delle complicanze neurologiche
5 Prevenzione e gestione delle complicanze infettive
6 Prevenzione e gestione di altre complicanze
7 Prevenzione e gestione delle più comuni complicanze in
chirurgia implantare avanzata
8 Conclusioni
1. Introduzione
L’implantologia osteointegrata rappresenta oggi una disciplina ampiamente diffusa
e supportata da un’evidenza scientifica ben consolidata.2,3,6,21,37,38,53
L’uso degli impianti osteointegrati ha infatti rivoluzionato le possibilità riabilitative
di pazienti parzialmente o totalmente edentuli: nei primi, evitando soluzioni
protesiche mobili o il sacrificio di tessuto vitale sano di denti adiacenti per la
costruzione di ponti; nei secondi, offrendo un ancoraggio affidabile sia per soluzioni
mobili che fisse.
A causa dei risultati estremamente favorevoli, il numero di impianti inseriti è
aumentato enormemente. Inevitabilmente, però, l’apparente semplificazione delle
procedure chirurgico-protesiche e l’espansione dei potenziali utilizzatori di impianti
orali ha anche comportato, purtroppo, un aumento delle complicanze legate alle fasi
chirurgiche (in particolare la violazione o lesione completa di strutture anatomiche
“nobili”) e che sono riferibili a vari fattori quali: a) una pianificazione implantoprotesica pre-operatoria insufficiente; b) un’inadeguata conoscenza dell’anatomia
dei mascellari e del cavo orale e di conseguenza dei rischi intra e post-operatori cui
viene esposto un paziente.
Fermo restando il fatto che anche al chirurgo più esperto possano capitare delle
complicanze, queste ultime sono inevitabilmente destinate ad aumentare nelle mani
di chirurghi meno esperti o a causa dei fattori sopra menzionati.
Poiché la salute del paziente deve rimanere il centro assoluto di attenzione di
qualsiasi terapia medico-chirurgica e risulta pertanto sempre valido il principio
cardine della medicina: “primum non nocere”, essere in grado di capire e prevenire i
potenziali problemi e rischi connessi all’inserimento di impianti osteointegrati,
nonché di riconoscere e gestire le eventuali complicanze, sia in condizioni
“favorevoli”, sia nei casi più complessi in presenza di deficit dei tessuti duri e molli
dei mascellari, è essenziale.
Scopo di questo dossier è quello di fornire le informazioni che risultano essere
indispensabili per: a) conoscere e saper identificare dal punto di vista clinico e
strumentale le eventuali contro-indicazioni sistemiche e locali agli interventi di
chirurgia implantare; b) conoscere le strutture anatomiche “nobili” a rischio durante
gli interventi di implantologia; c) prevenire le possibili complicanze sia intra- che
post- operatorie precoci che possono verificarsi e le modalità per trattarle
tempestivamente, qualora accadano.
Vengono escluse, invece, perché non rientrano negli obiettivi prefissi, le
complicanze meccaniche e quelle biologiche tardive, quali le peri-implantiti.
2. Valutazione dello stato di salute generale e controindicazioni
locali e sistemiche agli interventi di chirurgia implantare
Prima di procedere alla pianificazione di qualsiasi intervento chirurgico, è
necessaria un’attenta valutazione dello stato di salute generale: tale analisi è uno dei
prerequisiti fondamentali per una considerevole riduzione dei possibili incidenti
intra e post-operatori. Per semplificare la raccolta di informazioni e per cautelarsi da
un punto di vista medico-legale, è buona norma far compilare al paziente,
antecedentemente alla prima visita, una cartella clinica che contenga un questionario
dove il paziente possa riportare tutte le sue possibili patologie, sia note che presunte,
nonché le terapie farmacologiche pregresse e/o in atto. Da questi dati preliminari e
dalla successiva anamnesi raccolta dal clinico, sarà così più semplice evidenziare
eventuali controindicazioni locali o generali, reversibili o irreversibili, agli
interventi di chirurgia.
Esula da questo lavoro un’analisi dettagliata e completa di questo corposo
argomento: tuttavia, è utile richiamare l’attenzione su alcuni quadri clinici che
controindichino o possano interferire con l’intervento e/o i risultati a lungo termine.
• DISORDINI EMATOLOGICI
Anche se l’emorragia si accompagna per definizione a qualsiasi intervento
chirurgico, a causa della soluzione di continuità dei tessuti duri e molli, la presenza
di disturbi ematologici che possano interferire con l’aggregazione del coagulo o con
i meccanismi veri e propri della coagulazione, devono essere ben noti e definiti
prima di intraprendere qualunque intervento chirurgico per evitare complicanze,
anche fatali (ovviamente nelle forme più gravi), per il paziente. E’ noto infatti che i
pazienti con tali problematiche siano più suscettibili al sanguinamento intra e postoperatorio, soprattutto se in trattamento con acenocumarolo o warfarina. Le attuali
raccomandazioni indicano che non è sempre necessario sospendere la terapia
anticoagulante, ma è fondamentale controllare pre-chirurgicamente il valore di INR,
che deve rimanere al di sotto di 3 o 3.5.16 In caso di valori troppo elevati, è bene
consultare l’ematologo curante per riportare, se possibile, i livelli di INR sotto
questa soglia e rinviare tutti gli interventi di chirurgia orale non strettamente urgenti.
• PATOLOGIE OSSEE E PAZIENTI ONCOLOGICI
Diverse patologie ossee (osteogenesi imperfetta, poliartrite, spondilite anchilosante,
eccetera) potrebbero potenzialmente influenzare il risultato della terapia implantare,
ma pochissimi studi hanno valutato tale rischio in modo sistematico.
L’osteoporosi, invece, è una delle patologie ossee più studiate. Nonostante sia
caratterizzata da una diffusa riduzione della mineralizzazione ossea, le revisioni
sistematiche presenti in letteratura non evidenziano un’associazione tra lo stato di
densità ossea (BMD) sistemica e quella delle ossa mascellari, portando alla
conclusione che l’uso di impianti in pazienti osteoporotici (che non seguano terapie
con farmaci che influenzano il turn-over degli osteoclasti) non è controindicato.
Tuttavia, è comunque raccomandabile, prima di inserire impianti, valutare molto
attentamente la qualità delle ossa mascellari tramite tomografie computerizzate ed,
eventualmente, modificare il piano di trattamento, se indicato (sottopreparando i siti
implantari e/o inserendo un numero maggiore di impianti).
Al contrario, nei pazienti osteoporotici che assumono bifosfonati per via orale,
l’utilizzo degli impianti deve essere valutato con attenzione. I bifosfonati
modificano il metabolismo del tessuto osseo e ne riducono la vascolarizzazione, con
il rischio di sviluppare un’osteonecrosi da bifosfonati (noto con l’acronimo
BRONJ), sia spontanea che, in particolare, in seguito a trauma quali ad esempio
quello che deriva dall’inserimento di impianti.
Nel 2007, l’Associazione Americana dei Chirurghi Maxillo-facciali ha stilato delle
linee guida sul trattamento di questi pazienti, basandosi sulla situazione clinica del
paziente e sulla durata della terapia: è conveniente porre particolare attenzione ai
pazienti che hanno assunto bifosfonati per 3 anni o più, in particolare quelli più
“potenti”. Esiste infatti una scala di “rischio” che varia, in base alla molecola
utilizzata, da 10 a 10.000. 1 I bifosfonati hanno un’emivita molto lunga e possono
influenzare il metabolismo osseo anche anni dopo la cessazione della terapia.
La chirurgia implantare dovrebbe essere invece evitata in tutti i pazienti oncologici
in cura con i bifosfonati somministrati per via endovenosa o con chemioterapici. A
differenza però dei bifosfonati più potenti, quali l’acido Zolendronico, gli effetti
della chemioterapia tendono a esaurirsi rapidamente dopo la sospensione della loro
somministrazione.
Per quanto riguarda la radioterapia utilizzata per la cura di neoplasie maligne del
distretto cervico-cefalico, a oggi, non esiste ancora un consenso. La radioterapia
provoca, come principale effetto collaterale, una rilevante riduzione della
vascolarizzazione dell’osso, esponendolo a maggiore rischio di osteonecrosi, sia
spontanea che in seguito a traumi anche modesti. Interventi elettivi quali
l’inserimento di impianti possono esporre a questo rischio. In linea di massima,
anche se ad oggi non esiste un consenso in letteratura, dosaggi inferiori a 48 Grey
sono considerati “a basso rischio”, mentre per dosaggi superiori quest’ultimo
aumenta in modo significativo ed è buona norma eseguire interventi sui mascellari
solo se veramente indicati, in ambienti protetti e dopo ossigenoterapia iperbarica
7,9,21,29,52
• PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI
L’argomento è troppo vasto per poter essere analizzato in dettaglio. Si accennerà
solo al fatto che in pazienti che hanno subito un recente infarto miocardico acuto,
che abbiano riportato episodi ischemici all’encefalo, nonché nei pazienti sottoposti a
chirurgia per inserire protesi valvolari cardiache, la chirurgia implantare è da evitare
per almeno 6 mesi dopo l’evento. E’ comunque indicato consultare il cardiologo
prima di procedere ad interventi, in particolare se non in ambiente protetto, per
verificare che lo stato di salute del paziente non li controindichi quanto meno a
livello ambulatoriale.
Nei pazienti con alti valori pressori non farmaco-controllati (pressione diastolica
>110mmHg, pressione sistolica >180-200 mmHg), la possibilità di emorragie sia
locali che sistemiche e l’alto rischio di crisi ipertensive intra-operatorie obbligano a
non eseguire interventi implantari, in particolare in ambiente ambulatoriale, e a una
valutazione cardiologica. Il paziente candidato a trattamento implantare verrà
eventualmente rivalutato dopo ri-equilibrio pressorio. 25,26
• TERAPIA CON CORTICOSTEROIDI
Gli effetti collaterali dei corticosteroidi, in particolare se assunti per tempi
prolungati e a dosaggi elevati, includono una riduzione della densità ossea,
aumentati tassi di riassorbimento osseo, una maggior fragilità epiteliale e rischio di
infezione parodontale, ritardo della guarigione delle ferite chirurgiche e alterazione
delle difese immunitarie. Pertanto, l’uso sistemico di glucocorticoidi potrebbe
compromettere l’osteointegrazione implantare e la guarigione peri-implantare.
Esistono, tuttavia, pochi studi effettuati sulla chirurgia implantare nelle ossa
mascellari (la maggior parte delle protesi è stata inserita in ossa lontane dal cavo
orale come femore e tibia). Non c’è, quindi, una vera e propria evidenza che
consideri la terapia corticosteroidea una controindicazione alla terapia implantare. Si
ritiene, comunque, utile una valutazione di ogni singolo paziente e l’eventuale
consulto con lo specialista. 16
• DIABETE MELLITO
È noto che il diabete possa creare nel cavo orale un ambiente poco favorevole
all’inserimento di impianti endossei. Se la concentrazione ematica di glucosio
rimane alta, l’interazione proteica con i metaboliti del glucosio determina
un’irreversibile glicosilazione dei prodotti finali che si accumulano sulle
macromolecole (come proteine e lipidi) danneggiando alcuni processi cellulari
coinvolti nella guarigione tissutale e nella formazione ossea. Inoltre, la quantità
eccessiva di prodotti glicosilati diminuisce la quantità e qualità delle componenti
della matrice extracellulare come il collagene, la laminina e l’osteocalcina. 17,26
Tuttavia, nei pazienti farmaco-controllati, i valori di successo implantare sono
comparabili a quelli dei pazienti sani: non c’è, quindi, evidenza che il diabete sia
una controindicazione alla terapia implantare. 17,30 Valori di emoglobina glicosilata
(HbA1C) elevati possono invece esporre a maggiori complicanze post-operatorie e,
a causa dei noti effetti negativi di guarigione nello stato iperglicemico, è
indispensabile un preciso controllo glicemico prima della terapia chirurgica. In tutti
i pazienti diabetici è indicata, oltre a un’adeguata preparazione parodontale, una
copertura antibiotica e antisettica endorale. 26,44
• PAZIENTI IMMUNOCOMPROMESSI
Un’adeguata risposta immunitaria è essenziale per la guarigione delle ferite. Tutti
gli interventi di chirurgia orale sono, generalmente, controindicati se il numero di
globuli bianchi è al di sotto di 1500-3000 cellule/mm3, poiché il paziente diventa più
suscettibile alle infezioni e presenta una maggior difficoltà di rigenerazione e
riparazione tissutale. Qualora invece il numero totale di globuli bianchi sia normale
(5000-10000 cellule/mm3), ma il numero dei neutrofili sia anormale, il paziente non
è in grado di combattere adeguatamente un’infezione. Una normale conta dei
neutrofili è compresa tra 3500 e 7000 cellule/mm3. Un paziente con livelli tra 1000
e 2000 cellule/mm3 richiede una copertura antibiotica e un consulto con lo
specialista prima di qualsiasi intervento chirurgico. 16,25
3. Prevenzione e gestione delle complicanze vascolari
Il sanguinamento associato a una procedura chirurgica in generale e implantologica
in particolare è, per definizione, inevitabile e la sua quantità dipende da una serie di
fattori locali quali il calibro e il tipo dei vasi sezionati (venosi o arteriosi),
l’estensione del lembo, la presenza di flogosi locale, l’utilizzo di un vasocostrittore e
da fattori sistemici quali lo stato di salute del paziente, i valori della pressione
arteriosa, le terapie farmacologiche in atto, eccetera.
In chirurgia orale e implantare, gli eventi emorragici e le loro conseguenze sono
generalmente limitati, a patto che vengano evitati vasi di calibro rilevante e che si
arresti rapidamente l’emorragia, qualora questa si verifichi. Risultano pertanto
fondamentali: a) un’adeguata conoscenza dell’anatomia locale; b) le manovre di
controllo del sanguinamento (emostasi).
CENNI ANATOMICI
Poiché quasi sempre un vaso arterioso è accompagnato dall’omonimo venoso, per
non appesantire eccessivamente il testo con inutili ripetizioni, nelle descrizioni
dell’anatomia topografica e delle manovre chirurgiche atte all’identificazione e/o
protezione dei vasi si farà sempre riferimento alle sole strutture arteriose, anche
perché, a parità di calibro del vaso, la lesione di un vaso venoso provoca una
emorragia decisamente inferiore e molto più facilmente controllabile di uno
arterioso, a causa della grande differenza di pressione endovasale dei due.
Per semplificare la descrizione delle aree “a rischio”, il cavo orale verrà suddiviso in
quattro zone principali (vedi tabella n° 1):
1. Mandibola posteriore
2. Mandibola anteriore
3. Mascellare anteriore
4. Mascellare posteriore
Ciascuna di queste zone può essere a sua volta suddivisa in tre versanti principali:
vestibolare, linguale/palatale, intraosseo. Tutte queste zone possono essere
interessate durante interventi implantologici o di chirurgia pre-implantare
rigenerativa/ricostruttiva.
Verranno dapprima descritte l’anatomia chirurgica locale e solo in seguito le
modalità di prevenzione e gestione delle eventuali complicanze conseguenti a
lesioni vascolari.
1. Mandibola posteriore
Sul versante vestibolare della mandibola posteriore (regione distale ai premolari), la
struttura a rischio più importante è rappresentata dall’arteria facciale che, lasciata
la carotide esterna, si porta verso l’alto in direzione del margine inferiore della
mandibola, dove descrive un’ansa sul versante mediale ed emette un ramo
importante, l’arteria submentoniera, che decorre al di sotto del margine inferiore
della mandibola ed è assai raramente coinvolta durante interventi implantologici.
L’arteria facciale si porta quindi lateralmente al davanti del margine anteriore del
muscolo massetere. In questa zona la sua posizione è particolarmente vicina al piano
osseo, dal quale è separata solo dal periostio. Si dirige, quindi, obliquamente in alto
e in avanti verso la commessura delle labbra dove emette i suoi rami terminali
(arterie labiali inferiore e superiore e arteria dell’ala del naso).
L’arteria facciale non viene praticamente mai coinvolta (tranne che per errori
“clamorosi”) durante interventi di inserimento di impianti nell’osso mandibolare,
ma può essere invece lesa durante incisioni di rilascio del periostio sul versante
vestibolare o in caso di un ampio scollamento del versante vestibolare della
mandibola senza mantenersi al di sotto del periostio nella regione molare e retromolare, durante ad esempio un intervento di prelievo osseo autologo dal corpo/ramo
della mandibola. E’ bene sottolineare in questa sede, per evitare ripetizioni più
avanti, che i vasi, tranne i perforanti, quelli che fuoriescono da forami omonimi (ad
esempio, l’arteria mentoniera), e quelli intraossei (quali l’arteria alveolare inferiore)
decorrono al di sopra del piano periosteo. Pertanto, uno scollamento di un lembo di
accesso al piano osseo, se condotto rigorosamente al di sotto del periostio, riduce
grandemente il rischio di lesioni di strutture vascolari importanti.
Risulta anche di grande importanza predisporre un’adeguata protezione dell’arteria
per mezzo di appositi divaricatori, che devono essere mantenuti in sede durante
l’intervento: in questo modo si evita che uno strumento tagliente o rotante possa
lacerare l’arteria. L’emorragia dell’arteria facciale è un evento grave in assoluto e in
particolare in un ambiente ambulatoriale, dove la sua gestione può essere difficile se
non impossibile8.
Sul versante linguale della mandibola posteriore la struttura vascolare che può
essere lesa durante interventi implantologici è rappresentata dall’arteria miloioidea
(ramo dell’arteria alveolare inferiore).
Il vaso decorre lungo le inserzioni del muscolo miloioideo sulla mandibola, a livello
della cosiddetta linea miloioidea. In questa zona la mandibola presenta sovente un
sottosquadro più o meno accentuato. Se non correttamente valutato preoperatoriamente (sia con la semplice palpazione manuale che con lo studio di
tomografie computerizzate) può accadere che, durante la preparazione di un sito
implantare, una fresa penetri nel pavimento orale latero-posteriore, in particolare
nella zona compresa tra il primo/secondo premolare e il secondo molare inferiore
provocando una copiosa emorragia. Quest’ultima è difficilmente controllabile a
livello ambulatoriale e può causare un rapido infarcimento emorragico del
pavimento orale e della pelvi linguale, con rischio di ostruzione delle vie aerodigestive superiori per dislocazione del corpo linguale verso la faringe.
Il “versante” intraosseo è rappresentato dal corpo della mandibola nella regione
compresa tra i premolari e i molari, zona dove frequentemente vengono inseriti
impianti.
La struttura vascolare “a rischio” è rappresentata dall’arteria alveolare inferiore,
che fa parte del fascio neuro-vascolare omonimo che include anche un piccolo ramo
venoso. Il fascio penetra nella mandibola attraverso il foro mandibolare in
corrispondenza della spina di Spix e prosegue poi lungo il canale alveolare inferiore.
A livello del secondo/primo premolare (tranne eccezioni) si separa nei due rami
terminali, il fascio incisivo e quello mentoniero. Il primo continua nella mandibola
anteriore all’interno di un piccolo canale (non sempre riconoscibile
radiograficamente); il secondo fuoriesce attraverso il forame mentoniero e si
distribuisce ai tessuti molli della regione anteriore mandibolare (vedi più avanti).
L’arteria alveolare inferiore può essere lesa quando una fresa utilizzata per la
preparazione di un sito implantare penetra nel canale omonimo, dove decorre anche
la vena e in particolare il nervo alveolare inferiore. E’ un vaso di diametro
relativamente limitato e la sua emorragia è molto meno pericolosa di quella delle
due arterie precedentemente descritte (vedi tabella n° 2). La maggiore complicanza
è legata principalmente al fatto che la sua lesione spesso si associa a quella del
nervo alveolare inferiore, che può lasciare sequele assai più rilevanti in termini di
danno biologico. Risulta pertanto fondamentale una adeguata pianificazione preoperatoria che valuti accuratamente la distanza tra margine alveolare e tetto del
canale alveolare inferiore.
2. Mandibola anteriore
Sul versante vestibolare della mandibola anteriore (regione compresa tra la linea
mediana della mandibola e i premolari), le strutture a rischio più importanti sono
rappresentate dall’arteria mentoniera e dall’arteria sotto-mentoniera.
La prima rappresenta uno dei due rami terminali dell’arteria alveolare inferiore
(l’altro è l’arteria incisiva che verrà descritta più avanti). Fuoriesce dal foro
omonimo sotto forma di fascio neuro-vascolare e si distribuisce con vari rami
terminali ai tessuti molli del mento.
La seconda, ramo dell’arteria facciale, decorre lungo il margine inferiore della
mandibola e, attraversata la porzione più anteriore del muscolo digastrico, si porta
sul versante anteriore del mento a livello del muscolo mentoniero distribuendo
piccoli rami fino alla gengiva dei denti anteriori.
I due vasi possono essere lesi non tanto durante l’inserimento di impianti, quanto
piuttosto in seguito a incisioni per accedere alla sinfisi mentoniera, qualora sia
richiesto un prelievo osseo in questa zona, o durante incisioni di rilascio orizzontale
eseguite dopo tecniche di rigenerazione ossea guidata o di ricostruzione della
mandibola anteriore atrofica.
Sul versante linguale della mandibola anteriore la struttura vascolare che può essere
lesa durante interventi implantologici è rappresentata dall’arteria sublinguale
(ramo dell’arteria linguale) e dai suoi rami che si anastomizzano con quelli
dell’arteria sottomentoniera e miloioidea.
L’arteria sublinguale, lasciata l’arteria linguale, si dirige in avanti attraverso il
muscolo genioglosso e giunge in prossimità della corticale linguale della mandibola,
in particolare a livello dell’incisivo laterale e del canino; alcuni rami terminali
perforano la corticale e si anastomizzano con quelli dell’arteria incisiva. Questo
vaso è “a rischio” in particolare in presenza di sottosquadri accentuati della
mandibola anteriore: in questi casi una non accurata valutazione della morfologia
della mandibola può portare alla perforazione della corticale linguale durante la
preparazione del sito implantare. Il sanguinamento che ne segue può causare gli
stessi fenomeni descritti per l’arteria miloioidea, con sviluppo di ematomi anche
imponenti del pavimento orale che possono porre a repentaglio la vita del paziente
per ostruzione da parte della lingua della faringe e quindi delle vie aero-digestive
superiori8,24,28,31,34,41.
Il “versante” intra-osseo è rappresentato dal corpo della mandibola nella regione
compresa tra l’incisivo centrale e il primo premolare.
La struttura vascolare “a rischio” è rappresentata dall’arteria incisiva che fa parte
di un fascio neuro-vascolare che include la vena e il nervo omonimi. Tranne casi
eccezionali, tuttavia, il vaso ha un calibro talmente ridotto da non destare
preoccupazioni, anche nel caso di una sua lesione durante la preparazione dei siti
implantari.
3. Mascellare anteriore
E’ l’area compresa tra i due canini superiori.
Sul versante vestibolare non sono presenti vasi di particolare interesse.
Sul versante palatale è invece presente l’arteria naso-palatina che fuoriesce dal
foro omonimo sotto forma di fascio neuro-vascolare. L’arteria naso-palatina, che
origina dall’arteria sfeno-palatina (ramo terminale dell’arteria mascellare interna),
irrora la mucosa del setto nasale e la mucosa palatina anteriore in regione
intercanina. L’esistenza di questo canale deve essere tenuta presente durante
l’inserimento di impianti a livello degli incisivi centrali: la lesione dell’arteria
provoca, comunque, un’emorragia generalmente di modesta entità.
4. Mascellare posteriore
E’ la zona compresa tra il canino e il terzo molare.
Sul versante vestibolare l’unico ramo arterioso “importante” è rappresentato dalla
componente extra-ossea dell’arteria infraorbitaria, che fuoriesce dal foro omonimo
(situato al di sotto della cornice orbitaria inferiore) come fascio neuro-vascolare
insieme a vena e nervo omonimi.
E’ tuttavia un ramo arterioso generalmente fuori dal “campo d’azione”
dell’implantologo (tranne nei casi di atrofia estrema), anche in caso di tecniche
rigenerative/ricostruttive complesse del mascellare posteriore.
Sul versante palatale è presente l’arteria palatina che fuoriesce dal foro omonimo,
anche in questo caso accompagnata da vena e nervo omonimi. La porzione
intraossea dell’arteria, ramo dell’arteria mascellare interna, si chiama arteria
palatina discendente ed è contenuta in un canale insieme alla componente nervosa e
venosa, ma viene raramente coinvolta durante interventi implantologici, tranne nei
casi di inserimento di impianti lunghi e inclinati distalmente (i cosiddetti impianti
pterigoidei, raramente utilizzati). Il foro è localizzato a livello del secondo/terzo
molare, in genere a livello del punto di passaggio tra volta palatina vera e propria e
il processo alveolare e decorre poi in avanti e parallelamente ai denti, in una doccia
più o meno “marcata”, fino a ramificarsi ed anastomizzarsi con l’arteria nasopalatina.
Tranne nei casi di atrofia estrema, l’arteria, nella sua componente extraossea, non è
praticamente mai coinvolta durante interventi implantologici, mentre può esserlo
durante prelievi di tessuto epitelio-connettivale dal palato. La sua lesione può
causare un’emorragia di una certa importanza, in particolare in caso di prelievi di
connettivo palatino “profondi”.
Sul “versante” osseo l’unica struttura vascolare rilevante è l’arteria alveoloantrale, ramo anastomotico tra arteria alveolare posteriore superiore e rami
intraossei dell’arteria infra-orbitaria. Questa arteria, che decorre più o meno
orizzontalmente a una distanza molto variabile dal processo alveolare generalmente
nella sottile parete antero-laterale del seno mascellare e molto raramente sul
versante interno, può essere incontrata in particolare durante interventi di rialzo del
seno mascellare con approccio laterale, nella fase di preparazione della finestra
ossea che consente lo scollamento e il rialzo della membrana di Schneider.
L’emorragia che ne deriva può essere minima o molto rilevante perché il diametro
del vaso può variare da 0.2 mm fino a quasi 3mm (diametro dell’arteria facciale!)
43,50
. Il sanguinamento non è quasi mai “pericoloso” ma può oscurare il campo
visivo e determinare un dislocamento del materiale da innesto, generalmente
rappresentato da granuli di sostituti di osso, utilizzato per l’intervento di rialzo, con
compromissione del risultato finale (vedi tabella n° 2)
Quando di calibro cospicuo, l’arteria è facilmente identificabile nelle sezioni
topografiche (sempre indicate per questo tipo di intervento) e la sua lesione può
essere così prevista e/o prevenuta 50.
COME PREVENIRE LE COMPLICANZE EMORRAGICHE
Il primo requisito è individuare, attraverso l’anamnesi, i pazienti a potenziale rischio
emorragico: in caso di coagulopatie gravi è meglio consultare un ematologo e
inviare il paziente in ambito protetto.
Il secondo requisito è rappresentato da un’adeguata conoscenza dell’anatomia
locale. Eseguire un accurato esame obiettivo iniziale può fornire utili informazioni,
quali ad esempio individuare eventuali sottosquadri della corticale linguale
mandibolare che possono costituire un fattore di rischio di lesioni di rami arteriosi
quali l’arteria miloioidea o sublinguale, in caso di perforazione della corticale ossea
durante la preparazione di siti implantari.
Il terzo requisito è quello di prescrivere adeguate indagini radiografiche, a partire
dalle radiografie endorali e panoramiche fino alle tomografie computerizzate
(meglio se eseguite con mascherine implantologiche per una dettagliata valutazione
dei volumi ossei, dell’anatomia locale e dei rapporti tra osso residuo e futura
posizione delle corone protesiche su impianti) per pianificare adeguatamente
l’intervento, per identificare il decorso di vasi intraossei e di conseguenza lunghezza
e diametro degli impianti.
Il quarto requisito è rappresentato, tranne che per i casi di chirurgia implantare
“flapless”, dall’allestimento di lembi a tutto spessore. Come precedentemente
accennato, ad eccezione di vasi perforanti, arterie “pericolose” quali la facciale, la
sublinguale, la miloioidea, decorrono superficialmente al piano periosteo. Lo
scollamento a tutto spessore previene rischi emorragici e consente di proteggere i
vasi con adeguati scollatori, offrendo al contempo la possibilità di valutare
direttamente l’anatomia locale durante l’intervento 8,14
COME GESTIRE LE EMORRAGIE
Una emorragia, in particolare se arteriosa, comporta una serie di problemi, tanto più
gravi quanto maggiore è il calibro del vaso, a parità di pressione arteriosa e di
condizioni di coagulazione (vedi tabella n° 2). Oltre alla perdita di controllo di una
visione chiara del campo operatorio, l’emorragia può essere seguita: a)
dall’ingestione o peggio dall’aspirazione da parte del paziente di quantità rilevanti
di sangue; b) dalla formazione di ematomi anche importanti che possono causare, se
si sviluppano nel pavimento orale, l’ostruzione delle vie aero-digestive superiori,
(anche con il rischio, seppure molto raro, di exitus per “soffocamento”), e, se si
sviluppano in altre zone, deiscenze dei lembi (legate alla tensione sui tessuti) o
infezioni secondarie (legate al fatto che il sangue è un ottimo terreno di coltura per i
germi del cavo orale); c) un’ipovolemia, ma solo in seguito a lesione di vasi di
diametro cospicuo e con perdite ematiche superiori a 500 ml.
Bisogna inoltre tenere presente che alcune emorragie possono svilupparsi in modo
subdolo, anche a distanza di ore dall’intervento e a paziente già dimesso, con il
rischio di complicanze gravi legate a ritardo di intervento 24,46.
L’emostasi tempestiva risulta pertanto di fondamentale importanza, in
particolare in caso di sanguinamento più rilevante.
Il principio chiave da ricordare è che l’emostasi sarà tanto più efficace quanto più
rapidamente e precisamente si sarà trovata la fonte di sanguinamento.
Le manovre di emostasi possono cambiare in base all’entità del sanguinamento e
alla provenienza (dai tessuti molli o dalla compagine ossea).
Se il sanguinamento è modesto (da capillari o venoso) e proviene dai tessuti molli,
la semplice compressione con garza sterile bagnata con soluzione fisiologica o
farmaci coagulanti per uso topico, quali l’acido tranexamico o l’acido
aminocaproico, può essere sufficiente.
In alcuni casi l’acido tranexamico e l’acido aminocaproico possono essere
somministrati post-chirurgicamente per via sistemica con la dose di 4 g ogni 4-6 ore
(acido aminocaproico) e di 500 mg ogni 6-8 ore (acido tranexamico). Tali farmaci
vanno somministrati con molta attenzione, tenendo conto delle possibili
complicanze trombotiche; sono, quindi, controindicati nei malati trombo-embolici e
nei pazienti in cura con terapia anti-coagulante orale.
Al contrario, l’utilizzo di farmaci sistemici, somministrati per via orale o
parenterale, quali la vitamina K1, la desmopressina, i concentrati del fattore VII e
IX trovano scarse o nulle indicazioni per risolvere l’urgenza emorragica.
Se l’emorragia proviene da un’arteriola di piccolo calibro nel contesto dei tessuti
molli, e la compressione non è sufficiente, la diatermocoagulazione mono o bipolare
è generalmente la metodica più efficace.
Solo per vasi di diametro maggiore e dove le manovre precedentemente descritte
non fossero efficaci, si può essere costretti alla legatura del vaso (evento peraltro
molto raro in chirurgia orale) per via intraorale o extra-orale (in casi eccezionali e
generalmente solo in seguito a emorragie dell’arteria facciale o mascellare interna).
Al contrario, l’iniezione di un vasocostrittore è da evitarsi per diversi motivi: a) la
presenza del vasocostrittore determina una contrazione delle cellule muscolari vasali
con retrazione del vaso nella compagine dei tessuti molli, impedendone la sua
localizzazione; b) si può verificare una ripresa del sanguinamento al termine
dell’effetto del farmaco 24,33.
Per controllare un’emorragia intra-ossea è possibile utilizzare: a) la semplice
compressione con garza, come precedentemente descritto; b) la compressione con
materiali emostatici quali le spugne di collagene o le garze riassorbibili di cellulosa
ossidata e rigenerata; c) la cera da osso.
Nei casi di emorragia tardiva si può, inizialmente, comprimere mediante una garza,
con le stesse modalità descritte in precedenza. In caso di sanguinamento arterioso
protratto, si deve riaprire l’accesso chirurgico, localizzare la fonte di sanguinamento
e procedere alle manovre più idonee (vedi tabella n° 3).
4. Prevenzione e gestione delle complicanze neurologiche
La lesione di rami della seconda e terza branca del nervo trigemino (nervo
mascellare e mandibolare), che innervano le strutture del cavo orale, rappresenta
una complicanza con rilevanti implicazioni in chirurgia implantare, sia per i sintomi
riportati dal paziente che per le conseguenze medico-legali che ne possono derivare.
Le lesioni nervose possono interessare sia nervi sensitivi che motori. In chirurgia
implantare, tuttavia, la stragrande maggioranza di tali complicanze coinvolge rami
sensitivi, in particolare il nervo alveolare inferiore e i suoi rami terminali, il nervo
mentoniero e il nervo incisivo (vedi tabella n° 4). Più raramente, possono essere
lesionati il nervo linguale, il nervo infra-orbitario e il nervo buccale (vedi tabella n°
5).
E’ pertanto fondamentale, oltre alla conoscenza dell’anatomia locale, una
approfondita analisi pre-operatoria sia clinica che strumentale, con l’utilizzo sia di
indagini radiografiche “di base”, quali la radiografia endorale e la radiografia
panoramica, sia con indagini “di secondo livello” rappresentate dalle tomografie
computerizzate, per valutare in dettaglio la posizione delle strutture neurologiche a
rischio, qualora contenute in canali intraossei.
In caso di nervi contenuti nei tessuti molli, quali il nervo linguale, la conoscenza
dell’anatomia locale e adeguate manovre chirurgiche sono l’unico strumento a
disposizione per evitare lesioni.
Risulta ridondante, perché già fatto nella sezione dedicata alle lesioni vascolari, una
descrizione dettagliata dell’anatomia loco-regionale per aree: basti ricordare che le
strutture nervose “a rischio” durante interventi di implantologia o di chirurgia preimplantare rigenerativa/ricostruttiva (nervo alveolare inferiore, nervo
mentoniero, nervo incisivo, nervo palatino, nervo naso-palatino, eccetera),
accompagnano gli omonimi tronchi arteriosi e venosi. Le manovre che possono
pertanto accidentalmente danneggiare le strutture nervose sono le stesse che
possono coinvolgere quelle vascolari (ad eccezione, ad esempio, dell’arteria
facciale, dell’arteria sottomentoniera, o dell’arteria alveolo-antrale che non hanno
“un corrispettivo” neurologico).
Un cenno a parte meritano invece due strutture neurologiche che possono essere
coinvolte a livello della mandibola posteriore e che non fanno parte di fasci neurovascolari già descritti: il nervo linguale e il nervo buccale.
Il nervo linguale, ramo del nervo mandibolare, prima di emettere i suoi rami
terminali per l’innervazione sensitiva della lingua, decorre a stretto contatto con la
corticale mediale della mandibola nella regione del trigono retromolare e del
terzo/secondo molare. Questa posizione lo espone ad un potenziale rischio di lesione
non tanto durante l’inserimento di impianti a livello del secondo molare, quanto
piuttosto durante prelievi ossei dal ramo della mandibola se il versante linguale di
questa venisse violato da strumenti taglienti o rotanti.
Il nervo buccale, anch’esso ramo del nervo mandibolare, deputato all’innervazione
sensitiva della mucosa della guancia e della gengiva/mucosa alveolare in regione
molare, decorre dall’indietro in avanti e da mediale a laterale distalmente alla
regione del trigono retromolare. Difficilmente interessato durante interventi
implantologici “standard”, potrebbe essere leso in caso di incisioni estese lungo la
branca ascendente della mandibola in caso di prelievi ossei dal ramo. Il suo decorso
deve essere pertanto conosciuto per evitare la sua sezione 8.
Per quanto riguarda i fattori eziologici delle lesioni nervose, questi possono essere
suddivisi in: meccanici e termici intra-operatori e post-operatori indiretti.
I fattori meccanici includono: a) la penetrazione diretta della fresa in un canale che
contiene un nervo durante la preparazione del sito implantare (ad esempio il canale
alveolare inferiore o il canale naso-palatino); b) la compressione da parte
dell’impianto sul nervo; c) lo stiramento, la compressione, la sezione parziale o
totale di un nervo contenuto nei tessuti molli (ad esempio il nervo mentoniero o il
nervo linguale).
I fattori termici sono legati al surriscaldamento del tessuto osseo durante la
preparazione di un sito impiantare per insufficiente irrigazione che si trasmette poi
al tronco nervoso o all’utilizzo improprio di strumenti per la diatermocoagulazione
in caso di emorragia in corrispondenza di un fascio neuro-vascolare.
I fattori post-operatori sono generalmente legati alla compressione di un tronco
nervoso legato all’edema post-operatorio o alla formazione di un ematoma, in
particolare a livello di canali ossei che per definizione sono non espansibili, qualora
il sito implantare sia a diretto contatto con il canale attraverso cui passa il nervo 32,
40, 45, 54
.
Per quanto riguarda il tipo di lesione di un tronco nervoso, possono essere
riconosciute tre categorie principali (vedi tabella n° 6):
• neuro-aprassia: è caratterizzata dall’interruzione solo funzionale e temporanea
della conduzione nervosa causata da compressione o trazione prolungata intraoperatoria o da edema perineurale post-operatorio. Poiché gli assoni sono intatti, la
perdita di sensibilità è temporanea e reversibile;
• assonotmesi: è caratterizzata dall’interruzione anatomica degli assoni, ma con
conservazione delle guaine di rivestimento del nervo. Si accompagna a
degenerazione retrograda delle fibre coinvolte e a rigenerazione delle stesse.
Anche in questo caso la rigenerazione nervosa è spontanea, alla velocità di circa 1
mm al giorno, ma i tempi di recupero possono essere lunghi (mesi) in base
all’estensione della porzione di nervo degenerato.
• neurotmesi: è caratterizzata dall’interruzione completa sia degli assoni che delle
guaine di rivestimento del nervo; anche se la rigenerazione può avvenire a partire
dal moncone nervoso più prossimale, il ripristino anatomico e funzionale
spontaneo è improbabile perché la crescita dei nuovi assoni può avvenire in modo
disordinato, portando alla formazione del cosiddetto neuroma da amputazione,
senza collegamento con il moncone a “valle” che nel frattempo degenera
completamente 4,45.
I disturbi sensitivi che ne derivano possono essere suddivisi in (vedi tabella n° 7):
• parestesia: è caratterizzata da una sensibilità alterata nella zona di interesse
(sensazione di formicolio, calore, freddo, “puntura di spilli”);
• ipoestesia: caratterizzata da una riduzione della sensibilità;
• iperestesia: caratterizzata da un aumento della risposta a stimoli anche lievi;
• disestesia: è una forma di dolore neuropatico spontaneo o evocato
meccanicamente. Questa categoria comprende l’iperalgesia (un dolore improvviso
ed esagerato per uno stimolo normalmente non doloroso), l’iperpatia (una risposta
dolorifica ritardata e prolungata), il dolore simpatico-mediato (dolore che peggiora
all’aumentare del tono simpatico), l’anestesia dolorosa (dolore in un’area
anestetizzata) e l’allodinia (dolore causato da uno stimolo che di solito non
provoca dolore).
• anestesia: la forma più grave, rappresentata dalla totale perdita di sensibilità
8,45
.
COME PREVENIRE LE LESIONI NEUROLOGICHE
La prevenzione delle lesioni neurologiche si basa, come nel caso della lesione di
vasi arteriosi, sulla conoscenza dell’anatomia e sulla corretta interpretazione delle
informazioni ottenute dalle indagini radiografiche, in particolare da quelle di
“secondo livello” quali le tomografie computerizzate che in modo preciso possono
dare indicazioni attendibili per una scelta appropriata delle dimensioni implantari.
Gli interventi maggiormente a rischio sono rappresentati dall’inserimento di
impianti nel settore posteriore della mandibola, distalmente ai forami mentonieri,
qualora si violi il canale alveolare inferiore, ma anche dall’inserimento nel settore
interforaminale. In quest’ultimo caso, il deficit sensitivo può essere dovuto alla
lesione del nervo incisivo o della cosiddetta “loop” del nervo. Questa loop o
ginocchio del nervo deve essere ben conosciuta, proprio per evitare danni
neurologici.
Il nervo alveolare inferiore, prima di emettere il nervo mentoniero, si porta
anteriormente e coronalmente al foro mentoniero. Se non si tiene conto di questo
aspetto, un impianto inserito appena al davanti del foro mentoniero, può causare una
lesione rilevante del tronco principale del nervo alveolare, anche se
radiograficamente l’impianto appare in posizione mesiale rispetto al forame. Come
regola generale, è pertanto indicato inserire impianti nella mandibola anteriore
stando circa 5 mm al davanti del foro mentoniero, mentre nella mandibola
posteriore è bene preparare siti implantari che siano nella loro parte più apicale
almeno due millimetri più coronali rispetto al canale mandibolare.
Per quanto riguarda il nervo mentoniero, la causa più frequente di lesione,
(escludendo le temporanee parestesie legate a divaricazione dei tessuti molli in
vicinanza del nervo) è rappresentata dalla sezione parziale o totale di alcuni rami o
del tronco principale durante incisioni di rilascio periostale dopo tecniche
rigenerative/ricostruttive della mandibola anteriore a scopo implantologico o in
seguito a una scorretta incisione per accedere alla sinfisi mentoniera, qualora sia
necessario un prelievo di osso autologo.
La prevenzione si basa ovviamente sulla conoscenza dell’anatomia e sulla
identificazione/protezione del nervo e dei suoi rami durante l’intervento.
Un altro quadro clinico che può esporre a lesioni del nervo mentoniero è
rappresentato dall’edentulia completa associata a grave atrofia. In questi casi, il
nervo mentoniero può emergere addirittura in cresta ed essere reciso già durante la
prima incisione di accesso al piano osseo per inserire impianti. In questi casi la
valutazione radiografica pre-operatoria, una incisione cauta e addirittura spostata in
direzione linguale e l’identificazione del nervo per via smussa previene questa
complicanza.
Per quanto riguarda il nervo incisivo, raramente si pongono problemi, anche se
vengono utilizzati impianti “lunghi” che superino il piano dove passa il nervo. Il
primo motivo è l’esiguità del nervo; il secondo è che quando questo si presenta in
prossimità della cresta ossea edentula, situazione tipica delle atrofie gravi negli
edentuli totali, l’assenza degli elementi dentari è stata spesso seguita da una atrofia
da “disuso” del nervo. In questi casi il danno neurologico è praticamente irrilevante.
Per quanto riguarda il nervo naso-palatino, la prevenzione della sua lesione si base
anche in questo caso su una attenta valutazione clinica e radiografica. In particolare,
l’intervento “a rischio” è rappresentato dall’inserimento di impianti a livello degli
incisivi centrali.
In questi casi, è bene valutare attentamente l’ampiezza del canale e modificare di
conseguenza diametro e posizione degli impianti, per evitare la lesione del nervo,
anche se, va sottolineato, le sequele funzionali e quelle medico-legali sono
decisamente inferiori rispetto a quelle conseguenti alla lesione del nervo alveolare
inferiore.
Per quanto riguarda il nervo linguale, la prevenzione della sua lesione, che può
accadere durante prelievi ossei dal ramo della mandibola, ma raramente durante
l’inserimento di impianti, si ottiene mediante uno scollamento sottoperiosteo e una
adeguata protezione del nervo con appositi divaricatori. Deve essere sottolineato,
tuttavia, che oggigiorno, con l’utilizzo di strumenti piezoelettrici per il prelievo di
segmenti ossei dal ramo/corpo mandibolare, lo scollamento sul versante linguale è
raramente indicato.
Per quanto riguarda il nervo buccale, la prevenzione della sua lesione, che potrebbe
occorrere durante l’allestimento di un lembo per un prelievo osseo dal ramo
mandibolare, si ottiene eseguendo un’incisione a mezzo spessore nella regione della
branca ascendente della mandibola, in modo da mantenersi superficiali al suo
decorso 8,24,45 .
COME GESTIRE I DANNI NEUROLOGICI
Una premessa fondamentale è che le lesioni neurologiche presentano in genere
sequele funzionali e medico-legali non trascurabili e la loro gestione non è semplice,
come anche non esiste un consenso sulle modalità di comportamento che il clinico
deve assumere qualora una complicanza neurologica si verifichi. Quanto scritto qui
di seguito deve essere pertanto valutato con attenzione ma non è sopportato da dati
“incontrovertibili”.
Qualora ci sia il dubbio di aver danneggiato un nervo durante la preparazione di un
sito implantare, è consigliabile inserire un pernino di parallelismo ed eseguire una
radiografia endorale (quando disponibile, anche una tomografia computerizzata con
programmi dedicati agli impianti è d’estrema utilità) per verificare la posizione
dello stesso rispetto al nervo. Se la violazione del canale che contiene il nervo è
evidente, può essere indicato sospendere l’intervento. Se la parte più apicale del sito
implantare fosse in contiguità con il canale, l’intervento può essere proseguito, ma
riducendo la lunghezza dell’impianto.
Se nei giorni successivi all’intervento dovesse essere presente una alterata
sensibilità ma in assenza di una evidente violazione del nervo, il paziente deve
essere strettamente monitorato.
Risulta di fondamentale importanza, anche dal punto di vista medico-legale,
documentare nel tempo il livello di disfunzione neuro-sensoriale ricorrendo a test
specifici (vedi tabella n° 8) per valutare l’estensione del danno e gli eventuali
miglioramenti 24,32,54.
In alcuni casi, una eventuale parestesia/disestesia può essere legata semplicemente
ad una neuro-aprassia, ad esempio conseguente alla compressione di un tronco
nervoso in seguito allo sviluppo di un edema o un ematoma post-operatorio. Una
risoluzione spontanea conseguente al riassorbimento dell’edema o dell’ematoma
può infatti avvenire, anche in associazione a un supporto farmacologico a base di
cortico-steroidi e anti-edemigeni.
Qualora i sintomi non si dovessero risolvere, può essere indicata la rimozione
precoce dell’impianto, che, tuttavia, non è affatto in grado di garantire la ripresa
funzionale, qualora il nervo sia stato leso.
Quando ci siano segni evidenti di rapporti diretti di un impianto con un nervo, ad
esempio la penetrazione di un impianto nel canale alveolare inferiore visibile su una
tomografia computerizzata, piuttosto che su una radiografia panoramica o endorale
(che potrebbe mostrare una falsa positività di lesione legata alla bidimensionalità
delle immagini) e i test elettromiografici dimostrassero alterazioni evidenti, la
rimozione dell’impianto deve essere eseguita quanto prima, associandola però, in
caso di interruzione anche parziale del nervo, alla sua ricostruzione microchirurgica.
I limiti temporali per gli interventi di microchirurgia ricostruttiva nervosa nel cavo
orale sono di circa 12 mesi in caso di algia e di 24 mesi in caso di anestesia:
superato questo tempo, il successo della terapia decade drasticamente 4. In generale,
tuttavia, in caso di anestesia completa è consigliabile intervenire non oltre il terzo
mese mentre in caso di recupero incompleto di funzionalità entro gli 8/9 mesi.
Non è questa la sede per la descrizione dei dettagli tecnici di questo intervento:
brevemente, il nervo interrotto deve essere isolato, i due monconi prossimale e
distale ripuliti da eventuali iniziali formazioni di neuroma da amputazione e i due
monconi ri-suturati tra loro (neuroraffia). Qualora l’interruzione comporti la non
“avvicinabilità” dei due monconi, si rende necessario un trapianto di un segmento di
nervo autologo, prelevato ad esempio dal nervo surale o grande auricolare.
Bisogna tuttavia tenere presente che questo intervento, anche se eseguito da mani
esperte da parte di un neurochirurgo o di un chirurgo maxillo-facciale, non è affatto
in grado di garantire la ripresa funzionale e che in più è gravato da una non
trascurabile morbilità. Infatti, il prelievo di tessuto nervoso da una altra sede
comporta inevitabilmente una perdita di sensibilità nel territorio innervato dal nervo
donatore. Questo intervento è pertanto indicato in particolare nei casi di anestesia
dolorosa, ma trova minori indicazioni in caso di disturbi più lievi, in quanto il
rapporto costi/benefici potrebbe non essere favorevole.
In caso di algia cronica datata più di 12 mesi, o nel caso in cui questa perduri
nonostante l’effettuazione di un intervento chirurgico che non ha avuto successo, le
strategie terapeutiche sono farmacologiche e psicologiche. I farmaci utilizzati
sono molteplici e in particolare consistono in medicinali a base di carbamazepina,
difenilidantoina, baclofen, clonazepam e gabapentina. I più efficaci risultano gli
antiepilettici, gravati però da numerosi effetti collaterali. I farmaci devono essere
gestiti da neurologi o da specialisti della terapia del dolore che li associano tra loro,
li dosano e li cambiano in relazione alla sintomatologia e ai risultati della terapia.
Gli effetti collaterali di questi farmaci, soprattutto per i dosaggi più elevati, possono
essere debilitanti e per alcuni pazienti superare i benefici ricavati dalla terapia stessa
4
.
5 Prevenzione e gestione delle complicanze infettive precoci
Esula dagli scopi di questo articolo (per questioni di spazio e perché non
strettamente legato all’atto chirurgico implantare) la trattazione di un argomento
peraltro di grande interesse, quale la peri-implantite tardiva, quella cioè che si
sviluppa ad integrazione avvenuta dell’impianto o dopo l’inizio del carico protesico.
Verrà invece trattata brevemente l’infezione peri-implantare post-operatoria precoce
(entro le prime 4 settimane post-intervento) che può interessare solo i tessuti molli
superficiali o l’interfaccia osso-impianto.
La prevalenza delle infezioni dei tessuti molli, dopo l’inserimento di impianti
osteointegrati, varia tra lo 0,7% secondo Gynther e l’1,14% secondo Powell 24.
I fattori favorenti sono rappresentati dalla contaminazione batterica da parte della
flora endorale sia durante l’intervento che nell’immediato post-operatorio, in
particolare quando le procedure sono state eseguite non in condizioni di sterilità o in
presenza di malattia parodontale a livello dei denti adiacenti non adeguatamente
curata prima dell’intervento, dall’eccessiva tensione dei lembi, da un disegno del
lembo inadeguato, dal trauma meccanico da parte delle “viti tappo”, dall’uso
precoce di protesi mobili nella zona operata, dalla contaminazione dei fili di sutura,
e, ovviamente, dalla scarsa igiene orale da parte del paziente.
Il processo infettivo può limitarsi ai tessuti superficiali o coinvolgere la superficie
implantare: nel primo caso, l’impianto può essere ancora “salvato”, nel secondo
caso, la perdita dell’impianto è praticamente garantita 5,24.
COME PREVENIRE L’INFEZIONE PERI-IMPLANTARE PRECOCE
Le complicanze infettive peri-implantari precoci si possono prevenire seguendo
alcuni suggerimenti pratici: a) non eseguire nessun intervento in presenza di
malattia parodontale che coinvolga la dentatura residua fino alla sua completa
risoluzione; b) far eseguire al paziente sciacqui con clorexidina da iniziare 48 ore
prima dell’intervento; c) effettuare interventi implantologici con un’adeguata
preparazione sterile sia del campo chirurgico, che degli operatori che del paziente;
d) utilizzare soluzione fisiologica sterile per l’ irrigazione, ridurre al minimo la
penetrazione di saliva nella zona di intervento con un’adeguata aspirazione,
rimuovere gli eventuali debris ossei prima di inserire l’impianto; e) eseguire una
profilassi e una terapia antibiotica peri-operatoria (vedi tabella n° 9 e 10); f)
raccomandare al paziente di sospendere o ridurre al minimo il consumo di tabacco o
alcol almeno fino alla rimozione dei punti di sutura (ovviamente nei forti fumatori e
bevitori l’indicazione all’uso di impianti può anche non esistere); g) raccomandare
al paziente una dieta liquida o semiliquida fino alla rimozione dei punti di sutura e
adeguate manovre di igiene orale; h) vietare l’uso di manufatti protesici mobili che
comprimano la zona operata 24,14,51.
COME GESTIRE L’INFEZIONE PERI-IMPLANTARE PRECOCE
In caso di ascesso acuto post-operatorio precoce che coinvolga solo i tessuti molli
superficiali, questo deve essere drenato immediatamente e la ferita chirurgica
lasciata guarire per seconda intenzione. Non è affatto consigliabile una nuova sutura
sulla zona operata che “incarcerebbe” germi residui al di sotto dei tessuti molli,
favorendo la recidiva. La terapia antibiotica, se già sospesa può essere ricominciata
o proseguita in caso contrario. Un’accurata igiene orale con clorexidina è
obbligatoria.
In caso l’infezione si sia diffusa sulla superficie dell’impianto, che in questi casi si
presenta spesso mobile già in fase precoce e dolente, la soluzione più predicibile è la
rimozione immediata dell’impianto. La sua permanenza potrebbe portare a
complicanze più gravi, inclusa la diffusione dell’infezione all’osso circostante con
potenziale sviluppo di osteomielite.
6 Prevenzione e gestione di altre complicanze
Oltre alle complicanze vascolari, neurologiche e infettive esistono una serie di
complicanze intra e post-operatorie, non inquadrabili nelle precedenti
classificazioni, che meritano un breve cenno.
• SURRISCALDAMENTO DEL SITO IMPLANTARE
Il tessuto osseo è molto sensibile al surriscaldamento, evento che può facilmente
verificarsi durante la preparazione di siti implantari, sia con i “classici” strumenti
rotanti, che con i più recenti strumenti piezoelettrici.
Questo evento ha una più elevata probabilità di verificarsi in caso di tessuto osseo
molto denso (Classe I di Lekholm e Zarb), dove l’attrito degli strumenti di
preparazione è maggiore, come anche maggiore può essere la tendenza
dell’operatore, seppure spesso involontaria, ad applicare maggiore pressione.
Se la temperatura a livello del sito impiantare supera i 47° Celsius anche per solo
un minuto può svilupparsi una necrosi ossea più o meno estesa 36,46.
L’uso di irrigazioni continue con soluzione fisiologica sterile pre-raffreddata e di
pressioni controllate e intermittenti, nonché l’utilizzo di strumenti affilati e “nuovi”
può minimizzare questa evenienza e diminuire il discomfort post-chirurgico.
In caso invece di surriscaldamento eccessivo, nonostante una apparente stabilità
primaria dell’impianto, il paziente può sviluppare nell’immediato post-operatorio un
dolore intenso e, ad un controllo radiografico anche relativamente precoce, può
comparire una area di osteolisi peri-implantare.
In questi casi esiste un elevato rischio di perdita di osteointegrazione e l’impianto,
sovente, deve essere rimosso. Un’osteonecrosi seppure limitata e non trattata può
portare alla formazione di sequestri ossei (nella migliore delle ipotesi) ma anche allo
sviluppo di una sovrainfezione batterica, legata all’assenza di difese locali per
mancato apporto ematico. Tra l’altro la terapia antibiotica potrebbe rivelarsi del
tutto inefficace, sempre a causa dell’assenza di apporto ematico nelle zone di osso
necrotico.
Il paziente deve essere pertanto strettamente monitorato e non è esclusa la necessità
di un re-intervento di toilette chirurgica più o meno allargata del tessuto osseo non
vitale.
In caso di osteonecrosi, ogni ulteriore tentativo di re-inserire un impianto in tempi
brevi è assolutamente da proscrivere.
• MANCANZA DI STABILITÀ PRIMARIA DELL’IMPIANTO
La mancanza di stabilità primaria è sempre legata ad una sovrapreparazione del sito
implantare in presenza o meno di un tessuto osseo di scarsa qualità (elevata
componente spongiosa e poca componente corticale - classe IV di Lekhom e Zarb)
46,48
.
Sebbene siano stati descritti in letteratura casi di osteointegrazione anche in
presenza di scarsa stabilità primaria iniziale 15, un buon torque di inserimento
(almeno 15-20 Ncm) o indici di ISQ superiori a 60 sarebbero auspicabili.
Sebbene non esistano dati validati scientificamente, in presenza di osso di scarsa
qualità un utile suggerimento può essere quello di “sottopreparare” il sito impiantare
e/o di utilizzare impianti con macromorfologia “più aggressiva”. Qualora questa
manovra non sia sufficiente e l’impianto non presenti stabilità primaria si può
sostituire l’impianto immediatamente con uno di maggiore diametro e/o lunghezza,
sempre che l’anatomia locale lo consenta.
E’ generalmente controindicato in questi casi sottoporre l’impianto a sollecitazioni
meccaniche precoci, quali il carico immediato.
• FRATTURA MANDIBOLARE
La frattura mandibolare rappresenta una grave, anche se rara, complicanza della
chirurgia implantare, che si verifica quasi esclusivamente nelle mandibole
fortemente atrofiche (altezza residua < 7mm e uno spessore < 6mm). La
preparazione di siti implantari, anche se eseguita “a regola d’arte” indebolisce
ulteriormente una mandibola già ridotta di volume 36,46,48.
La scelta di impianti di diametro e lunghezza elevati potrebbe aumentare
ulteriormente questo rischio.
La frattura può verificarsi durante l’inserimento degli impianti, in particolare
quando vengano applicate forze eccessive nell’avvitamento (evento che può
verificarsi nella mandibola anteriore dove il tessuto osseo è più denso) o nel postoperatorio.
La prevenzione si basa ovviamente su una corretta pianificazione (che potrebbe
anche far escludere l’utilizzo di impianti in mandibole fortemente atrofiche se non
dopo una adeguata ricostruzione, ad esempio con innesti ossei di apposizione e sulla
riduzione del numero e delle dimensioni degli impianti).
Il trattamento consiste nella rimozione dell’impianto localizzato nel focolaio di
frattura, nella riduzione della frattura e nella stabilizzazione con placche di titanio e
viti. Sono consigliabili placche rigide e di lunghezza sufficiente a garantire la
completa stabilizzazione della mandibola. La procedura può risultare non agevole a
causa della scarsa superficie di contatto dei due monconi mandibolari fratturati.
Dato che questo evento si verifica quasi esclusivamente negli edentuli totali,
l’utilizzo di protesi mobili e la masticazione di cibi duri fino al completo
consolidamento della frattura sono vietati 46.
• DISLOCAZIONE O MIGRAZIONE DI IMPIANTI NELLA CAVITÀ NASALE
O NEL SENO MASCELLARE
La dislocazione o la migrazione di impianti nella cavità nasale o nel seno mascellare
è una complicanza sempre legata a una pianificazione pre-operatoria scorretta che
porta al tentativo di inserire impianti in condizioni critiche, legate allo scarso
volume di osso residuo nel mascellare anteriore (al di sotto del pavimento del naso)
o nel mascellare latero-posteriore (al di sotto del seno mascellare).
La penetrazione di un impianto nella cavità nasale o nel seno mascellare si può
verificare intra-operatoriamente o anche a distanza di tempo, tipicamente per perdita
di stabilità primaria dell’impianto 46,48.
La dislocazione degli impianti nel naso può essere seguita dalla spontanea
espulsione dalle narici o dal cavo orale, qualora l’impianto migri verso la faringe,
ma può anche essere seguita dalla sua ingestione (se si dirige verso l’esofago) o
dalla potenzialmente più grave aspirazione in trachea e nel sistema bronchiale
(evento che può portare a una polmonite “ab ingestis”).
La dislocazione di un impianto nel seno mascellare (più frequente) può determinare:
a) la spontanea espulsione degli stessi attraverso l’ostio sinusale (grazie al
movimento ciliare dell’epitelio respiratorio che riveste la cavità sinusale) e quindi
nella cavità nasale; b) la permanenza dell’impianto nel seno mascellare senza
sviluppo di infezione; c) la permanenza dell’impianto nel seno mascellare con
sviluppo di una reazione infiammatoria o francamente infettiva “da corpo estraneo”.
Nel primo caso, l’impianto può seguire le stesse vie già descritte nella complicanza
di un impianto penetrato nella fossa nasale (espulsione spontanea, ingestione,
migrazione in trachea) oppure migrare verso altri seni paranasali, in particolare il
seno sfenoidale o le cellule etmoidali, fino ad arrivare, come peraltro già descritto in
letteratura, alla penetrazione in fossa cranica anteriore o media, con il rischio di
gravi complicanze quali la meningite o l’encefalite 11,19,20.
Nel secondo caso, il quadro può rimanere silente per anni, ma può anche “attivarsi”,
con sviluppo di infezione.
Nel terzo caso, infine, lo sviluppo di una sinusite mascellare, oltre a causare tutto il
corteo di sintomi a essa legati (senso di tensione al volto, dolore, febbre, secrezione
purulenta dal naso, eccetera), può anche portare ad un coinvolgimento infettivo di
altri seni paranasali, dell’orbita (con rischio di cellulite orbitaria e perdita del visus,
in seguito a sviluppo di una neurite ottica) e, infine, di diffusione dell’infezione
all’interno della cavità cranica, con conseguenze anche fatali per il paziente.
La migrazione di un impianto nelle cavità nasali o nel seno mascellare, inoltre, se
avviene contestualmente all’intervento, inevitabilmente causerà una comunicazione
oro-nasale od oro-sinusale, con possibile sviluppo di infezione e di tutti i disagi
legati al passaggio di liquidi dalla bocca verso il naso e il seno. Qualora invece la
migrazione di un impianto “sommerso” avvenga dopo l’intervento, “a lembo
chiuso” può svilupparsi tutto il corteo di quadri clinici sopra descritti, ma senza
comunicazione oro-antrale.
La prevenzione di queste complicanze si basa ovviamente, come sempre, su una
corretta pianificazione pre-operatoria che si avvarrà in particolare di tomografie
computerizzate che forniranno tutte le informazioni sui volumi ossei disponibili e
sullo stato di salute dei seni mascellari (un seno patologico già prima
dell’inserimento di impianti è una controindicazione fino a quando la patologia
sinusale non sia stata eliminata).
Qualora la tomografia evidenzi volumi ossei insufficienti anche per l’inserimento di
impianti corti, è bene valutare procedure di incremento osseo quali il rialzo del seno
mascellare o tecniche rigenerative/ricostruttive del processo alveolare edentulo. E’
invece bene evitare interventi “sperimentali “ con impianti inseriti in condizioni non
affidabili.
In caso di penetrazione di un impianto nel naso, qualora non avvenga l’espulsione
spontanea, la sua rimozione può essere agevolmente condotta con l’utilizzo di
strumenti endoscopici otorinolaringoiatrici con accesso dalla narice, generalmente
in anestesia locale (inutile in questa sede la descrizione della procedura che esula
dalle competenze odontoiatriche).
In caso di migrazione di un impianto nel seno mascellare, la procedura di rimozione,
sempre indicata anche in assenza di sintomi, per evitare una evoluzione sfavorevole,
prevede tre approcci principali: a) approcci intra-orali; b) approccio endoscopico
trans-orale; c) approccio endoscopico trans-nasale (FESS - Functional Endoscopic
Sinus Surgery). Infine, in casi particolari, l’approccio intra-orale e la FESS possono
o devono essere associati nella stessa seduta operatoria 19. Qui di seguito verranno
descritte sinteticamente indicazioni e tecniche per le varie procedure.
Approcci intra-orali
Sono indicati quando l’impianto non ha ancora causato un’infezione cronica del
seno mascellare o di altri seni paranasali, in particolare in associazione a ostruzione
dell’ostio sinusale. In questi casi il solo approccio intra-orale potrebbe non essere
affatto risolutivo.
Il principio di base è rappresentato dalla creazione di un accesso dalla parete anterolaterale del seno mascellare, previo uno scollamento di un lembo a tutto spessore
con esposizione della parete ossea del seno mascellare nella zona compresa tra il
canino e i molari, a seconda della sede dell’impianto e della modalità chirurgica
adottata.
L’intervento è eseguibile a livello ambulatoriale in anestesia locale nella stragrande
maggioranza dei casi.
L’accesso al seno può essere creato mediante la rimozione di un segmento osseo
(inclusa una porzione di membrana di Schneider, con una tecnica simile a quella
usata nel passato “ad modum Caldwell-Luc”, e quindi al recupero dell’impianto dal
seno mediante aspirazione o con l’uso di pinze emostatiche con visione diretta della
cavità sinusale, oppure mediante la creazione di uno sportello osseo che viene
lasciato peduncolato alla membrana di Schneider, rendendo possibile il suo
riposizionamento a fine intervento e praticamente una “restituito ad integrum” della
parete sinusale) 4,20.
Approccio endoscopico trans-orale
Ha le stesse indicazioni degli approcci intra-orali già descritti, con l’unica differenza
che l’accesso al seno mascellare viene ottenuto attraverso un accesso molto limitato
nella zona della fossa canina e il controllo del seno mascellare, nonché il recupero
dell’impianto, viene eseguito con strumentazione endoscopica. L’intervento è
eseguibile in anestesia locale ma è necessaria esperienza nella gestione della
strumentazione endoscopica otorinolaringoiatrica 42,47.
Approccio endoscopico trans-nasale (FESS)
E’ indicato in particolare quando è presente un impianto migrato nel seno con
sinusite, limitata al seno mascellare o estesa ad altri seni paranasali, associata in
particolare a una ostruzione dell’ostio sinusale, nonché a tutti i casi (peraltro più
rari) di migrazione degli impianti in altri seni paranasali o nelle cavità nasali. In
questi casi il solo approccio intra-orale sarebbe del tutto insufficiente per
l’impossibilità di controllare l’ostio e di accedere agli altri seni paranasali.
L’intervento deve essere eseguito in anestesia generale.
In breve, consiste nell’accesso ai seni paranasali attraverso il naso con
strumentazione endoscopica, nell’allargamento dell’ostio sinusale e nell’accesso al
seno mascellare (come pure agli altri seni, se indicato), che viene “ripulito” senza
rimozione della mucosa sinusale. Contemporaneamente vien rimosso l’impianto.
Questo approccio consente la rimozione del corpo estraneo e il ripristino di
condizioni favorevoli al recupero funzionale del sistema naso-paranasale 11,27,35.
Approccio intra-orale + FESS
in alcuni casi, in particolare quando è presente una comunicazione oro-antrale o
l’impianto si trova nel recesso infero-mediale del seno, difficilmente raggiungibile
per via endoscopica, in presenza di una sinusite e/o ostruzione dell’ostio, è indicato
un approccio combinato che consente di rimuovere l’impianto, allargare l’ostio,
drenare il materiale infetto e chiudere la comunicazione oro-antrale in un’unica
seduta in anestesia generale.
7 Prevenzione e gestione delle più comuni complicanze in
chirurgia implantare avanzata
Come noto, l’utilizzo di impianti dentali, per consentire una riabilitazione protesica
“congrua” e affidabile nel tempo, richiede condizioni adeguate in termini di volumi
ossei residui nelle zone edentule, adeguate condizioni dei tessuti molli e corretti
rapporti intermascellari (dando per scontato che le condizioni parodontali e
protesiche della dentatura residua non presentino problemi, come pure la salute
generale del paziente).
Sovente tuttavia, uno o più di questi aspetti viene a mancare e si rendono necessarie
tecniche rigenerative/ricostruttive, con lo scopo di ricreare quanto è carente/assente.
Esula da questo dossier un’analisi dettagliata delle varie tecniche a disposizione,
quali le tecniche di rigenerazione ossea guidata, le tecniche ricostruttive con innesti
ossei autologhi e non autologhi in blocco, il rialzo del seno mascellare, eccetera,
mentre verrà focalizzata l’attenzione sulla prevenzione e sulla gestione delle
complicanze, che, come in ogni atto chirurgico, possono verificarsi.
Come sempre, anche in questo specifico settore dell’implantologia, un’adeguata
pianificazione pre-operatoria, la conoscenza dell’anatomia e, ovviamente la
padronanza delle tecniche riduce grandemente le potenziali complicanze, che però,
anche in mani esperte possono verificarsi 39.
Non verranno nuovamente analizzate le complicanze neuro-vascolari già descritte,
ma ci si soffermerà sulle complicanze legate specificamente alle procedure
rigenerative/ricostruttive, siano esse intra che post-operatorie. In particolare
verranno trattate:
• le complicanze legate alle tecniche di rigenerazione ossea guidata (GBR)
• le complicanze legate alle tecniche di innesto osseo
• le complicanze legate alle tecniche di rialzo del seno mascellare
• Complicanze legate alle tecniche di rigenerazione ossea guidata (GBR)
Le tecniche di GBR prevedono l’utilizzo di barriere semipermeabili riassorbibili e
non (membrane) associate all’uso di materiali non autologhi, di osso autologo, o di
miscele di essi per aumentare il volume osseo delle creste alveolari edentule,
qualora queste presentino deficit tali da rendere l’inserimento di impianti endo-ossei
non affidabile e soprattutto non corretto dal punto di vista protesico.
La complicanza più comune è rappresentata dall’esposizione della membrana che
può essere seguita o meno dal fallimento parziale o totale della tecnica rigenerativa
con percentuali maggiori nel caso si usino membrane non riassorbibili (20% dei
casi) e minori nel caso si usino membrane riassorbibili (5% dei casi) 11.
La prevenzione si ottiene mediante gli stessi principi adottati in chirurgia implantare
standard (eliminazione della malattia parodontale della dentatura residua,
antibioticoprofilassi, procedura chirurgica in sterilità, adeguata igiene orale,
eccetera).
Inoltre, dato che la GBR prevede un aumento del volume osseo iniziale con
l’inserimento di biomateriali e di membrane, che comunque agiscono da “corpi
estranei” seppure bio-inerti e bio-compatibili, risulta fondamentale garantire una
sutura ermetica dei lembi che copriranno il materiale usato per la rigenerazione
previ adeguati rilasci periostali.
In assenza di questi fattori, i lembi non potranno essere suturati adeguatamente e
questa potrebbe essere la premessa per il fallimento della procedura, legata alla
penetrazione di germi al di sotto dei tessuti molli con conseguente infezione.
E’ inoltre fondamentale non sottoporre la zona sottoposta a GBR ad alcun trauma
meccanico: protesi mobili che si appoggino sulla zona operata sono da proscrivere.
Se, nonostante queste precauzioni, si dovesse verificare una esposizione della
membrana, non è possibile prevedere l’evoluzione. L’esposizione può avvenire
precocemente o a distanza di tempo variabile. Più è precoce, maggiore è il rischio di
fallimento parziale o totale della procedura.
Il paziente dovrà essere tenuto strettamente controllato con controlli ravvicinati nel
tempo e con un’attenzione particolare all’igiene orale mediante sciacqui con
clorexidina in associazione ad applicazione topica dello stesso prodotto.
E’ possibile che l’esposizione si riduca spontaneamente, in particolare quando
vengano utilizzate membrane a rapido riassorbimento. Se questo non si verifica e
l’infezione è franca, è bene rimuovere al più presto la membrana e tutto il tessuto
infetto/non integrato.
Non è indicato cercare di ri-suturare i lembi in presenza di una deiscenza: questo
comporterebbe “l’incarceramento” di batteri al di sotto dei lembi con la quasi
certezza di un’infezione ancora più grave.
A distanza di tempo e a guarigione avvenuta sarà possibile valutare l’entità del
“danno” ed eventualmente proporre una ulteriore procedura rigenerativa.
• Complicanze legate alle tecniche di innesto osseo
La correzione di difetti delle creste alveolari edentule mediante innesti ossei di
apposizione rappresenta la seconda grande famiglia di procedure chirurgiche a
disposizione del clinico. Possono essere utilizzati: a) l’osso autologo (di gran lunga
il meglio testato e utilizzato negli ultimi 30 anni); b) l’osso omologo; c) l’osso
eterologo. Questi due ultimi, seppure abbiano dato buoni risultati, non hanno
comunque, sia in termini di numero di pazienti che di follow-up, lo stesso supporto
scientifico dell’osso autologo.
Indipendentemente dal materiale usato, la prevenzione di complicanze segue sempre
le regole già più volte citate.
Come nel caso della GBR, la complicanza più comune è rappresentata dalla
deiscenza della sutura iniziale e dalla conseguente esposizione dell’innesto.
Anche in questo caso, il paziente dovrà essere tenuto sotto stretta osservazione. E’
possibile che la deiscenza si risolva spontaneamente, ma può anche peggiorare e
portare a infezione dell’innesto con sua perdita parziale (nel 3,3% dei casi) o totale
(nell’1,4% dei casi) 11.
In caso di esposizione, può essere tentata la via del “salvataggio” dell’innesto
mediante perforazioni multiple di quest’ultimo con strumenti rotanti che favoriscano
il sanguinamento a partenza dall’osso basale con formazione di tessuto di
granulazione che può portare a chiusura della deiscenza.
Qualora questa fallisca e l’innesto presenti chiari segni di infezione o sequestro non
resta che rimuovere le parti perse, attendere la guarigione e rivalutare il paziente a
distanza di tempo, proponendo eventualmente, qualora necessario, il re-intervento.
Come per la GBR, tanto più tardiva sarà l’esposizione, tanto più alta sarà la
possibilità di un recupero dell’innesto. Anche in questo caso, il tentativo di risuturare i lembi sopra una zona esposta non è indicato.
• Complicanze legate alle tecniche di rialzo del seno mascellare
Nelle aree posteriori del mascellare superiore, un seno mascellare espanso, associato
o meno a riassorbimento del processo alveolare edentulo, può portare ad un volume
osseo del tutto insufficiente per l’inserimento di impianti, pena il rischio della loro
penetrazione nel seno, come già precedentemente accennato.
Per ovviare a questo inconveniente sono state proposte due tecniche principali: il
cosiddetto rialzo del seno mascellare per via crestale o trans-alveolare e quello con
approccio laterale. La prima tecnica consiste in breve nel sollevamento della
membrana di Schneider durante la preparazione del sito implantare e viene
abitualmente utilizzata quando il volume osseo sia ridotto ma non eccessivamente
(circa 4-5 mm di altezza ossea residua). L’impianto viene inserito contestualmente e
lo spazio che si crea tra la membrana sollevata e la base del pavimento sinusale può
essere riempita con biomateriali e non riempita del tutto, contando
sull’organizzazione del coagulo e sua trasformazione nel tempo in tessuto osseo.
La seconda tecnica consiste invece nel sollevamento della membrana di Schneider
mediante la creazione di uno “sportello” osseo sulla parete laterale del seno. Lo
spazio che si viene a creare viene riempito con materiali da innesto (generalmente
biomateriali non autologhi, ma anche con innesti autologhi). Questa tecnica può
essere utilizzata anche in caso di altezze residue della cresta alveolare minime (< 1
millimetro). Gli impianti possono essere inseriti contestualmente, se la stabilità
primaria garantita dall’osso residuo è sufficiente, o a distanza di tempo, quando il
materiale da innesto si è consolidato.
Queste due procedure, se ben condotte, presentano elevate percentuali di successo
11,49
.
La complicanza più temibile è la perforazione della membrana di Schneider e
qualora siano stati utilizzati materiali da innesto, la loro penetrazione nel seno, se
non addirittura dello stesso impianto con la stessa serie di complicanze descritte
precedentemente.
La perforazione della membrana di Schneider si verifica tra il 10 e il 40% dei casi,
anche in mani esperte 10.
La prevenzione si basa pertanto sul mantenimento di una membrana integra, e
qualora questa si perfori, nella chiusura della perforazione mediante barriere
biocompatibili (colla di fibrina, membrane riassorbibili varie, derivati piastrinici
concentrati quali il PRF o il PRP, eccetera). Solo in una limitata percentuale dei casi
(1%) la perforazione è tale da dover sospendere l’intervento, pena un rischio troppo
elevato di migrazione del materiale da innesto nel seno mascellare 10.
Non sempre la penetrazione di materiale da innesto nel seno mascellare, come
avviene per gli impianti, è seguita da complicanze infettive/reattive da corpo
estraneo. Tuttavia questo evento è tutt’altro che raro ed è bene provvedere al più
presto alla rimozione del materiale e/o degli impianti con le stesse procedure già
descritte precedentemente (rimozione con approccio intra-orale, rimozione con
FESS, tecniche combinate), sempre con l’obiettivo di scongiurare un’evoluzione
sfavorevole quale una pansinusite o peggio una diffusione dell’infezione verso
l’orbita o il basicranio 8,11,18.
8 Conclusioni
Gli interventi di chirurgia implantare e pre/peri-implantare possono associarsi a una
serie di complicanze intra e post-operatorie e alcune di queste possono essere di
grave entità.
Pertanto, la loro prevenzione mediante un’adeguata conoscenza dell’anatomia,
un’attenta valutazione anamnestica e una pianificazione dell’intervento chirurgico la
più accurata possibile risultano essenziali.
Poiché tuttavia, l’eliminazione delle complicanze nell’attività chirurgica di qualsiasi
campo è impossibile, l’aspetto fondamentale risulta quello di saperle gestire in
modo razionale ed efficace, qualora si verificassero.
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