STAGIONE 2016/2017
ANIMALI DA BAR
di Carrozzeria Orfeo
Libretto di sala a cura di Claudia Braida
Martedì 4 aprile 2017
Ore 21.00
di Carrozzeria Orfeo
drammaturgia Gabriele Di Luca
con Beatrice Schiros, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Pier Luigi
Pasino, Paolo Li Volsi
regia Alessandro Tedeschi, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti
voce fuori campo Alessandro Haber
produzione Fondazione Teatro della Toscana 2015 Carrozzeria Orfeo
Premio Hystrio 2016
Anime salve sono i solitari, i diversi,
quelli che stanno ai margini,
perché ce li ha cacciati il sistema
o perché l’hanno scelto loro.
Salvi, perché soli, perché liberi,
perché lontani da questa civiltà
da basso impero.
F. De André
C’era una volta una metropoli.
Dentro la metropoli un quartiere.
Dentro al quartiere, il bar.
Un bar abitato da personaggi strani: un vecchio malato, misantropo e razzista che
si è ritirato a vita privata nel suo appartamento; una donna ucraina dal passato
difficile che sta affittando il proprio utero ad una coppia italiana; un imprenditore
ipocondriaco che gestisce un’azienda di pompe funebri per animali di piccola
taglia; un buddista inetto che, mentre lotta per la liberazione del Tibet, a casa
subisce violenze domestiche dalla moglie; uno zoppo bipolare che deruba le case
dei morti il giorno del loro funerale; uno scrittore alcolizzato costretto dal proprio
editore a scrivere un romanzo sulla grande guerra.
Sei animali notturni, illusi perdenti, che provano a combattere, nonostante tutto,
aggrappati ai loro piccoli squallidi sogni, ad una speranza che resiste troppo a
lungo. Come quelle erbacce infestanti e velenose che crescono e ricrescono
senza che si riesca mai ad estirparle.
E se appoggiati al bancone troviamo gli ultimi brandelli di un occidente rabbioso
e vendicativo, fatto di frustrazioni, retorica, falsa morale, psicofarmaci e
decadenza, oltre la porta c’è il prepotente arrivo di un “oriente” portatore di
saggezze e valori… valori, però, ormai svuotati e consumati del loro senso
originario e commercializzati come qualunque altra cosa.
Tutto è venduto, sfruttato e contrattato in Animali da Bar. La morte e la vita,
come ogni altra merce, si adeguano alle logiche del mercato.
CARROZZERIA ORFEO
Diplomati all’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine, Massimiliano
Setti e Gabriele Di Luca, insieme a Luisa Supino, costituiscono nel 2007 la
compagnia “Carrozzeria Orfeo”, di cui sono autori, registi ed interpreti dei propri
spettacoli, curando anche la composizione delle musiche originali. Carrozzeria
Orfeo: un nome che nasce dalla contrapposizione di parole tra loro molto
diverse. La concretezza di una carrozzeria e il simbolo dell’arte. La fatica del
mestiere, il sacrificio e la manualità dell’artigiano, e allo stesso tempo la volontà
di vivere un’esperienza onirica. Alla base della poetica della Compagnia, che alla
produzione di spettacoli alterna l’attività di
formazione, c’è la costante ricerca di una
comunione tra un teatro fisico e una
drammaturgia legata a tematiche della
contemporaneità, all’interno della quale
l’emotività, l’immediatezza e il rapporto
con il pubblico rivestono un’importanza
fondamentale. L’osservazione della realtà
spinge il percorso drammaturgico di “Carrozzeria Orfeo” nel suo esplorare diversi
territori di scrittura, recitazione, messa in scena, senza tralasciare la formazione,
trovando ispirazione nelle storie e nella cronaca del proprio tempo.
Non appena diplomati, nel 2007, danno vita al loro primo spettacolo Nuvole
barocche che, trasmesso su Rai 3 a “Palco e Retropalco”, ha ricevuto nel 2007 la
Menzione Speciale al Premio Tuttoteatro.com “Dante Cappelletti” e nel 2008 la
Menzione Speciale al Premio “Nuove Sensibilità” del Festival Teatro Italia.
Ispirato all’omonimo album e alla canzone Le nuvole di Fabrizio De André, vede
protagonisti tre ragazzi che hanno perduto il contatto con il mondo, con le
istituzioni e soprattutto con se stessi: perdenti nella vita, eroi dei propri sogni.
Una drammaturgia del sequestro, tra microcriminalità e disperazione urbana, che
esplora la fusione di linguaggi diversi nell’indagine di un’epoca stratificata: la fine
degli anni ’70, l’estate dei grandi sequestri e del rapimento di Fabrizio De André e
Dori Ghezzi.
Nel 2008 debutta Gioco di mano, viaggio surreale attraverso vita, amori e
miracoli di quattro diverse generazioni. Quattro personaggi bizzarri, due morti e
due vivi, legati tra loro dall’inscindibile rapporto di sangue padre-figlio. Una sorta
di mitologia familiare che mescola e confonde, attraverso una narrazione comica
e visionaria, la fantasia e i sogni con la realtà. Una fiaba moderna, un racconto
popolare, semplice e ironico, fatto di ribaltamenti, equivoci, giochi e colpi di
scena.
Nel 2009 debutta Sul confine, vincitore della quinta edizione del Premio
Tuttoteatro.com “Dante Cappelletti”, in cui tre uomini raccontano la storia di una
guerra: quella che si gioca sempre al limite, la guerra non importa “di chi contro
chi”. Sono soldati e il loro destino è profondamente legato all’immagine di un
fiume che scorre in mezzo al deserto e trascina con sé i segreti dell’esercito. Sono
sul confine: luogo di scelta e di passaggio che separa vita e morte, verità e
menzogna, ricordi da espiare, sofferenza e lampi di confidenza umana.
Nel 2010 con lo studio Tre brevi istanti tragicomici vincono il Premio alle Arti
“Lidia Petroni”, promosso dal Teatro Inverso di Brescia.
Nel 2011 debutta Idoli, testo finalista al Premio Hystrio per la Drammaturgia
2011 e vincitore come miglior spettacolo della Rassegna Autogestita al Teatro
Quirino di Roma, ispirato al saggio I vizi capitali e i nuovi vizi di Umberto
Galimberti. Lo spettacolo rilegge questa tematica alla luce della
contemporaneità, decontestualizzandola dal terreno della morale per
evidenziarne gli aspetti più patologici ed emotivi del nostro tempo. Esplora così i
nuovi vizi capitali della società moderna, le sue deformazioni individuali e
collettive, le tendenze incontrollabili, spesso disastrose, che dietro l’apparente
normalità degli uomini celano lo scenario inquietante di una società alla deriva.
Nato all’interno del “Progetto Roaaar” (vincitore del bando Creatività Giovanile
della Fondazione Cariplo), cantiere creativo che ha esplorato le possibilità
d’incontro tra i linguaggi del fumetto e del teatro con particolare attenzione alla
drammaturgia contemporanea, nel febbraio
2012 debutta Robe dell’altro mondo, amara
e paradossale denuncia sociale sviluppata
intorno alla tematica delle paure
metropolitane
che
caratterizzano
e
condizionano la nostra quotidianità e la
qualità delle relazioni. In un mondo incrinato
da una profonda crisi economica, sociale e
umana, dove ogni via d’uscita sembra ormai
perduta, l’unica speranza di salvezza è rappresentata dagli Alieni, sbarcati sulla
terra per aiutarci a risolvere i nostri problemi più gravi. Il linguaggio
dell’illustrazione e del fumetto permettono di sviluppare ed evocare i personaggi
delle storie spingendo il reale fino al paradosso del grottesco per contaminare e
confondere differenti piani narrativi.
Nel 2012 vincono il Premio Nazionale della Critica come migliore compagnia con
la seguente motivazione: “Giovane compagnia, creata da Gabriele Di Luca e
Massimiliano Setti, con la collaborazione di Luisa Supino, e con Diego Sacchi,
Alessandro Tedeschi, Roberto Capaldo, Luca Stano, Daniel De Rossi, Fabrizia
Boffelli, Giulia Maulucci, Valentina Picello, Massimo Zanini e Giacomo Trivellini,
Carrozzeria Orfeo è nata nel 2007 all’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe”
di Udine, elaborando un preciso linguaggio di originali drammaturgie, costruite
partendo dall’improvvisazione e dal montaggio scenico, creando così un proprio
metodo di lavoro basato sulla creazione collettiva. Con i suoi spettacoli, Nuvole
Barocche, Gioco di Mano, Sul Confine, Idoli e Robe dell’altro mondo, Carrozzeria
Orfeo ha realizzato un interessante percorso, ha esplorato diversi territori di
scrittura, recitazione, messa in scena, ha trovato ispirazione nelle storie e nella
cronaca del proprio tempo, mantenendo inalterato lo sguardo adolescente alla
scoperta del mondo e l’attenzione a differenti tecniche espressive, fuse insieme
in una poetica ricca di invenzioni e di sorprese, di scatenata e irriverente ironia,
di soluzioni visionarie e di tensione drammatica.”
Nel dicembre 2012 Carrozzeria Orfeo vince il bando “Funder35” finanziato dalla
Fondazione Cariplo.
Nel giugno 2013, al Teatro Romano di Spoleto, dalle mani di Franca Valeri, viene
assegnato il Premio SIAE alla Creatività 2013 a Gabriele Di Luca come migliore
autore teatrale, con la seguente motivazione: “Un’incisiva espressione di
moderna drammaturgia che fa uso di un linguaggio acre, disadorno, a volte
osceno, e che non teme lo scandalo e l’irriducibilità del tragico. Conflittualità del
mondo esterno e con se stessi, noia di vivere, vuoto interiore, apatia morale,
paure, rabbia, frustrazioni, frammenti di vita e d’umanità si vanno ad incastonare
all’interno di un desolante, quanto lucido, quadro esistenziale contemporaneo.
Una fotografia fredda e spietata del presente che accompagna lo svolgersi degli
accadimenti senza commenti, senza pietà e che affronta la spersonalizzazione, la
disumanità, la violenza, senza condiscendenze ideologiche, senza richiami alla
complicità del pubblico. Una drammaturgia che tocca mente e cuore senza artifizi
o mistificazioni; una scrittura per il teatro del nostro tempo, oscuro e carico di
interrogativi inquietanti”.
Ad agosto 2013, al Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria, debutta
Thanks for vaselina, dedicato a tutti i familiari delle vittime e a tutte le vittime dei
familiari, vincitore del “Last Seen” 2013 di Klp Teatro come migliore spettacolo
dell’anno, una coproduzione “Carrozzeria Orfeo” e Fondazione Pontedera Teatro,
in collaborazione con La Corte Ospitale, Festival Internazionale Castel dei Mondi
di Andria. Thanks for vaselina racconta la storia di esseri umani sconfitti,
abbattuti, lasciati in un angolo dal mondo che prima li ha illusi, sfruttati e poi
tragicamente derisi. E’ il controcanto degli ultimi e degli esclusi dal mondo del
successo e del benessere. In un esistenzialismo da taverna dove ogni desiderio è
fallimento.
A novembre 2014 “Carrozzeria Orfeo” produce con il Teatro Filodrammatici di
Milano, un testo della drammaturga inglese Penelope Skinner, dal titolo
Eigengrau. Lo spettacolo debutta all’interno di “Trend”, rassegna dedicata alla
nuova scena britannica, curata da Rodolfo Di Giammarco.
Con Animali da bar vince il “Premio Hystrio Twister” 2016.
Beatrice Schiros
Studia al Teatro Stabile di Genova.
I suoi principali lavori in televisione sono stati:
Cameracafè (prod. Magnolia), FuoriClasse ed. 1, 2, 3
(prod. Itc Movie), con la regia di Regia Riccardo Donna,
poi di Tiziana Aristarco; Provaci ancora Prof. 4 (prod.
Endemol) regia Tiziana Aristarco; Bentornato Nero Wolfe
(prod. Casanova multimedia), regia Riccardo Donna;
Metropolis, programma comico-satirico con la regia di
Rinaldo Gaspari (Prod. Zodiak Active).
Nel 2014 partecipa al progetto cinematografico che raccoglie racconti,
impressioni e stati d’animo sui terremoti che hanno colpito l’Emilia dal titolo
Tellurica – racconti dal cratere, da cui il cortometraggio con Roberto Herlitzka,
per la regia di F. Barozzi.
Nel 2013 inizia la collaborazione con “Carrozzeria Orfeo” con cui realizza Thanks
for vaselina e Animali da bar.
Entra nel cast de La pazza gioia, l’ultimo film di Paolo Virzì, che riscuote molti
consensi a Cannes 2016. Nel 2016 vince il Premio “Mariangela Melato” come
miglior attrice, nell’ambito dello storico e ormai famoso “Premio Hystrio”.
PER APPROFONDIRE
L’individuo e la città postmoderna, tra solitudine, crisi e
possibilità di incontro
Ingeborg Bachmann ha paragonato una volta la lingua a una città,
col suo centro antico e poi la parti più recenti e le periferie
e, alla fine, i raccordi anulari e le pompe di benzina,
che fanno anch’esse parte della città.
Città e linguaggio contengono la stessa utopia e la stessa rovina,
ci siamo sognati e perduti nella nostra città come nella nostra lingua,
esse sono anzi soltanto la forma di questo sogno e di questo smarrimento.
G. Agamben
Compatto, nel microcosmo di un bar di periferia, rifugio di anime perse e
sbandate alla ricerca di un motivo per sopravvivere, Animali da bar propone
splendidamente il racconto del nostro universo globale e frantumato: una sorta
di solidità da tragedia greca, dove sono rispettate le unità di luogo e di azione,
mentre il tempo si disfa ma per poco, apparendo l’intera rappresentazione come
un continuum nel quale si agitano in sofferenza infernale cinque esseri non più
negativi di altri, non più infelici, forse più sensibili e quindi più soggetti ad
accusare i colpi dell’esistenza. Ma la tragedia oggi è impossibile, almeno è
difficile, e ogni evento distruttivo viene accolto sotto l’aspetto del riso, della
denigrazione, del rifiuto a cui si fornisce un linguaggio immerso nella violenza e
nell’esasperazione sessuale e svilente come reazione all’insopportabilità
quotidiana.
La denuncia dello squallore metropolitano, mascherato dietro motivazioni varie,
si scontra con una forte opposizione, apparentemente omogenea alla negatività
dei quattro avventori: è Mirka, la donna che gestisce il bar e riceve confidenze e
richieste di aiuto, o semplicemente è oggetto dei discorsi di chi frequenta il
luogo. Mirka ha già fatto sette figli su commissione e sta facendone un altro, per
uno dei clienti del bar, un mite giovane la cui moglie importante ha chiesto di
ingravidare la donna per avere un figlio senza impegnarvici, e per di più maltratta
il marito, causandogli addirittura una lesione al collo, per questo l’uomo viene
chiamato “Colpo di Frusta”.
Il racconto dello spettacolo risulta complesso per i tanti avvenimenti che vi si
accumulano: dal comportamento bipolare di “Sciacallo”, un giorno atonico e in
preda a istinti suicidi, un altro esaltato al punto di manovrare una sega elettrica
intorno a sé, ponendo a rischio i compagni; poi c’è Milo, l’illuso di grandi
guadagni che gestisce un’aziendina per cremare piccoli animali, e si incocaina per
sostenersi nell’ottimistica speranza di un futuro miliardario; completa il gruppo
Swarovski, che per l’intero spettacolo se ne sta seduto a un tavolino del bar,
intento a scrivere, per un suo editore, una storia della prima guerra mondiale:
una sorta di coscienza critica a rovescio, per tutta la durata della
rappresentazione, ché il suo sguardo attento ironizza e denigra gli altri avventori,
tuttavia penetrandone i comportamenti e recuperandoli umanamente, in un
tentativo di portarli alla consapevolezza di sé.
Come un dio degradato, dall’alto si avverte a tratti, quando Mirka è sola, la voce
del vecchio proprietario del bar, un malato che vorrebbe farla finita e chiede
aiuto alla donna, ma al tempo stesso non rinuncia a un piacere che le chiede, di
sesso lubrico, prima della morte.
Alla fine lo scrittore, un po’ come il narratore di Zoo di vetro di Tennessee
Williams, ricapitola gli avvenimenti che all’inizio erano stati accennati in una
scena fulminea, che torna poi alla conclusione, dove Mirka urla in preda alle
doglie con intorno i quattro avventori, e impreca contro quel bambino che
dovrebbe nascere e che, da quanto ci racconta poi lo scrittore, non nascerà. E’, la
sua, una riflessione che riporta all’amaro della realtà più brutale le illusioni e le
speranze affiorate qua e là nel contesto. Come la scena, bellissima e toccante,
delicata al limite della commozione, in cui Mirka e “Colpo di Frusta” si incontrano
per una cena in cui sembrerebbe che scaturisse un amore, nonostante la
timidezza morbosa di lui e la crudezza di lei, sotto cui si cela una generosa
capacità di amare e un forte desiderio di credere in quei valori che parevano
cancellati dalla vita. Ma è un attimo, in cui si isola illusoriamente un sogno, e la
durezza della realtà, riportata a galla dal racconto di Swarovski, conclude lo
spettacolo: lo scrittore non scriverà l’inutile ennesima storia della prima guerra
mondiale, ma racconterà la nostra storia, e le sue contrastanti espressioni di crisi
e di dolore.
www.criticateatrale.it
Nel contesto metropolitano, i luoghi e i ricordi si
propongono come gli individui al nostro riconoscimento.
Quel che li avvicina ancora è l’esistenza materiale e
sensibile della città: essa è paesaggio, cielo; ombre e luci,
movimento; essa è odori, odori che variano con le
stagioni e le situazioni, i luoghi e le attività – odori della
benzina e della nafta, dei cibi e dei caffè, dei porti e dei
mercati; essa è rumore, baccano o silenzio, silenzio
improvvisamente rotto dalle sirene delle auto della polizia, delle ambulanze o dei
pompieri, la cui frequenza, oggi, è un indice della violenza del centro cittadino o
dei dintorni.
Questa dimensione sensoriale svolge il suo ruolo, è evidente, nei fenomeni della
nostra memoria: ritroviamo in una città, per la nostra pena o il nostro piacere,
quel che ci avevamo lasciato: l’odore caldo e misto di disinfettante dei corridoi
del metrò, l’odore di carbone che aleggia d’inverno su certe città dell’Europa
dell’Est, una luce particolare – cieli rosa a Parigi, ancora più intensi a Roma e, a
Bruxelles, un cielo blu plumbeo, a volte, che farebbe scambiare Magritte per un
pittore realista…
Incontrare la città è quindi molto spesso scoprire tutto un dispositivo sensoriale,
affrontare un’aggressione o un’invasione dei sensi. Il romanzo, il teatro e il
cinema hanno sfruttato questo tema a loro modo, montando un’operazione
estetica che mira spesso a suggerire considerazioni sociali attraverso le immagini.
[…]
Il tessuto urbano interstiziale, all’interno di una stessa metropoli e che salda
una città a un’altra lungo fiumi o vie di comunicazione, è, nei paesi
industrializzati, largamente influenzato dagli sconvolgimenti della
organizzazione della produzione. In tutti i paesi la ‘miseria del mondo’ vi si
raduna. Vi si può notare, parallelamente, una grande concentrazione di spazi del
tipo di quelli che ho proposto di chiamare “nonluoghi”: incroci autostradali,
aeroporti, ipermercati, zone di stoccaggio e a volte di vendita, in particolare dei
prodotti che accelerano la circolazione e la comunicazione: automobili, televisori,
computer…Lo spazio urbano perde le sue frontiere e, in una certa misura, la sua
forma.
In certi organismi urbani si assiste alla creazione di nuove linee di divisione e di
insularità proprio nel cuore della città: edifici iperprotetti da sistemi di sicurezza
molto elaborati, quartieri privati, città private a volte, all’interno delle quali la
vita si organizza in primo luogo in funzione dei problemi detti di sicurezza, cioè in
funzione di uno scontro virtuale (ed episodicamente messo in atto) tra ricchi e
poveri. Lo spazio di coabitazione tende a frammentarsi in fortezze e ghetti
collegati soltanto dalle reti televisiva e telematica. Lo spazio urbano perde la sua
continuità.
L’onnipresenza dell’immagine televisiva è soltanto uno degli aspetti della messa
in spettacolo più generale della società metropolitana. L’invasione della “fiction”
è evidente nei parchi di ‘divertimento’ che , negli Stati Uniti e in Europa,
s’inseriscono nel reticolo delle strade e delle città. È un fenomeno che fa della
metropoli uno spettacolo per coloro che, nella periferia ricca di case popolari, si
considerano sempre più “fuori della città” – forse si potrebbe dire “fuori della
scena”. I giovani della banlieue parigina, per esempio, possono al fine settimana
sbarcare direttamente nel Forum delle Halles, che costituisce un luogo sacro di
esposizione dei simboli della società dei consumi. Il gioco d’immagini loro
proposto può suscitare tanto la violenza quanto la fascinazione.
Si chiude dunque il cerchio che, da uno stato in cui le finzioni si nutrivano della
trasformazione immaginaria del reale, ci fa passare a uno stato in cui il reale si
sforza di riprodurre la finzione. Forse, portato a termine, un simile movimento
rischia di uccidere l’immaginazione, di disseccare l’immaginario del soggetto
metropolitano.
M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri 2009
Osservando e le donne, gli uomini, i giovani della
nostra epoca postmoderna, non si può non
avvertire il diffondersi di una malinconia
generale, come fosse una radiazione cosmica di
fondo, composta insieme di depressione e
euforia, esplosa da qualche parte. E’ come
un’umidità di “passioni tristi”, di stanchezza
atmosferica, che filtra negli stati d’animo, nei luoghi di lavoro, nelle case della
nostra città. Costatiamo la difficoltà dei soggetti di oggi di disporre di puntiguida, sia per sostenere in modo chiaro le loro decisioni, sia per analizzare le
situazioni con le quali devono confrontarsi. Alcuni parlano di una nuova
economia psichica: non si tratta di semplici modificazioni nel sociale e delle loro
incidenze sulla soggettività di ciascuno, ma di una mutazione inedita che sta
producendo i suoi effetti. Effetti che possono riguardare tanto la vita collettiva
quanto l’individuo. In ogni caso, appare evidente un nuovo modo di pensare, di
giudicare, di vivere la sessualità, il matrimonio, i legami, la famiglia, lo spazio
civile, gli ideali, di comprendere e volere se stessi.
La lettura radicale della situazione ci induce a tenere conto di un cambiamento di
grande ampiezza, dalle conseguenze antropologiche incalcolabili, che postula un
legame diretto fra un’economia liberale e sfrenata – siamo la prima generazione
di consumatori “non contriti” – e una soggettività che si crede libera da ogni
debito nei confronti delle generazioni precedenti. Una cultura che produce un
soggetto che crede di poter fare tabula rasa del suo passato e terra bruciata
verso il futuro. Charles Melman parla di uomini senza gravità, quasi dei mutanti:
stiamo assistendo a una vera e propria interiorizzazione del modello del mercato
– un evento dalle conseguenze radicali, che si inizia appena a intravedere.
Da una parte, siamo passati da un’economia psichica organizzata secondo la
rimozione e il controllo a una basata sull’esibizione del godimento: basta aprire
una rivista, accendere la TV, ammirare i profili Instagram di personaggi noti della
nostra società e ci si trova soggiogati dall’esibizione impudica del godimento.
Dall’altra, siamo diventati una sorta di funzionari chiamati a garantire,
conservare, produrre ben-essere: occorre vegliare sul ben-essere di noi stessi, dei
nostri studenti, dei nostri figli. Questa condizione comporta doveri radicalmente
nuovi, insieme a impossibilità, difficoltà e sofferenze diverse. […]
Entro questo contesto psichico, l’individuo metropolitano si sente
progressivamente sempre più circondato da estranei, soprattutto negli spazi
urbani che si sono infinitamente estesi: nelle megalopoli globali le possibilità di
contatto e le esperienze di prossimità reale si riducono, o si concentrano in
comunità identitarie, tendenzialmente refrattarie alla diversità. […]
Nello stesso tempo è la città stessa che può farsi racconto biografico, scrittura di
vita di coloro che la abitano. Ed è essa stessa generatrice di affetti, in quanto
luogo etico ed estetico della vita comune. Può suscitare un senso di gloria per la
sua struggente bellezza, per la sua storia; può fare pietà, per la sensazione che
non si riesce a governarla e a valorizzarla, per la sua tendenza a perdersi, anche
contro la sua volontà; può essere il luogo di una malinconia profondissima, per il
suo fascino imprendibile o per l’idea che non ci si abituerà mai, che non sarà mai
nostra. Per l’aura indescrivibile che emana, ma anche per la sua ineluttabile
povertà. Ci sono piazze dove si vorrebbe immediatamente mettersi a giocare e
periferie che sono come animali morenti, i cui edifici sembrano pieni di lacrime.
[…]
Ma è precisamente in questo tessuto urbano, a tratti infeltrito, sdrucito o
strappato, che occorre intrecciare fili di sensibilità sottili e inserire punti di
cucitura nascosti. E’ un lavoro artigianale, che difficilmente potrà essere
realizzato a macchina. Servono soprattutto una precisione di affetti e una
speciale ricettività per i segni, capaci di sondare ogni volta la temperatura
dell’acqua. E servono mani ancora capaci di ricamare carezze e di sfiorare,
leggere, gli orli e le pieghe delle tante vite in gioco.
I. Guanzini, Tenerezza.La rivoluzine del potere gentile, Ponte alle Grazie 2017
La nostra emotività può essere educata e, se
vogliamo una società migliore, deve essere
educata.
Ogni giorno i giornali fanno l’elenco degli
attacchi furiosi sprigionati dagli impulsi sfuggiti
al nostro controllo. Veniamo così a sapere di
segretarie massacrate davanti al loro computer,
di vicini di casa che tentano di stuprare la donna
della porta accanto, di inviti a ragazze che, ignare, trascorrono con amici l’ultima
sera della loro vita, di neonati abbandonati nei cassonetti, di figli che a martellate
uccidono i genitori in un crescendo che, fra i paesi industrializzati, colloca l’Italia
al secondo posto dopo gli Stati Uniti.
A ciò si aggiunge un incremento esponenziale dei fenomeni di depressione, con
una percentuale tripla, per i nati dopo il 1945, rispetto a quella dei loro nonni, e
con tassi di suicidio che hanno subìto un’impennata soprattutto fra i giovani,
vittime di insuccessi scolastici, di delusioni d’amore e persino della congiuntura
economica in un contesto, tipico delle società avanzate, dove il denaro è l’unico
generatore simbolico di tutti i valori.
Che c’entra tutto ciò con l’educazione delle emozioni? Centra perché chi non sa
sillabare l’alfabeto emotivo, chi ha lasciato disseccare le radici del cuore, si
muove nel mondo pervaso da un timore inaffidabile, e quindi con una vigilanza
aggressiva, spesso non disgiunta da spunti paranoici che inducono a percepire il
prossimo innanzitutto come un potenziale nemico da temere o da aggredire.
Dispongono ancora i nostri giovani di una psiche capace di elaborare i conflitti e
quindi, grazie a questa elaborazione, di trattenersi dal gesto? Esiste nella loro
cultura e nelle loro pratiche di vita un’educazione emotiva che consenta loro di
mettere in contatto e quindi di conoscere i loro sentimenti, le loro pulsioni, la
qualità della loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure il mondo
emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non
sanno dare neppure un nome? Se così fosse, di fatti simili a quelli sopra elencati
aspettiamocene molti, perché è difficile pensare do poter governare la propria
vita senza un’adeguata conoscenza di sé. […]
Tra una palestra e un corso di nuoto perché bisogna crescere con un bel corpo,
tra una spiegazione ora sbrigativa, ora articolata, ora un po’ imbrogliata perché
bisogna diventare intelligenti, quanto passa tra genitori e figli di quella
‘comunicazione indiretta’ per cui si sente nella pancia, prima che nella testa, che
del padre e della madre ci si può fidare , perché li si avverte al proprio fianco fin
dai primi movimenti impacciati della vita? Cura del corpo, cura dell’intelligenza,
ma quanta cura dell’anima?
U. Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli 2003
DALLA RASSEGNA STAMPA
Animali da bar, di Nicola Arrigoni, www.sipario.it
Assistendo ad Animali da bar di Gabriele Di Luca vengono in mente Stefano Benni
di Bar Sport o Il bar sotto il mare, ma anche
i nuovi arrabbiati della drammaturgia
anglosassone e irlandese... In Animali da
bar si ride e si piange insieme, la comicità a
cui Carrozzeria Orfeo ha abituato il suo
pubblico è una comicità crudele, spietata,
come il linguaggio diretto, senza peli sulla
lingua. Carrozzeria Orfeo sa far propria una
modalità di scrittura drammaturgica di
matrice anglosassone che con incisività e spietatezza mette alla berlina vizi e
stereotipi di un presente che si esprime in una risata sarcastica e bruciante. In
Animali da bar Di Luca racconta di un mondo sospeso fra un dentro e un fuori
che assomiglia a una tana in cui gli avventori possono mostrare a consimili le
proprie debolezze e sconfitte. Il bar è una sorta di rifugio per una serie di strani
figuri, dei disperati, talmente tragici e allo sbando da suscitare una catartica
risata non priva di amarezza. C'è il vecchio razzista che smadonna dalla sua
stanza e che tiene in scacco la barista ucraina che per arrotondare affitta il suo
utero a una coppia italiana. C'è un imprenditore di pompe funebri per animali in
cerca di successo e che alla fine confessa che il suo sogno è quello di avere una
casa, una moglie e dei figli e la sua condanna è la solitudine. C'è il buddista inetto
che si fa maltrattare dalla moglie e che alla fine avrà modo di liberarsi da quella
tirannia. C'è lo zoppo bipolare che svaligia le case e ha il complesso di avercelo
piccolo, c'è uno scrittore alcolizzato che deve scrivere un romanzo sulla Grande
Guerra... Sono questi i caratteri, gli stereotipi di una umanità disperata che
Gabriele Di Luca – nei panni dell'esilarante impresario di pompe funebri –
orchestra con convincente e rassicurante scrittura drammaturgica. Intorno a quel
bancone da bar i personaggi si raccontano, si confessano, si svelano, complice la
potente e aggressiva barista di Beatrice Schiros che con la sua faccia e la sua
presenza scenica è un portento, dà credibilità e verità a qualsiasi cosa. Intorno a
questa figura di disperata che attacca per non essere mangiata e per essere stata
troppe volte 'violentata' si muove un'umanità allo sbando, una serie di caratteri
che pian piano si svelano, o meglio svelano quell'umanità che la vita e le sfighe
hanno sommerso e annichilito. Animali da bar funziona, ci si affeziona quasi ai
personaggi, ci si ritrova a ridere di loro e un momento dopo ad essere solidali con
le loro sofferenze e angoscia. Gabriele Di Luca e tutta la compagnia, Beatrice
Schiros, Paolo Li Volsi (lo scrittore), Pier Luigi Pasino (lo zoppo), Massimiliano
Setti (il buddista) sono gli ingranaggi di un meccanismo scenico e drammaturgico
che si porta via il pubblico, lo diverte e lo fa riflettere, gli butta in faccia una
disperazione esistenziale che solo apparentemente è lenita dalla comicità. Alla
fin fine quei tipi umani pur nella loro follia sono rassicuranti e destinati ad un
finale se non positivo, perlomeno carico di speranza, finale chiuso dallo scrittore
che confida alla platea di non aver scritto il romanzo sulla Grande Guerra ma
un'altra storia dal titolo: Animali da bar. Forse la pièce rischia di avere due o tre
finali, ad un certo momento sembra procedere sotto la necessità di chiudere ogni
singola storia, quasi a non voler lasciare insoluta quella narrazione, quella storia
che nel meccanismo del racconto si compie e si giustifica. Il pubblico si gode dalla
prima all'ultima battuta, partecipa, si diverte, si gela davanti al dolore: insomma
Animali da bar arriva e si conquista il consenso plaudente della platea.
Dal Barfly agli Animali da Bar, www.fermataspettacolo.it
Richiamando il Bar Sport di Stefano Benni,
ma con uno stile più affumicato e
allucinato, Animali da Bar della Compagnia
Carrozzeria Orfeo è un luogo di atmosfere
grunge e punk, dove i Blues Brothers,
idealmente, potrebbero bere un drink con
Bukowski. A Charles Bukowski si ispira
proprio il drammaturgo (nonché attore e
regista) Gabriele Di Luca per il personaggio
incarnato nello spettacolo, tale Swarovski, scrittore nichilista, giudicante,
fastidioso come il Barfly (letteralmente moscone da bar) del 1987, film
sceneggiato da Charles Bukowski e prodotto da Francis Ford Coppola.
Volteggiando dalla narrativa al teatro – passando per il cinema – la scrittura si
svela nuovamente come una maledetta benedizione, trasfusione di vita per
rianimarsi dal sadismo occidentale e dagli acidi spacciati in televisione e in
politica da una società allo sbaraglio – se analizzata a perdita d’occhio. Siamo
tutti confusi e incatenati, siamo tutti Animali da Bar, ma cerchiamo
inevitabilmente l’altro.
Nell’isola infelice ricreata con una scenografia impeccabile – un bancone da bar
rilucente e cupo che si snoda in una curva, campane tibetane che calano dall’alto
– prendono forma le esistenze microbatteriche di personaggi interpretati senza
retorica e passi falsi, una su tutti da Beatrice Schiros. Attrice di positiva
prepotenza, mangiatrice di energia scenica, drammatica e pulp, decisiva e
morbida, riesce perfino a svelare lati romantici della sua Mirka, barista ucraina
che affitta l’utero per 35.000 euro e beve vodka come una spugna – a cui non ti
puoi non affezionare. La circondano una voce registrata, quella di Alessandro
Haber (spassoso vecchietto in fin di vita, che parla attraverso una radio), e un
ladruncolo con manie suicide, e il buddhista massacrato di botte dalla moglie, e
l’imprenditore cocainomane.
Tra qualche luogo comune e una volgarità di troppo, il design delle luci è
implacabile come un brano drum&bass e rende appetibile la storia, fatta di
catarsi in fronte al cesso o all’eterno bicchiere di birra; di sbalzi d’umore, viaggi
mentali, incontri con gli alieni di chi si rifugia nella droga o nell’alcool, per
dimenticare abusi e violenza.
Nel tombino fioriscono anche improbabili amori e gesti di compassione – perfino
da parte di Swarovski - si gioca alla roulette russa e si giunge allo strascico finale,
dal beat inferiore rispetto all’inizio e alla parte centrale dell’opera. Come andò a
finire? Il romanzo sulla Grande Guerra che il cinico Swarovski tentava inutilmente
di scrivere, diventa il copione di Animali da Bar, dove si svelano i destini di Colpo
di frusta, del nonnetto, Sciacallo e gli altri.
Perché abbassare il ritmo, ci chiediamo, di uno spettacolo che tiene svegli,
stranamente, nel panorama piuttosto assonnato dell’arte teatrale italiana?
Animali da bar: le vittime e i carnefici di Carrozzeria Orfeo, di Alessandra
Lacavalla, www.corrierespettacolo.it
Prendete una metropoli imprecisata e un quartiere che si sta popolando di
orientali. Metteteci dentro un bar malandato e piazzateci all’interno un gruppo di
avventori piuttosto strani. Otterrete in questo modo parte degli ingredienti che
compongono Animali da bar, nuovo lavoro della compagnia Carrozzeria Orfeo,
costituita nel 2007 da Massimiliano Setti, Gabriele Di Luca e Luisa Supino, i quali
sono autori, registi e interpreti dei propri spettacoli, curandone anche la
composizione delle musiche originali. Freschi di premiazione (hanno ricevuto lo
scorso giugno il Premio Hystrio – Castel dei Mondi 2015), gli attori portano in
scena uno spettacolo diretto da Alessandro Tedeschi, Massimiliano Setti e
Gabriele Di Luca, autore quest’ultimo, anche della drammaturgia. I protagonisti
di questa pièce pungente – le battute serrate vengono sparate quasi fossero una
raffica di proiettili da conficcare dritto nel cuore – sono dei veri e propri animali
notturni, tutti illusi perdenti, protagonisti della loro tragedia personale. Sono gli
ultimi della lista, di quelli che rimangono una vita in panchina ad attendere il loro
turno per un momento di gloria: Milo, un rampante imprenditore ipocondriaco,
gestisce un’azienda di pompe funebri per animali di piccola taglia; Sciacallo, un
ragazzo bipolare rimasto zoppo dopo aver tentato il suicidio, deruba le case dei
morti il giorno del loro funerale; Swarovski, strizzando l’occhio al più famoso e
altrettanto “maudit” Bukowski, è uno
scrittore alcolizzato e fallito, costretto
dal suo editore a scrivere un romanzo
sulla Grande Guerra. Si troveranno a
condividere lo spazio del bar insieme ad
una donna ucraina dal passato difficile
che affitta l’utero alle coppie italiane, un
buddista che lotta per liberare il Tibet
ma si fa malmenare dalla moglie violenta e il vecchio proprietario del bar – la
voce di un cinico e incattivito Alessandro Haber, mai presente in scena – un
malato terminale, misantropo e razzista, che, nel suo appartamento sopra al
locale, costruisce bombe per uccidere i cinesi invasori del quartiere e comunica
solo tramite interfono. Il bar diventa il campo di battaglia di queste anime che si
dichiarano giorno dopo giorno una guerra spietata, sanguinosa e cruenta, tra
sproloqui, umiliazioni continue e gravi offese. Ce n’è per tutti, dai pregiudizi alle
calunnie, in uno spazio che diventa microcosmo di fallimenti, paure, rabbia
incontrollata nei confronti della vita e delle proprie scelte. Ognuno di loro,
nonostante gli evidenti insuccessi, tira a campare, credendo che il domani avrà
un sapore diverso. Ognuno aggrappato alla speranza di essere finalmente
accettato e apprezzato dagli altri. Nessuno di loro però riuscirà ad uscir fuori da
questa spirale infetta di nichilismo e distruzione. Animali da bar non consente
nessuna salvezza, nessuna possibilità di riscatto. Il testo è tagliente come lame
appena affilate e si fa carico di affrontare temi scomodi anche in modo
politicamente scorretto. Nonostante tutto questo sprofondare continuo in un
abisso infinito, gli eccezionali attori – va ricordata in primis la scena iniziale tutta
in rewind – Beatrice Schiros, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Pier Luigi
Pasino e Paolo Li Volsi, riescono a far sorridere il pubblico sull’amara
consapevolezza della realtà circostante.
“È tutto in quel nome. Da una parte il senso pratico, lo sporcarsi le mani, la
conoscenza del mestiere. Dall’altra il volo dell’arte sopra la realtà, inseguendo
urgenze e ispirazioni. Si aggiunga una buona dose di comicità e una spruzzata di
follia anarcoide e si ha la ricetta di Carrozzeria Orfeo”, queste le motivazioni dei
membri della giuria Premio Hystrio – Castel dei Mondi 2015.
Impossibile dargli torto.
Affresco a tinte forti per gli Animali da bar della Carrozzeria Orfeo, di
Tiziana Montrasio, www.ilsole24ore.com, 15 gennaio 2016
Cinici e abietti ‘animali' notturni si ritrovano intorno al bancone di un bar dove
intrecciano le loro esistenze in un crescendo di episodi grotteschi e demenziali. Al
centro lei, la barista ucraina che dalla vita ha incassato solo il peggio interpretata dalla brava Beatrice Schiros – che assorbe e rilancia gli umori che la
circondano. Feroci, disillusi e perdenti, ma anche inetti e ingenui, soprattutto
senza filtri, insomma animali da bar.
L'allestimento è pregno di temi difficili e contrastanti, ma attuali: dalla gravidanza
surrogata con affitto d'utero, all'integralismo religioso e ultra-vegano, dal cinismo
di chi pianifica furti nelle case dei morti alle velleità di un becchino per animali di
piccola taglia, fino alla xenofobia e ai desideri di vendetta con sterminio di intere
classi di liceali. E' proprio in questo impasto che si riconosce la cifra stilistica di
Carrozzeria Orfeo, gruppo già apprezzato lo scorso anno con Thanks for Vaselina.
Nell'ultima proposta teatrale i toni appaiono più cupi e pesanti, le fughe
demenziali si sono ridotte per dar spazio a storie più fosche. Sul lungo bancone
nero che occupa il palcoscenico vengono vomitate le amare testimonianze di
uno scrittore frustrato e alcolizzato che
ricalca un po' il profilo di Charles Bukowski,
un piccolo imprenditore senza scrupoli, un
soggetto bipolare, un buddista che si nutre
solo di mele, una gravida barista dell'est
che ha affittato l'utero e un vecchio
razzista e misogino che si fa sentire solo via
interfono con la voce dell'attore
Alessandro Haber. Un'accozzaglia dove non
sembra fondamentale capire il senso delle singole colorite vicende, ma piuttosto
assorbire il ritmo di un canovaccio che trasporta in ambiti spesso inesplorati.
A differenza della precedente proposta teatrale, Animali da bar appare più
muscolare e cruenta - fatta eccezione per un breve intermezzo romantico fra la
barista e il buddista e un esilarante siparietto sempre della Schiros che si scatena
in una canzone dei cartoni animati – non a caso la regia sceglie di collocare in
scena un pissoir dove i protagonisti mimano il gesto fisiologico di fronte al
pubblico. Meno sorprendente e spumeggiante del precedente, insomma, ma
certo non meno interessante. Non è sempre facile mantenere un modello
estremo, ma il gruppo riesce anche in questo caso a non deragliare costruendo
uno spettacolo che cattura l'attenzione per oltre 90 minuti e che di replica in
replica non potrà che migliorare. Alla fine un'esperienza positiva che vale la pena
di condividere perché loro, la compagnia Carrozzeria Orfeo, hanno scelto un
nome che nasce proprio dalla contrapposizione di parole tra loro molto diverse:
“la concretezza di una carrozzeria e il simbolo dell'arte, la fatica del mestiere, il
sacrificio e la manualità dell'artigiano, e allo stesso tempo la volontà di vivere
un'esperienza onirica”. Ci sono riusciti.
Paradossi e ipocrisie del nostro tempo, di Chiara Benedettini,
www.drammaturgia.fupress.net, 20.12.2016
Animali da bar è l’ultimo spettacolo di Carrozzeria Orfeo, la compagnia fondata
nel 2007 da Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, insieme a Luisa Supino.
Tutto si svolge in un bar, dove si intrecciano in modo sterile le vicende di sei
avventori: uno scrittore alcolizzato stretto tra le pressioni dell’editore e le sue
aspirazioni letterarie; un vecchio malato e incattivito che parla attraverso una
sorta di interfono con quella che pare essere la sua badante; la “badante” stessa,
che è poi la barista del locale in questione, impiego che non le impedisce di
affittare il proprio utero a una coppia italiana per una cospicua ricompensa. C’è
poi il marito della coppia, che arriva nel locale per vedere come prosegue la
gravidanza, “sostenuta” dalla badante/barista con frequenti “cicchetti” di vodka
(un futuro padre pacifista che però subisce continue violenze domestiche dalla
moglie). Completano il gruppo un imprenditore depresso che opera nel settore
delle pompe funebri per piccoli animali, e un mezzo ladro mezzo alienato che
svaligia le case dei morti durante i loro funerali.
Il riferimento agli “animali” fa inevitabilmente pensare a una serie di “esemplari”:
personaggi potenzialmente reali ma allo stesso tempo dei “tipi”. Uno zoo crudo,
triste e feroce. Il risultato è un quadro a metà tra follia e realtà, tra ironia e
disperazione, guardando il quale si ride e si pensa, non sempre in quest’ordine, e
spesso nello stesso momento.
Lo spettacolo è bello e ben fatto: la scena è concreta e astratta al punto giusto,
tale da suggerire contemporaneamente un luogo reale e archetipico. Il disegno
luci di Giovanni Berti è semplice ma ben concertato, con atmosfere realistiche e
stranianti insieme. Tempi di regia, ritmo sono ben calibrati, tanto da ottenere
non solo l’attenzione ma anche l’adesione dello spettatore, e l’allestimento
risulta di ottima fattura, curato in ogni punto. Elementi di spicco restano
soprattutto il lavoro degli attori (in scena
oltre a Setti e Di Luca troviamo Beatrice
Schiros, Pier Luigi Pasino e Paolo Li Volsi),
che ci è sembrato serio e approfondito, di
grande qualità e mestiere, e il testo di
Gabriele De Luca, autore e attore della
compagnia. Un testo con tante parole che
raccontano, spiegano, scavano le vicende e
gli abissi dei personaggi, dal preciso
andamento teatrale e pregnanza di
significati. Perfino il cartellone dello spettacolo è disegnato con gusto, e allo
stesso tempo suscita curiosità e sconcerto per la sua asprezza.
Intendiamoci, non si tratta di uno spettacolo infiocchettato, di maniera: i temi
sono crudi e attuali, come lo è anche il linguaggio scelto dall’autore. Al degradarsi
dei rapporti, l’incomunicabilità che rende tutti soli, lo squallore della vita
quotidiana, le difficoltà di “sbarcare il lunario”, fino all’impossibilità di creare
relazioni affettive, fa da sfondo il tema della mercificazione di ogni sentimento e
rapporto. Della vita: l’utero in affitto di Mirka costa tremila euro più le spese, il
figlio è atteso come una merce qualsiasi. I rapporti sono basati sull’interesse e
sulla rivincita illusoria: lo scrittore si accanisce sul mezzo ladro mascherando le
proprie sconfitte; la morte è una occasione per ottenere vantaggi, da un’eredità
a un furto in appartamento.
Eppure il quadro che ne emerge non è spinto fino all’estremo, e di tanto in tanto
lo spettatore può tirare il fiato intravedendo uno spiraglio in una battuta ironica
o in un siparietto simil romantico (il seppur sarcastico ma quasi tenero
appuntamento tra Mirka e il padre del bambino). Soprattutto si può leggere una
vena di non adesione, e forse anche di condanna, per quanto rappresentato. Se
non una possibilità di riscatto, almeno una denuncia dello squallore, in una
prospettiva che guarda al futuro, specie nel finale.
Carrozzeria Orfeo è un sodalizio artistico che tocca tutti gli aspetti della
creazione: dalla scrittura alla regia, dall’interpretazione alle musiche originali, con
un procedimento di creazione collettiva tipica del lavoro della compagnia. Un
lavoro che ha ricevuto già diversi premi, tra i quali il premio SIAE alla Creatività,
ricevuto a Spoleto da Gabriele Di Luca nel 2013, e il Premio Hystrio Twister,
attribuito proprio ad Animali da bar dai lettori della rivista «Hystrio» nel 2016,
sulla base di una votazione online tra dieci opere selezionate dalla redazione.
Una compagnia giovane quindi, che affronta i temi dell’oggi; eppure Carrozzeria
Orfeo ha deciso di confrontarsi con argomenti e quesiti contemporanei
attraverso un linguaggio che potremmo definire tradizionale. Con un testo che è
fatto di parole scritte e recitate, di dialoghi e di tirate; con un approccio attoriale
basato sull’interpretazione verbale e sui gesti del quotidiano; con una scena
didascalica e tipica allo stesso tempo; con una messinscena insomma che si basa
su un linguaggio “classico”.