Luca Pandolfi
L’interpretazione dell’altro
Per un’antropologia visuale dialogica
DALLA FOTOGRAFIA SOCIO-ETNOGRAFICA
AL DIALOGO TRA LE CULTURE
Prefazione di
Massimo Canevacci
ARACNE
Copyright © MMV
ARACNE EDITRICE S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
00173 Roma
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
06 93781065
telefax 72678427
ISBN 88–548–0068–6
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
I edizione: maggio 2005
Questo lavoro è dedicato all’Associazione
S.A.L., Solidarietà con l’America Latina; è la realtà dove è nato
ed è stato realizzato. A tale Associazione saranno devoluti tutti i
proventi derivanti dai diritti d’Autore sul libro.
È dedicato quindi ai compagni di strada del S.A.L.,
Alessandra, Alessandro, Cecilia, Chiara, Claudia,
Cristiano, Fredis, Nausica, Serena e Silvia.
È dedicato anche ad Alberto, Fabio B. e Fabio P. che mi hanno
accompagnato con le loro fotografie
e la loro passione.
Ma in forma particolare è dedicato a tutti gli amici
latino-americani incontrati in Italia e nel loro
Continente. Non hanno mai smesso di
sorprenderci con la loro saggezza, con la loro speranza e con
la loro forza di vivere e lottare per un mondo
migliore per tutti.
Scrivere tutti i loro nomi,
oltre ad Andrey, Diana, Edith, Isabel, Gabriela,
Mauricio, Ruth, Gloria, Rosa, Mauricio, Luís, Nimia, Amalia e
Ruth, cioè coloro che hanno vissuto con noi quest’esperienza di
dialogo, occuperebbe ben più di una pagina.
Con loro, con tutti loro, vogliamo continuare a
camminare, interpretare e trasformare insieme
il mondo e la storia.
INDICE
Pag.
11
Prefazione
di Massimo Canevacci
23
Introduzione
PARTE PRIMA
1. Presupposti teorici
31
37
39
1.1. Antropologia culturale e questioni di
ermeneutica
1.2. Un percorso di antropologia visuale
1.3. Riflessione antropologica e fotografia
2. La fotografia come rappresentazione dell’altro
44
48
51
2.1. La fotografia come rappresentazione
dell’altro in antropologia
2.2. La rappresentazione dell’altro nel
dialogo interculturale
2.3. Un’esperienza di antropologia in
dialogo: il Progetto “Fotografandoci”.
Premesse storiche
7
8
Indice
PARTE SECONDA
3. Il Progetto “Fotografandoci”: l’esperienza e la
rilettura antropologica
63
67
72
77
3.1. Le fasi della ricerca
3.2. Gli strumenti metodologici
3.3. I soggetti coinvolti
3.4. Il materiale fotografico, la rilettura, i
dibattiti, i commenti
78
3.4.1. Foto di giovani romani in America
Latina presentate a giovani latino-americani
presenti a Roma
78
93
107
117
3.4.2. Perù
3.4.3. El Salvador
3.4.4. Chiapas (Messico)
3.4.5. Brasile
PARTE TERZA
4. Analisi critica del materiale fotografico e delle
riespressioni
139
147
4.1. Il rapporto tra le immagini e le
interpretazioni degli autori
4.2. Il rapporto tra le interpretazioni degli
autori e i soggetti delle culture rappresentate
5. La foto come proiezione di un “pre-giudizio”o
di un simbolo
157
5.1. La foto come proiezione di un pregiudizio
e come “fissazione/comunicazione” di
uno stereotipo
Indice
164
168
9
5.2. La foto come espressione di una realtà
interpretata e riappropriata: i simboli e
la produzione di cultura
5.3. Verso un’esperienza critica di
intercultura
6. Considerazioni conclusive
169
172
6.1. L’incontro tra le culture e la prospettiva
dialogica
6.2. Percorsi aperti e vie dell’immagine
177
Bibliografia
185
Appendice 1
Le 7 sequenze di 5 foto selezionate dagli autori
201
Appendice 2
L’Associazione S.A.L. - Onlus
Solidarietà con l’America Latina
PREFAZIONE
di Massimo Canevacci*
Transiti sincretici
La dialogica etnografica tra etero
e auto–rappresentazione
Transiti della rappresentazione
La sfida dell’antropologia contemporanea passa sul come
la tensione, la dialogica e anche il conflitto tra etero e auto–
rappresentazione verrà affrontato e risolto di volta in volta secondo procedure non più unificate bensì decentrate e multiple.
Le procedure metodologiche secondo cui tradizionalmente
l’antropologo/a rappresentava l’altro con le sue logiche esterne,
con scritture o fotografie aliene, con le sue autorità discutibili, si
sono esaurite sotto le spinte post–coloniali.
Tale etero–rappresentazione ha avuto e continuerà ad avere un ruolo importante, ma non più unico e tanto meno centrale, in quanto incardinata nell’unica figura possibile di un ricercatore esterno al contesto culturale.
Accanto, di lato e spesso contro tale discorso si colloca
con sempre maggiore forza espressiva e concettuale la auto–
rappresentazione, cioè i modi anch’essi plurali attraverso cui
quelli che a lungo sono stati considerati solo oggetti di studio si
*
Massimo Canevacci insegna Antropologia Culturale all’Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Scienze della Comunicazione.
È autore tra l’altro di Antropologia della comunicazione visuale, La
città polifonica, Culture eXtreme, Sincretismi. Dirige “Avatar”, rivista
di antropologia, comunicazione e arti visive.
11
12
Massimo Canevacci
rivelavo soggetti che interpretano in primo luogo se stessi e poi
anche la cultura dell’antropologo. Queste modalità interpretative non sono più relegate alla sfera assegnata loro da quelle impostazioni impresse da Geertz, inizialmente innovative ma che
poi si sono istituzionalizzate in procedure dicotomiche e gerarchiche; queste sconvolgono le nuove frontiere del linguaggio
iconico e infine digitale: foto, video, Internet (sono sempre più
numerosi i siti prodotti da INDIAnet), cd musicali e cdrom. Insomma le nuove tecnologie e le nuove soggettività sfidano il
monopolio ormai obsoleto della sola scrittura accademica connessa a un unico soggetto legittimato.
Questo sconvolgimento vale anche per la comunicazione visuale. Le impostazioni linguistiche attraverso cui le immagini dell’
“altro” sono state realizzate da antropologi, giornalisti, politici locali, turisti sono tutte obsolete. I codici multi–espressivi attraverso
cui narrare la cultura o la soggettività di ogni gruppo umano non
sono più accentrati in un sapere oggettivo ristretto a un sapere tecno–scientifico e iconico–espressivo del solo Occidente: ancora adesso i modelli attraverso cui si compongono gli spazi museali dove esporre i “nativi” sono espressione di un altrove ancora etnocentricamente considerato “primitivo” o da preservare da ogni mutamento culturale o tecnologico (ecologismo razzista).
La ricerca di Luca Pandolfi — che ho conosciuto in tutta
la sua gentilezza precisa, la sua serietà critica, il suo impegno a
stare tra le cose e ancor più tra gli esseri viventi — si muove su
una prospettiva di radicale oltrepassamento di queste tradizioni
obsolete attraverso una dolcezza razionale e comunicazionale
che presenta modalità innovative con cui sperimentare la copresenza di più linguaggi e di più soggetti.
La sua comunicazione visuale è attraversata da queste
nuove soggettività che collocano le proprie auto–rappresentazioni sugli scenari mobili, di uso anche quotidiano, in cui le
immagini viaggiano in tutte le direzioni, non più solo dall’alto
(o presunto tale) del sapere antropologico–museale verso uno
Prefazione
13
spettatore congelato delle proprie certezze “civili” o, peggio ancora, “morali”. Le accese differenze che le culture native esprimono, riguardano come i linguaggi vengono costantemente costruiti, esposti e modificati: e questo vale per ogni aspetto della
vita quotidiana, dalla sessualità alla mitologia, alla cosmesi e ai
grafismi corporali, alla religione, ai rapporti tra sessi e generazioni. Queste rappresentazioni innovano la fotografia, trasformata in qualcosa di performativo e in progress, proprio in quanto sono composte da soggetti diversi che riflettono dall’interno.
Performativo: nel senso che i soggetti nativi utilizzano
complessi linguaggi attraverso cui dare senso al proprio essere
qui ed ora come appartenenti a culture vive; in progress: perché
nulla è dato una volta per tutte e quindi — specie per queste
soggettività — la loro esposizione costante sfida l’immobilità
a–temporale e a–individuale con cui troppo a lungo si è continuato ad (etero)–rappresentare l’altro.
Questo lavoro di ricerca di Luca Pandolfi si colloca esattamente su questo punto critico. Le vecchie antropologie, anche
quelle che hanno sottoposto a revisione le scritture, devono passare verso un multi–verso operativo di intrecci tra culture, di
sincretismi culturali e tecnologici, di identità in mutazione e non
più fissate in un passato a–storico. Molte persone native
dell’America Latina — che intrecciano la loro cultura indigena
con quella brasiliana o peruviana e, ovviamente, con quella globale — si stanno appropriando dei linguaggi multi–comunicazionali, delle loro complesse filosofie e mitologie che coabitano spesso conflittualmente dentro i processi di mutazione e ibridazione delle culture contemporanee. Per questo tutti noi —
antropologi e non — non possiamo rimanere tranquilli e fermi
nelle nostre passate certezze: è iniziato il tempo fantastico e fantasioso di nuove modalità attraverso cui svolgere ricerche e un
lavoro come questo di Pandolfi, contribuisce ad affermare una
polifonia di linguaggi, di stili, di metodologie, di immagini, di
suoni, insieme alle irriducibili soggettività altre.
14
Massimo Canevacci
Inter–cultura significa culture tra: in–between. Un transito
costante e ibrido tra modelli diversi dagli intrecci sorprendenti.
Come un coloratissimo tessuto patchwork. Inter–cultura favorisce l’inter–soggettività: cioè sviluppare rapporti paritari tra soggetti che esprimono la loro irriducibile differenza. Questa differenza non implica una gerarchia, un alto e basso, un inferiore e
superiore, bensì proprio la costruzione di spazi culturali post–
euclidei basati sulla molteplicità testuale e cromatica. Infine, inter–cultura libera il mix di tecnologie e comunicazione.
Sincretismi culturali, pluralità di soggetti, polifonie di
linguaggi: questa è la premessa metodologica dell’inter–cultura. Nella nuova antropologia della comunicazione visuale,
l’etnografo è legittimato a interpretare l’altro — con o senza fotografie, video, registrazioni varie — solo in quanto è disponibile a farsi interpretare dall’altro. Questa è la dialogica e questa la
sfida verso una nuova e più transitiva epistemologia della rappresentazione.
Il nativo de–nativizzato
Si sta affermando da tempo una produzione comunicazionale e anche artistica i cui “soggetti nativi” mettono in discussione questo modo di categorizzare. Artisti, antropologi, critici
d’arte, giornalisti occidentali appaiono immobilizzati nella riproduzione di stereotipi, incapaci di muoversi oltre. Cecità nel
guardare ciò che emerge. La nuova antropologia su cui Luca
Pandolfi si colloca focalizza il nesso immagine–etnicità per
problematizzare entrambi i termini. Per affermare che — tra i
diversi concetti che stanno emergendo — quello dell’auto–
rappresentazione sta facendo la differenza.
L’“altro” si è de–nativizzato. Quello che è stato il paradigma dell’antropologia — “cogliere il punto di vista nativo” —
ora sta ridefinendosi in modo ben diverso: cogliere i punti di vista polifonici dell’auto–rappresentazione in tensione dialogica
Prefazione
15
con l’etero–rappresentazione. E dentro questo prefisso — auto
— vi è un soggetto che non è più inscrivibile dentro una cultura
di appartenenza compatta, comprensibile solo grazie all’intervento esterno dell’antropologo. È l’internità stessa del soggetto alla propria cultura che libera nuovi moduli narrativi. Con
auto–rappresentazione si intende che, ad esempio, la cultura
Maya del Chiapas attuale, quella brasiliana vissuta da donne o
giovani favelados può e deve essere rappresentata anche da una
fotografia espressa da un soggetto che vive dall’interno il suo
tempo molteplice. Fuori dal potere classificatorio e così spesso
stereotipo dello sguardo occidentale pur animato da istanze
“progressive” .
Questa nuova antropologia visuale moltiplica le soggettività “native” che decostruiscono il concetto stesso di nativo. Se
prima le etichette per l’altro erano selvaggio, primitivo, senza–
scrittura, semplice, orale, ora l’uso del termine “per bene” di
nativo rimane ambigua. Nella parola si afferma una vicinanza
— solo per i creduloni innocente — con l’essere–nato, nato–lì,
come se fosse precedente e quindi più autentico perché più–
nato. Eppure tutti noi siamo nati in qualche “lì” e questo non dà
diritto ad alcuna precedenza o purezza. Solo l’ “indio” è nativo,
campione di amore–natura–animali, shamano, sessualmente puro e pre–tecnologico. A tale immagine di nativo–al–naturale,
qualche presunto “nativo” non ci sta più. Ormai siamo tutti nativi e quindi è un termine obsoleto.
Un’etnografia della comunicazione fluttuante nella contemporaneità dichiara decaduto l’uso del termine “nativo” per
indicare le popolazioni “naturali”, già “primitive”. L’alternativa
è semplice, basta sollecitare l’uso dei termini che essi stessi adottano per designarsi: Cherokee, Xavante, Tzeltal, Tzotzil, Bororo, Maya. È ora di impegnarsi a lottare anche contro l’uso di
tassonomie che riproducono linguisticamente (e non solo) il
dominio coloniale.
Queste prospettive introducono la relazione tra fotografia ed
etnografia dalla parte di un’auto–rappresentazione polifonica, sin-
16
Massimo Canevacci
cretica, fluida. Il fine è cercare di corrodere la proliferazione di stereotipi che dilagano nei media e nelle università; di opporsi a
quell’antropologia visuale che interpreta e classifica l’altro come
oggetto museale da rinchiudere, con un metodo necrofilo, all’interno dei musei occidentali o esporre nei media “ecologici”.
Critica del tribale
“La falsa terminologia usata contro di noi è così pervasiva
che tutti i vocaboli richiamano la (falsa) idea dell’indianità. La parola ‘tribù’ viene dalle tre persone che hanno fondato Roma (‘Tribunale’, basato sul numero tre, viene dalla stessa radice). Non è
una parola descrittiva, né scientifica. Il suo uso in antropologia è
stato completamente screditato, viene dal concetto europeo di progresso umano alla cui sommità ci sono le capitali europee. ‘Tribù’,
‘Capo’ e simili non descrivono una parte della realtà di nessuno;
sono descrittive all’interno di un discorso di chiusura e di conciliazione con il proposito di mostrare l’essere primitivi”
L’autore di queste riflessioni è Jimmie Durhan, artista
contemporaneo che è anche militante irregolare delle popolazioni “native” degli Stati Uniti a partire dalla rivolta di Wounded Knee. Durham è, infatti, un cherokee. Come non pochi “nativi”, anziché inserirsi nella cornice dello stereotipo dell’indiano
tribale — rinchiuso nella sua riserva per essere fotografato da
turisti amanti dell’ ”esotico” — lavora proprio per distruggere
questo sistema tardo–coloniale di classificazione attraverso le
sue opere. In esse, egli interpreta se stesso come un occidentale
si aspetta che debba essere un cherokee.
La rappresentazione stupita dello stereotipo ha come
scopo la distruzione dello stereotipo stesso. Un procedimento
eversivo. Entrare nel codice del dominio, far credere di assimilarsi ad esso e così intaccarne il potere concettualmente “scientifico”, svelandone tutte le incrostazioni che il potere del linguaggio vi ha collocato sopra.
Prefazione
17
Smontare gli stereotipi facendosi stereotipo. Lo stesso
termine “tribù” non è ancora screditato come merita dagli antropologi, mentre è usato con discriminazione implicita da sociologi, giornalisti, comunicatori di mass media. Anzi, è sempre
più frequente il suo uso per classificare con metafore nativiste le
culture giovanili “alternative” applicando loro quell’etichetta
“tribalista”. È stato L.H. Morgan — antropologo statunitense
che studiò gli irochesi nella seconda metà dell’800 — ad usare
per primo il termine tribù riprendendo il termine dall’età antica
per individuare un’organizzazione sociale fondata su legami di
parentela dentro uno schema evoluzionista (barbarie Æ civiltà).
In questo senso, società tribali e società primitive sono usate
come sinonimi. La tribù segue la banda e precede lo Stato: unità
politica acefala, comune accesso alle risorse, gruppi di discendenza omogenei, integrazione sociale, scarso potere cerci–tivo,
redistribuzione delle ricchezze ecc.
È noto che tante divisioni tribali (specie in Africa) sono
state create a fini di dominio dalle amministrazioni coloniali o
ex–coloniali. Insomma il concetto di tribù — usato in senso coloniale per individuare un’unità omogenea dal punto di vista etnico, linguistico e culturale — è la riduzionistica semplificazione di una rete di relazioni socio–culturali che congela identità
molteplici in un sistema unico, fisso e costruito dai rappresentanti del dominio occidentale. Il concetto di tribù è una finzione
antropologica mantenuta in vita da sociologi, giornalisti e molto
senso comune; il bisogno di classificazione etnica è traccia di
un dominio coloniale che si mantiene nell’era post–coloniale.
Al contrario, in questo testo l’auto–rappresentazione disloca polifonie di linguaggi in cui il soggetto latino–americano
racconta se stesso dentro e fuori le zone della propria cultura attraverso linguaggi diversificati, intaccando il potere monologico
di chi detiene il potere interpretativo e classificatorio dell’altro.
L’interpretazione di Luca Pandolfi si dialogizza con questa polifonia e ne favorisce l’autonomia discorsiva e iconica.
18
Massimo Canevacci
Latitudini delle auto–rappresentazioni
La latitudine per me è una metafora da utilizzare non come elemento di una geografia che esclude la storia, ma al contrario come una genealogia che pluralizza le storie. Una geografia come geofilia estesa a zone, contesti, culture che in genere
sono ignorati oppure affrontati ancora secondo ottiche tradizionalissime che richiedono forti innovazioni.
Questo tema é la latitudine dell’altro che proprio nelle
sue diversificate spazialità si esprime in prima persona secondo
modalità narrative molteplici. La latitudine estende lo spazio,
impone nuove modalità percettive e cognitive, decentra il modo
spaziale in cui viene osservato/ascoltato l’altro. La latitudine
rende polifoniche le narrazioni.
Partire dalla latitudine significa estendere in zone altre le
“nostre” tradizionali modi di osservazione che proprio in queste
estensioni sono sfidate, si devono sentire sfidate e dovrebbero
sentire il piacere di questo sfidare. Latitudine come emersione
di soggetti diasporici attraverso forme sincretiche. Latitudine
come estensione, eXtensione, tensione del fuori, del non classificato, tensione elastica: estensione delle differenze
L’auto–rappresentazione nel visuale può significare il
punto finale della svolta nell’antropologia iniziata con il seminario di Santa Fe nel 1984. Lì il tema era il rapporto tra scrittura
e autorità, in particolare l’autorità monologica dell’antropologo
che si assume come unica soggettività che può dar voce e senso
all’altro: il suo oggetto di ricerca. Anche se lo sforzo di chi fa
ricerca sul campo è sempre stato — a partirte da Malinowski —
“cogliere il punto di vista nativo”, pur tuttavia questo nativo
non è mai stato messo in una condizione — metodologica e filosofica — di “cogliere se stesso” e anche di “cogliere l’altro”.
Gli autori determinanti per questa svolta sono stati: Bachtin e Tedlock per i concetti di dialogica e polifonia; Benjamin
Prefazione
19
sulla scrittura per frammenti e montaggi, per le istanze di redenzioni degli offesi, per le illuminazioni su tecnologie e liberazione, per la liberazione anche delle cose della maledizione
dell’utilità; Clifford per la ripresa del nesso antropologia/avanguardie, a partire dal surrealismo; lo stesso Geertz e la sua
rivendicazione della cultura semiotica per una scrittura (e quindi
anche le immagini visuali) come fiction nel senso di costruzione
(non finzione). Per questo la scrittura antropologica è connessa
alla letteratura e le immagini etnografiche al cinema.
Polifonia significa anche il passaggio dalla scrittura —
strumento centrale per la stesura delle ricerche — alla rappresentazione anche visuale. Questo transito multi–linguistico (che
il gruppo di Santa Fé non favorisce) si accompagna ad un altro
transito: il soggetto dell’interpretazione non è più il solo antropologo, ma anche il nativo che — oltre ad interpretare se stesso
come gli riconosce l’accademia — interpreta anche l’antropologo. La scrittura è una delle voci che compie questa lettura:
non più solo la voce saggistica, ma accanto a questa — auspicabilmente modificata verso una critica sperimentale — si affiancano narrazioni di viaggio, diari, etno–poesie, arte. E soprattutto
la comunicazione visuale che contiene un ulteriore grappolo di
linguaggi: documentario etnografico, foto, cinema–fiction, pubblicità, video–arte, web–etnografia. La rappresentazione, cioè,
si avvicina a un montaggio che può essere intriso di frammenti
testuali in cui linguaggi diversi si attraversano, affiancano, miscelano, incrociano. È il tema del sincretismo tecno–sperimentale.
L’auto–rappresentazione è una prospettiva dalle implicazione multi–soggettive che può e anzi deve essere applicata non
solo nei contesti detti etnici; la prospettiva metodologica
dell’etnografia si estende sempre più all’interno delle diverse
culture interne all’antropologo: giovani, donne, minoranze varie, soggetti in mutazione, esuli, ecc., che, addestrati all’uso delle nuove tecnologie, sviluppano non solo interpretazioni su se
stessi, bensì anche una dissoluzione delle forme di potere lin-
20
Massimo Canevacci
guistico espresso da chi tende a mantenere solo per sé gli strumenti di produzione e diffusione dei media.
In conclusione, l’auto–rappresentazione disloca polifonie
di linguaggi in cui il soggetto interno si racconta dentro e fuori
(in between) diversificate zone culturali; usa linguaggi diversificati; intacca il potere monologico di chi detiene il potere interpretativo e classificatorio dell’altro.
Auto–rappresentazione oltre il doppio vincolo di omologazione oppure museificazione. Bensì come alterazione: come
estensione di latitudini linguistiche, iconiche, espressive; come
critica del tribalismo; come latitudini di identità in movimento
per trasformare i tradizionali soggetti narrati in contemporanei
soggetti narranti.
BIBLIOGRAFIA
BACHTIN M., L'autore e l'eroe, Torino, Einaudi, 1988
BENJAMIN W., Parigi capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986.
CANEVACCI M., Sincretismi, Milano, Costa&Nolan, 2004
CLIFFORD, J., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Einaudi, 1999
CLIFFORD J. – MARCUS G. (edd.), Scrivere le culture, Roma, Meltemi, 1997
DURHAM J., Cowboys e…, in “Avatar” n. 3, Roma, Meltemi, 2002
GEERTZ C., Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino,
1988
TEDLOCK D., The Spoken Word and the Work of Interpretation, University of Pennsylvania Press, 1983
21
INTRODUZIONE
Quando insieme agli amici dell’Associazione S.A.L., Solidarietà con l’America Latina, di cui faccio parte, decidemmo di
sottoporre il nostro materiale fotografico alle persone delle Comunità latino–americane con le quali collaboravamo da tempo,
mai avremmo immaginato la ricchezza di idee e i ripensamenti
che questa operazione avrebbe suscitato e fatto emergere. Il materiale era ed è costituito da sequenze di fotografie, divise per
paesi: Perù, El Salvador, Brasile, ecc. È il materiale iconografico che utilizziamo negli incontri di sensibilizzazione e formazione con scuole e gruppi giovanili o negli eventi di incontro e
informazione con la società civile: eventi costruiti per parlare di
questi paesi, della loro cultura, della loro situazione attuale,
spesso segnata dall’ingiustizia e dallo sfruttamento. Con gli amici latino americani volevamo condividere la realizzazione di
un progetto di educazione interculturale fatto di immagini e parole chiamato “Fotografandoci”.
Durante la presentazione delle fotografie e la relativa discussione, iniziai a trascrivere le interpretazioni che emergevano, i
racconti e i dialoghi tra noi Italiani e gli amici Latino–
americani; non avrei immaginato di trovarmi di fronte ad un
percorso, forse solo abbozzato, e in parte non consapevole, ma
ricchissimo, di riflessioni e interpretazioni antropologiche, di
questioni aperte circa la comunicazione visuale, di considerazioni per un’antropologia dialogica interculturale.
Il libro L’interpretazione dell’altro. Per un’antropologia visuale dialogica è appunto la trascrizione, l’interpretazione e la
rielaborazione antropologica di questo percorso, avvenuto a
Roma tra la Primavera del 2003 e l’Inverno 2003–2004.
L’approccio, tipico di una ricerca di tipo qualitativo, predilige le
23
24
Introduzione
strade della comprensione e dell’empatia contestualizzata, micro–sociologica. Cercare di cogliere il punto di vista del soggetto e far emergere l’interazione simbolica e la dinamica sociale e
culturale tra i soggetti coinvolti, ha poi segnato il lavoro di ermeneutica antropologica. In ultima analisi, oggetto della ricerca
è divenuta la stessa forma dialogica segnata dall’uso del medium simbolico delle rappresentazioni fotografiche.
L’antropologia ha una lunga tradizione esplicativa ed etnografica che fa uso diretto o indiretto della fotografia e la stessa
dinamica di immagini/simbolo o immagini/stereotipo è emersa,
con diversa consapevolezza, nelle intenzioni etiche e socio–
culturali degli autori dei fotogrammi analizzati in questo testo.
La novità forse è scaturita dal sottoporre queste immagini ai
“nativi” delle culture o società rappresentate: uomini e donne
latino americani, per lo più giovani, presenti in Italia e con alle
spalle storie recenti di immigrazione. Giovani erano anche gli
autori delle foto e giovane è in fondo l’ipotesi di
un’antropologia condivisa fatta di dialogo culturale e di ascolto
reciproco, reciproca “contaminazione”.
Persone di culture diverse hanno così condiviso la medesima
esperienza e la medesima speranza: la possibilità dell’incontro,
del dialogo e della reciproca comprensione. Operando questo
incontro attraverso le immagini e le interpretazioni, hanno percorso la strada di un’antropologia ermeneutica in fondo quotidiana, fatta di significati proposti e ricevuti, di interazioni simboliche e di ampliamenti cognitivi. La dimensione interculturale
ha evidentemente arricchito il dialogo, nella scoperta e condivisione di momenti di comprensione e incomprensione. Questo
dialogo, se scelto, se frutto cioè di un’opzione etica ed ermeneutica, diviene proprio di una cultura che si va facendo, giorno
dopo giorno, costruita ed elaborata nell’interazione fra ciò che è
tradizionale, o a noi simile, e ciò che è nuovo e diverso.
Il libro è stato pensato inizialmente per un lettore giovane,
per lo studente di etnologia e antropologia e per lo studioso di
Introduzione
25
scienze sociali e dialogo inter–culturale. Per questo ho scelto
prevalentemente uno stile discorsivo e l’uso della forma narrativa. Per questo ho preferito proporre per esteso il pensiero di
molteplici autori, quasi a ricreare un forum o meglio costituire
una piccola antologia esplicativa circa i percorsi di un’antropologia contestuale e dialogica.
L’obiettivo è che il dialogo iniziato intorno ad alcune fotografie e ai discorsi che ne scaturirono, possa continuare. Già in
questo libro, in qualche modo, continua: continua nel confronto
con il pensiero e l’esperienza di molti studiosi e ricercatori italiani e stranieri. Continua, e può continuare, con il lettore e con
le realtà e i dialoghi che questo testo saprà sollecitare.
LUCA PANDOLFI
[email protected]
PARTE PRIMA
L
a cultura di un popolo è
un insieme di testi, anch’essi
degli insiemi, che l’antropologo si
sforza di leggere sedendosi sulle
spalle di quelli a cui
appartengono di diritto.Vi sono
difficoltà enormi in questa
impresa, trabocchetti
metodologici tali da far tremare un
freudiano, ed anche alcune
perplessità morali.
Non è il solo modo in cui si
possano maneggiare
sociologicamente le forme
simboliche: esiste il
funzionalismo, così come lo
psicologismo.
Ma considerare queste forme come
se “dicessero qualcosa di qualcosa”
e dirlo a qualcuno
significa almeno schiudere
la possibilità di un’analisi che si
attenga alla loro sostanza,
piuttosto che alle formule
riduttive che pretendono di
spiegarle.
CLIFFORD GEERTZ (1998) p. 436
1. Presupposti teorici
1.1. Antropologia culturale e questioni di ermeneutica
L’antropologo culturale è un ermeneuta, è un interprete della
realtà. Non è chiamato solo a leggere ciò che gli uomini pongono o hanno posto nel mondo come espressione di se stessi e del
loro modo di percepire l’esistenza. Va oltre la lettura. Interroga
e cerca di intendere (intus legere) la cultura delle società umane: la fitta rete di segni e significati che vive nell’interazione
simbolica e nel quale e per la quale gli uomini vivono e leggono, comprendono e rielaborano la loro esistenza nel mondo.
Il concetto di cultura che esporrò — dice Clifford Geertz (N.d.A.)
— […] è essenzialmente un concetto semiotico. Ritenendo, con Max
Weber, che l’uomo sia un animale impigliato nella reti di significati
che egli stesso ha tessuto, affermo che la cultura consiste in queste reti
e che perciò la loro analisi è non una scienza sperimentale in cerca di
leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significati.1
In questo saggio mi pongo esplicitamente nel solco di questa
antropologia interpretativa che trova appunto in Geertz uno dei
suoi massimi esponenti. Ritengo, infatti, che l’antropologo non
solo osservi. Egli colloca ciò che “vede” in un contesto di segni
e di significati; contemporaneamente prende coscienza del sistema di segni e di significati che fanno parte della sua cultura,
del suo vissuto e del suo strumentario gnoseologico. Conoscendo come gli uomini conoscono, l’antropologo percepisce e riflette sulle modalità della conoscenza. Comprendendo come gli
uomini organizzano il reale, e ci vivono, riflette e approfondisce
1
GEERTZ C., Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 11.
31
32
Parte prima
i percorsi dell’essere nel mondo comprendendolo–e–trasformandolo.
Questo suo processo partecipante, e allo stesso tempo riflessivo, permette ad una quotidiana antropologia della conoscenza2
e del linguaggio di vivere un momento di tematizzazione elaborata, di “riflessione seconda”. È l’esistenza di un’ermeneutica
quotidiana e continua che rende possibile una riflessione “seconda” sugli stili, le modalità e le conclusioni provvisorie di
una comprensione e di un’interpretazione. Hans Georg Gadamer sottolinea la pretesa di universalità dell’ermeneutica come
forma di conoscenza affermando
che comprensione e intesa non indicano primariamente e originariamente un atteggiamento verso testi disciplinati metodicamente, bensì costituiscono la forma nella quale trova compimento la vita sociale
dell’uomo, che formalizzata in termini estremi, è una comunità dialogica. Da questa comunità dialogica nulla è escluso, nessuna esperienza
del mondo. Né la specializzazione delle scienze moderne e il carattere
sempre più esoterico del loro operare, né il lavoro materiale e le forme
della sua organizzazione, né le istituzioni politiche del potere e
dell’amministrazione […] si trovano al di fuori de questo medium universale della ragione (e non ragione) pratica.3
Conoscere e comprendere come gli altri conoscono, comprendono, parlano e comunicano, fa parte, infatti, in prima istanza, dei normali processi di socializzazione e inculturazione
di ogni essere umano.
L’antropologo torna su questi processi solo con una consapevolezza e una comprensione, se vogliamo, più lucida, cioè
organizzata e tematizzata.
Il lavoro che presenterò, avrà a che fare con fotografie e con
2
Cfr. APEL K.O., Scientificità, ermeneutica, critica dell’ideologia, in AErmeneutica e critica dell’ideologia, Brescia, Queriniana, 19922.
3
GADAMER H.G., L’universalità dell’esperienza ermeneutica. Replica, in
AA.VV., Op. cit., p. 289–290.
A.VV.,
APPENDICE 1
Le sequenze di 5 foto selezionate dagli autori
185
Appendice 1
ALLEGATO 1
(Foto Perù 1993/2001 – Luca)
186
Appendice 1
(La foto di Mauricio, Ecuador – Roma 2003)
187
Appendice 1
ALLEGATO 2
(Foto Perù 2003 – Alberto)
188
Appendice 1