GLI OTTONI E L’AVVENTURA ARDUINICA ALLO SPIRARE DEL MILLENNIO (di M. Cima) Dopo una fase di grande debolezza delle monarchie europee scaturite dalla Divisio Regnorum, con le conseguenti interminabili guerre di successione, intorno alla metà del secolo X sorse fra tutti un uomo forte: Ottone I di Sassonia. Questi, vinse in battaglia Berengario Il re d’Italia della stirpe degli Anscarici di Ivrea e con una serie di leggi favorevoli alla corona germanica rifondò la monarchia attribuendo per legge il titolo di re d’Italia e quello di imperatore al sovrano germanico, cioè a sé stesso e alla sua discendenza. La politica però ha le sue regole e nonostante la grande forza dimostrata dal germanico, egli non giunse a scalzare la dinastia degli Anscarici dal trono marchionale di Ivrea, tant’è che l’importantissimo incarico pubblico continuò ad essere ricoperto da Corrado Conone, figlio dell’odiato Berengario. Verosimilmente per controbilanciare questa presenza, potenzialmente avversa alla casa di Sassonia, l’imperatore nominò un suo uomo fidato a capo della diocesi affinché potesse controllare da vicino l’operato del marchese e nel caso difendere con energia gli interessi del casato germanico. La scelta cadde su Warmondo, dell’antica famiglia degli Arborio, già alto funzionario imperiale (camerarius et avocatus). L’Italia visse una stagione di declino sotto l’impero degli Ottoni, che coincise con l’affermazione dell’egemonia germanica. L’unico slancio di orgoglio e, conseguentemente, di prestigio internazionale, si registrò alla fine del secolo ad opera di Arduino successore di Corrado Conone, forse con un breve intermezzo del padre Dadone, al seggio marchionale di Ivrea. Questi sulla base di contese territoriali, portò alle estreme conseguenze l’antagonismo con gli ambienti episcopali della sua marca tra cui in particolare Ivrea e Vercelli. La concessione imperiale al vescovo Pietro di Vercelli del feudo di Caresana, questione apparentemente secondaria rispetto ai grandi temi della politica, nel 997, scatenò del malcontento che sfociò in disordini culminati con l’omicidio del presule, strettamente legato al casato di Sassonia. Di questo delitto venne accusato Arduino, il quale pochi mesi dopo occupò Vercelli e incendiò la cattedrale e la stessa salma dell’episcopo Pietro. Per questo ricevette la scomunica del vescovo di Ivrea Warmondo e, a sottolineare la posizione imperiale lo stesso vescovo eporediese ottenne l’immunità nella città e per tre miglia tutto intorno. Si trattò di potere tangibile, passato formalmente dalle mani del marchese a quelle del vescovo. Nell’autunno del 1000 Arduino decise di recarsi a Roma per spiegare all’imperatore la Il vescovo Warmondo in una miniatura del sua posizione, ma grazie alla solerzia di Sacramentario omonimo Warmondo e del germanico Leone, successore di Pietro nella cattedra episcopale di Vercelli, venne accusato di episcopicidio di fronte al papa e all’imperatore in seduta sinodale. Ne scaturì la condanna, la scomunica 2 papale e la destituzione a favore del figlio Ardicione (o Ardicino). Arduino, rientrato fortunosamente nella sua marca, offeso e umiliato, verosimilmente si ritirò nelle valli appartate dell’Orco e prese a meditare la vendetta che ebbe attuazione nel successivo tardo inverno, con Ottone III impegnato a sedare una complicata sommossa romana. Il vecchio marchese, sostenuto da molti signori insoddisfatti della politica imperiale e dalla maggior parte dei secondi milites, calò con un esercito su Eporedia cacciando Warmondo e proseguendo, alla conquista di Vercelli e Novara, mentre i suoi alleati presero le città del Piemonte meridionale e altri giunsero fino a Como. Il mastio del castello Tellurio su una rupe di Pont L’imperatore, con il suo esercito, si attardò a Roma per sedare i disordini e, quando finalmente fu pronto a muovere, non giunse a punirlo, poiché nel gennaio del 1002 venne colto improvvisamente dalla morte a soli ventidue anni di età. Con questa scomparsa precoce si aprì una complicata questone dinastica, conclusasi soltanto dopo diversi mesi con la salita al trono germanico di Enrico di Baviera. Di fronte a un radicale mutamento dello scacchiere politico, Arduino assunse l’iniziativa e, con un’azione politica fulminea, riuscì a farsi proclamare re d’Italia da una dieta di nobili e secondi milites convocata a Pavia il 15 febbraio 1002, soltanto tre settimane dopo la morte dell’imperatore. Seguirono due anni molto tesi, durante i quali Arduino cercò di prepararsi all’inevitabile scontro con i germanici. Nella tarda primavera del 1003 Enrico inviò in Italia un esercito al comando di Ottone di Carinzia, rivendicando le sue prerogative in base alla legge ottoniana, ma Arduino lo 3 contrastò e lo sconfisse in una battaglia campale a Fabrica lungo il fiume Brenta. Quella del duca Ottone non fu che un’azione di assaggio. L’anno successivo calò in Italia Enrico in persona e con un forte esercito giunse fino a Pavia, dove il vescovo di Milano Arnolfo, il 15 maggio 1004, lo incoronò re d’Italia. Arduino conscio dell’impossibilità di battere il germanico in campo aperto si arroccò nelle valli dell’Orco stabilendo la sua sede a Sparone e presumibilmente chiudendo la valle a Pont, grazie alla favorevole situazione morfologica del luogo. Ne seguì un lunghissimo assedio di cui abbiamo notizie di dettaglio, ma che non ebbe esito favorevole alle truppe germaniche. Anche la durata è incerta. La Cronaca della Novalesa parla addirittura di un anno. Più probabilmente la guerra di posizione durò dalla fine di maggio agli ultimi giorni dell’anno, quindi circa sette mesi. Nel dicembre 1004 Enrico rientrò frettolosamente in patria per risolvere importanti questioni sorte ai confini orientali in seguito alle azioni di conquista di Boleslao di Polonia ai danni della Boemia. Dopo questa grande prova di forza Arduino regnò ancora dieci anni. Le frammentarie informazioni che ci sono giunte riferiscono di un monarca continuamente volto ad acquisire consensi presso i grandi vassi, senza troppa fortuna, mentre ebbe largo seguito presso i piccoli signori locali, di cui divenne la vera bandiera. Giuseppe Sergi lo definì “re curiale e guerrigliero”, in quanto si rifece ai precedenti re italici nella concessione di diplomi e privilegi, ma fu sempre Scodellato ottoniano in argento dalla pronto a muovere con piccoli eserciti improvvisati Boira Fusca (Salto) per le sue spedizioni punitive. Il decennio di governo di Arduino, tra il 1004 e il 1014 è dovuto soprattutto al fatto che i confini orientali dell’impero erano posti sotto forti pressioni dai Polacchi e dagli Slavi ed Enrico non ebbe il tempo di rivolgere le sue attenzioni all’Italia. La vicenda arduinica va naturalmente sfatata dai miti locali che ancora persistono, per collocarla nella sua giusta luce storica, dalla quale emerge un uomo scaltro e fortunato, poco avvezzo a rispettare le regole dettate dal potere costituito, ma probabilmente anche animato da un nobile disegno di potere che puntava a strappare dalle mani degli odiati germanici lo scettro italico. Per il Canavese, i primi anni del secolo Xl, rappresentano la più gloriosa pagina di tutta la sua storia. Questo periodo fu di grande importanza, in quanto verosimilmente gettò le basi del forte incastellamento del territorio, soprattutto della valle Orco e di Pont in particolare, che durante il suo regno assunse il ruolo di estrema ridotta difensiva. Ancora legata all’attività di Arduino è la fondazione di Fruttuaria ad opera di Guglielmo da Volpiano, abate dell’abbazia di San Benigno di Digione. Questi, parente dello stesso Arduino, fondò l’abbazia soltanto un anno dopo la fortunosa incoronazione di Pavia. L’importante istituzione va probabilmente letta nella duplice ottica, d’interesse del re a favorire la crescita di una rete di potere economico, politicamente vicina e amica, da contrapporre al forte contrasto delle gerarchie ecclesiastiche ufficiali, ma anche come la messa al sicuro dei beni di una famiglia potente, troppo compromessa nel sostegno di un’avventura il cui esito, nel 1003, era tutt’altro che scontato. Il conferimento dei beni a Fructuaria avrebbe presumibilmente potuto evitare la confisca nel caso in cui l’ambizioso progetto di Arduino avesse dovuto naufragare in breve tempo. 4 In occasione della seconda calata germanica (1014), Arduino, dopo una breve azione contro Vercelli, si arrese alla condanna papale e si ritirò in stato monacale a Fruttuaria, dove morì nel dicembre dell’anno successivo. La repentina e incruenta scomparsa di Arduino dalla scena politica, può essere variamente interpretata. Anzitutto va considerata l’età avanzata e quindi verosimili problemi di salute, ma al contempo dobbiamo registrare il fatto che la sua rinuncia non coincise con l’estinzione del casato, il quale - viceversa - a partire dai suoi figli, continuò a ricoprire incarichi pubblici di rilievo e, in primis, varie posizioni comitali. Incoronazione del re da una miniatura del Sacramentario di Warmondo. Questa mirabile opera non è legata a un evento particolare, ma mostra nel dettaglio i costumi e contiene forse una sottile ironia nel chierico che esibisce delle borse, evidentemente di denaro, forse a sottolineare la corruzione che imperversava nelle corti del X secolo Il ritiro del vecchio combattente sembra più verosimilmente interpretabile come il frutto dell’abile negoziato di un uomo che si sente alla fine della propria esistenza e vuoi lasciare dietro di sé le cose in ordine. Un’ultima grande azione diplomatica, attraverso la quale, sfruttando il residuo prestigio politico-militare, riuscì a mettere al sicuro i suoi familiari, garantendo un futuro alla sua discendenza e al contempo salvando un immenso patrimonio concentrato nella sua creatura più preziosa: L’abbazia di Fruttuaria. Egli riuscì addirittura a strappare al suo acerrimo nemico, il vescovo Leone di Vercelli, beni importanti, come il castello di Rivarotta, posto a controllo della strada pedemontana che attraversava il Canavese in direzione Est-Ovest e significativa fonte di reddito per via dei pedaggi. 5 Il mosaico dei grifoni sul pavimento della chiesa abbaziale di Fruttuaria (sec. XI) Fruttuaria, benedetta nel 1006, pochi anni dopo la fine del travagliato X secolo, sarà destinata ad assumere un ruolo primario nel panorama canavesano, sia come faro di cultura attraverso i lunghi secoli del Medioevo, sia come centro economico di grandissimo rilievo, che giungerà a battere moneta, rappresentando un polo di benessere e sicurezza senza confronti. IVREA – CASTELLO Il castrum fu costruito tra il 1358 e il 1393 per volere di Amedeo di Savoia, il quale affidò l'incarico del progetto all'architetto Ambrogio Cognon (1358-1394). La costruzione di questa nuova fortificazione doveva rispondere ad alcune esigenze: difendere la città dai Monferrini, contenere le guerre tra i feudatari locali e sostenere l'espansione nel Canavese dei Savoia, che per dare un segno visibile del loro dominio, vollero che l'edificio sorgesse nella parte alta della città, in particolare sulle macerie di alcune case del Capitolo della Cattedrale e sui resti del palazzo di Giorgio de Solerio, cancelliere e ambasciatore, accusato di tradimento verso il re di Francia. La costruzione, caratterizzata da pianta rettangolare, da cortine merlate dotate di camminamento, e da quattro torri, richiese l'impegno di numerose maestranze provenienti da Vercelli, Milano e Ginevra con conseguente vantaggio della tecnica edilizia e in generale dell'economia della zona, che trasse cospicui benefici dalla presenza di un cantiere così importante. Il castello nel corso dei secoli fu ripetutamente sede della corte sabauda, che qui celebrò eventi importanti, come per esempio il battesimo (1522) di Adriano figlio del duca Carlo di Savoia. Questa residenza divenne perciò un palazzo elegante con arredi preziosi adatti a soddisfare i gusti raffinati delle duchesse di casa Savoia, le quali si dedicarono allo sviluppo delle arti e della cultura nella città di Ivrea. 6 Tra il XVI e il XVII secolo il castello fu ristrutturato e trasformato in presidio militare, dato l'infuriare nel territorio canavesano delle lotte tra francesi e spagnoli; in questo periodo avvenne anche un terribile incendio (1676) provocato dall'esplosione del deposito di munizioni collocato nella torre posta a nord-ovest, che causò la morte di 51 persone oltre che la rovina di un centinaio abitazioni. Nel secolo XVIII l'edificio fu adibito a carcere e mantenne questa funzione fino al 1970, anno in cui lo Stato lo riconsegnò al Comune di Ivrea, che ne promosse una campagna di restauro. Il castello di Ivrea Oltrepassato il primo cancello di ingresso al castello, si giunge nella zona un tempo occupata dal fossato e dall'antiporta, quindi si procede, superando un secondo cancello, nel grande cortile centrale sul quale si affacciano le numerose finestre delle celle, protette da fitte inferriate. Da questo punto si possono osservare le torri: quella in parte distrutta nell'incendio del 1676, le due torri con i merli a coda di rondine e quella priva di merlature. Al centro del cortile vi sono una grande cisterna di sei metri di diametro ed un pozzo. La prima veniva utilizzata come ghiacciaia, il secondo per l'approvvigionamento idrico del castello. L'interno del castello, costituito quasi interamente dalle prigioni dei detenuti, è visitabile solo in parte al piano terreno; in una delle celle è esposto un plastico che riproduce il castello in miniatura. IVREA – CATTEDRALE La chiesa attuale appare a prima vista un rifacimento della fine del sec. XVIII, opera dell’architetto Martinez: un esame più attento mostra invece che sotto gli stucchi ed i finti marmi si conserva ancora l’ossatura antica. 7 Pianta generale della Cattedrale Pianta del presbiterio Il presbiterio, con l’ambulacro circostante e i due campanili, è rivolto ad occidente ed appare di stile più rude: le tre navate, con la cupola centrale palesano invece esecuzione curata di epoca più recente. Identica osservazione si può fare nella cripta; chiare discontinuità nei muri e negli archi, in tutte e due i piani, nel punto di unione fra le due parti dimostrano che non siamo in presenza di semplici riprese di un’opera ma di due fasi costruttive ben distinte. Evidentemente quando fu ricostruito il presbiterio con la cripta e la parte inferiore dei campanili (ultimati dopo molto tempo dall’inizio) venne conservato intatto il resto dell’edificio, rifabbricato poi nel periodo romanico. La porzione più antica ha struttura molto interessante; al piano della cattedrale vi è un’abside circondata da un ambulacro che La cripta passa attraverso ai campanili riunendosi alle navatelle. Al piano inferiore si osserva un vano semicircolare circondato dal solito ambulacro e fiancheggiato da due camere quadrate, le fondazioni dei campanili: qui tuttavia lo spazio libero è minimo perché ovunque si incontrano le colonnette e i pilastrini di sostegno delle volte: una fila di supporti intermedi dimezza la luce dell’ambulatorio e quattro colonnette occupano il vano centrale. 8 Pianta della cripta Il muro in curva fra l’abside e l’ambulacro è stato imbottito di rozza muratura verso l’esterno e rivestito di stucchi verso l’interno per opera del Martinez e non può più essere studiato: esso presenta quattro colonne e due colonnette affioranti dalla muratura che indicano la presenza delle antiche strutture. Le due colonnette su piedestallo all’inizio ed alla fine del corridoio si presentano press’a poco nella condizione originaria, elementi decorativi applicati ad un pilastro: le altre invece dovevano essere isolate dal muro come quelle dell’ambulatorio inferiore di S. Stefano di Verona. La parete doveva poi essere forata da quattro arcate di comunicazione fra presbiterio ed ambulatorio. Lo storico locale Benvenuti poté vedere nell’anno 1787 due di tali « porte » dietro gli stalli dei canonici. Particolare menzione va riservata ai campanili i quali sono decorati esternamente dagli archetti pensili in gruppi di due, tre e più, che sono caratteristici dello stile romanico primitivo: evidentemente la costruzione di queste due torri è proceduta molto lentamente, piano per piano; quello a notte presenta uno stile anche più progredito del l’altro e fu costruito in linea di massima dopo. Le due celle sono addirittura frutto del sec. XIII. Gli accessi alla cripta si effettuavano attraverso due scale laterali le quali partivano dalle navatelle della cattedrale e sboccavano nei vani sotto ai campanili: nella parte centrale verso oriente, cioè verso la facciata della chiesa attuale, vi erano tre nicchie: le due laterali erano di pianta curva e dovevano essere occupate da altari; quella centrale pare fosse rettangolare e probabilmente conteneva la « fenestella ». Nelle volte si osservano ancora gli « umbilici » dai quali i fedeli inginocchiati sul pavimento della chiesa soprastante potevano scorgere i sarcofagi dei Santi; la direzione delle aperture praticata obliquamente nello spessore delle volte indica che i sacri corpi dovevano essere situati nelle adiacenze delle absidiole. Le volte sono botti lunettate oppure crociere cilindriche: esse si possono definire come un sistema di volte a botte che si intersecano ma conservano intatto il carattere originario; non vi sono nervature di sorta ad archi sporgenti dall’intradosso e le crociere della corona esterna dell’ambulatorio sono impostate su lesene come quelle del piano superiore. L’intera disposizione risulta dalla pianta acclusa meglio che da una descrizione: essa è veramente ingegnosa e ci testimonia che i costruttori eporediesi possedevano una reale 9 conoscenza della geometria ed una notevolissima capacità tecnica. La decorazione dell’edificio doveva essere molto semplice: l’esterno dell’ambulacro superiore presenta una serie regolare di grosse lesene verticali che sembrano originarie ma tutto è coperto da intonaco e non vi si può fare uno studio utile: anche le finestre risultano otturate ed intonacate e non si possono riconoscere: pare da vaghe tracce che fossero abbastanza spaziose e terminate superiormente ad archivolto. Le finestre della cripta a giudicare dagli scarsi resti nelle vicinanze delle fondazioni della torre sud, pare fossero a doppia strombatura. Le colonne ed i pilastrini monolitici che sostengono le volte sia nell’ambulatorio che nella cripta hanno capitelli molto semplici. Generalmente questi sono di tipo cubico con appendici angolari oppure a facce quadre con riquadratura ma non mancano fra essi le basi rovesciate e neppure i rustici blocchi squadrati: uno solo ha, su di una faccia, rozzi fregi. La costruzione del duomo va riferita al vescovo Warmondo, il famoso avversario di re Arduino: infatti nell’ambulacro absidale è murata una lapide del tempo che dice: CONDIDIT HOC / DOMINO PRE / SVL WARMVN / DVS AB IMO. Il fatto è confermato oltre che dalla costante tradizione della chiesa d’lvrea, da antichi documenti; non vi può quindi essere dubbio, ma qual’è il periodo del suo episcopato? Noi sappiamo che egli intervenne ad un concilio provinciale tenuto a Milano nell’ottobre 969 e siccome risulta da una nota marginale apposta ad un antico necrologio che fu consacrato vescovo il 7 di marzo e le consacrazioni si facevano di regola la domenica, è probabile che ciò sia avvenuto appunto nello stesso 969 in cui il 7 marzo era domenica. Maggiori difficoltà presenta la determinazione dell’altro termine: il « Libro degli anniversari » fissa la morte di Warmondo il primo agosto ma non ne indica l’anno. I biografi riportano una tradizione che vuole si tratti del 1010 ma i documenti sicuri ricorrono solo fino al 1002. Lo stile dell’edificio, coi capitelli rudimentali e le complesse volte senza nervature conferma pienamente l’attribuzione alla seconda metà del X secolo. (Tratto da: P. Verzone L’architettura religiosa dell’alto medioevo nell’Italia settentrionale, Milano 1942) IVREA - ABBAZIA DI SANTO STEFANO La torre campanaria di S.Stefano che sorge nell’area degli attuali giardini pubblici è l’unico elemento architettonico superstite dell’omonimo complesso abbaziale. L’area si trova nel punto in cui i Romani sistemarono i banchi sabbiosi degradanti dalle colline. In qualche punto di questo piano si trovava la "petra mali consilii" che segnava il luogo del “mallo”, uno spazio ampio e aperto dove si teneva l’assemblea legale degli uomini aventi diritto a portare le armi. Questo spazio si estendeva “ante ecclesiam Sancti Stephani” che probabilmente esisteva già dal quinto secolo. A destra, al di fuori delle mura, vi era il quartiere di Albeto, territorio parrochiare di S.Stefano abitato prevalentemente da tessitori. Già prima del mille, questo terreno, prosciugato, doveva essere attraversato da un canale che progressivamente, aumentando la propria portata, si trasformerà nel Naviglio. LA FONDAZIONE Nella prima metà dell’undicesimo secolo ci furono due importanti iniziative vescovili: la costruzione di una nuova cortina difensiva verso Est e l’impianto di un’abbazia benedettina all’estremità sud-est. Non conosciamo con esattezza le ragioni dell’insediamento di monaci Benedettini ad Ivrea, si può però ipotizzare la necessità di bonificare la paludosa e boscosa riva sinistra della Dora. Il complesso abbaziale assicurava una costante vigilanza in questo punto della città, oltre a costituire, con il 10 proprio perimetro di solidissima muratura a ridosso del fiume, un ostacolo assai difficile da aggirare. Il campanile era soprattutto una struttura di avvistamento e comunicazione e, all’occorrenza, di difesa, pronta a far giungere con il suono delle campane, oltre che l’invito alla preghiera, il richiamo alle armi. I religiosi del ramo cluniacense, provenienti da Fruttuaria, lavorarono al vasto complesso abbaziale fondato dal vescovo Enrico II presso un’antica cappella dedicata a S.Stefano (1041). In questo periodo l’abbazia vide la presenza di molti monaci e fu particolarmente fiorente. IL PERIODO SABAUDO Il 10 gennaio 1451 il papa Niccolò V concesse al duca Ludovico di Savoia di nominare soggetti di sua fiducia titolari dei benefici. Le abbazie piemontesi si popolarono di parenti e amici dei Savoia con riflessi negativi sul livello spirituale delle istituzioni religiose. Il monastero di S.Stefano cadde nelle mani dei Ferreri (o Ferrero ) biellesi che “appaltarono” per un secolo circa il titolo vescovile e il prioriato di S.Stefano, reggendoli anche per procura. I priorati dei Ferreri coincisero con la rovina materiale dell’abbazia. Nel 1544 la città, sotto il dominio spagnolo, cadde nelle mani del vicerè francese Carlo Cossè di Brissac che, per potenziare le difese della città dalla parte del fiume, fece demolire la chiesa. Nel 1561 i monaci si adattarono una cappella di fortuna vicino al campanile; nel 1579 poiché non esistevano più i sobborghi esterni orientali (distrutti dagli Spagnoli, in quanto costituivano un passaggio vantaggioso per i nemici); né la chiesa parrocchiale (distrutta da Brissac), la parrocchia di S.Stefano fu soppressa e unita a quella di S. Lorenzo. All’abate Augusto Filiberto Scaglia di Verrua (1671-1697) si deve la costruzione della 4° chiesa di S.Stefano. Ormai, sotto il profilo spirituale, il monastero è fortemente decaduto, rimane invece come produttore di redditi che affluiscono sotto forma di affitti e di derrate alimentari (granaglie, legumi, uva, polli). Alla scomparsa dell’abate Scaglia, l’abbazia resta vacante per 31 anni amministrata dalla Camera dei Conti di Torino. In questo periodo essa è un’azienda la cui gestione viene data in appalto al miglior offerente. Il fittavolo prende in consegna l’intero complesso monastico, chiesa compresa con mobili, arredi, archivio, cascine, e lo amministra pagando lo stipendio al Vicario di S. Lorenzo e ai sacerdoti incaricati di dire Messa alla parrocchia dei SS. Pietro e Donato e nella chiesa abbaziale. Nel Marzo del 1709, delegato dalla Camera dei Conti, viene ad Ivrea il Conte e Senatore Beraudo di Pralormo che stende una relazione sulle riparazioni necessarie alla Cattedrale, ai beni del vescovato e all’abbazia di Santo Stefano dal momento che durante l’assedio dei Francesi essa è servita da caserma e da magazzino. Riparati i danni di guerra la Camera dei Conti si trova a fronteggiare una nuova emergenza, poiché l’archivio dell’abbazia contenente documenti di grande importanza è chiuso a chiave e nessuno sa dove reperirla, inoltre si comprende che molte carte sono divorate dai topi. Intanto numerosi affittuari e debitori ne approfittano per eludere i pagamenti o fare opposizione o usurparne i terreni. Quando nel 1721 gli addetti entrano in un locale rivolto verso la Porta Grande, vi trovano un mobile in cui sono contenuti libri e scritture lacerati dai topi, tanto che in terra vi è una grande quantità di frammenti finemente triturati. Le scritture vengono estratte una ad una e riposte con cura, mentre i frammenti vengono sigillati in un sacco, per eseguirne l’inventario. ABBANDONO E DISTRUZIONE Nel 1726 L’ing. Castelli, progettista e direttore dei lavori del nuovo magazzino (Granaio) addossato al campanile, procede alla misura e stima di una serie di lavori di restauro degli edifici abbaziali (sostituzione di travi portanti, rifacimento delle coperture, installazione di vetri e inferriate e un parziale rinnovo delle attrezzature del campanile). Nel 1743 viene nominato abate Gaspare Amedeo S. Martino della Torre a cui si deve il riordino dell’archivio. Tra il 1747 e il 1757 l’abate vende gli edifici superstiti del complesso monastico, eccetto il campanile e il granaio, al conte Carlo Francesco Baldassarre 11 Perrone di S. Martino, che li demolisce per ingrandire il proprio giardino. Al posto della chiesa, venduta e demolita, l’abate trasforma in quinta chiesa di S. Stefano il granaio addossato al campanile. Alla morte dell’abate di S. Martino l’abbazia resta vacante per un anno, poi gli succede per procura Carlo Ballard di Roccafranca che muore nel 1788. Dopo otto anni e otto mesi il Cardinal Gerdil ne prende possesso per procura, ma nel 1880 essa è incamerata dal governo repubblicano (francese). Nel 1885 la chiesa viene destinata dal Comune a Lazzaretto in caso di epidemia. Nel frattempo alla chiesa si era addossato a est un altro fabbricato ospitante al piano terra un’officina elettrica (1892) e poi un’osteria. Nel 1898 l’ultima chiesa di S. Stefano, in occasione di un abbellimento dei giardini pubblici viene demolita, lasciando il campanile in perfetta solitudine. IL CAMPANILE DI SANTO STEFANO All’estremità orientale degli attuali giardini pubblici sorge la Torre di S. Stefano, unica parte restante della chiesa e del convento dei monaci benedettini. Le sue origini risalgono al XI secolo quando Enrico II , vescovo d’Ivrea, fece ampliare la preesistente struttura della parrocchiale di S. Stefano, per accogliere l’ordine Benedettino. Il campanile è il più insigne esempio d’arte romanica eporediese. Dopo il piano basamentale parzialmente interrato bucato da feritoie sui lati est e nord, si succedono tre piani della dimensione di circa quattro metri, il primo ancora forato da feritoie sui lati est e nord e ovest, il secondo da monofore e il terzo da bifore su tutti i lati. L’ornamentazione architettonica è costituita dalle spesse lesene angolari e da quella più sottile intermedia, dal fregio marcapiano a denti di sega in laterizio a vista, girante su tutto il perimetro della torre, da archetti pensili, più affilati Il campanile di S. Stefano inferiormente, più tozzi nei piani alti. Il quinto piano presenta una brusca riduzione di altezza, passando da quattro metri a tre e trenta, cessa la lesena centrale, compare una trifora più bassa delle bifore sottostanti e gli archetti pensili si abbassano di molto sulle luci. Questa caduta di stile si fa ancora più evidente nel sesto ed ultimo piano, esso si riduce a m 2,70, compare ancora una trifora sulla quale gli archetti del fregio, costretti dallo spazio insufficiente, finiscono per schiacciarsi. Tutto questo fa pensare a una sopraelevazione, infatti molto probabilmente nella sua forma originaria doveva mantenere l’altezza costante dei piani e aumentare 12 progressivamente la misura delle luci, ma nel 1117 fu devastato dal violento terremoto che colpì la diocesi di Ivrea. Altri danni furono arrecati al campanile durante l’assedio del 1704 che vide da parte dei Francesi un impiego massiccio dell’artiglieria. Fu posto rimedio con la ricostruzione in laterizio delle murature dei fregi ad archetti ma le luci non furono rifatte e ci si limitò a tamponarle. Nei documenti in archivio le cure riservate al campanile sono scarse. Cessata la funzione parrocchiale, non essendo una struttura produttiva di reddito, scivola all’ultimo posto nelle preoccupazioni degli amministratori. Nel 1827 il piano terra della torre è adibito a scuderia. Nel 1854 viene realizzato un intervento che colloca all’ultimo piano del campanile una volta di mattoni intonacata d’asfalto che sostituisce la cuspide andata distrutta. Nel 1880 il comune utilizzò il campanile come torre di distribuzione dell'acquedotto. GIOVANNI MARTINO SPANZOTTI (Casale Monferrato, ca. 1455 – Chivasso, ante 1528) Pittore italiano tra i principali interpreti del rinnovamento in senso rinascimentale della pittura in Piemonte. Gian Martino Spanzotti nacque verso il 1455 a Casale, da una famiglia di pittori provenienti dal territorio di Varese. La sua biografia è suffragata, particolarmente nella fase iniziale, da scarse fonti documentali. Il suo primo apprendistato fu verosimilmente nella bottega del padre, Pietro, dove doveva essere attivo anche il fratello Francesco (che la critica tende oggi ad identificare con il "Maestro di Crea"). Gli anni tra il 1470 e il 1480 rappresentano il periodo della sua formazione artistica. Probabile sembra, negli anni '70, un suo contatto diretto in Bologna con la scuola di Francesco del Cossa, stante il fatto che il giovane Martino utilizzò sicuramente alcuni cartoni del pittore ferrarese nella sua prima produzione artistica (Madonna con il Bambino presso il Museo Civico di Torino). È molto verosimile, tuttavia, che la parte più significativa del suo apprendistato si sia svolta a Milano (visto che in un documento redatto a Casale nel 1480 egli viene addirittura definito "Mediolani pinctore"). A Milano dovette soggiornare almeno in due riprese (l'ultima delle quali verso la fine degli anni '80), in modo tale che gli fu possibile restare aggiornato sulla evoluzione della produzione pittorica nella capitale lombarda. Piuttosto evidente (ad es. attraverso l'uso dei toni cinerei nei volti che incontriamo nelle ultime scena della Vita di Cristo nel ciclo di Ivrea) è l'influenza di Vincenzo Foppa, ma anche, nelle prospettive architettoniche, si avverte la lezione di Bramante e, ancor più, di Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino. Per spiegare un altro debito di Spanzotti, quello verso la pittura fiamminga, si può supporre che nell'ambiente milanese egli abbia incontrato anche le suggestioni dell'arte nordica, interpretate alla corte dei duchi di Milano da artisti quali Zanetto Bugatto. Recentemente, tuttavia, a questo riguardo, la critica ha messo in risalto l'influenza esercitata su Martino Spanzotti dall'arte provenzale, ed in particolare dall'opera del maestro di origine borgognona Atonie de Lonhy, stabilitosi dal 1462 in Piemonte . In sintesi, l'opera di Spanzotti si connota come punto d'incontro fertile delle espressioni artistiche presenti sui due versanti delle Alpi, aspetto che caratterizza per molti versi la peculiarità della produzione artistica in Piemonte nel corso di tutto il XV secolo. Nel 1480 è documentato a Casale, mentre nel 1481 - in un atto redatto a Vercelli – è menzionato con l'appellativo di "magister", che vale come titolo per la direzione di una bottega e come riconoscimento pubblico delle sua capacità pittoriche. Si collocano in questo periodo vercellese (1481-1498) i Santi e Sante ed il Trittico (unica sua opera 13 firmata) conservati nella Galleria Sabauda di Torino e l'affresco dell'Adorazione del Bambino di Rivarolo Canavese. In questo periodo si colloca il praticantato presso la sua bottega del pittore vercellese Giovan Antonio Bazzi, detto il Sodoma. L'espressione artistica più alta di questi anni è rappresentata dal ciclo di affreschi (1486 -1491) sulla vita di Cristo nella Chiesa di San Bernardino ad Ivrea, l'opera più importante di Spanzotti (magistralmente commentata dallo scrittore e critico d'arte Giovanni Testori). Il ciclo sulla parete di Ivrea riflette non solo l’esigenza pedagogica del committente di disporre di una "biblia pauperorum" capace di tradurre le scritture in immagini, ma esprime soprattutto i tratti peculiari della devozionalità francescana che punta a restituire una genuina carica umana al racconto evangelico. Spanzotti si dimostra capace di interpretare in modo esemplare il desiderio del committente, sviluppando una poetica nuova in grado di conferire al racconto la verità e la nobiltà dell'esperienza umana che è propria degli umili. È una nobiltà nuova– scrive Testori – quella che si fonda in questi anni nel Nord dell'Italia e alla quale lo Spanzotti offre questo suo inconfondibile tono: una nobiltà umana, anziché umanistica; il fatto riportato alle sue proporzioni reali e quotidiane, contro il fatto dilatato dall'iperbole dell'ideologia; il profondo del particolare, infine, contro l'esteso dell'universale. Si era supposta una sua presenza – come scultore ligneo - anche al Sacro Monte di Varallo (ca. 1486) come sembrava testimoniare il Compianto su Cristo morto (la così detta "Pietra dell'Unzione"), oggi alla Pinacoteca Civica di Varallo. Pure essendosi riconosciuta la paternità di tali sculture lignee ai Fratelli De Donati, restano da spiegare le evidenti affinità stilistiche con l'opera di Spanzotti. Tra il 1498 ed il 1502 Spanzotti fu di nuovo a Casale, dove tenne una sua bottega con i suoi due cognati Aimo e Balzarino Volpi. Appartiene a questo periodo il Polittico Del Ponte (oggi smembrato, tra la Pinacoteca di Brera a Milano, la Albertina di Torino, la National Gallery di Londra ed una collezione privata) dipinto per la Chiesa di San Francesco in Casale. Fu poi attivo a Chivasso e, dal 1513, prese la cittadinanza a Torino come pittore alla corte dei Savoia, ove consolidò il suo successo con commesse crescenti. Tra i pittori formatisi in questo periodo presso la sua bottega troviamo Defendente Ferrari e Gerolamo Giovenone. Frutti della collaborazione con Defendente Ferrari sono - tra le altre opere in cui è difficile stabilire gli apporti reciproci - il Polittico dei Calzolai ed il Battesimo presso il Duomo di Torino. L'ultima sua opera conosciuta è il piccolo affresco Elemosina di Sant'Antonio Pierozzi (1523) nella Chiesa di S. Domenico a Torino, un brano in cui sembra tardivamente rifiorire la vena poetica dei suoi anni più fertili. 14 Giovanni Martino Spanzotti - Elemosina di Sant'Antonio Pierozzi Nel 1528 risulta ormai deceduto in Chivasso. La sua opera, oltre a diventare punto di riferimento per tutta l'arte piemontese dell'epoca, ebbe un’influenza diretta sulla maturazione artistica di Gaudenzio Ferrari. IVREA – CHIESA DI SAN BERNARDINO La chiesa quattrocentesca di San Bernardino in Ivrea, situata nell'area che ospita gli edifici industriali della Olivetti, rappresenta un’attrattiva di notevolissimo interesse artistico, in virtù del grande tramezzo interno affrescato con le Storie della Vita e Passione di Cristo da Giovanni Martino Spanzotti tra il 1485 ed il 1490 ca. La chiesa, nella sua prima struttura, fu edificata tra il settembre del 1455 ed il gennaio del 1457 assieme al convento destinato all’ordine francescano Frati Minori Osservanti. La grande ammirazione popolare nei confronti della figura di San Bernardino (che si suppone transitato ad Ivrea nel 1418) avevano convinto le autorità religiose ad appoggiare il progetto di costruzione del convento, che fu inaugurato con grande fasto alla presenza del vescovo di Ivrea Giovanni da Parella e del vicario francescano della provincia di Milano. La prima chiesa era a painta quadrangolare con volte a crocera, tipiche dell'architettura gotica; assieme al convento (comprendente due chiostri, le celle del dormitorio, il refettorio ed i laboratori) costituiva un esempio delle soluzioni architettoniche care ai Frati Minori. La chiesa era stata pensata soprattutto per i frati del convento, ma il grande afflusso dall'esterno di fedeli che prendevano parte alle cerimonie religiose, rese ben presto insufficienti gli spazi ad essi riservati. Nel 1465 ebbero luogo i lavori di ampliamento, con la costruzione di una navata con accesso al pubblico, divisa dalla chiesa primitiva da un tramezzo con tre arcate. L'ampliamento comprendeva anche la costruzione di due cappelle laterali (andate poi distrutte) e un ardito innalzamento della copertura per ricavare al di là del tramezzo uno spazio, direttamente collegato al monastero e riservato al coro. 15 L’anno seguente Amedeo IX di Savoia prese il monastero sotto la sua protezione; protezione che continuò dopo la sua morte del 1472 ad opera di sua moglie Jolanda di Valois. Le fortune del monastero andarono decadendo già verso la fine del XVI secolo, anche a causa della rivalità con la confraternita, pur essa francescana, dei Frati Minori, che subentrò nella gestione del convento a partire dal 1612, senza tuttavia arrestarne il declino. Nel settecento la chiesa ed il convento subirono un ulteriore degrado a causa delle successive occupazioni militari, sino alla conquista napoleonica ed alla abolizione delle proprietà ecclesiastiche. La chiesa, ormai sconsacrata, venne utilizzata per anni come deposito agricolo. Camillo Olivetti acquistò il complesso (posto nelle immediate vicinanze della sua fabbrica di macchine per scrivere) nel 1910 ed avviò un suo primo recupero, trasformandolo in sua abitazione. Egli fece anche rimuovere il soppalco costruito a ridosso della parete spanzottiana. Fu poi Adriano Olivetti che realizzò, tra il 1955 ed il 1958, un più importante progetto di riqualificazione dell’area, destinandola a sede dei servizi sociali ed delle attività dopolavoristiche per i dipendenti aziendali. Gli affreschi di Spanzotti, restaurati nello stesso periodo, trovarono la loro giusta celebrazione critica in un saggio di Giovanni Testori, che operava in quel tempo ad Ivrea presso i Servizi Culturali della Olivetti. E' merito dell'azienda di Ivrea aver garantito la successiva manutenzione del complesso, pur con alcuni interventi di utilizzo industriale dell'area attigua alla chiesa. Chiesa di S. Bernardino 16 Il complesso monastico visto dall’alto GLI AFFRESCHI Ben poco si sa degli affreschi più antichi che ornano il presbiterio, realizzati probabilmente a ridosso della sua edificazione (1457). Nelle due cappelle poste in corrispondenza agli archi laterali del tramezzo troviamo dipinti rispettivamente una Crocifissione ed una Madonna col Bambino, Sante e Santi realizzati attorno al 1470 da ignoti artisti di provenienza lombarda che si attardano su moduli gotici (per la Madonna col Bambino si è avanzata dubitativamente un'attribuzione a Cristoforo Moretti). L’interesse artistico della chiesa si concentra sul grande tramezzo affrescato dallo Spanzotti in due intervalli di tempo che tra il 1485 ed il 1490 ca. Vi è narrata la Storia della Vita e della Passione di Cristo in venti scene (ognuna dalle dimensioni di 1,5 x 1,5 metri), più una grande Crocifissione avente una misura quadrupla rispetto alle altre. Giovanni Martino Spanzotti – Crocifissione di Cristo 17 S. Bernardino e La cacciata dall’Eden Nei pilastri sottostanti troviamo raffigurata una immagine di San Bernardino ed un Cristo in Pietà, mentre ai lati degli archi, troviamo una Cacciata dall'Eden e scene del Giudizio Universale. Chi visita la chiesa coglie subito come, nella rappresentazione del racconto evangelico, Spanzotti sviluppi una poetica nuova in grado di conferire al racconto la verità e la nobiltà dell'esperienza umana che è propria degli umili. I colori ormai sbiaditi dal tempo e dalle ingiurie subite, non impediscono allo spettatore di cogliere la qualità tecnica dei dipinti. "[..] tanta - scrive Aldo Moretto - è la sapienza dello Spanzotti nel trattare le luci sempre in modo naturale, secondo il variare dell'ora e dell'animo. Da quella luce viola che sembra scendere fredda e rabbrividente dalle montagne per rendere più pure le prime scene di sentimento raccolto e domestico (Annunciazione e Natività), a quella più calda dei grandi aperti dominati in primo piano dall'asinello vivacissimo (Fuga in Egitto, Entrata in Gerusalemme), a quella che bagna il Cristo nel momento della tragedia: quei panni intrisi di luce, nell'angoscia del sentimento dall'Orazione nell'orto allo stare davanti a Pilato e a Caifa - una soluzione luministica, così carica di significato, da rendere grande da sola lo Spanzotti". LA ROCCA DI SPARONE E LA CHIESA DI SANTA CROCE L’esistenza della Rocca di Sparone, che domina la strada che porta verso l’Alta Valle dell’Orco, è anteriore all’anno 1000. Venne infatti già citata da Ottone imperatore come possedimento arduinico, in un’ordinanza di confisca e di donazione alla chiesa di Vercelli, anche se di fatto il Marchese di Ivrea Arduino continuò a rimanerne in possesso. Questo è il luogo dove si svolse lo storico episodio dell’assedio subito da Arduino ad opera dell’esercito imperiale di Enrico II di Germania tra il 1004 e il 1005. La Rocca era un tempo assolutamente imprendibile e quindi la resistenza degli 18 arduinici ed il rigore dell’inverno ebbero ragione dei soldati imperiali che, abbandonato il lungo assedio, si ritirarono in Germania. Su una delle pareti fortificate della Rocca è stata apposta nel 1932 una lapide ricordante l’assedio ed un bassorilievo con un ritratto classicheggiante di Arduino. Dopo la morte di Arduino nel 1015, si hanno notizie della Rocca nel 1185 e 1193, come proprietà indivisa dei San Martino e dei Valperga. Dopo breve occupazione da parte del marchese di Monferrato, la Rocca venne ceduta nel 1389 ai Savoia. In queste vicende il castello aveva però già subito gravi danni e venne definitivamente smantellato durante le lotte fra Cesariani e Francesi. Finché vi fu una guarnigione ed un castello presso la Rocca, la sua cappella, dedicata alla Santa Croce, funzionò come chiesa parrocchiale del paese. L’antica abside, che appartenne alla chiesa primitiva, è risalente intorno al Mille, con la presenza di archetti pensili gotico romanici e la tipica disposizione delle pietre murarie a lisca di pesce. La chiesa è anch’essa in pietra, con le pareti interne intonacate: ai lati dell’abside sono presenti resti di affreschi dei secoli XIII e XIV. L’unica cappella e l’atrio sono elementi aggiunti nel secolo XVII. Rocca di Sparone Chiesa di Santa Croce 19