l`abbazia di s - Terra di Guglielmo

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GLI OTTONI E L’AVVENTURA ARDUINICA ALLO SPIRARE DEL MILLENNIO
(di M. Cima)
Dopo una fase di grande debolezza delle monarchie europee scaturite dalla Divisio
Regnorum, con le conseguenti interminabili guerre di successione, intorno alla metà del
secolo X sorse fra tutti un uomo forte: Ottone I di Sassonia. Questi, vinse in battaglia
Berengario Il re d’Italia della stirpe degli Anscarici di Ivrea e con una serie di leggi
favorevoli alla corona germanica rifondò la monarchia attribuendo per legge il titolo di re
d’Italia e quello di imperatore al sovrano germanico, cioè a sé stesso e alla sua
discendenza.
La politica però ha le sue regole e nonostante la grande forza dimostrata dal
germanico, egli non giunse a scalzare la dinastia degli Anscarici dal trono marchionale di
Ivrea, tant’è che l’importantissimo incarico pubblico continuò ad essere ricoperto da
Corrado Conone, figlio dell’odiato Berengario. Verosimilmente per controbilanciare questa
presenza, potenzialmente avversa alla casa di Sassonia, l’imperatore nominò un suo
uomo fidato a capo della diocesi affinché potesse controllare da vicino l’operato del
marchese e nel caso difendere con energia gli interessi del casato germanico. La scelta
cadde su Warmondo, dell’antica famiglia degli Arborio, già alto funzionario imperiale
(camerarius et avocatus).
L’Italia visse una stagione di declino sotto l’impero degli Ottoni, che coincise con
l’affermazione dell’egemonia germanica. L’unico slancio di orgoglio e, conseguentemente,
di prestigio internazionale, si registrò alla fine del secolo ad opera di Arduino successore di
Corrado Conone, forse con un breve intermezzo del padre Dadone, al seggio marchionale
di Ivrea.
Questi sulla base di contese territoriali,
portò alle estreme conseguenze l’antagonismo
con gli ambienti episcopali della sua marca tra
cui in particolare Ivrea e Vercelli.
La concessione imperiale al vescovo
Pietro di Vercelli del feudo di Caresana,
questione apparentemente secondaria rispetto
ai grandi temi della politica, nel 997, scatenò
del malcontento che sfociò in disordini
culminati
con
l’omicidio
del
presule,
strettamente legato al casato di Sassonia.
Di questo delitto venne accusato
Arduino, il quale pochi mesi dopo occupò
Vercelli e incendiò la cattedrale e la stessa
salma dell’episcopo Pietro. Per questo
ricevette la scomunica del vescovo di Ivrea
Warmondo e, a sottolineare la posizione
imperiale lo stesso vescovo eporediese
ottenne l’immunità nella città e per tre miglia
tutto intorno. Si trattò di potere tangibile,
passato formalmente dalle mani del marchese
a quelle del vescovo.
Nell’autunno del 1000 Arduino decise di
recarsi a Roma per spiegare all’imperatore la
Il vescovo Warmondo in una miniatura del
sua posizione, ma grazie alla solerzia di
Sacramentario omonimo
Warmondo
e
del
germanico
Leone,
successore di Pietro nella cattedra episcopale di Vercelli, venne accusato di episcopicidio
di fronte al papa e all’imperatore in seduta sinodale. Ne scaturì la condanna, la scomunica
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papale e la destituzione a favore del figlio Ardicione (o Ardicino). Arduino, rientrato
fortunosamente nella sua marca, offeso e umiliato, verosimilmente si ritirò nelle valli
appartate dell’Orco e prese a meditare la vendetta che ebbe attuazione nel successivo
tardo inverno, con Ottone III impegnato a sedare una complicata sommossa romana. Il
vecchio marchese, sostenuto da molti signori insoddisfatti della politica imperiale e dalla
maggior parte dei secondi milites, calò con un esercito su Eporedia cacciando Warmondo
e proseguendo, alla conquista di Vercelli e Novara, mentre i suoi alleati presero le città
del Piemonte meridionale e altri giunsero fino a Como.
Il mastio del castello Tellurio su una rupe di Pont
L’imperatore, con il suo esercito, si attardò a Roma per sedare i disordini e, quando
finalmente fu pronto a muovere, non giunse a punirlo, poiché nel gennaio del 1002 venne
colto improvvisamente dalla morte a soli ventidue anni di età.
Con questa scomparsa precoce si aprì una complicata questone dinastica,
conclusasi soltanto dopo diversi mesi con la salita al trono germanico di Enrico di Baviera.
Di fronte a un radicale mutamento dello scacchiere politico, Arduino assunse
l’iniziativa e, con un’azione politica fulminea, riuscì a farsi proclamare re d’Italia da una
dieta di nobili e secondi milites convocata a Pavia il 15 febbraio 1002, soltanto tre
settimane dopo la morte dell’imperatore.
Seguirono due anni molto tesi, durante i quali Arduino cercò di prepararsi
all’inevitabile scontro con i germanici.
Nella tarda primavera del 1003 Enrico inviò in Italia un esercito al comando di Ottone
di Carinzia, rivendicando le sue prerogative in base alla legge ottoniana, ma Arduino lo
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contrastò e lo sconfisse in una battaglia campale a Fabrica lungo il fiume Brenta.
Quella del duca Ottone non fu che un’azione di assaggio. L’anno successivo calò in
Italia Enrico in persona e con un forte esercito giunse fino a Pavia, dove il vescovo di
Milano Arnolfo, il 15 maggio 1004, lo incoronò re d’Italia.
Arduino conscio dell’impossibilità di battere il germanico in campo aperto si arroccò
nelle valli dell’Orco stabilendo la sua sede a Sparone e presumibilmente chiudendo la
valle a Pont, grazie alla favorevole situazione morfologica del luogo. Ne seguì un
lunghissimo assedio di cui abbiamo notizie di dettaglio, ma che non ebbe esito favorevole
alle truppe germaniche.
Anche la durata è incerta. La Cronaca della
Novalesa parla addirittura di un anno. Più
probabilmente la guerra di posizione durò dalla fine
di maggio agli ultimi giorni dell’anno, quindi circa
sette mesi. Nel dicembre 1004 Enrico rientrò
frettolosamente in patria per risolvere importanti
questioni sorte ai confini orientali in seguito alle
azioni di conquista di Boleslao di Polonia ai danni
della Boemia.
Dopo questa grande prova di forza Arduino
regnò ancora dieci anni. Le frammentarie
informazioni che ci sono giunte riferiscono di un
monarca continuamente volto ad acquisire
consensi presso i grandi vassi, senza troppa
fortuna, mentre ebbe largo seguito presso i piccoli
signori locali, di cui divenne la vera bandiera.
Giuseppe Sergi lo definì “re curiale e guerrigliero”,
in quanto si rifece ai precedenti re italici nella
concessione di diplomi e privilegi, ma fu sempre
Scodellato ottoniano in argento dalla
pronto a muovere con piccoli eserciti improvvisati
Boira Fusca (Salto)
per le sue spedizioni punitive.
Il decennio di governo di Arduino, tra il 1004 e il 1014 è dovuto soprattutto al fatto
che i confini orientali dell’impero erano posti sotto forti pressioni dai Polacchi e dagli Slavi
ed Enrico non ebbe il tempo di rivolgere le sue attenzioni all’Italia.
La vicenda arduinica va naturalmente sfatata dai miti locali che ancora persistono,
per collocarla nella sua giusta luce storica, dalla quale emerge un uomo scaltro e
fortunato, poco avvezzo a rispettare le regole dettate dal potere costituito, ma
probabilmente anche animato da un nobile disegno di potere che puntava a strappare
dalle mani degli odiati germanici lo scettro italico.
Per il Canavese, i primi anni del secolo Xl, rappresentano la più gloriosa pagina di
tutta la sua storia. Questo periodo fu di grande importanza, in quanto verosimilmente gettò
le basi del forte incastellamento del territorio, soprattutto della valle Orco e di Pont in
particolare, che durante il suo regno assunse il ruolo di estrema ridotta difensiva.
Ancora legata all’attività di Arduino è la fondazione di Fruttuaria ad opera di
Guglielmo da Volpiano, abate dell’abbazia di San Benigno di Digione. Questi, parente
dello stesso Arduino, fondò l’abbazia soltanto un anno dopo la fortunosa incoronazione di
Pavia. L’importante istituzione va probabilmente letta nella duplice ottica, d’interesse del re
a favorire la crescita di una rete di potere economico, politicamente vicina e amica, da
contrapporre al forte contrasto delle gerarchie ecclesiastiche ufficiali, ma anche come la
messa al sicuro dei beni di una famiglia potente, troppo compromessa nel sostegno di
un’avventura il cui esito, nel 1003, era tutt’altro che scontato. Il conferimento dei beni a
Fructuaria avrebbe presumibilmente potuto evitare la confisca nel caso in cui l’ambizioso
progetto di Arduino avesse dovuto naufragare in breve tempo.
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In occasione della seconda calata germanica (1014), Arduino, dopo una breve azione
contro Vercelli, si arrese alla condanna papale e si ritirò in stato monacale a Fruttuaria,
dove morì nel dicembre dell’anno successivo. La repentina e incruenta scomparsa di
Arduino dalla scena politica, può essere variamente interpretata. Anzitutto va considerata
l’età avanzata e quindi verosimili problemi di salute, ma al contempo dobbiamo registrare il
fatto che la sua rinuncia non coincise con l’estinzione del casato, il quale - viceversa - a
partire dai suoi figli, continuò a ricoprire incarichi pubblici di rilievo e, in primis, varie
posizioni comitali.
Incoronazione del re da una miniatura del Sacramentario di Warmondo. Questa mirabile opera non è
legata a un evento particolare, ma mostra nel dettaglio i costumi e contiene forse una sottile ironia nel
chierico che esibisce delle borse, evidentemente di denaro, forse a sottolineare la corruzione che
imperversava nelle corti del X secolo
Il ritiro del vecchio combattente sembra più verosimilmente interpretabile come il
frutto dell’abile negoziato di un uomo che si sente alla fine della propria esistenza e vuoi
lasciare dietro di sé le cose in ordine. Un’ultima grande azione diplomatica, attraverso la
quale, sfruttando il residuo prestigio politico-militare, riuscì a mettere al sicuro i suoi
familiari, garantendo un futuro alla sua discendenza e al contempo salvando un immenso
patrimonio concentrato nella sua creatura più preziosa: L’abbazia di Fruttuaria. Egli riuscì
addirittura a strappare al suo acerrimo nemico, il vescovo Leone di Vercelli, beni
importanti, come il castello di Rivarotta, posto a controllo della strada pedemontana che
attraversava il Canavese in direzione Est-Ovest e significativa fonte di reddito per via dei
pedaggi.
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Il mosaico dei grifoni sul pavimento della chiesa abbaziale di Fruttuaria (sec. XI)
Fruttuaria, benedetta nel 1006, pochi anni dopo la fine del travagliato X secolo, sarà
destinata ad assumere un ruolo primario nel panorama canavesano, sia come faro di
cultura attraverso i lunghi secoli del Medioevo, sia come centro economico di grandissimo
rilievo, che giungerà a battere moneta, rappresentando un polo di benessere e sicurezza
senza confronti.
IVREA – CASTELLO
Il castrum fu costruito tra il 1358 e il 1393 per volere di Amedeo di Savoia, il quale
affidò l'incarico del progetto all'architetto Ambrogio Cognon (1358-1394).
La costruzione di questa nuova fortificazione doveva rispondere ad alcune esigenze:
difendere la città dai Monferrini, contenere le guerre tra i feudatari locali e sostenere
l'espansione nel Canavese dei Savoia, che per dare un segno visibile del loro dominio,
vollero che l'edificio sorgesse nella parte alta della città, in particolare sulle macerie di
alcune case del Capitolo della Cattedrale e sui resti del palazzo di Giorgio de Solerio,
cancelliere e ambasciatore, accusato di tradimento verso il re di Francia.
La costruzione, caratterizzata da pianta rettangolare, da cortine merlate dotate di
camminamento, e da quattro torri, richiese l'impegno di numerose maestranze provenienti
da Vercelli, Milano e Ginevra con conseguente vantaggio della tecnica edilizia e in
generale dell'economia della zona, che trasse cospicui benefici dalla presenza di un
cantiere così importante.
Il castello nel corso dei secoli fu ripetutamente sede della corte sabauda, che qui
celebrò eventi importanti, come per esempio il battesimo (1522) di Adriano figlio del duca
Carlo di Savoia.
Questa residenza divenne perciò un palazzo elegante con arredi preziosi adatti a
soddisfare i gusti raffinati delle duchesse di casa Savoia, le quali si dedicarono allo
sviluppo delle arti e della cultura nella città di Ivrea.
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Tra il XVI e il XVII secolo il castello fu ristrutturato e trasformato in presidio militare,
dato l'infuriare nel territorio canavesano delle lotte tra francesi e spagnoli; in questo
periodo avvenne anche un terribile incendio (1676) provocato dall'esplosione del deposito
di munizioni collocato nella torre posta a nord-ovest, che causò la morte di 51 persone
oltre che la rovina di un centinaio abitazioni.
Nel secolo XVIII l'edificio fu adibito a carcere e mantenne questa funzione fino al
1970, anno in cui lo Stato lo riconsegnò al Comune di Ivrea, che ne promosse una
campagna di restauro.
Il castello di Ivrea
Oltrepassato il primo cancello di ingresso al castello, si giunge nella zona un tempo
occupata dal fossato e dall'antiporta, quindi si procede, superando un secondo cancello,
nel grande cortile centrale sul quale si affacciano le numerose finestre delle celle, protette
da fitte inferriate. Da questo punto si possono osservare le torri: quella in parte distrutta
nell'incendio del 1676, le due torri con i merli a coda di rondine e quella priva di merlature.
Al centro del cortile vi sono una grande cisterna di sei metri di diametro ed un pozzo.
La prima veniva utilizzata come ghiacciaia, il secondo per l'approvvigionamento idrico del
castello. L'interno del castello, costituito quasi interamente dalle prigioni dei detenuti, è
visitabile solo in parte al piano terreno; in una delle celle è esposto un plastico che
riproduce il castello in miniatura.
IVREA – CATTEDRALE
La chiesa attuale appare a prima vista un rifacimento della fine del sec. XVIII, opera
dell’architetto Martinez: un esame più attento mostra invece che sotto gli stucchi ed i finti
marmi si conserva ancora l’ossatura antica.
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Pianta generale della Cattedrale
Pianta del presbiterio
Il presbiterio, con l’ambulacro circostante e
i due campanili, è rivolto ad occidente ed appare
di stile più rude: le tre navate, con la cupola
centrale palesano invece esecuzione curata di
epoca più recente.
Identica osservazione si può fare nella
cripta; chiare discontinuità nei muri e negli archi,
in tutte e due i piani, nel punto di unione fra le
due parti dimostrano che non siamo in presenza
di semplici riprese di un’opera ma di due fasi
costruttive ben distinte.
Evidentemente quando fu ricostruito il
presbiterio con la cripta e la parte inferiore dei
campanili (ultimati dopo molto tempo dall’inizio)
venne conservato intatto il resto dell’edificio,
rifabbricato poi nel periodo romanico.
La porzione più antica ha struttura molto
interessante; al piano della cattedrale vi è
un’abside circondata da un ambulacro che
La cripta
passa attraverso ai campanili riunendosi alle
navatelle. Al piano inferiore si osserva un vano semicircolare circondato dal solito
ambulacro e fiancheggiato da due camere quadrate, le fondazioni dei campanili: qui
tuttavia lo spazio libero è minimo perché ovunque si incontrano le colonnette e i pilastrini
di sostegno delle volte: una fila di supporti intermedi dimezza la luce dell’ambulatorio e
quattro colonnette occupano il vano centrale.
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Pianta della cripta
Il muro in curva fra l’abside e l’ambulacro è stato imbottito di rozza muratura verso
l’esterno e rivestito di stucchi verso l’interno per opera del Martinez e non può più essere
studiato: esso presenta quattro colonne e due colonnette affioranti dalla muratura che
indicano la presenza delle antiche strutture. Le due colonnette su piedestallo all’inizio ed
alla fine del corridoio si presentano press’a poco nella condizione originaria, elementi
decorativi applicati ad un pilastro: le altre invece dovevano essere isolate dal muro come
quelle dell’ambulatorio inferiore di S. Stefano di Verona. La parete doveva poi essere
forata da quattro arcate di comunicazione fra presbiterio ed ambulatorio. Lo storico locale
Benvenuti poté vedere nell’anno 1787 due di tali « porte » dietro gli stalli dei canonici.
Particolare menzione va riservata ai campanili i quali sono decorati esternamente
dagli archetti pensili in gruppi di due, tre e più, che sono caratteristici dello stile romanico
primitivo: evidentemente la costruzione di queste due torri è proceduta molto lentamente,
piano per piano; quello a notte presenta uno stile anche più progredito del l’altro e fu
costruito in linea di massima dopo. Le due celle sono addirittura frutto del sec. XIII.
Gli accessi alla cripta si effettuavano attraverso due scale laterali le quali partivano
dalle navatelle della cattedrale e sboccavano nei vani sotto ai campanili: nella parte
centrale verso oriente, cioè verso la facciata della chiesa attuale, vi erano tre nicchie: le
due laterali erano di pianta curva e dovevano essere occupate da altari; quella centrale
pare fosse rettangolare e probabilmente conteneva la « fenestella ».
Nelle volte si osservano ancora gli « umbilici » dai quali i fedeli inginocchiati sul pavimento della chiesa soprastante potevano scorgere i sarcofagi dei Santi; la direzione delle
aperture praticata obliquamente nello spessore delle volte indica che i sacri corpi
dovevano essere situati nelle adiacenze delle absidiole.
Le volte sono botti lunettate oppure crociere cilindriche: esse si possono definire
come un sistema di volte a botte che si intersecano ma conservano intatto il carattere
originario; non vi sono nervature di sorta ad archi sporgenti dall’intradosso e le crociere
della corona esterna dell’ambulatorio sono impostate su lesene come quelle del piano
superiore.
L’intera disposizione risulta dalla pianta acclusa meglio che da una descrizione: essa
è veramente ingegnosa e ci testimonia che i costruttori eporediesi possedevano una reale
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conoscenza della geometria ed una notevolissima capacità tecnica.
La decorazione dell’edificio doveva essere molto semplice: l’esterno dell’ambulacro
superiore presenta una serie regolare di grosse lesene verticali che sembrano originarie
ma tutto è coperto da intonaco e non vi si può fare uno studio utile: anche le finestre
risultano otturate ed intonacate e non si possono riconoscere: pare da vaghe tracce che
fossero abbastanza spaziose e terminate superiormente ad archivolto.
Le finestre della cripta a giudicare dagli scarsi resti nelle vicinanze delle fondazioni
della torre sud, pare fossero a doppia strombatura.
Le colonne ed i pilastrini monolitici che sostengono le volte sia nell’ambulatorio che
nella cripta hanno capitelli molto semplici. Generalmente questi sono di tipo cubico con appendici angolari oppure a facce quadre con riquadratura ma non mancano fra essi le basi
rovesciate e neppure i rustici blocchi squadrati: uno solo ha, su di una faccia, rozzi fregi.
La costruzione del duomo va riferita al vescovo Warmondo, il famoso avversario di re
Arduino: infatti nell’ambulacro absidale è murata una lapide del tempo che dice:
CONDIDIT HOC / DOMINO PRE / SVL WARMVN / DVS AB IMO.
Il fatto è confermato oltre che dalla costante tradizione della chiesa d’lvrea, da antichi
documenti; non vi può quindi essere dubbio, ma qual’è il periodo del suo episcopato?
Noi sappiamo che egli intervenne ad un concilio provinciale tenuto a Milano
nell’ottobre 969 e siccome risulta da una nota marginale apposta ad un antico necrologio
che fu consacrato vescovo il 7 di marzo e le consacrazioni si facevano di regola la
domenica, è probabile che ciò sia avvenuto appunto nello stesso 969 in cui il 7 marzo era
domenica. Maggiori difficoltà presenta la determinazione dell’altro termine: il « Libro degli
anniversari » fissa la morte di Warmondo il primo agosto ma non ne indica l’anno. I
biografi riportano una tradizione che vuole si tratti del 1010 ma i documenti sicuri ricorrono
solo fino al 1002.
Lo stile dell’edificio, coi capitelli rudimentali e le complesse volte senza nervature
conferma pienamente l’attribuzione alla seconda metà del X secolo.
(Tratto da: P. Verzone L’architettura religiosa dell’alto medioevo nell’Italia settentrionale, Milano 1942)
IVREA - ABBAZIA DI SANTO STEFANO
La torre campanaria di S.Stefano che sorge nell’area degli attuali giardini pubblici è
l’unico elemento architettonico superstite dell’omonimo complesso abbaziale. L’area si
trova nel punto in cui i Romani sistemarono i banchi sabbiosi degradanti dalle colline. In
qualche punto di questo piano si trovava la "petra mali consilii" che segnava il luogo del
“mallo”, uno spazio ampio e aperto dove si teneva l’assemblea legale degli uomini aventi
diritto a portare le armi. Questo spazio si estendeva “ante ecclesiam Sancti Stephani” che
probabilmente esisteva già dal quinto secolo. A destra, al di fuori delle mura, vi era il
quartiere di Albeto, territorio parrochiare di S.Stefano abitato prevalentemente da tessitori.
Già prima del mille, questo terreno, prosciugato, doveva essere attraversato da un canale
che progressivamente, aumentando la propria portata, si trasformerà nel Naviglio.
LA FONDAZIONE
Nella prima metà dell’undicesimo secolo ci furono due importanti iniziative vescovili:
la costruzione di una nuova cortina difensiva verso Est e l’impianto di un’abbazia
benedettina all’estremità sud-est. Non conosciamo con esattezza le ragioni
dell’insediamento di monaci Benedettini ad Ivrea, si può però ipotizzare la necessità di
bonificare la paludosa e boscosa riva sinistra della Dora. Il complesso abbaziale
assicurava una costante vigilanza in questo punto della città, oltre a costituire, con il
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proprio perimetro di solidissima muratura a ridosso del fiume, un ostacolo assai difficile da
aggirare. Il campanile era soprattutto una struttura di avvistamento e comunicazione e,
all’occorrenza, di difesa, pronta a far giungere con il suono delle campane, oltre che l’invito
alla preghiera, il richiamo alle armi. I religiosi del ramo cluniacense, provenienti da
Fruttuaria, lavorarono al vasto complesso abbaziale fondato dal vescovo Enrico II presso
un’antica cappella dedicata a S.Stefano (1041). In questo periodo l’abbazia vide la
presenza di molti monaci e fu particolarmente fiorente.
IL PERIODO SABAUDO
Il 10 gennaio 1451 il papa Niccolò V concesse al duca Ludovico di Savoia di
nominare soggetti di sua fiducia titolari dei benefici. Le abbazie piemontesi si popolarono
di parenti e amici dei Savoia con riflessi negativi sul livello spirituale delle istituzioni
religiose. Il monastero di S.Stefano cadde nelle mani dei Ferreri (o Ferrero ) biellesi che
“appaltarono” per un secolo circa il titolo vescovile e il prioriato di S.Stefano, reggendoli
anche per procura. I priorati dei Ferreri coincisero con la rovina materiale dell’abbazia. Nel
1544 la città, sotto il dominio spagnolo, cadde nelle mani del vicerè francese Carlo Cossè
di Brissac che, per potenziare le difese della città dalla parte del fiume, fece demolire la
chiesa. Nel 1561 i monaci si adattarono una cappella di fortuna vicino al campanile; nel
1579 poiché non esistevano più i sobborghi esterni orientali (distrutti dagli Spagnoli, in
quanto costituivano un passaggio vantaggioso per i nemici); né la chiesa parrocchiale
(distrutta da Brissac), la parrocchia di S.Stefano fu soppressa e unita a quella di S.
Lorenzo. All’abate Augusto Filiberto Scaglia di Verrua (1671-1697) si deve la costruzione
della 4° chiesa di S.Stefano. Ormai, sotto il profilo spirituale, il monastero è fortemente
decaduto, rimane invece come produttore di redditi che affluiscono sotto forma di affitti e di
derrate alimentari (granaglie, legumi, uva, polli). Alla scomparsa dell’abate Scaglia,
l’abbazia resta vacante per 31 anni amministrata dalla Camera dei Conti di Torino. In
questo periodo essa è un’azienda la cui gestione viene data in appalto al miglior offerente.
Il fittavolo prende in consegna l’intero complesso monastico, chiesa compresa con mobili,
arredi, archivio, cascine, e lo amministra pagando lo stipendio al Vicario di S. Lorenzo e ai
sacerdoti incaricati di dire Messa alla parrocchia dei SS. Pietro e Donato e nella chiesa
abbaziale. Nel Marzo del 1709, delegato dalla Camera dei Conti, viene ad Ivrea il Conte e
Senatore Beraudo di Pralormo che stende una relazione sulle riparazioni necessarie alla
Cattedrale, ai beni del vescovato e all’abbazia di Santo Stefano dal momento che durante
l’assedio dei Francesi essa è servita da caserma e da magazzino. Riparati i danni di
guerra la Camera dei Conti si trova a fronteggiare una nuova emergenza, poiché l’archivio
dell’abbazia contenente documenti di grande importanza è chiuso a chiave e nessuno sa
dove reperirla, inoltre si comprende che molte carte sono divorate dai topi. Intanto
numerosi affittuari e debitori ne approfittano per eludere i pagamenti o fare opposizione o
usurparne i terreni. Quando nel 1721 gli addetti entrano in un locale rivolto verso la Porta
Grande, vi trovano un mobile in cui sono contenuti libri e scritture lacerati dai topi, tanto
che in terra vi è una grande quantità di frammenti finemente triturati. Le scritture vengono
estratte una ad una e riposte con cura, mentre i frammenti vengono sigillati in un sacco,
per eseguirne l’inventario.
ABBANDONO E DISTRUZIONE
Nel 1726 L’ing. Castelli, progettista e direttore dei lavori del nuovo magazzino
(Granaio) addossato al campanile, procede alla misura e stima di una serie di lavori di
restauro degli edifici abbaziali (sostituzione di travi portanti, rifacimento delle coperture,
installazione di vetri e inferriate e un parziale rinnovo delle attrezzature del campanile). Nel
1743 viene nominato abate Gaspare Amedeo S. Martino della Torre a cui si deve il
riordino dell’archivio. Tra il 1747 e il 1757 l’abate vende gli edifici superstiti del complesso
monastico, eccetto il campanile e il granaio, al conte Carlo Francesco Baldassarre
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Perrone di S. Martino, che li demolisce per ingrandire il proprio giardino. Al posto della
chiesa, venduta e demolita, l’abate trasforma in quinta chiesa di S. Stefano il granaio
addossato al campanile. Alla morte dell’abate di S. Martino l’abbazia resta vacante per un
anno, poi gli succede per procura Carlo Ballard di Roccafranca che muore nel 1788. Dopo
otto anni e otto mesi il Cardinal Gerdil ne prende possesso per procura, ma nel 1880 essa
è incamerata dal governo repubblicano (francese). Nel 1885 la chiesa viene destinata dal
Comune a Lazzaretto in caso di epidemia. Nel frattempo alla chiesa si era addossato a est
un altro fabbricato ospitante al piano terra un’officina elettrica (1892) e poi un’osteria. Nel
1898 l’ultima chiesa di S. Stefano, in occasione di un abbellimento dei giardini pubblici
viene demolita, lasciando il campanile in perfetta solitudine.
IL CAMPANILE DI SANTO STEFANO
All’estremità orientale degli
attuali giardini pubblici sorge la
Torre di S. Stefano, unica parte
restante della chiesa e del
convento dei monaci benedettini.
Le sue origini risalgono al XI
secolo quando Enrico II , vescovo
d’Ivrea,
fece
ampliare
la
preesistente
struttura
della
parrocchiale di S. Stefano, per
accogliere l’ordine Benedettino. Il
campanile è il più insigne esempio
d’arte romanica eporediese.
Dopo il piano basamentale
parzialmente interrato bucato da
feritoie sui lati est e nord, si
succedono
tre
piani
della
dimensione di circa quattro metri, il
primo ancora forato da feritoie sui
lati est e nord e ovest, il secondo
da monofore e il terzo da bifore su
tutti i lati.
L’ornamentazione architettonica
è costituita dalle spesse lesene
angolari e da quella più sottile
intermedia, dal fregio marcapiano a
denti di sega in laterizio a vista,
girante su tutto il perimetro della
torre, da archetti pensili, più affilati
Il campanile di S. Stefano
inferiormente, più tozzi nei piani alti.
Il quinto piano presenta una brusca riduzione di altezza, passando da quattro metri a tre e
trenta, cessa la lesena centrale, compare una trifora più bassa delle bifore sottostanti e gli
archetti pensili si abbassano di molto sulle luci. Questa caduta di stile si fa ancora più
evidente nel sesto ed ultimo piano, esso si riduce a m 2,70, compare ancora una trifora
sulla quale gli archetti del fregio, costretti dallo spazio insufficiente, finiscono per
schiacciarsi.
Tutto questo fa pensare a una sopraelevazione, infatti molto probabilmente nella sua
forma originaria doveva mantenere l’altezza costante dei piani e aumentare
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progressivamente la misura delle luci, ma nel 1117 fu devastato dal violento terremoto che
colpì la diocesi di Ivrea.
Altri danni furono arrecati al campanile durante l’assedio del 1704 che vide da parte
dei Francesi un impiego massiccio dell’artiglieria. Fu posto rimedio con la ricostruzione in
laterizio delle murature dei fregi ad archetti ma le luci non furono rifatte e ci si limitò a
tamponarle.
Nei documenti in archivio le cure riservate al campanile sono scarse. Cessata la
funzione parrocchiale, non essendo una struttura produttiva di reddito, scivola all’ultimo
posto nelle preoccupazioni degli amministratori. Nel 1827 il piano terra della torre è adibito
a scuderia. Nel 1854 viene realizzato un intervento che colloca all’ultimo piano del
campanile una volta di mattoni intonacata d’asfalto che sostituisce la cuspide andata
distrutta.
Nel 1880 il comune utilizzò il campanile come torre di distribuzione dell'acquedotto.
GIOVANNI MARTINO SPANZOTTI
(Casale Monferrato, ca. 1455 – Chivasso, ante 1528)
Pittore italiano tra i principali interpreti del rinnovamento in senso rinascimentale della
pittura in Piemonte.
Gian Martino Spanzotti nacque verso il 1455 a Casale, da una famiglia di pittori
provenienti dal territorio di Varese.
La sua biografia è suffragata, particolarmente nella fase iniziale, da scarse fonti
documentali. Il suo primo apprendistato fu verosimilmente nella bottega del padre, Pietro,
dove doveva essere attivo anche il fratello Francesco (che la critica tende oggi ad
identificare con il "Maestro di Crea").
Gli anni tra il 1470 e il 1480 rappresentano il periodo della sua formazione artistica.
Probabile sembra, negli anni '70, un suo contatto diretto in Bologna con la scuola di
Francesco del Cossa, stante il fatto che il giovane Martino utilizzò sicuramente alcuni
cartoni del pittore ferrarese nella sua prima produzione artistica (Madonna con il Bambino
presso il Museo Civico di Torino).
È molto verosimile, tuttavia, che la parte più significativa del suo apprendistato si sia
svolta a Milano (visto che in un documento redatto a Casale nel 1480 egli viene addirittura
definito "Mediolani pinctore"). A Milano dovette soggiornare almeno in due riprese (l'ultima
delle quali verso la fine degli anni '80), in modo tale che gli fu possibile restare aggiornato
sulla evoluzione della produzione pittorica nella capitale lombarda. Piuttosto evidente (ad
es. attraverso l'uso dei toni cinerei nei volti che incontriamo nelle ultime scena della Vita di
Cristo nel ciclo di Ivrea) è l'influenza di Vincenzo Foppa, ma anche, nelle prospettive
architettoniche, si avverte la lezione di Bramante e, ancor più, di Bartolomeo Suardi, detto
il Bramantino.
Per spiegare un altro debito di Spanzotti, quello verso la pittura fiamminga, si può
supporre che nell'ambiente milanese egli abbia incontrato anche le suggestioni dell'arte
nordica, interpretate alla corte dei duchi di Milano da artisti quali Zanetto Bugatto.
Recentemente, tuttavia, a questo riguardo, la critica ha messo in risalto l'influenza
esercitata su Martino Spanzotti dall'arte provenzale, ed in particolare dall'opera del
maestro di origine borgognona Atonie de Lonhy, stabilitosi dal 1462 in Piemonte .
In sintesi, l'opera di Spanzotti si connota come punto d'incontro fertile delle
espressioni artistiche presenti sui due versanti delle Alpi, aspetto che caratterizza per molti
versi la peculiarità della produzione artistica in Piemonte nel corso di tutto il XV secolo.
Nel 1480 è documentato a Casale, mentre nel 1481 - in un atto redatto a Vercelli – è
menzionato con l'appellativo di "magister", che vale come titolo per la direzione di una
bottega e come riconoscimento pubblico delle sua capacità pittoriche. Si collocano in
questo periodo vercellese (1481-1498) i Santi e Sante ed il Trittico (unica sua opera
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firmata) conservati nella Galleria Sabauda di Torino e l'affresco dell'Adorazione del
Bambino di Rivarolo Canavese.
In questo periodo si colloca il praticantato presso la sua bottega del pittore vercellese
Giovan Antonio Bazzi, detto il Sodoma.
L'espressione artistica più alta di questi anni è rappresentata dal ciclo di affreschi
(1486 -1491) sulla vita di Cristo nella Chiesa di San Bernardino ad Ivrea, l'opera più
importante di Spanzotti (magistralmente commentata dallo scrittore e critico d'arte
Giovanni Testori).
Il ciclo sulla parete di Ivrea riflette non solo l’esigenza pedagogica del committente di
disporre di una "biblia pauperorum" capace di tradurre le scritture in immagini, ma esprime
soprattutto i tratti peculiari della devozionalità francescana che punta a restituire una
genuina carica umana al racconto evangelico. Spanzotti si dimostra capace di interpretare
in modo esemplare il desiderio del committente, sviluppando una poetica nuova in grado
di conferire al racconto la verità e la nobiltà dell'esperienza umana che è propria degli
umili.
È una nobiltà nuova– scrive Testori – quella che si fonda in questi anni nel Nord
dell'Italia e alla quale lo Spanzotti offre questo suo inconfondibile tono: una nobiltà umana,
anziché umanistica; il fatto riportato alle sue proporzioni reali e quotidiane, contro il fatto
dilatato dall'iperbole dell'ideologia; il profondo del particolare, infine, contro l'esteso
dell'universale.
Si era supposta una sua presenza – come scultore ligneo - anche al Sacro Monte di
Varallo (ca. 1486) come sembrava testimoniare il Compianto su Cristo morto (la così detta
"Pietra dell'Unzione"), oggi alla Pinacoteca Civica di Varallo. Pure essendosi riconosciuta
la paternità di tali sculture lignee ai Fratelli De Donati, restano da spiegare le evidenti
affinità stilistiche con l'opera di Spanzotti.
Tra il 1498 ed il 1502 Spanzotti fu di nuovo a Casale, dove tenne una sua bottega
con i suoi due cognati Aimo e Balzarino Volpi.
Appartiene a questo periodo il Polittico Del Ponte (oggi smembrato, tra la Pinacoteca
di Brera a Milano, la Albertina di Torino, la National Gallery di Londra ed una collezione
privata) dipinto per la Chiesa di San Francesco in Casale.
Fu poi attivo a Chivasso e, dal 1513, prese la cittadinanza a Torino come pittore alla
corte dei Savoia, ove consolidò il suo successo con commesse crescenti.
Tra i pittori formatisi in questo periodo presso la sua bottega troviamo Defendente
Ferrari e Gerolamo Giovenone.
Frutti della collaborazione con Defendente Ferrari sono - tra le altre opere in cui è
difficile stabilire gli apporti reciproci - il Polittico dei Calzolai ed il Battesimo presso il
Duomo di Torino. L'ultima sua opera conosciuta è il piccolo affresco Elemosina di
Sant'Antonio Pierozzi (1523) nella Chiesa di S. Domenico a Torino, un brano in cui sembra
tardivamente rifiorire la vena poetica dei suoi anni più fertili.
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Giovanni Martino Spanzotti - Elemosina di Sant'Antonio Pierozzi
Nel 1528 risulta ormai deceduto in Chivasso. La sua opera, oltre a diventare punto di
riferimento per tutta l'arte piemontese dell'epoca, ebbe un’influenza diretta sulla
maturazione artistica di Gaudenzio Ferrari.
IVREA – CHIESA DI SAN BERNARDINO
La chiesa quattrocentesca di San Bernardino in Ivrea, situata nell'area che ospita gli
edifici industriali della Olivetti, rappresenta un’attrattiva di notevolissimo interesse artistico,
in virtù del grande tramezzo interno affrescato con le Storie della Vita e Passione di Cristo
da Giovanni Martino Spanzotti tra il 1485 ed il 1490 ca. La chiesa, nella sua prima
struttura, fu edificata tra il settembre del 1455 ed il gennaio del 1457 assieme al convento
destinato all’ordine francescano Frati Minori Osservanti. La grande ammirazione popolare
nei confronti della figura di San Bernardino (che si suppone transitato ad Ivrea nel 1418)
avevano convinto le autorità religiose ad appoggiare il progetto di costruzione del
convento, che fu inaugurato con grande fasto alla presenza del vescovo di Ivrea Giovanni
da Parella e del vicario francescano della provincia di Milano.
La prima chiesa era a painta quadrangolare con volte a crocera, tipiche
dell'architettura gotica; assieme al convento (comprendente due chiostri, le celle del
dormitorio, il refettorio ed i laboratori) costituiva un esempio delle soluzioni architettoniche
care ai Frati Minori.
La chiesa era stata pensata soprattutto per i frati del convento, ma il grande afflusso
dall'esterno di fedeli che prendevano parte alle cerimonie religiose, rese ben presto
insufficienti gli spazi ad essi riservati.
Nel 1465 ebbero luogo i lavori di ampliamento, con la costruzione di una navata con
accesso al pubblico, divisa dalla chiesa primitiva da un tramezzo con tre arcate.
L'ampliamento comprendeva anche la costruzione di due cappelle laterali (andate poi
distrutte) e un ardito innalzamento della copertura per ricavare al di là del tramezzo uno
spazio, direttamente collegato al monastero e riservato al coro.
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L’anno seguente Amedeo IX di Savoia prese il monastero sotto la sua protezione;
protezione che continuò dopo la sua morte del 1472 ad opera di sua moglie Jolanda di
Valois.
Le fortune del monastero andarono decadendo già verso la fine del XVI secolo,
anche a causa della rivalità con la confraternita, pur essa francescana, dei Frati Minori,
che subentrò nella gestione del convento a partire dal 1612, senza tuttavia arrestarne il
declino. Nel settecento la chiesa ed il convento subirono un ulteriore degrado a causa
delle successive occupazioni militari, sino alla conquista napoleonica ed alla abolizione
delle proprietà ecclesiastiche. La chiesa, ormai sconsacrata, venne utilizzata per anni
come deposito agricolo.
Camillo Olivetti acquistò il complesso (posto nelle immediate vicinanze della sua
fabbrica di macchine per scrivere) nel 1910 ed avviò un suo primo recupero,
trasformandolo in sua abitazione. Egli fece anche rimuovere il soppalco costruito a ridosso
della parete spanzottiana. Fu poi Adriano Olivetti che realizzò, tra il 1955 ed il 1958, un più
importante progetto di riqualificazione dell’area, destinandola a sede dei servizi sociali ed
delle attività dopolavoristiche per i dipendenti aziendali.
Gli affreschi di Spanzotti, restaurati nello stesso periodo, trovarono la loro giusta
celebrazione critica in un saggio di Giovanni Testori, che operava in quel tempo ad Ivrea
presso i Servizi Culturali della Olivetti.
E' merito dell'azienda di Ivrea aver garantito la successiva manutenzione del
complesso, pur con alcuni interventi di utilizzo industriale dell'area attigua alla chiesa.
Chiesa di S. Bernardino
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Il complesso monastico visto dall’alto
GLI AFFRESCHI
Ben poco si sa degli affreschi più antichi che ornano il presbiterio, realizzati
probabilmente a ridosso della sua edificazione (1457). Nelle due cappelle poste in
corrispondenza agli archi laterali del tramezzo troviamo dipinti rispettivamente una
Crocifissione ed una Madonna col Bambino, Sante e Santi realizzati attorno al 1470 da
ignoti artisti di provenienza lombarda che si attardano su moduli gotici (per la Madonna col
Bambino si è avanzata dubitativamente un'attribuzione a Cristoforo Moretti).
L’interesse artistico della chiesa si concentra sul grande tramezzo affrescato dallo
Spanzotti in due intervalli di tempo che tra il 1485 ed il 1490 ca. Vi è narrata la Storia della
Vita e della Passione di Cristo in venti scene (ognuna dalle dimensioni di 1,5 x 1,5 metri),
più una grande Crocifissione avente una misura quadrupla rispetto alle altre.
Giovanni Martino Spanzotti – Crocifissione di Cristo
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S. Bernardino e La cacciata dall’Eden
Nei pilastri sottostanti troviamo raffigurata una immagine di San Bernardino ed un
Cristo in Pietà, mentre ai lati degli archi, troviamo una Cacciata dall'Eden e scene del
Giudizio Universale.
Chi visita la chiesa coglie subito come, nella rappresentazione del racconto
evangelico, Spanzotti sviluppi una poetica nuova in grado di conferire al racconto la verità
e la nobiltà dell'esperienza umana che è propria degli umili.
I colori ormai sbiaditi dal tempo e dalle ingiurie subite, non impediscono allo
spettatore di cogliere la qualità tecnica dei dipinti. "[..] tanta - scrive Aldo Moretto - è la
sapienza dello Spanzotti nel trattare le luci sempre in modo naturale, secondo il variare
dell'ora e dell'animo. Da quella luce viola che sembra scendere fredda e rabbrividente
dalle montagne per rendere più pure le prime scene di sentimento raccolto e domestico
(Annunciazione e Natività), a quella più calda dei grandi aperti dominati in primo piano
dall'asinello vivacissimo (Fuga in Egitto, Entrata in Gerusalemme), a quella che bagna il
Cristo nel momento della tragedia: quei panni intrisi di luce, nell'angoscia del sentimento dall'Orazione nell'orto allo stare davanti a Pilato e a Caifa - una soluzione luministica, così
carica di significato, da rendere grande da sola lo Spanzotti".
LA ROCCA DI SPARONE E LA CHIESA DI SANTA CROCE
L’esistenza della Rocca di Sparone, che domina la strada che porta verso l’Alta Valle
dell’Orco, è anteriore all’anno 1000. Venne infatti già citata da Ottone imperatore come
possedimento arduinico, in un’ordinanza di confisca e di donazione alla chiesa di Vercelli,
anche se di fatto il Marchese di Ivrea Arduino continuò a rimanerne in possesso.
Questo è il luogo dove si svolse lo storico episodio dell’assedio subito da Arduino ad opera
dell’esercito imperiale di Enrico II di Germania tra il 1004 e il 1005.
La Rocca era un tempo assolutamente imprendibile e quindi la resistenza degli
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arduinici ed il rigore dell’inverno ebbero ragione dei soldati imperiali che, abbandonato il
lungo assedio, si ritirarono in Germania.
Su una delle pareti fortificate della Rocca è stata apposta nel 1932 una lapide
ricordante l’assedio ed un bassorilievo con un ritratto classicheggiante di Arduino.
Dopo la morte di Arduino nel 1015, si hanno notizie della Rocca nel 1185 e 1193, come
proprietà indivisa dei San Martino e dei Valperga.
Dopo breve occupazione da parte del marchese di Monferrato, la Rocca venne
ceduta nel 1389 ai Savoia. In queste vicende il castello aveva però già subito gravi danni e
venne definitivamente smantellato durante le lotte fra Cesariani e Francesi.
Finché vi fu una guarnigione ed un castello presso la Rocca, la sua cappella, dedicata alla
Santa Croce, funzionò come chiesa parrocchiale del paese.
L’antica abside, che appartenne alla chiesa primitiva, è risalente intorno al Mille, con
la presenza di archetti pensili gotico romanici e la tipica disposizione delle pietre murarie a
lisca di pesce.
La chiesa è anch’essa in pietra, con le pareti interne intonacate: ai lati dell’abside
sono presenti resti di affreschi dei secoli XIII e XIV. L’unica cappella e l’atrio sono elementi
aggiunti nel secolo XVII.
Rocca di Sparone
Chiesa di Santa Croce
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