APPUNTI
DI
ISTOLOGIA
ED
EMBRIOLOGIA
A Cura di 103010002
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1-Esame Istologico
L'istologia è la disciplina scientifica che studia i tessuti vegetali e animali. È una importante branca della
medicina, della chirurgia, essenziale per le analisi pre e post operatorie, e della biologia. I tessuti sono tipi
cellulari differenziati per forma e funzione che sono presenti solo negli animali e nelle piante.
L'istologia studia la morfologia dei tessuti, e le cellule che li compongono, sia da un punto di vista morfologico
che funzionale. Strumento essenziale per l'istologia è il microscopio ottico, che permette l'osservazione
diretta dei tessuti che si vogliono studiare. Perché tale osservazione sia possibile, tuttavia, i campioni di
tessuto devono essere lavorati e trattati in vari modi: devono essere tagliati in strisce sottilissime, così da
poter essere osservati in controluce, devono essere colorati in vari modi, così da poter essere più facilmente
riconoscibili e distinguibili, e devono infine essere trattati in modo da prevenirne la decomposizione e
permetterne la conservazione per analisi successive. Un tessuto che sia stato in questo modo trattato prende
il nome di preparato istologico.
Per prevenirne la decomposizione, i tessuti destinati all'analisi microscopica vengono trattati tramite un
processo chiamato fissazione. La fissazione è resa necessaria dal fatto che, una volta asportati
dall'organismo di appartenenza, i tessuti perdono rapidamente le loro proprietà chimiche e fisiche, sia a causa
della variazione di temperatura e di PH, sia per l'azione dei microrganismi che immediatamente attaccano ed
invadono il materiale biologico. Tramite la fissazione si riesce a ritardare, quando non ad impedire, questi
processi, e a questo scopo i tessuti appena prelevati vengono trattati con composti chimici quali alcoli e
aldeidi, i quali, appunto, fissano le molecole presenti nel tessuto nello stato chimico e nella posizione in cui si
trovano in vivo.
Un altro processo molto importante ai fini dello studio cellulare è l'inclusione: i tessuti biologici infatti, una
volta tagliati nello spessore adatto all'osservazione microscopica perdono della consistenza necessaria al loro
mantenimento. Vengono perciò inseriti (inclusi) in materiali più resistenti, che possano fungere da sostegno.
Esistono diversi materiali adatti allo scopo, ma il più usato nei laboratori è la paraffina, un composto ceroso di
natura lipidica.
Un tessuto al microscopio non può essere guardato così come è stato prelevato. Infatti a causa del suo
spessore, il microscopio non sarebbe in grado di indagare la sua struttura cellulare. Il primo ostacolo da
superare è quello di rendere il campione molto sottile. Il macchinario atto a ciò è il microtomo. Ma per
ottenere fette abbastanza sottili bisogna rendere meno molle il campione prelevato. Inoltre bisogna anche
evitare di danneggiare le cellule e gli eventuali organuli. Nel suo complesso la cellula (racchiusa da una
membrana plasmatica, al cui interno sono presenti vari organelli, tutti immersi nel citoplasma) è abbastanza
delicata. Con il processo della fissazione si evita il deteriorarsi della cellula stabilizzando definitivamente le
strutture proteiche presenti al suo interno. È ovvio che una cellula fissata non è più viva. La fissazione è
effettuata con l’uso di formalina. Risolto il problema della stabilità dei vari componenti della cellula bisogna
rendere questa più dura, in modo da poter essere affettata dal microtomo. Una sostanza molto utile, sotto
questo punto di vista, è la paraffina, un composto apolare e quindi non immiscibile in acqua. Nella cellula
fissata è ancora presente tutta l’acqua che essa conteneva, quindi per poter fare in modo che la paraffina
entri all’interno, bisogna disidratare la cellula. La disidratazione avviene con immersioni del campione fissato
in alcol a gradazione decrescente. Terminato il processo di disidratazione, l’interno della cellula viene
riempito con un composto apolare, lo xilolo. Tale fase, detta infiltrazione, è seguita dall’inclusione della
paraffina. La paraffina a 60° è liquida, ed è a questa temperatura che viene inserita nella cellula. Il campione
immerso nella paraffina liquida, viene messo in un congelatore, che abbassa la temperatura a 0° e la paraffina
solidifica. A questo punto il campione può subire la successiva fase di taglio in strisce di spessore pari ai 7µm,
che potranno poi essere osservate al microscopio.
Un altro passaggio fondamentale per permettere lo studio dei tessuti al microscopio è la colorazione; i tessuti
animali, infatti, sono nella maggior parte dei casi incolori, perché costituite in gran parte di acqua e prive di
pigmenti, e trasparenti, tanto da risultare pressoché invisibili al microscopio ottico. Sono state perciò
scoperte o realizzate, fin dalla nascita dell'istologia scientifica, una serie di sostanze coloranti, capaci
appunto di colorare le cellule, o le diverse parti di una cellula, in modo da renderle immediatamente visibili e
distinguibili. Al giorno d'oggi sono note moltissime sostanze di questo tipo, che possono essere divise in due
grandi gruppi in base ai meccanismi con cui si legano ai diversi componenti cellulari, meccanismi che dipendono
dal pH:
-
i coloranti basici, che si legano alle molecole con pH inferiore a 7 (acide), come il DNA;
-
i coloranti acidi, che si legano alle molecole con pH superiore a 7 (basiche), come gran parte delle
proteine citoplasmatiche.
Nelle analisi istologiche vengono normalmente utilizzate coppie di coloranti basici/acidi, che colorano in modo
diverso le diverse parti cellulari: un classico esempio è la colorazione con ematossilina/eosina, una delle più
comuni in laboratorio: l'ematossilina, basica, colora il nucleo in blu, l'eosina, acida, colora il citoplasma in rosa.
Esistono comunque molti altri composti, in grado di colorare organelli cellulari anche molto specifici.
Oltre ai coloranti tradizionali, negli ultimi anni hanno preso piede anche le tecniche della immunochimica per
individuare e distinguere i diversi componenti cellulari: queste tecniche, che risultano molto utili per
evidenziare singole classi di molecole all'interno della cellula, prevedono l'uso di anticorpi opportunamente
trattati, in grado di legare e visualizzare specifiche proteine, lipidi o carboidrati.
Tutti i coloranti, che normalmente vengono utilizzati, sono idrosolubili, cioè si sciolgono in acqua, quindi
bisogna reidratare il campione. La paraffina viene sciolta nello xilolo, e il processo di reidratazione avviene
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con bagni in alcol a gradazione crescente. Ora è possibile sciogliere i coloranti è osservare il preparato
istologico. Ripetiamo la fasi per la preparazione di un preparato istologico:
-
prelievo;
-
fissazione;
-
disidratazione;
-
infiltrazione;
-
inclusione;
-
microtomia;
-
reidratazione;
-
colorazione.
Tra i coloranti ricordiamo il viola-ematossilina, che si lega al DNA rendendo di color viola il nucleo, e il rosaeosina che colora di rosa il citoplasma. Dopo aver aggiunto i coloranti, il campione viene di nuovo disidratato e
poi infiltrato con xilolo. Alla fine la striscia si liuta sul vetrino, cioè si incolla sul vetrino per evitare che vada
persa. Ora il preparato istologico è pronto per l’osservazione. Mediamente tutto il processo di preparazione
del campione dura 16 ore. In casi estremi, in cui l’esito dell’esame deve essere repentino, il campione viene
congelato con azoto liquido e tagliato con un particolare microtomo, detto criostato. Le sezioni criostatate,
piene di acqua, vengono colorate direttamente e possono essere subito osservate al microscopio. Da notare
che con questa tecnica il tessuto è vivo al contrario della precedente, nella quale la fissazione segnava la
morte di tutte le cellule del tessuto. Con opportune tecniche è anche possibile esaminare l’attività cellulare di
una determinata cellula. Gli enzimi risultano essere le molecole markers più utili. Siccome ogni enzima è
specifico per un determinato substrato, anche il prodotto sarà legato alla presenza o meno dell’enzima.
Quindi dalla presenza o assenza di un prodotto si può risalire all’attività di uno specifico enzima. Uno degli
enzimi più utilizzato in questo ambito è la 5’-Nucleotidasi, la cui presenza massiva, a seguito di marcatura,
spesso mette a nudo la natura cancerosa di una cellula. Altre tecniche di osservazione istologica si basano
sulla metallizzazione, cioè la superficie della cellula viene ricoperta da un particolare metallo e bombardata
da un fascio di luce. L’immagine riflessa viene catturata su una particolare superficie è analizzata, ottenendo
l’immagine reale della cellula. È possibile ottenere fette più sottili utilizzando resina epossidica con una
durezza pari a quella del vetro. Con questo metodo si ottengono strisce dello spessore di 200 Å. Utilizzando
piombo e acetato di uranile la cellula viene colorata e bombardata da un fascio di elettroni, ottenendo così
un’immagine della sezione. Per quanto concerne i microscopi, la risoluzione e qualità variano in base al modello.
I vari tipi di microscopi sono:
-
ottico;
-
a fluorescenza;
-
elettronico a scansione;
-
elettronico a trasmissione.
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2-Citoanalisi
La citoanalisi è la corretta descrizione di una cellula, identificando quelle che sono le sue principali strutture
e da lì risalendo alla sua funzione. Per prima cosà si cerca di ricondurre la forma della cellula ad una
particolare figura geometrica. Possiamo identificare come probabile forma di una cellula quella:
-
sferica;
-
ovoidale;
-
cubica;
-
fusata;
-
polimorfa.
Successivamente si passa all’osservazione della superficie della membrana cellulare, rilevando opportune
irregolarità (villi o blebs, prolungamenti citoplasmatici). Con l’indice nucleo/citoplasma si valuta la grandezza
del nucleo rispetto al citoplasma cellulare. Fatto ciò si passa ad osservare il livello di compattamento del DNA
all’interno del nucleo della cellula. Se la cromatina prevalente è di tipo eucromatico (chiara) vuol dire che
numerosi geni sono espressi e che la cellula è in una fase di intensa sintesi proteica. Se invece il tipo
prevalente è quello eterocromatico (scuro), allora la maggior parte dei geni sono spenti è ciò vuol dire che la
cellula è “a riposo”, relativamente la produzione di proteine. Sempre nel nucleo, è possibile osservare delle
particolari zone, i nucleoli. Il nucleolo è la fabbrica di produzione dei ribosomi, quindi la presenza del nucleolo
è indice di attività di sintesi proteica. Tuttavia, la presenza eccessiva di nucleoli fa presagire che il tipo di
cellula che si sta analizzando sia una cellula tumorale. Terminata l’osservazione del nucleo, si analizzano
eventuali organelli cellulari. Un forte presenza di REG, ovvero reticolo endoplasmatico rugoso, fa intuire che
la cellula sia impegnata nella secrezione extra-cellulare attraverso vescicole di trasporto, che dal REG,
passando per il Golgi, arrivano sulla membrana plasmatica e liberano all’esterno il loro contenuto. Dalla
presenza o meno del REL, reticolo endoplasmatico liscio, si comprende come la cellula sia implicata nella
steroido-sintesi (sintesi di ormoni steroidei). La presenza massiva di mitocondri nella cellula è indice di
intensa attività “cinetica”, ciò di intensa attività secretoria, o contrattile o di riassorbimento. Nel citoplasma
è possibile rintracciare la presenza di granuli di glicogeno, la riserva di energia a breve termine. Da ciò si può
intuire di come la cellula abbia un continuo bisogno di energia per poter svolgere tranquillamente le sue
funzioni. Sempre nel citoplasma è possibile rinvenire delle strutture a forma di virgola, i poliribosomi o
polisomi. L’aspetto a virgola è dovuto al fatto che più ribosomi citoplasmatici sono interessati nel tradurre
contemporaneamente lo stesso m-RNA. Si possono rinvenire anche goccioline lipidiche, altra fonte di energia
per la cellula, ma anche fonte di materia prima per la steroido-sintesi. I lisosomi sono lo stomaco delle cellule.
Col passare del tempo, nei lisosomi si accumula materiale indigerito, creando dei caratteristici inclusi cellulari
detti lipofuscine. La presenza delle lipofuscine è indice della senilità di una cellula. Infatti le cellule giovani
hanno la capacità di evacuare all’esterno tutto ciò che i lisosomi non riescono a digerire. Ma col passare del
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tempo si perde tale capacità e si formano le lipofuscine. Altra struttura da analizzare è il citoscheletro, che
in alcune popolazioni cellulari ha una importanza rilevante.
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3-Matrice Extracellulare
I fosfolipidi di membrana a 37 °C sono mobili. A prova di ciò, marcando la testa dei fosfolipidi con l’ANS
(Anilino-8-Naftalene-Sulfonato), una sostanza fluorescente, è possibile seguire lo spostamento lungo il doppio
strato del fosfolipide marcato. L’ANS si lega alla testa del fosfolipide, che è idrofila, al contrario delle due
code di acidi grassi che sono idrofobe. Le sostanze idrosolubili, per potere attraversare il doppio strato,
hanno bisogno di opportuni canali che ne facilitino il passaggio. Questi canali sono costituiti da proteine transmembrana che formano una regione idrofila all’interno del doppio strato. Tra le proteine canale transmembrana ricordiamo le acquaporine, proteine canale che facilitano l’ingresso, all’interno della cellula,
dell’acqua.
Le acquaporine, sono una famiglia di proteine intrinseche, che si trovano nel mezzo del doppio strato lipidico
di membrana e che consentono il flusso dell'acqua bidirezionalmente. Il loro peso molecolare si aggira intorno
ai 36 – 78 Kd. Sono state identificate due famiglie di acquaporine:
-
Acquaporine specifiche: consentono solo il trasporto dell'acqua. Il canale è costituito
esclusivamente da amminoacidi, i quali legano solo molecole d'acqua e gli altri ioni e molecole non
passano attraverso questo canale;
-
Acquagliceroporine: anche queste consentono il passaggio dell'acqua, a differenza delle
precedenti, consentono il passaggio di glicerolo e di altre molecole neutre.
La differenza sostanziale tra queste due classi di acquaporine, sta nella loro configurazione amminoacidica
interna del canale. Infatti, sono presenti cinque porzioni all'interno del canale, note con il nome di P1, P2, P3,
P4, P5. Ciascuna di queste porzioni, è costituita da una sequenza specifica di amminoacidi (configurazione
specifica del canale proteico). A seconda della sequenza, potrà passare o solo acqua o acqua ed altre molecole.
Sia le acquaporine che le acquagliceroporine, sono proteine, formate da dei domini transmembrana, che
attraversano lo strato dei fosfolipidi. Affinché ci sia affinità tra la porzione di acquaporine che attraversa la
membrana (dominio transmembrana) e la porzione lipidica della membrana, gli amminoacidi apolari che sono
presenti in questa porzione, formano dei legami deboli con i lipidi.
Le molecole d'acqua, attraversano l'acquaporina, per mezzo di un canale, chiamato porocanale. Il porocanale
per l'acqua è una struttura, formata dall'associazione di 4 subunità proteiche, unite per formare appunto il
porocanale. Ogni subunità, è formata da 6 dei domini transmembrana, che attraversano il doppio strato
lipidico della membrana cellulare. Questi 6 domini transmembrana, sono orientati in modo particolare, cioè
hanno un orientamento bidirezionale e sono speculari. Nel porocanale, sono presenti degli amminoacidi che
presentano dei gruppi carichi (ad esempio, come il gruppo NH3+ della catena laterale dell'asparagina), a
ciascuno dei quali può andare a legarsi la molecola d'acqua. Ciascuna ansa, è costituita da amminoacidi che le
consentono di assumere una conformazione elicoidale. Le acquaporine, sono presenti in tutti gli organi, ma il
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numero maggiore di acquaporine è riscontrato nel rene. Il rene, oltre ad altre funzioni, è l'organo deputato
alla regolazione dell'osmolarità dei liquidi del corpo umano, ed è per questo motivo che le acquaporine sono
espresse maggiormente in questo organo. I tratti del rene deputati al riassorbimento dell'acqua sono: tubulo
contorto prossimale e il tratto discendente dell'ansa di Hanle. Il tratto ascendente dell'ansa di Hanle e in
parte il dotto collettore, sono impermeabili all'acqua.
Prelevando un campione di linfonodo, si congela con azoto liquido per osservarlo in freeze-etching. Al
microscopio il campione è un sistema a due fasi:
-
la sostanza fondamentale;
-
il collagene.
La sostanza fondamentale, come la malta, assorbe le forze di compressione, mentre il collagene come il ferro,
scarica le forze di trazione. La sostanza fondamentale è apparentemente disorganizzata ma in realtà è
possibile rinvenire una precisa disposizione spaziale. La sostanza fondamentale è costituita da proteoglicani,
costituiti a loro volta da:
-
GAGs, ovvero glicosamminoglicani;
-
Core protein, una proteina centrale che forma l’asse su cui si legano i vari GAGs.
Il sistema core protein-GAGs forma un proteoglicano. Un GAGs è la ripetizione di un zucchero disaccaride di
cui almeno uno è sulfonato, al contrario invece di altri polisaccaridi, come il glicogeno, che sono la ripetizione
di un singolo monosaccaride. I GAGs sono:
-
Acido Ialuronico formato da acido glicuronico e glucosamina, è l’unico GAGs che non è sulfonato;
-
Condroitin Solfato 4, formato da acido glicuronico e galattosamina;
-
Dermatan Solfato, formato da iduronico e galattosamina;
-
Condroitin Solfato 6, che ha gli stessi costituenti del CS4 solo che è sulfonato in posizione 6;
-
Eparan Solfato, formato da glicuronico e glucosamina;
-
Keratan Solafato, galattosio e glucosamina.
Tutti i proteoglicani, attraverso una link protein, sono collegati ad un filo centrale di acido ialuronico. Questa
ultrastruttura ha il compito di ottimizzare la resistenza alle forze di compressione, dando un certo grado di
deformabilità alla superficie senza alterarne la forma una volta che la forza di compressione ha smesso di
agire. La natura “a spugna” dei proteoglicani è da ricondurre alla presenza di ioni nelle loro subunità. Tali ioni
portano con sé una grande quantità di acqua, che a seguito di una compressione viene eliminata all’esterno, ma
viene richiamata nella sua posizione iniziale una volta terminata la compressione.
Il collagene è la proteina più abbondante del nostro corpo. La fibra di collagene, visibile a occhio nudo, è
formata da tante fibrille. La fibrilla è l’unità di base e ogni fibrilla è costituita da più microfibrille. Ogni
singola microfibrilla è formata da nanofibrille. Una nanofibrilla è costituita dall’unione di tre subunità di
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tropocollagene. La sintesi del collagene avviene sul RER, dove vengono fabbricate le singole catene α/β.
Successivamente tre catene elementari vengono assemblate insieme a formare la tripla elica del collagene. Il
collagene è insolubile in acqua quindi le estremità terminali contengono dei peptidi di registro, che oltre ad
indirizzare la tripla elica all’esocitosi, impediscono anche la formazione di forze idrofobiche che potrebbero
creare inclusioni cellulari. La rimozione dei peptidi di registro avviene sul lato esterno della membrana
plasmatica e a questo punto si forma la molecola di tropocollagene. Nel processo di formazione della tripla
elica, i residui degli amminoacidi lisina e prolina vengono idrossilati. L’idrossilazione di tali residui ha come fine
quello di rendere più stabile e forte la tripla elica di collageno. La formazione di idrossilisina e di
idrossiprolina è supportata da coenzimi quali l’α-chetoglutarato, la Vitamina C, l’Ossigeno e il Ferro. Una volta
che la tripla elica di collageno è esocitata, enzimi specifici rimuovono i peptidi di registro, e tre triple eliche
di tropocollagene si uniscono a formare una nanofibrilla di collageno, costituita da circa 1000 amminoacidi.
L’organizzazione, la costruzione e la demolizione della matrice e sotto il controllo dei fibroblasti, cellule
specializzate nel sintetizzare, ordinare nello spazio e demolire i vari componenti della matrice extracellulare.
Col passare del tempo la nanofibrilla di collageno tende ad invecchiare, così esistono collageni “giovani” e
“anziani”. La presunta “età” del collageno è da mettere in relazione con la presenza o meno di legami covalenti
all’interno della tripla elica. Tali legami covalenti destabilizzano la struttura totale rendendola meno elastica e
più fragile. Il processo di formazione di legami covalenti incrociati, all’interno della tripla elica, è detto cross
linking. La probabilità che si verifichi un cross linking cresce con il passare del tempo, ma anche altri fattori,
come periodi intensi di esposizione ai raggi solari, favoriscono la formazione di legami covalenti crociati e
quindi portano il collageno ad invecchiare.
I fibroblasti sono le cellule fondamentali del tessuto connettivo propriamente detto; la loro funzione è quella
di produrre le fibre e gli altri componenti della matrice extracellulare, che costituisce l'elemento di gran
lunga più abbondante del tessuto, e dalla quale dipendono le funzioni di sostegno proprie del connettivo. I
fibroblasti sono generalmente di aspetto fusiforme, sebbene ne esistano varietà che presentano morfologie
anche molto diverse, come un aspetto stellato o tentacolare. Si trovano generalmente dispersi nella matrice
da loro stessi creata, ed in molti casi sono disposti lungo le fibre.
Gli autori della disposizione ordinata nello spazio dei componenti della matrice extracellulare appartengono
al cosiddetto team fibroblastico, formato da:
-
Fibroblasto, cellula che sintetizza i vari componenti della matrice;
-
Fibrocita, cellula che monitora la situazione attuale della matrice;
-
Fibroclasta, cellula che attiva le metalloproteasi, demolendo e rinnovando la matrice;
-
Miofibroblasta, cellula che dispone e orienta nello spazio le varie componenti per ottimizzare al
meglio le loro funzioni.
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Il telaio formato dal team fibroblastico può andare incontro a delle progressive trasformazioni, diventando in
un primo momento cartilagine e poi tessuto osseo. Cellule di funzione analoga sono presenti nei diversi
sottotipi di tessuto connettivo, anche se presentano in alcuni casi peculiarità funzionali. In particolare:
-
I condroblasti producono la matrice del tessuto cartilagineo;
-
Gli osteoblasti producono la matrice del tessuto osseo, caratterizzata dal fatto di essere
calcificata;
-
I cementoblasti e gli odontoblasti producono la matrice nei denti.
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4-Il Tendine
I tendini sono strutture di tessuto connettivo denso che legano i muscoli alle ossa, a differenza dei legamenti
che sono strutture fibrose che legano tra loro due ossa. Dal punto di vista biomeccanico vengono divisi in
tendini di ancoraggio e tendini di scorrimento. Questi ultimi sono provvisti di una guaina (guaina tendinea o
sinoviale) che li protegge durante la loro attività.
Il tendine è un potente cavo che lavora scorrendo all’interno di una guaina di protezione: il paratenion. Il
paratenion, al suo interno, è rivestito dalla sinovia. Il tendine è un composito, cioè è costituito da matrice
proteoglicanica, collagene ed elastina. Tale miscela permette al tendine di resistere sia a forze di
compressione che di trazione. Il tendine risulta essere compartimentalizzato. Se si osserva la sezione di un
tendine si possono notare le seguenti zone:
-
Epitenio, la zona più esterna che avvolge l’intero tendine;
-
Peritenio, zona intermedia, interna all’epitenio;
-
Endotenio, la zona costituita dal raggruppamento di più fibrille di collageno.
Quindi, partendo dall’interno, avremo che il peritenio circonda ogni singolo endotenio, e tutto ciò è compreso
dall’epitenio. L’unità di base del tendine è la fibrilla e il peritenio raggruppa più fibrille di collageno. Le
popolazioni cellulari del tendine prendono il nome di tenociti. Il team di tenociti è formato da:
-
Epitenociti OUT, addetti alla lubrificazione del tendine, tramite la produzione di lubrificanti per
ridurre al minimo l’attrito tra epitenio e paratenion;
-
Epitenociti IN, cellule addette alla demarcazione, ovvero stabiliscono i corretti confini delle varie
zone del tendine, evitando crescite anormali e disastrose, al fine della corretta funzione del
tendine;
-
Peritenociti, addetti alla costruzione del tendine;
-
Endotenociti, addetti alla manutenzione del tendine.
Al microscopio è possibile notare la presenza dei tenociti nel tendine. Il numero di tenociti diminuisce con
l’età, quindi un tendine giovane avrà un numero maggiore di tenociti rispetto ad un tendine più anziano. La
densità cellulare per mm3 decresce con l’età, divenendo circa un quarto intorno ai 25 anni e continuando a
diminuire ancora. Al contrario, invece, l’area della sezione trasversale, in mm2, del tendine aumenta di circa 8
volte nei primi 25 anni di vita, per poi stabilizzarsi e decrescere in età tarda. I tendini invecchiano
precocemente a causa della stabilizzazione molecolare. Sia la sintesi di collageno, che la produzione di
proteoglicani, sono strettamente correlati. L’interazione matrice-collageno è di grande importanza al fine del
corretto funzionamento del sistema. Eventuali squilibri nella miscela di composizione possono causare dei seri
danni a livello strutturale e funzionale. Il tendine lega un muscolo all’osso, e la struttura del tendine è resa
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ancora più elastica dalla presenza della proteina elastina. L'elastina è una proteina costituente il tessuto
connettivo che è elastica e permette a molti tessuti dell'organismo di tornare alla loro forma originaria dopo
essere stati sottoposti a forze di stiramento o di contrazione. L'elastina è un costituente fondamentale della
pelle, conferendole la caratteristica risposta elastica quando il tessuto è sottoposto a tensioni meccaniche.
L'elastina è principalmente composta dagli amminoacidi glicina, valina, alanina e prolina. Strutturalmente è
formata da molte molecole di tropoelastina, idrosolubile e con massa molecolare di circa 70.000 dalton, legate
da legame covalente formatosi in seguito a reazione catalizzata da lisil ossidasi. Il prodotto finale consiste in
un voluminoso composto insolubile con resistenti legami cross-linked.
In percentuale un tendine è costituito da:
-
80% collagene, tipo I, II, V, VI;
-
3% elastina;
-
1% proteoglicani, Keratan Solfato (KS), Dermatan Solfato (DS), Condroitin Solafato (CS).
Per evitare attriti che possano rovinare le superfici di contatto, il tendine è immerso in un fluido. Il tendine
si ancora all’ossa tramite giunzioni muscolo-tendinee e all’osso tramite giunzioni osteo-tendinee. Nelle
giunzioni e lungo il tendine è possibile rinvenire alcune peculiari popolazioni cellulari, atte a supervisionare
l’integrità del tendine e intervenendo, con opportuni segnali, ad evitarne la rottura. Le cellule atte a tale
compito sono:
-
Cellule del Golgi, presenti nella giunzione muscolo-tendinea, misurano l’intensità dello sforzo onde
prevenire la separazione del tendine dal muscolo;
-
Cellule di Ruffini, presenti in ambo le giunzioni e misurano il grado di allungamento del tendine
onde evitarne la rottura;
-
Cellule del Pacini, presenti nella giunzione osteotendinea, misurano l’accelerazione in loco e
controllano che il tendine non si stacchi dall’osso;
-
Cellule Pain o del dolore, presenti lungo tutto il tendine, atte a segnalare eventuali
malfunzionamenti onde prevenire la totale compromissione del tendine.
Tutte queste cellule monitorano contemporaneamente la situazione interagendo tra di loro. Solo in casi
estremi si attivano le cellule del dolore causando sensazioni spiacevoli, onde evitare la totale compromissione
della struttura. Un tendine può allungarsi, ma l’allungamento eccessivo potrebbe indebolire la struttura e
causarne la rottura. Infatti raggiunto un punto di stiramento limite, detto set-point, il tendine non è più in
grado di sopportare la forza di trazione e può strapparsi. Il punto di set-point è definito geneticamente, ma
può essere modificato con l’allenamento, droghe, etc… Un continuo allenamento porta alla sintesi di maggiori
quantità di proteoglicani e collagene e di conseguenza la sezione trasversale del tendine aumenta. Un periodo
di disuso, al contrario, fa diminuire la sezione trasversale.
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Normalmente lungo la catena respiratoria “viaggiano” 4 elettroni, che alla fine saranno accettati dall’ossigeno
e si avrà la formazione di due molecole di H2O. Questo continuo trasferimento di elettroni ha come fine
ultimo la sintesi di ATP, la moneta energetica della cellula. Tuttavia se viene trasferito un solo elettrone,
questi è in grado di unirsi a qualunque molecola, inducendo la formazione di legami forti intermolecolari, come
il legame covalente. Tali legami possono alterare la funzione di una proteina causando dei seri danni. L’enzima
superossido dismutasi (SOD) cattura l’elettrone è lo “intrappola” costruendo una molecola di perossido di
idrogeno, H2O2, altamente instabile alle condizioni cellulari. Il perossido di idrogeno viene trasformato, ad
opera della Perossidasi GSH, in acqua. Se lungo la catena degli elettroni viaggiano 3 elettroni, alla fine può
crearsi un composto altamente instabile che subito si scinde in acqua e ione idrossile (OH-). Il radicale
ossidrile R-OH è molto reattivo e micidiale, ma non è l’unico radicale a formarsi. Gli organismi aerobici,
scegliendo come accettore finale della catena respiratoria l’ossigeno, vanno incontro ad una graduale
formazione di radicali liberi come:
-
RO, alcossi radicali;
-
ROO, perossi radicali;
-
ROOH, idroperossidi.
I ROS, cioè i radicali dell’ossigeno, sono molto reattivi, ovvero possono legarsi a qualunque proteina,
destabilizzandola. Il punto di set-point di un tendine si abbassa in seguito all’aumento della concentrazione di
ROS. Sono i ROS i maggiori responsabili dell’invecchiamento del collageno, e della destabilizzazione della
tripla elica, rendendo la struttura meno deformabile e più fragile. Per contrastare l’azione distruttiva dei
ROS, in natura esistono delle sostanze in grado di neutralizzarli. Tali sostanze prendono il nome di scavanger,
ovvero anti-ossidanti.
Gli antiossidanti sono molecole che rallentano o prevengono l'ossidazione di altre molecole. L'ossidazione è
una reazione chimica che trasferisce elettroni da una sostanza ad un ossidante. Le reazioni di ossidazione
possono produrre radicali liberi, responsabili dell'avvio di una reazione a catena che danneggia le cellule; gli
antiossidanti terminano queste reazioni a catena intervenendo sui radicali intermedi ed inibendo altre
reazioni di ossidazione facendo ossidare se stessi. Come risultato, gli antiossidanti sono spesso agenti
riducenti come tioli o polifenoli. Anche se le reazioni di ossidazione sono fondamentali per la vita, possono
essere altrettanto dannose; perciò, piante ed animali mantengono complessi sistemi di molteplici tipi di
antiossidanti, come glutatione, vitamina C e vitamina E, così come enzimi quali catalasi, superossido dismutasi
e varie perossidasi. Livelli troppo bassi di antiossidanti o di inibizione degli enzimi antiossidanti causano
stress ossidativo e possono danneggiare o uccidere le cellule. Così come lo stress ossidativo è stato associato
alla patogenesi di molte malattie umane, così l'uso degli antiossidanti in farmacologia è stato intensamente
studiato, in particolare nei trattamenti dell'ictus e delle malattie neurodegenerative; ma non si sa se lo
stress ossidativo sia la causa o la conseguenza di queste malattie. Gli antiossidanti sono largamente usati
come ingredienti negli integratori alimentari con la speranza di mantenere il benessere fisico e prevenire
14
malattie come cancro e cardiopatie coronariche. Anche se alcuni studi hanno suggerito che l'integrazione di
antiossidanti ha benefici sulla salute, molti altri studi di ricerca medica non hanno rilevato alcun beneficio per
le formulazione testate, mentre un eccesso di integrazione può occasionalmente risultare dannoso.
Le patologie associate al tendine sono collegate ad una cattiva organizzazione della matrice extracellulare,
oppure ad una errata composizione della matrice, oppure ancora dalla mancata collaborazione del team
tenocitico. Il tendine è in grado di autoripararsi. A seguito di un danno, i detriti presenti nella zona lesionata
vengono rimossi. Migrazioni di nuove cellule e neosintesi di matrice portano alla guarigione. Gli epitenociti
migrano e raggiungono la zona lesionata, dove fagocitando detriti e cellule morte, determinano un’area da
riempire. L’area viene colonizzata da peritenociti e endotenociti che sintetizzano collagene e matrice. I
tenociti, in caso di un danno del tendine, da resting diventano activated. In base al paradigma dell’intrinsic
repair di Gelbermann, il tendine possiede tutti i meccanismi per una autoriparazione, tuttavia, un tendine
riparato recupera solo parzialmente le sue principali caratteristiche fisico chimiche, quindi è meno
resistente. Un tendine riparato possiede più collagene, ma soprattutto possiede collageno con numerosi crosslinks, quindi molto più rigido. Gli obbiettivi di una tendo-integrazione sono:
-
Ridurre il danno;
-
Regolare la riparazione;
-
Ripristinare la funzione;
-
Ottimizzare la funzione.
Ritornando agli scavanger, la Vitamina C è uno di questi. L'acido ascorbico o vitamina C è un monosaccaride
antiossidante che si trova sia negli animali che nelle piante. Negli umani non può essere sintetizzato e deve
essere introdotto con la dieta. Molti altri animali sono in grado di produrre questo composto nei loro corpi e
non ne hanno bisogno nella loro dieta. Nelle cellule, viene mantenuto nella sua forma ridotta per reazione con
glutatione, che può essere catalizzata da proteina disulfide isomerasi e glutaredossine. L'acido ascorbico è un
agente riducente e può ridurre e di conseguenza neutralizzare le specie reattive dell'ossigeno come il
perossido di idrogeno. Tale vitamina, oltre a svolgere la funzione di stabilizzare la tripla elica di collagene, ho
una duplice funzione anti-ROS:
-
funzione anti-ROS diretta, ovvero la Vitamina C elimina direttamente i ROS;
-
funzione anti-ROS indiretta, ovvero la Vitamina C stimola la sintesi di Perossiderossina (PRDX5),
un agente anti-ossidante.
Esistono tre tipi di cartilagine:
-
Cartilagine Ialina, ovvero la cartilagine articolare, che riveste le superfici ossee o capi articolari,
per evitarne il consumo per attrito. Se la cartilagine ialina si consuma, il capo articolare va
incontro a processi di artrosi. La popolazione cellulare della cartilagine è il condrocita, che risiede
in appositi loculi, detti lacune. Il sistema lacuna-condrocita prende il nome di condrone;
15
-
Cartilagine Elastica, è la cartilagine che forma i padiglioni auricolari. Componente presente in
quantità massiva in questo tipo di cartilagine è l’elastina, che dona maggiore elasticità e
resistenza alle trazioni;
-
Cartilagine Fibrosa, che costituisce la parte cartilaginea del naso e i dischi intervertebrali.
Il disco intervertebrale è formato da un nucleo polposo avvolto da una fascia continua di collagene, chiamato
anello fibroso, a mò di cassino. Le fibre di collageno hanno orientamento diverso per potere scaricare nel
migliore dei modi eventuali forze di trazione provenienti da direzioni diverse. Nella fascia di collageno vi sono
i condrociti. I gruppi isogeni sono gruppi di condrociti che hanno avuto origine da una stesso condrocita
capostipite. In base alla loro disposizione nello spazio i gruppi isogeni possono essere:
-
Assiale, se si dispongono uno in fila all’altro;
-
Radiale, se si dispongono circolarmente.
Visto al microscopio, il condrocita ha una forma circolare, con blebs. Particolare caratteristica è la presenza
di granuli di glicogeno, PAS + (Acido Periodico di Schift), nel citoplasma.
La reazione PAS (acido periodico - reattivo di Schiff) è una reazione istochimica che evidenzia colorando in
rosso magenta componenti tessutali contraddistinti da gruppi glicolici o aminoidrossilici adiacenti. I
componenti maggiormente evidenziati da questa tecnica sono quelli glucidici del glicocalice, della membrana
basale, della mucina e dell'eparina. Tuttavia alcuni glucidi (in particolare alcuni GAG acidi o solforati) non
vengono evidenziati poiché la presenza di gruppi carbossilici o solforici può bloccare la reattività dei gruppi
glicolici nella reazione PAS (per evidenziare questi composti è in genere utilizzato l'Alcian Blu al posto della
reazione PAS).
La colorazione PAS + dei condrociti avviene perché la cartilagine non è vascolarizzata, quindi i condrociti
hanno la necessità di conservare grandi quantità di glicogeno per poterlo poi utilizzare per la produzione di
metaboliti. Il disco intervertebrale è in grado di far compiere a due vertebre particolari movimenti, come la
flessione, l’estensione e l’inclinazione. I dischi intervertebrali durante il giorno vengono schiacciati dal peso
corporeo assottigliandosi, così al mattino si è leggermente più alti rispetto a tutto l’arco della giornata.
Quando il disco intervertebrale tende ad uscire dalla proprio sito di alloggiamento, si ha un’ernia discale. Il
dolore è causato dall’incontro del disco erniante con la radice di un nervo. L’origine dell’ernia è anche dovuto al
cambiamento dei costituenti del nucleo polposo. Tale sostituzione porta ad una perdita di elasticità del nucleo
diminuendo anche il fattore di compressibilità. Così per poter bilanciare forze di compressione, il disco, che
non può più deformarsi, slitta dalla sua posizione originale e ernia.
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5-La Cartilagine
I capi articolari sono rivestisti da cartilagine ialina, la quale ha il compito di evitarne l’eccessiva usura.
Tuttavia tali cartilagini vanno incontro ad un precoce processo di deterioramento che prende il nome di
artrosi.
L'artrosi (o osteoartrosi) è una malattia a carico delle articolazioni, soprattutto della colonna vertebrale e
delle ginocchia, che colpisce la cartilagine, provocando lesioni degenerative della stessa (osteofiti). A
differenza dell'artrite (che è un processo infiammatorio), l'artrosi è un processo degenerativo. Si manifesta
inizialmente con lesioni involutive delle articolazioni (perdita della cartilagine che riveste i capi articolari):
causate o da sovraccarico o dall'attività di enzimi che attaccano la cartilagine. I condrociti (cellule che
producono il tessuto cartilagineo) diminuiscono e i detriti che si formano per la degenerazione del tessuto
vengono fagocitati dai macrofagi. L'opera di questi ultimi avviene con il rilascio di sostanze che producono
un'infiammazione locale che danneggia ulteriormente la cartilagine fino alla totale scomparsa. Si hanno quindi
modificazioni del tessuto osseo circostante, osteofitosi periarticolari (generazione di osteofiti, escrescenze
ossee anomale), distrofie, sclerolipomatosi periarticolari. L'artrosi può essere localizzata e generalizzata.
Nel primo caso dipende da fattori specifici della zona colpita, come traumi e malformazioni, mentre nel
secondo caso è causata da un complesso di fattori non tutti perfettamente identificati: senescenza dei
tessuti, alterazioni endocrine, fattori di sovraccarico articolare come l'obesità e disturbi metabolici di vario
tipo. È propria dell'età avanzata (colpisce l'80% delle persone con più di sessantacinque anni), ma può
interessare anche soggetti relativamente più giovani, e si manifesta con una notevole riduzione della
funzionalità dell'articolazione. L'artrosi è inizialmente caratterizzata da dolori lievi, più frequenti nelle ore
che seguono il risveglio e in quelle che precedono il riposo. Il dolore non deriva dall'articolazione (che è priva
di terminazioni nervose), ma dall'infiammazione della membrana sinoviale, da stiramenti dei legamenti e della
capsula, da microfratture ossee ecc. I sintomi si acuiscono con il progredire della malattia, provocando
sofferenza ininterrotta e riduzione o inibizione delle capacità motorie. Il trattamento varia in relazione
all'articolazione interessata e allo stadio raggiunto dalla patologia.
A occhio nudo la superficie articolare appare liscia come una palla da biliardo. Ma successivi ingrandimenti
rilevano l’esistenza di una superficie scabra, piena di irregolarità. Ingrandimenti successivi marcano
l’esistenza di vere e proprie montagne, valli, insenature. La superficie ingrandita della cartilagine ricorda
molto quella lunare con i suoi mari e crateri, tanto è vero che si parla di paesaggi ialini, proprio per
sottolinearne la peculiarità. Facendo una sezione trasversale di un capo articolare, si possono notare tre zone
distinte:
-
La lamina splendens, lo strato che non c’è;
-
La cartilagine vera e propria;
17
-
L’osso sub-condrale.
La lamina splendens è il frutto della precipitazione dei vari componenti del liquido sinoviale. Questi detriti si
addensano sulla cartilagine formando una pellicola irregolare atta a proteggere la cartilagine sottostante. La
cartilagine è un composito, cioè resiste bene alle forze di compressione, trazione e taglio. Analizzando nei
dettagli la struttura della cartilagine, si nota che è formata in gran parte da matrice extracellulare, quindi
proteoglicani e collageno. La peculiarità è la disposizione ordinata nello spazio del collageno, che forma delle
arcate, molto utili per lo scarico delle forze. Tali arcate prendono il nome di isostatiche di Benninghoff. A
tutto ciò, dal punto di vista cellulare, presiede il condrocita. La struttura del condrocita ha per anni
affascinato studiosi e ricercatori. Il condrocita è avvolto da una serie di strati di collageno impermeabili, che
lo isolano dall’ambiente esterno, quindi dalla matrice. Tali strati formano una sorta di gabbia in cui il
condrocita è intrappolato dentro. Il sistema strati-condrocita, prende il nome di condrone. Ogni condrone
risiede in una lacuna. I condroni si possono disporre singolarmente, oppure in coppia, oppure multipli, uno in
fila all’altro lungo le isostatiche. I condrociti sono i produttori della matrice extracellulare. Ma siccome ogni
condrocita è circondato da una “gabbia” di collagene impermeabile a lungo ci si è interrogati sulle modalità di
scambio di prodotti e metaboliti. Recenti studi, hanno messo in evidenza l’esistenza di pori sulla gabbia.
Questi pori, in fase di riposo sono chiusi. Durante periodi di attività, questi posi si aprono, facendo uscire
all’esterno tutto ciò che viene sintetizzato dal condrocita. Tale fase prende il nome di “sistole” secretoria. Il
ritorno allo stato di riposo genera una corrente di risucchio che porta all’interno del condrone eventuali
sostanze nutritive. Tale fase è detta “diastole” secretoria. Come accennato prima, è il movimento a far aprire
la gabbia. Il condrocita si sposta all’interno della gabbia e durante questo spostamento è in grado di regolare
l’espressione di particolari geni. Lo spostamento nello spazio è ammortizzato da una serie di “molle proteiche”
che sostengono in condrocita all’interno della gabbia. A seguito dello spostamento, il condrocita è in grado di
capire quando è il momento di esocitare i propri prodotti all’esterno, a seguito di una sistole, quando assorbire
metaboliti dall’esterno nella fase di diastole, oppure quando fermarsi nella propria attività (fase di resting).
Infine il condrone è dotato di un ciglio, che funziona a mò di sensore meccanico e informa la cellula sul suo
stato posizionale nello spazio. Per matrisoma si intende il sistema formato da condrocita e molecole correlate.
Il matrisoma è sottoposto ad una costante revisione. Tale revisione è possibile grazie alla presenza, in
matrice, delle metalloproteasi. Ogni 20 giorni vengono rinnovati proteoglicani, glicoproteine e acido ialuronico,
mentre ogni 3 anni viene rinnovato il collagene. Le metalloproteasi (MMP) sono già presenti nella matrice unite
al TIMP, l’inibitore delle MMP. In questo modo le MMP sono innocue. All’arrivo di una particolare tipo di
molecola segnale, il TIMP viene rimosso dalle MMP, che vengono attivate. La riunione di TIMP con MMP blocca
di nuovo l’azione demolitrice delle MMP.
I capi articolari sono avvolti da una borsa, detta borsa sinoviale. La sinovia è formata da due popolazioni
cellulari:
18
-
Il Sinoviocita A, o analizzatore, il cui compito è quello di monitorare costantemente l’ambiente
presente all’interno della borsa;
-
Il Sinoviocita B, o sintetizzatore, che sotto il controllo del sinoviocita A, produce acido ialuronica
a densità variabile.
La Barriera Emato-Sinoviale (BES), evita che il sangue possa raggiungere l’interno della borsa, ma allo stesso
tempo favorisce la diffusione dei metaboliti utili alle cellule. La BES è costituita da 3 livelli di protezione:
-
I livello, formato dal capillare stesso;
-
II livello, formato dal collageno;
-
III livello, formato da acido ialuronico ad alta densità.
Nella BES vi sono molte giunzioni nervose, la maggior parte delle quali sono nocicettive. Infatti si ritiene che
oltre l’80% di terminazioni nervose siano terminazioni nocicettive. Il liquido sinoviale è un liquido pseudoplastico non newtoniano, ovvero la densità di tale liquido varia in funzione della temperatura. Il liquido
sinoviale è una miscela di lubrificazione, costituita da:
-
Surfactanti;
-
Acido ialuronico;
-
Lubricine.
Un modello di come tali componenti possano essere organizzati è il modello a SAPL film, ovvero Surface
Active Phospho-Lipid. Il biofilm elasto-idro-dinamico è formato da lubricine collegate insieme da acido
ialuronico. Tale sistema forma una pellicola biologica ripiegata su se stessa, in questo modo si evita che i capi
articolari entrino in contatto al momento dell’azione. I processi artrosici sono degenerazioni naturali della
cartilagine ialina. Al microscopio, la superficie di una cartilagine artrosica manca di condrociti, ovvero questi
sono tutti morti. L’origine di un processo artrosico può essere di varia natura:
-
Collasso strutturale della tensostruttura;
-
Forza non neutralizzata;
-
Cedimento strutturale;
-
Insufficienza condrocitaria.
La prima componente a venir meno è la matrice. A seguito di ciò la lamina splendens prima si addensa, poi si
scheggia, e infine si dissolve. Alla scomparsa della lamina splendens si aggiunge la graduale diminuzione del
numero di condrociti presenti. Sui layers superficiali si notano dapprima delle fessurazioni, che con l’andare
del tempo diventano sempre più grandi, formando così fenditure. Lo stadio successivo è la comparsa di macrofenditure o faglie, che si addensano, disallineano e alla fine si staccano dalla superficie (Spreading) formando
dei frammenti che vagano nella capsula sinoviale. Le isostatiche di Benninghoff tendono mano a mano a
rovinarsi. I condrociti sotto stress vanno incontro a processi apoptotici lasciando vuote le lacune. I Debris
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sono frammenti di cartilagine che si è staccata dalla superficie e che vaga all’interno del liquido sinoviale.
Sono i debris a generare il processo infiammatorio che porta al dolore. Il sinoviocita A nota la presenza di
frammenti all’interno della borsa, una situazione del tutto fuori dalla normalità. Tale cellula induce il
sinoviocita di tipo B a secernere altro liquido sinoviale. Tale azione innesca una cascata di processi che ha
come risultato unico quello di dare origine alla flogosi e al dolore.
Il tessuto osseo è una modificazione del tessuto cartilagineo. Il tessuto osseo è un tessuto caratterizzato da
una notevole durezza e resistenza. Istologicamente, è un tipo particolare di tessuto connettivo, costituito da
cellule disperse in una abbondante matrice extracellulare, costituita da fibre e da sostanza amorfa di origine
glicoproteica; questa ha la peculiarità di essere inoltre calcificata, ovvero formata anche da minerali. Il
tessuto osseo forma le ossa, che concorrono a costituire lo scheletro dei vertebrati, svolgendo una funzione
di sostegno del corpo, di protezione degli organi vitali (come nel caso della cassa toracica) e permettendo,
insieme ai muscoli, il movimento. L’osso è costituito da:
-
Osso compatto, organizzato in lamelle;
-
Osso spugnoso, presente all’interno dell’osso compatto e sede del midollo osseo.
La prima sostanziale differenza tra l’osso e la cartilagine risiede nella composizione della matrice
extracellulare. Nell’osso, alla componente organica (proteoglicani e collagene), è affiancata una certa quantità
di minerali inorganici. In percentuale la parte inorganica dell’osso è costituita da:
-
85%, Idrossiapatite (Fosfato Tricalcico Basico);
-
10%, Carbonato di Calcio;
-
5%, Floruro di Calcio, Fosfato di Magnesio, Citrato, Sodio, Potassio, Magnesio, Zinco, Rame, Terre
Rare.
L'idrossiapatite è un minerale raro avente composizione chimica Ca5(PO4)3(OH), fa parte del gruppo degli
apatiti e contiene un gruppo OH. I cristalli di idrossiapatite hanno la forma di un prisma molto sottile dalla
forma esagonale, il colore del minerale è variabile e nelle forme più comuni si trova in giallo pallido.
L'idrossiapatite è anche prodotta e riassorbita da tessuti organici, questa infatti è uno dei componenti
principali delle ossa trovandosi sottoforma di sali di Calcio: CaCO3 (carbonato di calcio), Ca3(PO4)2 (fosfato di
calcio) e CaF2 (fluoruro di calcio). L'idrossiapatite ha durezza 5 e peso specifico che varia da 2,9 a 3,2.
L'idrossiapatite è il principale costituente minerale del tessuto osseo. Infatti, il 99% del calcio presente
nell'organismo umano è immagazzinato nel tessuto osseo sotto forma di idrossiapatite. L'idrossiapatite può
essere usata come riempitivo per sostituire ossa amputate, oppure come rivestimento per stimolare la
crescita ossea all'interno di impianti protesici. Alcuni impianti dentari moderni sono rivestiti di idrossiapatite
allo scopo di stimolare l'osteointegrazione (ma questa è solo un'ipotesi ancora non confermata da sufficienti
evidenze sperimentali). Di recente è stato introdotto in Italia il primo dentifricio al mondo con cristalli di
idrossiapatite. Frutto della collaborazione tra l'azienda Guaber e l'università di Bologna, questo dentifricio
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promette (da verificarsi in futuro) una progressiva riparazione delle microfratture presenti sullo smalto
dentale.
Nonostante la sua durezza, processi di rimozione di calcio incontrollati portano l’osso a diventare friabile
come il talco. Ciò avviene a seguito di un mancato bilanciamento tra deposito e perdita della componente
mineraria dell’osso. Infatti il tessuto osseo è la principale riserva di calcio dell’organismo. Sul piano citologico,
nell’osso risiedono:
-
L'osteoblasto, il costruttore, una cellula ricca di RER e apparato di Golgi, ha perciò un citoplasma
basofilo, la superficie cellulare è provvista di corti e sottili prolungamenti; si trova nel tessuto
osseo in formazione. La sua funzione è quella di produrre la matrice organica del tessuto osseo
stesso, costituita di fibre collagene di tipo I, proteoglicani e glicoproteine; la matrice ossea
precoce prodotta dagli osteoblasti, non cristallizzata, è detta tessuto osteoide. All’interno della
matrice sono presenti numerose vescicole di secrezione ricche di un enzima caratteristico, la
fosfatasi alcalina, e di ioni Ca2+ e (PO4)2-: queste vescicole costituiscono i primi nuclei di
mineralizzazione della matrice. La membrana cellulare aderisce alla matrice pericellulare per
mezzo di integrine specifiche. Quando la funzione biosintetica cessa gli osteoblasti diventano
osteociti, le cellule del tessuto osseo adulto, che occupano le lacune ossee;
-
L’Osteocita, il controllore;
-
L’ Osteoclasta, il demolitore, è un tipo di cellula molto grande, polinucleata e ricca di lisosomi.
Appartiene
alla
linea
monocito-macrofagica,
deriva
cioè
dai
monociti.
Presenta
molte
estroflessioni ed increspature nella membrana plasmatica, in posizione basale, chiamate orletto a
spazzola. Gli osteoclasti vanno a contatto con la matrice ossea e hanno la funzione di riassorbire
l’osso erodendolo mediante enzimi di esocitosi e pH acido, collaborano cioè all'omeostasi calcica.
Di queste tre categorie solo le prime due sono “autoctone”, mentre gli osteoclasti originano dalla fusione di
più monociti del sangue, che, raggiunto l’osso, si fondono tra di loro per dar vita ad un osteoclasta. Gli
osteociti si trovano all’interno di lacune, circondati da lamelle circolari di minerale. L’osso, al contrario della
cartilagine è vascolarizzato. Un arteriola e una venula transitano nei canali di Havers, dei condotti presenti
all’interno dell’osso. I canali di Havers sono canali vascolari che percorrono il tessuto osseo compatto della
diafisi delle ossa lunghe. Essi differiscono dai canali di Wolkmann a causa del diverso orientamento rispetto
all'asse maggiore dell'osso, i primi infatti hanno un andamento parallelo mentre i secondi seguono un decorso
trasversale. Il canale di Havers è la parte più interna dell'osteone ed è circondato da lamelle concentriche in
numero variabile fra 8 e 15, con un minimo di 4 e un massimo di 24.
Dai canali si dipartono i vari rami trasversali che portano nutrimento a tutto l’osso. Gli osteociti sono ricchi di
prolungamenti citoplasmatici e ciò permette a più osteociti di essere in comunicazione tra di loro. Gli
osteoclasti si formano a seguito della fusione di più monociti del sangue. L’osteoclasta, attraverso delle
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particolari integrine, l’osteopontina e la trombospondina, si aggancia alla superficie dell’osso e inizia a
demolirla. La solubilizzazione della matrice avviene grazie all’azione delle pompe protoniche. All’arrivo di un
particolare segnale, l’osteoclasta si attiva. L’anidrasi carbonica presente al suo interno, combina CO2 e H2O
per formare ioni H+ e HCO3-. Gli ioni H+ vengono pompati all’esterno da pompe protoniche. Gli ioni
accumulandosi in una precisa zona abbassano il pH è inizia la demolizione della componente inorganica
dell’osso, così vengono liberati ioni Ca e immessi nella circolazione sanguigna. Per la demolizione della
componente organica vengono secreti enzimi litici. I prodotti ottenuti da questa “digestione” vengono poi
assorbiti dall’osteoclasta per poter essere riutilizzati. Una volta che l’osteoclasta ha terminato il suo compito
si arresta. Per il processo contrario, ovvero la fissazione del calcio a livello delle ossa, intervengono gli
osteoblasti che depositano, nella lacuna lasciata dagli osteclasti, il calcio. Se tale equilibrio viene a mancare si
ha un osteoporosi, ovvero l’azione demolitrice degli osteclasti non viene neutralizzata dall’azione costruttrice
degli osteoblasti. L’osso perde la sua resistenza e diventa friabile come il talco. Quindi riassumendo:
-
L’osteoclasta demolisce sia componente organica che inorganica dell’osso formando una lacuna;
-
La lacuna viene invasa dagli osteoblasti che rifissano il calcio e producono nuova componente
organica;
-
Terminata la costruzione, gli osteoblasti si disattivano, diventando osteociti che presiedono
all’integrità dell’osso.
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6-L’Epitelio
Oltre al tessuto connettivo, un altro tipo è quello epiteliale. Il tessuto epiteliale è un particolare tipo di
tessuto costituito da cellule di forma regolare e quasi geometrica, che aderiscono le une alle altre. Le cellule
che costituiscono il tessuto epiteliale svolgono funzioni di rivestimento, di trasporto, di secrezione e di
assorbimento. Nei vertebrati questo tessuto costituisce, in particolare, il rivestimento interno ed esterno
della maggior parte delle superfici corporee. In qualunque posto si trovino, i tessuti epiteliali sono separati
dai sottostanti mediante una membrana basale non cellulare, di natura fibrosa. Un tipo particolare di tessuto
epiteliale è l'epidermide, o pelle; altri esempi sono i rivestimenti della bocca, della cavità nasale, dell'apparato
respiratorio, dei canali dell'apparato riproduttore, dell'intestino e dei vasi sanguigni.
Le cellule di un tessuto epiteliale, per poter essere considerate tali, devono avere alcune caratteristiche:
-
Devono essere fornite di sistemi di connessione;
-
Devono possedere sistemi di comunicazione;
-
Deve essere presente una membrana basale o detta anche lamina basale.
Negli epiteli le cellule presentano una forma geometrica ben definita e sono a stretto contatto fra loro,
risultando scarsa o assente la sostanza intercellulare. Le cellule sono inoltre strettamente legate le une alle
altre per mezzo di numerose giunzioni cellulari, che rendono il tessuto compatto e resistente a traumi o
strappi. Un altro aspetto caratteristico delle cellule epiteliali è quello di essere polarizzate: sono cioè
provviste di due superfici distinte, una che guarda verso la membrana basale sottostante, detta superficie o
versante basale, e l'altra che guarda invece verso il lato superiore dell'epitelio, detta superficie o versante
apicale; quest'ultima presenta spesso specializzazioni funzionali distintive, come la presenza di invaginazioni e
protuberanze come microvilli o ciglia. Un'altra specializzazione funzionale, tipica fondamentalmente delle
cellule dello strato più esterno della cute, è la cheratinizzazione; cellule cheratinizzate contengono cheratina,
una molecola organica che, tramite la creazione di ponti disolfuro le rende maggiormente resistenti ai traumi
ed impermeabili ai liquidi. Gli epiteli, in genere, non sono percorsi da capillari sanguigni e le sostanze utili per
il loro mantenimento sono veicolate mediante liquidi interstiziali: in questi ultimi gli elementi nutritivi passano
per diffusione dai capillari sanguigni dei tessuti sottostanti.
Le strutture preposte al sistema di connessione sono le Tight e le Leaky junctions. Le tight, rispetto alle
leaky, sono impermeabili e ciò risulta anche da esperimenti effettuati col nitrato di lantanio. Si è visto che in
presenza di tight junctions il nitrato non diffondeva. Le tights saldano tra loro le cellule. Tali giunzioni sono
formate da proteine chiamate Claudine e Occludine. Le tight formano la zonula occludens. La zonula occludens
è conformata in modo tale che per tutta la sua estensione le membrane delle cellule coinvolte nella giunzione
si affrontino e si fondano tra loro grazie a proteine intrinseche di membrana che passano “a ponte” da un
doppio strato lipidico a quello contiguo saldando indissolubilmente le due membrane. Queste proteine hanno
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cioè una porzione idrofoba spessa quanto entrambi i doppi strati lipidici delle cellule affrontate e due calotte
apicali idrofile che sporgono nel citoplasma delle due cellule. Queste proteine intrinseche non sono disposte
sporadicamente ma sono organizzate in filiere intersecate fra sé ed orientate diversamente nello spazio in
modo da annullare lo spazio fra cellula e cellula. Al microscopio elettronico quindi la zonula occludens appare
come una struttura a tre binari elettrondensi: i due più esterni sono rappresentati dagli strati fosfolipidici
più interni delle due cellule coinvolte nella giunzione, quello più interno è dato dalla fusione dei due strati
fosfolipidici esterni delle due cellule. Di conseguenza la membrana cellulare nel suo insieme, a livello della
giunzione occludente, assume un aspetto pentalaminare in quanto le tre bande elettrondense sono intercalate
a bande elettrontrasparenti. Questo tipo di giunzioni sono localizzate generalmente all’apice di cellule
polarizzate come quelle dell’epitelio intestinale e sono impermeabili.
Nelle cellule polarizzate si trovano generalmente subito sotto le zonulae occludentes. In questo caso le cellule
contigue sono separate da uno spazio di 15-20 nm occupato da un materiale a medio arresto elettronico.
Questo materiale extracellulare è rappresentato dalla porzione extracellulare di particolari caderine, le
caderine E, che sono estremamente concentrate sulla membrana della porzione intorno alla zonula adhaerens.
La porzione intracellulare di queste caderine prende contatto con una serie di proteine intracellulari che
formano un rivestimento elettrondenso nella zona sottostante la macula adhaerens, definito placca di
adesione. Sulle proteine della placca di adesione convergono dei fasci di microfilamenti che, essendo composti
da actina, hanno la proprietà di scorrere gli uni sugli altri. La zonula adhaerens viene così ad essere un
dispositivo tramite cui le forze applicate alla cellula si scompongono secondo tante direttrici e scompaiono.
Inoltre i microfilamenti che si legano alla placca di adesione trovano proprio nella zonula adhaerens un punto
di forza per poter esercitare un movimento all’interno della cellula.
Oltre alle tight, come strutture preposte alla connessione vi sono i Desmosomi che formano una sorta di clips
molecolari. Un desmosoma è una giunzione di natura proteica tra cellule adiacenti che salda i rispettivi
citoscheletri (in particolare i filamenti intermedi) donando al tessuto di cui le cellule fanno parte resistenza
alla trazione ed altri traumi fisici. Il desmosoma si lega ai filamenti intermedi, fatti di cheratina, tramite una
placca citoplasmatica composta da due proteine chiamate desmoplachina e placoglobina, che legano anche le
proteine integrali di membrana desmocollina e desmogleina, alle quali spetta il compito di legarsi a proteine
analoghe su di un desmosoma della cellula adiacente. Altre proteine di cui sono formate i desmosomi sono le
Caderine, proteine calcio-dipendenti, mentre la placca di ancoraggio delle caderine è formata da
Desmoplachina e Plakoglobina. La caderina è una molecola (una glicoproteina integrale) che media l'adesione
cellulare in presenza di Ca2+. Il nome deriva dalla contrazione dell'inglese cell aderine (cellule di adesione
appunto). Le caderine rivestono la superficie della cellula dotandola di cariche negative (grazie alla presenza
di residui oligosaccaridici), mentre il Ca2+ funge da "collante": con le 2 cariche positive, infatti, lo ione si
interpone fra 2 caderine presenti su cellule diverse e ne permette l'adesione. Il Ca2+ è essenziale perché se
mancasse, le cariche negative (non schermate) delle caderine delle due cellule impedirebbero il processo per
24
repulsione elettrostatica. L'adesione promossa dalle caderine è un'adesione omotipica o omofila, ovvero fra
cellule uguali. Esistono circa 30 caderine diverse, classificate in 4 gruppi:
-
caderine E (epiteliali) dette uromoduline;
-
caderine P (placentari);
-
caderine N (nervose);
-
caderine desmosomiche, le quali a loro volta sono identificate in 2 diverse classi, le desmogleine e
le desmocolline e che intervengono nella formazione dei desmosomi.
I vari tipi di caderine sono codificate da geni diversi ma hanno simile sequenza amminoacidica. I desmosomi
regolano l’espressione di determinati geni. Infatti la separazione della cellula da un’altra induce la produzione
di determinate proteine.
Se il sistema costituito da Tight-Junctions, Zonula Adherens e Macula Adherens ha il compito di mantenere
unite saldamente tra loro le cellule, il sistema di comunicazione è affidato alle Gap-Junctions. Le giunzioni gap
permettono a piccoli metaboliti e molecole di poter diffondere liberamente dal citoplasma di una cellula
all’altra. Una gap è formata proteine che prendono il nome di connessine che legandosi tra loro formano un
connessone.
La membrana basale è quella membrana su cui poggiano tutte le cellule della base dell’epitelio. La membrana
basale è un sottile strato di matrice extracellulare di uno spessore compreso tra 70 e 300 nm che separa gli
epiteli dal tessuto connettivale. Essa viene prodotta sia dalle cellule epiteliali che dai fibroblasti del
connettivo in una forma di cooperazione. Per metterla in evidenza è comunemente utilizzata la microscopia
elettronica a trasmissione anche se utilizzando la reazione PAS è possibile evidenziarne la presenza (senza
che però ne siano distinguibili i vari strati) anche al microscopio ottico. La membrana basale ha la due funzioni
principali:
-
fornire supporto fisico agli epiteli;
-
regolare il microambiente degli epiteli funzionando da filtro.
Gli epiteli non essendo vascolarizzati scambiano le molecole per diffusione con il connettivo, che invece è
vascolarizzato e questo scambio è regolato proprio dal filtro che è costituito dalla membrana basale e in
particolare dai GAGs sia liberi (eparansolfato) sia associati in proteoglicani grazie alle sfere di idratazione
dei numerosi gruppi acidi e solforati. Essa è formata da tre strati:
-
lamina lucida (o lamina rara) che è occupata principalmente da glicoproteine di adesione come la
laminina (che lega da un lato i recettori integrinici presenti sul versante basale delle cellule
epiteliali e dall'altro i proteoglicani e il collagene di tipo IV della lamina densa, tale legame e
mediato da un'altra glicoproteina di adesione l'entactina);
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-
lamina densa che è formata da proteoglicani, GAGs liberi (eparansolfato) e da collagene di tipo IV
che non forma fibre ma una sottile e resistente rete (poiché ad esso non vengono tagliati i peptidi
terminali in sede extracellulare come accade agli altri tipi di collagene);
-
lamina fibroreticolare, costituita da fibre reticolari di collagene di tipo III, non contiene
proteoglicani, fibrille di collagene di tipo VII connettono invece il collagene di tipo IV della lamina
densa alla lamina fibroreticolare.
In alcuni casi, quando due foglietti epiteliali si continuano senza alcun connettivo frapposto (come a livello
degli alveoli polmonari e dei corpuscoli renali), la membrana basale risulta costituita da due lamine lucide e una
lamina densa tra esse frapposte (motivo per cui questa struttura è nota anche come sandwich).
Compiti della lamina basale sono, quindi:
-
Adesione;
-
Filtro/barriera;
-
Isolamento;
-
Assorbimento;
-
Catalizzatrice.
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7-L’Apparato Circolatorio
L’apparato circolatorio è la rete idraulica dell’organismo. Tale apparato ha il compito di trasportare i
metaboliti e rimuovere i prodotti di rifiuto. Per poter fare ciò esistono due reti di circolo:
-
La prima, quella delle Arterie ha il compito di portare i metaboliti alle cellule;
-
La seconda, quella delle Vene ha il compito di trasportare i prodotti di rifiuto.
Con questa classificazione, distinguiamo due tipi diversi di fluido che circola nei due sistemi. Il fluido
circolante nelle arterie è ricco di ossigeno, al contrario quello circolante nelle vene che è ricco di anidride
carbonica. Accanto a queste due linee vi è una terza rete ad alimentazione autonoma, la rete linfatica, che ha
il compito di recuperare eventuali perdite delle due reti. Il sangue raggiunge il cuore e da qui viene mandato ai
polmoni. Dai polmoni ritorna al cuore e poi, dal ventricolo sinistro, si diparte per raggiungere tutte le zone
dell’organismo. La parete di un’arteria risulta essere formata da tre tonache. Dalla più interna all’esterna,
queste sono:
-
Tonaca Intima, che si rinnova ogni 20 anni. La tonaca intima delle arterie e delle vene è piuttosto
simile, sebbene nelle arterie sia presente una maggiore percentuale di fibre elastiche, sostituita
nelle vene da fibre di collagene. A contatto con il sangue è presente un epitelio specializzato,
l'endotelio, sorretto dalla propria lamina basale. Superficialmente a questo si trova una copertura
di robuste fibre di collagene e proteoglicani ed elastina, ricoperta dalla lamina elastica interna,
costituita da fibre elastiche (più sottile nelle vene);
-
Tonaca Media, che si rinnova ogni 2 mesi. La tonaca media si differenzia molto tra arterie e vene.
Nelle arterie, maggiormente nelle più grosse, è presente una spessa copertura di fibre muscolari
lisce a disposizione circolare o spirale che nelle arterie più grosse può essere costituita anche da
50 strati uniformi. Tra questi miociti lisci è presente una struttura di fibre di collagene, tipica
delle matrici extracellulari. Nelle vene invece la struttura muscolare è quasi del tutto assente e
non si viene a formare una disposizione spirale o circolare di miociti lisci, ma esiste tuttavia la
struttura di collagene, con povere fibre elastiche, il che da alla vena molta meno elasticità e le
impedisce di pulsare come le arterie. Superficialmente alla tonaca media esiste una lamina elastica
esterna, di dimensioni minori nelle vene;
-
Tonaca Avventizia, che si rinnova ogni 20 giorni. La tonaca avventizia è costituita da connettivo
posto oltre la lamina elastica esterna ed è piuttosto simile in arterie e vene. Vi sono presenti
alcuni vasi detti vasa vasorum per la vascolarizzazione dell'arteria o della vena stessa e, nelle
arterie, rami ortosimpatici, per l'innervazione dei miociti lisci al fine di produrre la
vasocostrizione che aumenta la pressione sanguigna.
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Tra la avventizia e la media, e la media e l’intima, vi sono due zone di transizione dette limitante esterna e
limitante interna. La tonaca avventizia è costituita da sostanza amorfa (acido ialuronico e proteoglicani) e da
componente fibrillare (collagene e glicoproteine). Quindi l’avventizia è un composito, in grado di resistere sia
a forze di taglio, trazione e compressione. Le cellule dell’avventizia sono le cellule del team fibroblastico. A
lungo ci si è interrogati su come facessero le cellule che formano il sistema vascolare a ricevere il nutrimento
dal sangue. Questo problema viene definito come il paradosso della nutrizione vascolare. In realtà esistono
delle strutture, dette vasa vasorum, che sono vasi che si dipartono dal ramo principale e creano una
circolazione interna che porta il nutrimento alle cellule del vaso stesso. Esistono diverse versioni strutturali
di arterie:
-
Arterie muscolari, in cui la tonaca media è composta da un manicotto di fibre muscolari;
-
Arterie elastiche, in cui il manicotto è molto elastico data l’alta percentuale di elastina.
La posizione di tali tipi di arterie dipende dalla pressione sanguigna che le pareti devono essere in grado di
sopportare. Quindi vicino al cuore, date le alte pressioni, troveremo arterie di tipo elastico. Tali arterie,
infatti sono in grado di sopportare enormi pressioni, deformandosi, per poi ritornare alle condizioni iniziali.
Mano a mano che ci allontaniamo dal cuore e la pressione diminuisce, la componente elastica diventa sempre
più minore e viene rimpiazzata dalla componente muscolare. Quindi sarà lontano dal cuore che troveremo
arterie di tipo muscolare e ciò per poter imprime più forza al sangue giunto in periferia che ormai tende a
fermarsi. Le arterie di tipo misto sono arterie che hanno percentuali variabili di componente elastica e
muscolare. Mano a mano che si passa da arterie, arteriole e capillari, si perde una tonaca. Le arteriole ne
avranno solo due, quella intima e media, mentre i capillari avranno solo la tonaca intima. Il flusso all’interno
delle arteriole può essere regolato da apposite escrescenze dette diaframmi regolatori di flusso. La rete
arteriosa e la rete venosa sono in collegamento tra di loro ma ciò non è da sempre stato ritenuto vero. Un
tempo si riteneva che i due sistemi fossero indipendenti e che in ognuno di essi fluisse un tipo diverso di
fluido. Il sistema chiuso arterie-vene può essere visualizzato in campioni immersi in neoprene. Il sistema
arterie, arteriole e capillari è una rete idraulica molto efficiente, infatti la diminuzione dell’area di sezione fa
in modo che la velocità del fluido aumenti andando verso la periferia. Nello stesso tempo il moto del fluido da
turbolento è diventato laminare.
Esistono varie tipologie di capillari. I capillari continui sono i meno permeabili; sono formati da una sola
cellula endoteliale che forma il canale, da una lamina basale, unitaria o fenestrata e talvolta da periciti, cellule
specializzate che si dispongono intorno alle cellule endoteliali per rinforzarle. Possono essere presenti anche
dei macrofagi di guardia. I capillari continui permettono la diffusione
soltanto a piccole molecole come
ossigeno e anidride carbonica. I capillari fenestrati sono più permeabili dei capillari continui in quanto il
canale formato dalle cellule endoteliali non è sempre continuo e possono esistere dei fori o fenestrature con
il diametro di circa 20nm, sufficientemente grandi da far passare acqua e metaboliti, ma sufficientemente
piccoli da impedire la fuoriuscita delle emazie. La lamina basale è spesso interrotta e sono comunque presenti
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alcuni macrofagi. Nei capillari fenestrati sono presenti delle vere e proprie finestre che facilitano il
passaggio anche di grosse macromolecole. I sinusoidi, o capillari discontinui, sono in assoluto i capillari più
permeabili. Si trovano in pochi organi, come nel fegato, e con la loro struttura peculiare riescono a far
permeare molti metaboliti al fegato deve saranno convertiti e/o immagazzinati
Le cellule che costituiscono i capillari sono i periciti. Accanto i perititi troviamo anche i miociti, cellule ad
azione contrattile che forniscono un ulteriore spinta propulsiva al fluido che, ormai, giunto in periferia, si
muove molto lentamente. Nei capillari, il sangue ricco di ossigeno, quindi arterioso, cede il gas alle cellule.
Contemporaneamente l’anidride carbonica passa dalle cellule al sangue (in questo caso si parla di sangue
venoso). Il sangue poi prosegue il suo tragitto, questa volta verso il cuore, nella rete venosa. Più capillari
confluiscono in una venula, e più venule in una vena. Caratteristica principale delle vena è la presenza di
opportune valvole, atte a bloccare il riflusso del sangue. Infatti il sangue presente nelle vene è a bassissima
pressione e si muove più lentamente. La forza propulsiva, nelle vene, viene data dalla contrazione muscolare,
ed è per questo che dopo un certo tempo si sente il bisogno di muovere le gambe. Il movimento generato dalla
contrazione provoca l’avanzamento del sangue nelle vene. Quindi, è possibile affermare che, mentre le arterie
sono vasi in cui si privilegia la resistenza a forti pressioni, le vene sono strutture a elevata capacitanza, cioè
in grado di contenere quantità di sangue maggiori rispetto alle arterie. Le vene sono soggette a particolari
degenerazioni che possono portare a ematomi, telangectasie, varici, ulcere, edema.
La contrazione della tonaca media avviene in seguito ad un flusso di Calcio, che dall’esterno della cellula
contrattile, attraverso un apposito canale, entra all’interno generando la contrazione.
29
8-Il Muscolo
Sydney Ringer fu il primo a capire, attraverso una serie di esperimenti, che la contrazione muscolare era
correlata alla presenza di calcio. Le cellule muscolari prendono il nome di miociti. Il miocita è una cellula
propria del tessuto muscolare. Se appartenente al tessuto muscolare striato, la sua organizzazione sarà quella
del sincizio. Il sincizio del tessuto muscolare striato presenta una membrana cellulare chiamata sarcolemma,
nuclei in posizione ipolemmale, di forma allungata, piuttosto basofili. Nel citoplasma è da notare la struttura
chiamata tubulo T (invaginazione del sarcolemma) e il reticolo endoplasmatico liscio (reticolo sarcoplasmatico)
molto sviluppato che costituisce la cosiddetta "triade", con funzione di rilascio e di assorbimento di ioni
calcio, i quali permettono il fenomeno contrattile. A questo proposito è fondamentale l'organizzazione
citoscheletrica di actina e miosina. Nel tessuto muscolare liscio i miociti non sono raggruppati in sincizi, ma
sono distinguibili singolarmente. Il nucleo presenta le stesse caratteristiche del tessuto precedente. Il
tessuto muscolare cardiaco, sebbene involontario, è striato, ma formato da cellule singole, chiamate
cardiociti, le quali possiedono a livello della membrana plasmatica delle giunzioni (g. scalariformi o dischi
intercalari) che connettono le cellule tra di loro tramite desmosomi e giunzioni gap. Il reticolo
sarcoplasmatico costituisce la diade. Analizzando l’interno, si possono notare due strutture:
-
Le placche;
-
I corpi densi.
Sono appunto queste due strutture a poter permettere la contrazione del miocita. L’attività contrattile è
strettamente legata all’apparato citoscheletrico della cellula. La proteina del citoscheletro implicata nella
contrazione è l’actina, che è presenta nella forma globulare nel citoplasma della cellula (Actina G).
L'actina è una proteina di forma globulare, con un diametro di circa 7 nm, dal peso di 43 kDa e costituisce una
porzione abbondante (5-10%) di tutte le proteine delle cellule eucariote. La più alta presenza di actina si
verifica nelle cellule del tessuto muscolare (circa 20% delle proteine totali), dove è fondamentale per il
processo di contrazione. Ogni singola subunità di actina (detta actina G, cioè globulare) si può legare ad altre
due subunità, formando così un polimero lineare. Due polimeri lineari avvolti tra di loro danno origine ad un
microfilamento, uno dei tre tipi fondamentali di filamenti che compongono il citoscheletro. L’actina G
polimerizza in Actina F, formando dei cavi. L'assemblaggio dei filamenti di actina è dipendente dalle
condizioni dell'ambiente interno alla cellula, il citosol, ed in particolare dagli ioni presenti, dalle loro
concentrazioni e dal legame con l'ATP. La polimerizzazione è infatti favorita da una concentrazione salina pari
a quella corporea; inoltre, i monomeri di actina legati ad ATP tendono ad aggiungersi e a restare attaccati al
filamento con maggiore facilità rispetto ai monomeri in cui l'ATP è diventato ADP. La presenza di un capo del
filamento caratterizzato da actina legata ad ATP identifica l'estremità "più", mentre l'altro capo, dove
l'actina è legata a ADP costituisce l'estremità "meno" del filamento.
30
Sui cavi di actina scorre il motore molecolare di miosina. Le miosine sono una vasta famiglia di proteine
motrici, rintracciabili in cellule eucariotiche, responsabili del movimento basato sui filamenti di actina. La
molecola di miosina è costituita da più parti:
-
Una testa, deputata al legame con i filamenti di actina, oltre che al sito di idrolisi dell'ATP.
Questa reazione chimica permette il movimento della miosina verso l'estremità + del filamento di
actina, tramite cambiamenti conformazionali dovuti alla diversa affinità della proteina per le
molecole che può legare (ATP, actina, ADP in ordine decrescente di affinità);
-
Un flex, che permette il movimento della testa;
-
Un collo;
-
Un corpo o coda, è un dominio di struttura allungata che generalmente media le interazioni con
molecole trasportatrici e subunità di miosina.
Tale fisionomia permette alla molecola di miosina di poter scorrere sul filamento di actina senza problemi ed
efficientemente. Naturalmente, il movimento della testa è causato dall’energia ricavata dall’utilizzo di ATP.
Quindi, in un miocita, tutte queste singole parti sono organizzate tra loro a formare un complesso atto alla
contrazione della cellula.
La miosina II, presente nel sarcomero dei muscoli striati, è l'isoforma più espressa nell'organismo umano,
nonché la più studiata per la sua funzione primaria nel movimento muscolare. É formata da due catene pesanti
di circa 2000 amminoacidi ciascuna; le estremità N-terminali vanno a formare la regione globulare, dotata di
due teste, mentre le code C-terminali si sviluppano come due code intrecciate con un dominio coiled-coil. La
miosina II presenta anche quattro catene leggere che si uniscono alla struttura nella regione di confine tra
testa e coda. Il rigor mortis è legato alla dinamica del funzionamento della miosina, infatti la testa si stacca
dall’actina a seguito dell’idrolisi di ATP. Una volta terminato l’ATP la testa resta perennemente unita
all’actina, impedendo così il naturale scorrimento. La miosina si muove lungo il filamento attraverso delle
insenature presenti sul filamento stesso, denominate anse actiniche. Anche i microfilamenti e i relativi motori
molecolari sono implicati nel trasporto vescicolare. I microtubuli funzionano come binari o autostrade, mentre
i microfilamenti sono i propulsori.
Le placche dense sono strutture presenti al di sotto della membrana plasmatica, e servono ad ancorare
saldamente l’actina filamentosa alla corteccia cellulare, cioè a tutta quella rete scheletrica presente al di
sotto della membrana plasmatica. I corpi densi, si trovano nel citoplasma, è sono ragguagli di filamenti di
actina, ovvero servono a connettere più filamenti di actina tra di loro. A ciò, si aggiunge come ulteriore
supporto, la presenza di alcune proteine dei filamenti intermedi, come la Desmina e la Vimentina. La miosina,
si trova incastonata in mezzo ad un binario di filamenti di actina. Tramite la fosforilazione, la miosina si
attiva, e i filamenti di actina scorrono l’uno sull’altro, provocando la contrazione. Per rispondere alla domanda
di cosa provoca la fosforilazione della miosina, bisogna osservare attentamente la membrana del miocita. Al
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microscopio, la membrana del miocita è ricoperta da numerosi “bernoccoli”. Questi non sono altro che i
cancelli del calcio, cioè proteine trans-membrana addette a facilitare l’ingresso del calcio nel citosol. Quando
questi cancelli si aprono il calcio entra nella cellula, e raggiunta una certa concentrazione si verifica la
contrazione. Un calcio antagonista è un farmaco che tappa parzialmente il cancello del calcio modulando così
che la generazione della contrazione. Ricordiamo che una piccola quantità di calcio è presenta già all’interno
della cellula, e precisamente nel REL. L’autore della fosforilazione della testa della miosina è una chinasi che
normalmente è inattiva. L’arrivo di un segnale viene recepito dal sensore presente sulla membrana. All’interno
della cellula, la cascata di AMP-ciclico genera una parziale depolarizzazione della membrana plasmatica che
apre il cancello. Il calcio inizia ad entrare nella cellula, ma la contrazione non avviene all’istante. Infatti
occorre che la concentrazione raggiunga la quantità di 1µM. Raggiunta questa soglia, quattro atomi di calcio si
legano ad una molecola di calmodulina.
La calmodulina è una proteina particolarmente abbondante nelle cellule eucariotiche (fino all'1% delle proteine
totali). È particolarmente importante nei processi di segnalazione intracellulare, dove lega ioni Ca++ con alta
affinità. Questi sono utilizzati nelle cellule come piccole molecole di segnalazione intracellulare. Il legame di
due o più ioni ne determina un cambiamento conformazionale che la rende adatta a legare proteine bersaglio.
I bersagli della Ca++/calmodulina sono generalmente proteine di trasporto di membrana e le proteina chinasi
come la CaM-chinasi. Questa chinasi trasferisce gruppi fosfato su altre proteine in corrispondenza di serine
e treonine selezionate (fosforilazione). Vi sono tre tipi principali di canali ionici che portano l'ingresso di Ca++
nel citosol:
-
Canali del Ca++ dipendenti da voltaggio, presenti nella membrana plasmatica, si aprono quando la
cellula viene depolarizzata;
-
Canali di rilascio di Ca++ regolati da inositolo 1,4,5-trifosfato (IP3), sono presenti nel reticolo
endoplasmatico che, tra le varie funzioni, funge da riserva di ioni Ca++. La via dell'IP3 viene
attivata da particolari recettori collegati a proteine G, che a loro volta attivano un enzima
attaccato alla membrana plasmatica, la fosfolipasi C-β. La fosfolipasi agisce tagliando un
fosfolipde di membrana, il fosfatidilinositolo 4,5-bisfosfato (PI(4,5)P2) generando IP3 e
diacilglicerolo. L'IP3 lega i canali ionici del reticolo endoplasmatico aprendoli;
-
Recettori della rinodina, responsabili principalmente della contrazione muscolare, rilasciano Ca++
dal reticolo sarcoplasmatico in risposta a un cambiamento del potenziale di membrana.
Il complesso calmodulina-calcio si lega alla chinasi rendendola attiva. La chinasi attiva fosforila le teste di
miosina e la contrazione avviene. La depolarizzazione della membrana è connessa con altri canali ionici, tra cui
quelli del cloro e del potassio. Il canale del calcio è costituito da più parti:
-
Il Sensore di Voltaggio è la parte del cancello che rileva le variazioni di potenziale della
membrana;
32
-
Il Cancello di Attivazione induce l’apertura del canale;
-
Il Poro costituisce il passaggio obbligato degli atomi di calcio;
-
Il Cancello di Inattivazione blocca il passaggio del calcio.
Fisicamente, il poro è chiuso da una sorta di palla o tappo collegata al cancello di inattivazione. Quando la palla
si sposta dal poro, gli ioni calcio fluiscono all’interno. Il tempo di attivazione e disattivazione del cancello è
legato alla lunghezza del cancello di inattivazione. Più tale parte del cancello è lunga e mene rapidamente il
poro viene chiuso. Quindi il canale del calcio è un proteina etero-oligomerica composta da cinque parti tutte in
rapporto stechiometrico 1:1:1:1:1. I canali possono essere isolati dalla membrana plasmatica e possono essere
analizzati tramite la tecnica del Patch Clamping.
Il citoscheletro rappresenta l’ossatura della cellula e ne determina la forma. Le singole cellule possono
cambiare forma e tale cambiamento avviene a seguito di modificazioni della struttura citoscheletrica. Il
citoscheletro è formato da una serie di strutture, a loro volta formate da più proteine. L’assemblaggio di più
subunità proteiche forma le seguenti strutture:
-
I microtubuli;
-
I microfilamenti;
-
I filamenti intermedi.
I microtubuli sono strutture cellulari che fanno parte del citoscheletro, sono proteine filamentose formate
da dimeri di α-tubulina e β-tubulina. Le due suddette proteine si associano a spirale alle estremità del
microtubulo formando un cilindro cavo. La facilità con cui si ha la polimerizzazione e depolimerizzazione di tali
filamenti determina la capacita cinetica di tali strutture. I microtubuli sono formati da due subunità
proteiche di α e β tubulina (di dimensioni 4nm×5nm×8nm e 100.000Da di peso molecolare). Queste subunità si
organizzano a loro volta in gruppi di tredici per formare dei microtubuli con 25nm di diametro. Il microtubulo,
inoltre, possiede un'intrinseca polarità, dovuta alla disposizione delle subunità proteiche di tubulina. Infatti
esse sono orientate nella stessa direzione in modo che tutte le subunità di tubulina α siano rivolte verso la
stessa estremità del microtubulo, determinando quindi una diversità strutturale e chimica tra le due
estremità. I microtubuli si polimerizzano e depolimerizzano in continuazione all’interno della cellula e si
accrescono a partire da un centro organizzato (detto MTOC, acronimo di "Micro-Tubules Organization
Centre" e rappresentato dal centrosoma). Le diversità funzionali dei microtubuli sono dovute a diverse
caratteristiche quali: presenza di proteine associate ai microtubuli (MAPs) che convertono la rete instabile di
microtubuli in una ossatura relativamente permanente, dalla tubulina solubile, da proteine che incapsulano
l’estremità crescente della tubulina impedendone la depolimerizzazione, inoltre tramite l’espressione di
diversi isotipi di tubulina con diverse funzioni ed anche grazie all’azione di modificazioni post-traduzionali
della tubulina. Vi sono molti MAPs, come pure diverse proteine che regolano i microtubuli come ad es. la
dineina, che permette il moto lungo i microtubuli verso il centro della cellula, e la chinesina, che promuove il
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movimento lungo il microtubuli verso la periferia cellulare. Alcune di queste differenze predominano in certe
cellule tumorali ed alcune sono associate allo sviluppo della resistenza al farmaco.
L’insieme di queste due subunità forma il proto-filamento. Più proto-filamenti si uniscono a formare delle
particolari strutture, delle quali la più comune è il tubo costituito da 13 proto-filamenti. Il citoscheletro, e in
particolare i microtubuli, sono implicati nel trasporto vescicolare. Infatti i microtubuli sono una sorta di
binari, su cui viaggiano le varie vescicole dirette ai vari organelli cellulari. Ovviamente, il movimento delle
vescicole è permesso grazie anche alla presenza di proteine motrici.
Le strutture citoscheletriche sono strutture dinamiche, ovvero in continuo rinnovamento. Per questa
peculiarità, le due estremità del filamento crescono a velocità diverse. Chiameremo estremità +
quell’estremità dove l’assemblaggio avviene più velocemente, mentre l’estremità – è quell’estremità dove il
filamento depolimerizza. Tale fenomeno rende costante nel citosol la concentrazione di proteine globulari
citoscheletriche, permettendone così un rapido reclutamento ove servissero. Tale fenomeno di continua
crescita e depolimerizzazione prende il nome di treadmilling.
Le proteine dei Filamenti intermedi formano dei monomeri. Tali monomeri si associano a formare dei dimeri,
che a loro volta formano tetrameri. I filamenti intermedi sono strutture di raccordo tra la vescicola di
trasporto e il motore molecolare.
Le proteine immerse nella membrana plasmatica sono in continuo movimento. Tale movimento è causato
dall’interazione di queste proteine con il citoscheletro sottostante la membrana, cioè la corteccia cellulare.
Ma il citoscheletro è il responsabile anche della perfetta organizzazione della matrice extracellulare. Infatti
le molecole appena formate di collageno vengono agganciate da particolari proteine di membrana, dette
glicoproteine strutturali, che a loro volta sono agganciate al citoscheletro. È tale interazione tra il
citoscheletro e le glicoproteine strutturali a permettere il corretto assemblaggio e allineamento delle
nanofibrille di collageno. Infatti cattive disposizioni delle fibre potrebbero causare dei seri danni, come
avviene nel cheratocono, dove la matrice della cornea non è disposta regolarmente e genera l’aspetto
piramidale della superficie della cornea.
Il cheratocono è una malattia della cornea (distrofia corneale progressiva non infiammatoria) che
generalmente colpisce entrambi gli occhi (85% dei casi). Il problema insorge quando la parte centrale della
cornea inizia ad assottigliarsi e ad incurvarsi progressivamente verso l'esterno. Si verifica quindi una
curvatura irregolare della cornea, che perde la sua forma sferica, divenendo conica. Ha una maggiore
frequenza nel sesso femminile e sembra in relazione a disfunzioni della ghiandole endocrine (ipofisi, tiroide).
Può esistere anche una predisposizione ereditaria. La malattia compare dall'adolescenza. La curvatura
irregolare creatasi modifica il potere refrattivo della cornea, producendo distorsioni delle immagini ed una
visione confusa sia da vicino che da lontano. Il paziente lamenta comunque una diminuzione della vista,
soprattutto da lontano. La vista continua a regredire irreversibilmente, e può essere scambiata con una
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miopia associata ad astigmatismo. Dopo qualche anno compaiono i sintomi della presenza del cheratocono:
l'occhio diviene più brillante, gli oggetti che si riflettono sulla cornea appaiono deformati. L'occhio visto di
profilo, mostra la cornea sporgente, nettamente, a cono. Utilizzando il biomicroscopio, si nota una diminuzione
notevole dello spessore sulla sommità della cornea. Col tempo, la sommità del cono diventa opaca a causa di
un'alterazione nel nutrimento di quella parte della cornea. Se la malattia viene trascurata, la sommità si
ulcera; compaiono dolore, lacrimazione e spasmo delle palpebre. Infatti, questi cambiamenti della cornea
producono una alterazione nella disposizione delle proteine corneali, causando delle microcicatrici che
distorcono ulteriormente le immagini e in taluni casi impediscono il passaggio della luce, dando un fastidioso
senso di abbagliamento, soprattutto nelle ore in cui il sole si trova più in basso (alba/tramonto). Altro
strumento per la diagnosi di questa patologia è la topografia dell'occhio, che evidenzia, in una mappa
chiaramente interpretabile, la deformità della cornea.
Tali disturbi sono da collegare all’assenza o al cattivo funzionamento delle glicoproteine strutturali.
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9-Il Cuore
Sulla membrana plasmatica sono presenti numerosi recettori in grado di captare la presenza di molecole
segnale nelle vicinanze. Al recettore è legato un trasduttore, cioè un componente che traduce il segnale
giunto dall’esterno che si è legato al recettore. All’interno della cellula, il trasduttore inizia la scissione di
ATP in AMP-ciclico. Non appena tale composto ha raggiunto una certa concentrazione, una chinasi inattiva
viene attivata tramite la rimozione del suo inibitore. La chinasi attiva può entrare nel nucleo e accendere o
spegnere determinati geni per la produzione di determinate proteine. Come abbiamo visto, anche la
contrazione muscolare è causata dall’arrivo di un segnale esterno che induce la sintesi di AMP-ciclico. La
successiva depolarizzazione della membrana fa aprire i canali del calcio, facendolo entrare nella cellula.
Quando la concentrazione raggiunge quella di 1µM, quattro atomi di calcio si legano ad una molecola di
calmodulina. Tale complesso va ad attivare la chinasi che fosforila le teste della miosina inducendo la
contrazione.
Le arterie sono compositi, cioè sono in grado di resistere a forze di compressione e trazione. Quando tali
strutture di contenimento cedono si ha un aneurisma. Molto interessante è l’architettura dell’aorta. L'aorta è
la più grande e importante arteria del corpo umano. Esce dal ventricolo sinistro del cuore e trasporta il
sangue ossigenato a tutte le parti del corpo tramite la circolazione sistemica, negli animali che possiedono
circolazione a sistema chiuso. Dal punti di vista macromolecolare, la parete aortica è costituita da una serie di
lamine elastiche perforate costituite da elastina. Tra una lamina e l’altra di elastina è presente la fibrillina,
creando così una tensostruttura elastica. In questa impalcatura è presente il collagene e le eventuali cellule
che producono tali materiali. Qui un ruolo particolare gioca la fibrillina, che organizza correttamente nello
spazio le lastre di elastina.
Quindi la parete aortica ha i seguenti componenti:
-
Elastina e fibrillina;
-
Acido ialuronico;
-
Proteoglicani;
-
Collagene;
-
Glicoproteine.
L’architettura aortica viene mantenuta grazie ad un continuo rimodellamento. Infatti la tonaca intima di un
vaso viene rinnovata una volta ogni 20 anni, quella media ogni 2 mesi e quella avventizia ogni 20 giorni. Quindi
la parete aortica è sottoposta ad un continuo remodelling, cioè processi di demolizione, sintesi e monitoraggio
avvengono costantemente. Il processo di remodelling è reso possibile dalla presenza delle metalloproteasi,
enzimi in grado di demolire la matrice extra-cellulare. Le MMP sono già presenti nella matrice in forma
inattiva, legate al TIMP, il loro inibitore. Le MMP rappresentano una famiglia di proteine zinco-dipendenti.
36
Data la loro potenza ed efficienza nel distruggere la matrice, sono le MMP a causare metastasi tumorali, una
volta attivate dalle cellule cancerose. Oggi si cerca di trovare degli inibitori selettivi delle MMP, in modo da
bloccare la demolizione della matrice e quindi diminuire le probabilità che un tumore metastatizzi.
Intervengono 14 enzimi differenti nel controllo omeostatico della struttura aortica e tutti questi enzimi sono
MMP. Questi enzimi sono tenuti sotto stretto controllo onde evitare una catastrofe. In un aneurisma si
verifica un cedimento strutturale. Le MMPs attive demoliscono la matrice della parete, causandone la rottura.
Nella parete aortica vi sono cellule per così dire autoctone, come i fibroblasti, e popolazioni migrate, come i
monociti del sangue. La parete aortica viene man mano colonizzata e quei buchi presenti sulle lamine di
elastina fungono proprio da passaggio per le cellule migranti. I processi di sintesi e di demolizione devono
essere in perfetto equilibrio altrimenti si rischia la rottura della parete. Anche infezioni localizzate nella
parete aortica possono portare alla distruzione della tenso-struttura e alla formazione di aneurismi.
Ben diverso è il caso di aneurisma aortico legato alla sindrome di Marfan. La sindrome di Marfan è una
patologia autosomica dominante che colpisce il tessuto connettivo. Dal momento che tutti gli organi
contengono tessuto connettivo, le manifestazioni della sindrome di Marfan interessano molte parti del corpo,
specialmente il sistema scheletrico, gli occhi, il cuore e i vasi sanguigni, i polmoni e le membrane fibrose che
ricoprono il cervello e la spina dorsale. Lo spettro delle manifestazioni della sindrome è molto ampio e
diversificato. Solo un'indagine genetica può in definitiva garantire una diagnosi precisa per queste persone
che, paradossalmente, sono quelle più a rischio. Per un individuo colpito da sindrome di Marfan l'occorrenza di
una disseccazione dell'aorta non è rara. Mentre un paziente diagnosticato sarà verosimilmente seguito
durante tutta l'evoluzione della malattia e quindi monitorato circa le sue eventuali dilatazioni aortiche, quello
non diagnosticato rischia di essere colpito improvvisamente da dissecazione con conseguenze spesso
drammatiche. Il cromosoma ad essere intaccato è il 15, precisamente la regione q21.1, dove risiede il gene
della fibrillina. La fibrillino anormale presenta omocisteina. Tale anormalità sconvolge l’intera proteina, che
non è più in grado di svolgere la sua funzione.
L'omocisteina è un amminoacido solforato che si forma in seguito a perdita di un gruppo metilico da parte
della metionina, aminoacido essenziale, che deve essere introdotto con la dieta. L'omocisteina viene oggi
considerata come uno dei più importanti fattori di rischio cardiovascolare. È dannosa per l'organismo perché
si ritiene che possa causare disfunzione all'endotelio vascolare con formazione di radicali liberi dell'ossigeno,
e interferisce con la funzione vasodilatatrice e antitrombotica dell'ossido nitrico (NO). Un alto tasso di
omocisteina aumenta difatti di tre volte il rischio di ictus o infarto cardiaco. Infatti i pazienti con alto tasso
di omocisteina circolante (>100 mmol/litro) hanno una predisposizione per l'aterosclerosi. Un suo aumento è
determinato dalla carenza di vitamine del gruppo B (soprattutto acido folico, ma anche vitamina B6 e Vitamina
B12). Per questo motivo la somministrazione di acido folico diventa indispensabile nelle persone ad alto rischio
vascolare.
Il difetto della fibrillina-1 causa:
37
-
La formazione di elastina enormemente disorganizzata e quindi facilmente degradabile dalle
MMPs presenti nella matrice extracellulare;
-
Una maggiore sintesi di MMPs;
-
La progressiva distruzione del tessuto connettivo ad opera delle MMPs;
-
Sviluppo di aneurisma aortico nel tratto toracico.
La presenza di omocisteina causa la prematura rottura nell’arteria delle fibre elastiche a seguito
dell’attivazione di enzimi elastolitici.
Il cuore è un organo posto nella cavità toracica, più precisamente nel mediastino, costituito pressoché
esclusivamente da tessuto muscolare striato, supportato da una struttura fibrosa detta pericardio. Il cuore è
l'organo centrale dell'apparato circolatorio, funge da pompa capace di produrre una pressione sufficiente a
permettere la circolazione del sangue.
Nell’esame dei tessuti che compongono il cuore possiamo distinguere tre zone, che, dall’interno all’esterno,
sono:
-
L’endocardio, è la sottile membrana splendente e biancastra che riveste internamente tutte le
cavità cardiache e le superfici valvolari. È composto di più strati: più superficialmente si trovano
cellule endoteliali, che formano uno strato liscio che poggia sull'endotelio dei vasi afferenti ed
efferenti del cuore; queste inoltre poggiano su di una lamina propria composta da fibre elastiche,
la quale si prolunga in uno strato sottoendocardico di connettivo lasso. Questo strato
sottoendocardico ha particolari funzioni: esso aggancia saldamente l'endocardio alle pareti delle
cavità cardiache, collegandosi al connettivo interstiziale del miocardio; è vascolarizzato, e svolge
una funzione trofica; inoltre, in questo strato sono presenti le reti sottoendocardiche del sistema
di conduzione del cuore, fondamentali per la trasmissione dello stimolo contrattile a tutto il
miocardio;
-
Il miocardio, la massa muscolare del cuore;
-
Il pericardio, una sottile membrana di origine mesodermica che circonda il cuore. Questa
struttura, spessa circa 20 µm, è costituita da due strati distinti: pericardio fibroso è lo strato
esterno; pericardio sieroso è lo strato interno e aderisce perfettamente a tutte le parti piane e a
tutte le insenature del cuore. Il pericardio sieroso è costituito da due foglietti di origine
celomatica di cui il primo (foglietto parietale) a livello dell'origine dei grossi vasi del peduncolo
vascolare si riflette nel secondo (foglietto viscerale). Fra i due foglietti del pericardio sono
presenti normalmente da 20 a 50 ml di liquido chiaro roseo, detto liquido (o liquor) pericardico,
che permettono il movimento del cuore minimizzando l'attrito. La parte inferiore del pericardio è
aderente al cuore e prende il nome di epicardio, e in corrispondenza dei grandi vasi sanguigni che
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dipartono (o entrano) dal cuore le due superfici si fondono. Inferiormente invece il pericardio
aderisce al diaframma.
Il miocardio è formato da lamine, a loro volta formate da fibre. Ogni fibra è formata da più cardiociti. Un
cardiocita è un miocita altamente specializzato. Infatti il suo citoplasma è pieno di fibre citoscheletriche, e
in mezzo a tali fibre vi sono posti i mitocondri che servono a fornire la giusta quantità di ATP utile alla
contrazione. Le fibre, intrecciandosi a mò di tessuto, seguono delle direzioni specifiche. Tale organizzazione
è utile nell’ottimizzare la contrazione del muscolo e imprimere al liquido che viene espulso dal cuore la giusta
potenza. Analizzando attentamente un cardiocita al microscopio si può notare la presenza di numerosi
sarcomeri, cioè l’unità contrattile del muscolo. Il sarcomero è un complesso di proteine, formato da:
-
Actina F;
-
Tropomiosina;
-
Troponina;
-
Miosina.
Come ben sappiamo, lo spostamento della miosina lungo il filamento di Actina F genera la contrazione. La testa
di miosina si sposta di ansa actinica in ansa actinica. La tropomiosina è una proteina del peso di circa 70 kDa
composta da due subunità (eterodimeriche) ripiegate ad α-elica. La proteina ha una forma filamentosa molto
allungata ed è implicata nel controllo della contrazione muscolare prevenendo, in combinazione con il
complesso della troponina, il legame dell'actina con la miosina e quindi la contrazione. Queste interazioni sono
calcio-dipendenti: a basse concentrazioni di calcio, la tropomiosina blocca stericamente il sito di legame della
miosina all'actina, mentre ad alte concentrazioni il suo legame al complesso della troponina induce una
modifica conformazionale provocando a sua volta lo smascheramento del sito di legame actina-miosina
permettendo quindi la contrazione muscolare
La troponina è una proteina ad alto peso molecolare presente specialmente nel tessuto muscolare. È stata
riscontrata la sua fondamentale importanza nella fase di eccitazione-contrazione muscolare scheletrica.
Questo processo, svolto nel tessuto muscolare abitualmente, inizia attraverso il legame del catione Calcio al
sito C della troponina, la quale successivamente attraverso il suo sito T si attaccherà alla tropomiosina, altra
proteina muscolare, facendola scivolare dalla posizione inibitoria che manteneva sui filamenti sottili di actina.
Questi, a loro volta, potranno scivolare sui filamenti spessi di miosina attraverso un'inclinazione di 45 gradi
provocando quindi la contrazione muscolare.
Quando il calcio si lega alla troponina, questa si sposta, mettendo a nudo le anse actiniche. Così la testa della
miosina è libera di scorrere. Le molecole di miosina si assemblano dando origine a dei filamenti spessi. Anche
nel miocardio la contrazione è regolata dalla concentrazione di calcio. Nelle cellule muscolari il REL si
specializza nel Reticolo Sarcoplasmatico, un serbatoio di ioni calcio. Quando il calcio abbandona il reticolo si
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verifica la contrazione. Successivamente segue un breve periodo refrattario dovuto al ritorno del calcio nel
reticolo.
Il cuore è diviso in due da un setto, formando una parte destra e una parte sinistra. A sua volta ciascuna
parte è divisa in un atrio ed un ventricolo. Il sangue entra nell’atrio destro, poi nel ventricolo destro viene
pompato ai polmoni. Giunto nei polmoni il sangue si ossigena e ritorna al cuore, questa volta però nella parte
sinistra. Dall’atrio sinistro, il sangue passa nel ventricolo sinistro e da qui viene pompato in tutto il corpo
umano. Il ventricolo sinistro del cuore è circa sette volte più potente di quello destro. Onde evitare il
reflusso del sangue esistono delle strutture dette valvole che costringono il sangue ad un percorso obbligato.
Le valvole cardiache sono 4 e si dividono in:
-
Valvole a lembi, la tricuspide e la bicuspide, tali valvole di aprono per immettere il sangue nel
cuore. Il loro funzionamento deve essere ottimale, altrimenti all’avvento della contrazione il
sangue potrebbe essere sospinto all’indietro. La valvola tricuspide è una valvola di forma ovale
(diametro di 12 mm) che regola il flusso sanguigno tra l'atrio destro ed il ventricolo destro. La
valvola bicuspide (nota anche come valvola mitrale per la somiglianza con il copricapo cerimoniale)
ha un diametro di oltre 30 mm, regola il flusso sanguigno tra l'atrio sinistro ed il ventricolo
sinistro ed ha un orifizio di 4-6 cm2. Come la valvola tricuspide, presenta una forma leggermente
ovale. A differenza della tricuspide, la valvola mitrale presenta due cuspidi;
-
Valvole a nido di rondine, la aorta e la polmonare, che si aprono al momento della contrazione e si
richiudono subito dopo, evitando così il riflusso di sangue al cuore. La valvola semilunare aortica o
valvola aortica (diametro di 2mm) regola il flusso sanguigno dal cuore verso il sistema circolatorio.
Localizzata presso l'orifizio che collega l'aorta al ventricolo sinistro, la valvola ha una struttura a
nido di rondine. La presenza di tre lembi, in realtà, ne genera una caratteristica forma a semiluna,
da cui deriva il nome. La valvola semilunare polmonare o valvola polmonare (diametro di 20 mm)
regola il flusso sanguigno dal cuore verso la circolazione polmonare. Anche la semilunare polmonare
è composta da tre lembi che ne generano la forma a semiluna.
Quando queste valvole si chiudono si riesce a sentire il loro rumore, ed è appunto tale rumore a generare il
caratteristico suono regolare del battito cardiaco.
Il cuore, oltre ad avere una componente motrice, ha anche una componente elettrica, il cui scopo è quello di
propagare correttamente l’impulso per la contrazione cardiaca. Quindi l’impianto elettrico del cuore è
formato da:
-
Il nodo seno-atriale (N-SA), si tratta di una piccola e appiattita striscia ellissoidale di miocardio
specifico larga circa 3 mm, lunga 15 mm e spessa 1 mm, che si trova nella parte superiore laterale
dell'atrio destro subito sotto allo sbocco della vena cava superiore. Le fibre del nodo seno-atriale
hanno un diametro variabile tra i 3 e i 5 mm, mentre le fibre circostanti sono delle dimensioni di
40
una decina di micrometri. In questo nodo si genera il normale impulso ritmico, per fare in modo
che l'impulso venga trasmesso alle fibre atriali, le fibre del nodo S-A si connettono direttamente
con quelle atriali; il potenziale d'azione si diffonde, così, in maniera simultanea negli atri;
-
Le vie internodali: si tratta di una striscia di tessuto di conduzione che deve condurre il segnale
verso il nodo atrioventricolare.
-
Il nodo atrio-ventricolare (N-AV) è il principale responsabile del ritardo che deve essere attuato
nel passaggio del segnale dagli atri ai ventricoli. Un'altra importante funzione del nodo A-V è
quella di permettere il passaggio solo in un senso dell'impulso cardiaco, impedendo il passaggio dai
ventricoli agli atri tramite uno strato fibroso che funziona da isolante per l'impulso;
-
Le fibre del Fascio di His propagano l'impulso alla massa cardiaca ventricolare, dividendosi in due
branche, destra e sinistra. La branca sinistra possiede due fascicoli, anteriore, più spesso, e
posteriore, più sottile.
-
Le fibre di Purkinje, cellule cardiache con conducibilità maggiore dei miocardiociti.
L’impulso della contrazione parte dal N-SA, raggiunge il N-AV, e da qui, attraverso le fibre di Purkinje
raggiunge il resto del cuore. Da un punto di vista citologico le cellule di queste strutture hanno poco
citoscheletro e ciò va a vantaggio della loro funzione di trasmissione dell’impulso contrattile. La trasmissione
dell’impulso contrattile dal N-SA ai cardiociti atriali è di tipo slow, mentre la trasmissione dal N-SA al N-AV
e poi ai cardiociti ventricolari è di tipo fast. Queste due differenti velocità servono a coordinare le singole
parti tra di loro, evitando contrazioni anticipate o ritardate. Eventuali anomalie del sistema elettrico cardiaco
possono generare irregolarità nel battito. Tali anomalie possono estendersi sia alla trasmissione slow sia alla
trasmissione fast. La trasmissione fast è rallentata dalla presenza di un pre-circuito frenante, in grado di
evitare sfasature nella compressione del miocardio. Tramite un ECG (elettro-cardio-gramma) è possibile
registrare l’attività elettrica del cuore. Posizionando accuratamente gli elettrodi nei punti giusti sarà
possibile ottenere un tracciato dell’attività cardiaca. La contrazione che parte dal N-SA genera un’onda
caratteristica detta onda P. All’onda P corrisponde la contrazione dei due atri. Dopo l’onda P segue una pausa
di 1/10 di secondo. Questo è il tempo che l’impulso impiega a raggiungere il N-AV. L’impulso si trasmette alle
fibre di Purkinje e l’onda generata prende il nome di sistema QRS. Quest’onda corrisponde alla contrazione
dei due ventricoli. Dopo il Sistema QRS segue un’onda T che corrisponde alla ripolarizzazione ventricolare e
poi il ciclo riprende. Eventuali anomalie, come extra-sistole possono essere rilevate tramite ECG. L’extrasistole è una contrazione fuori tempo del cuore. Spesso le extra-sistole possono essere causate da crisi di
ansia.
Il ciclo cardiaco che porta il cuore dallo stato di contrazione allo stato di riposo e quindi nuovamente a quello
di contrazione è detto "rivoluzione cardiaca". Il ciclo cardiaco comprende le due fasi essenziali nelle quali si
svolge l'attività del cuore:
-
Diastole;
41
-
Sistole.
Durante la diastole tutto il cuore è rilassato, permettendo al sangue di fluire dentro a tutte e quattro le
cavità. Attraverso le vene cave il sangue entra nell'atrio destro, mentre attraverso le vene polmonari entra
nell'atrio sinistro. Le valvole atrioventricolari sono aperte consentendo il passaggio del sangue da atri a
ventricoli. La diastole dura circa 0,4 secondi, abbastanza da permettere ai ventricoli di riempirsi quasi
completamente. La sistole comincia con una contrazione, della durata di circa 0,1 secondi, degli atri che
determina il riempimento completo dei ventricoli. Quindi si contraggono i ventricoli per circa 0,3 secondi. La
loro contrazione chiude le valvole atrioventricolari e apre le valvole semilunari; il sangue povero di ossigeno
viene spinto verso i polmoni, mentre quello ricco di ossigeno si dirige verso tutto il corpo attraverso l'aorta.
Queste fasi cardiache sono ascoltabili e traducibili attraverso due suoni distinti, detti toni cardiaci. Quando i
ventricoli si contraggono abbiamo il primo tono, un suono cupo (rappresentabile con un PUM). È generato dalla
contrazione del miocardio ventricolare e, in parte, dalla vibrazione delle valvole atrio-ventricolari che si
chiudono. Al primo tono segue una pausa durante la quale i ventricoli spingono il sangue nelle arterie.
Successivo è il secondo tono, breve e chiaro (rappresentabile con un PAH), determinato dalla vibrazione delle
valvole semilunari che si chiudono. Al secondo tono segue una pausa più lunga, con il riempimento dei ventricoli.
Le coronarie sono i vasi che portano il sangue alle cellule del cuore. Può accadere che le coronarie si
ostruiscano causando un infarto al miocardio. L’ostruzione può avvenire per vari motivi. Può accadere che si
accumulino detriti oppure che la struttura ceda. Il materiale detritico forma dei trombi, che man mano
tendono ad ostruire il passaggio al sangue. Se non si interviene tempestivamente, in questi casi, le
conseguenze possono essere delle più nefaste.
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10-La Pelle
La pelle (o cute) è un organo degli animali vertebrati composto da uno strato relativamente spesso di tessuto
che protegge i muscoli e gli organi sottostanti. La pelle, nelle creature regolarmente esposte ai raggi del Sole,
ha una pigmentazione. La pigmentazione può essere molto diversa nei vari gruppi umani. La pelle dei
Mammiferi è spesso ricoperta di peli, e se questi sono particolarmente abbondanti vengono definiti "pelliccia".
Il principale scopo dei peli è di migliorare l'isolamento termico della pelle. La pelle, se danneggiata, tende a
guarire formando una cicatrice, spesso con perdita di pigmentazione. La pelle è conosciuta anche come
"l'organo più grande del corpo umano", e infatti la sua superficie è di circa 2 metri quadri. Nel derma, la parte
più interna della pelle, sono contenuti: le ghiandole sebacee, che contengono il sebo, un grasso che protegge la
pelle; i vasi sanguigni;i bulbi piliferi e i peli, che si drizzano col freddo.
La pelle è una tuta biologica con una superficie di 2 m2 e con uno spessore che varia tra l’1 mm e i 4 mm. Il suo
peso è di circa 3 kg, con una impermeabilità medio-alta ed è disponibile in 21 opzioni di colore. Da un punto di
vista tecnico, la pelle è formata da 4 strati sovrapposti. La prima funzione di tale tuta biologica è quella di
regolare la temperatura corporea, ed è per questo che sono presenti numerosi termoconvertitori e
termodeflettori. Per quanto riguarda la manutenzione, la pelle è dotata di un sistema self-cleaning e di uno di
lubrificazione. Per quanto concerne la protezione, le forze vengono neutralizzate o direttamente o da gabbie
fullaraniche. La pelle è un pessimo conduttore a secco, mentre in umido la resistenza al passaggio di corrente
elettrica diminuisce. Inoltre la pelle è in grado di autoripararsi sia totalmente che parzialmente, a seconda
del grado e del tipo di lesione. La cute è strutturata in tre strati che, dall’interno all’esterno, sono:
-
Ipoderma;
-
Derma;
-
Epidermide.
La pelle vera e propria, cioè la pelle visibile all’occhio, è lo strato più esterno della cute, l’epidermide. Le
cellule dell’epidermide poggiano sulla lamina basale. L’epidermide è un epitelio e i requisiti per esser tale sono:
-
presenza di sistemi di connessione tra le cellule;
-
presenza di sistemi di comunicazione tra le cellule;
-
presenza di una lamina basale.
Tutte le cellule dell’epidermide hanno origine da un’unica cellula staminale. A seguito di una serie di mitosi
adeguale (cioè una delle due cellule figlie si differenzia mentre l’altra continua ad essere staminale), da
un’unica cellula prendono vita quattro tipi di cellule diverse, che formano i quattro strati dell’epidermide:
-
strato germinativo;
-
strato spinoso;
-
strato granuloso;
43
-
strato corneo.
Lo strato germinativo è l’unico strato che poggia direttamente sulla lamina basale. Tale strato è formato da
una sola fila di cellule. Tali cellule sono unite tra loro tramite desmosomi e alla lamina basale tramite emidesmosomi. Le cellule dello strato germinativo sono saldamente unite alla membrana basale attraverso le
proteine laminina e integrina e se ne distaccano solo al momento della mitosi. Sulla superficie della cellula
sono presenti dei particolari recettori per fattori di crescita, come il keratan growth factor (KGF) e
l’epidermal growth factor (EGF). Quindi l’adesione alla lamina basale inibisce la mitosi di tali cellule. All’arrivo
di segnali di distacco che si uniscono ai recettori dei fattori di crescita, la cellula si separa dalla lamina basale
e inizia il processo di mitosi. Tale separazione dalla lamina basale e resa possibile da C-Myc, un fattore
promotore della mitosi. Delle due cellule figlie che si originano, una si differenzia è migra verso lo strato
successivo, mentre l’altra ritorna sulla lamina basale. La direzione di spostamento della cellula differenziata è
dettata da un gradiente crescente di calcio verso l’alto.
Lo strato spinoso è formato da 2-3 strati di cellule. Tale strato è stato definito a seguito dell’esperienza
fatta nel 1667 da Marcello Malpighi, che le osservò al microscopio e notò la presenza di strutture simili a
spine sulla superficie delle cellule. Oggi si sa che quelle strutture a spine sono strutture di giunzione
intercellulare (emidesmosomi). Gli emidesmosomi sono strettamente connessi al citoscheletro della cellula. La
presenza massiva di desmosomi forma una barriera desmosomica atta a bloccare il passaggio di eventuali
sostanze, sia dall’interno all’esterno che viceversa. Tale struttura è resa maggiormente impermeabile dalla
presenza di tight-junctions.
Lo strato granuloso è formato da 3-4 strati di cellule. Tale strato è stato definito così data la presenza, nel
citoplasma di queste cellule, di strutture simili a granuli. Queste cellule sono connesse meno strettamente tra
di loro rispetto allo strato precedente, formando delle aree dette microspazi. I granuli sono formati da
ammassi di cheratoialina, un precursore della cheratina, proteina citoscheletrica dei filamenti intermedi
presente abbondantemente nell’ultimo strato. I microspazi sono tappati dalla barriera lipidica, quindi soltanto
a sostanze liposolubili sarà reso possibile il transito. L’insieme delle cellule dello strato granuloso immerse
nella barriera lipidica forma il sistema mattoni-malta. I mattoni sono le singole cellule unite insieme dalla
malta lipidica. Nella composizione lipidica della malta giocano un ruolo fondamentale le ceramidi.
Le ceramidi sono una famiglia di molecole lipidiche. Una ceramide è composta da sfingosina e acido grasso.
Ceramidi si trovano in alta concentrazione nelle membrane cellulari. Sono una delle componenti lipidiche fonte
di sfingomielina: uno dei principali lipidi dello doppio strato lipidico delle membrane cellulari. Per anni si
riteneva, che le ceramidi e altri sfingolipidi nella membrana cellulare fossero puramente elementi strutturali.
Questo è riduttivo: uno degli aspetti affascinanti delle ceramide è il fatto che possono essere liberati dalla
membrana da enzimi per fungere come trasmettitori di segnali. Le funzioni meglio note delle ceramidi, come
segnalatori cellulari, concernono la regolazione della differenziazione, proliferazione, apoptosi.
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Nella malta sono presenti dei domini strutturali caratterizzati da ripetizioni della composizione. La malta è
per lo più formata da strati di colesterolo sovrapposti in verticale aventi un periodo di 13 nm. Tra uno strato
è l’altro troviamo un impasto di ceramidi 1-9 e acidi grassi. Tale dominio ha un periodo di 6 nm. Analizzando
meglio tale sistema è riscontrabile un ulteriore periodo di circa 300 Å. Ogni microsistema presenta alle sue
estremità delle regioni polari mentre all’interno sono riscontrabili dei domini di 13 nm e di 6 nm. Dall’analisi di
tale microstruttura si è visto che i vari strati della malta lipidica sono fagliate, cioè presentano delle
aperture ed inoltre sono presenti degli ulteriori sistemi di regolazione del flusso di trasporto, detti domini
flessibili, che sfruttano l’inclinazione delle code idrocarburiche di acidi grassi insaturi. Tale sistema si
definisce maltosoma. Da qui è possibile comprendere come le sostanze polari riescano a passare tale barriera.
Le teste polari del maltosoma, nella loro disposizione, creano dei canali dedicati al passaggio delle sostanze
polari.
Lo strato corneo, l’ultimo strato dell’epidermide, è costituito da molti strati di cellule morte. Tali cellule,
cheratinociti, sono ricchi di cheratina. L’organizzazione stratiforme dello strato corneo crea un envelope.
Tale involucro di materiale amorfo presenta alcune strutture caratteristiche:
-
strutture portanti statiche;
-
raccordi;
-
strutture portanti flessibile;
-
giunti snodabili.
L’envelope è un insieme di proteine. Tali proteine hanno il compito di tenere uniti, avvolgere e
impermeabilizzare i cheratinociti. Le proteine dell’envelope sono:
-
KIF;
-
Involucrina;
-
Loricrina;
-
Cystatina;
-
Elafina e skalp;
-
Pancornulina.
Tale conformazione è una tensostruttura che impedisce ai vari strati di cheratinociti di staccarsi. Le
barriere sono rafforzate da legami tra le catene laterali delle proteine, come ponti disolfuro oppure ponti
Glut-η-γ-Lis ad opera dell’enzima transglutaminasi. Per poter indebolire la barriera bisogna eliminare tali
legami e solo così la zona sarà resa più permeabile. Numerosi studiosi, tra lo strato corneo e lo strado
granuloso, individuano un ulteriore strato definito lucido. Tale strato è formato da cellule che sono ormai
prossime alla cheratinizzazione e quindi alla morte. Il termine lucido è legato alla forte presenza in queste
cellule di granuli di un composto precursore della cheratina. Per cheratinociti si intendono tutte le cellule che
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subiranno un processo di cheratinizzazione, e quindi non solo quelle dello strato corneo, ma anche le cellule
degli altri strati vengono definite come cheratinociti.
La struttura dei quattro strati e le loro relative barriere sono un vero e proprio ostacolo da superare quando
si vuole somministrare un farmaco attraverso la pelle. Tale metodo di somministrazione dovrebbe essere a
diffusione rapida, senza lasciare tracce o residui. Inoltre dovrebbe avere la capacità di integrarsi nella
barriera senza alterarla, cioè senza destabilizzarne la struttura molecolare. Ma tale metodo di veicolazione
dovrebbe anche essere in grado di passare attraverso le tight-junction e infine dovrebbe legarsi e
oltrepassare la lamina basale fino a raggiungere la rete sanguigna limitrofa. Inoltre bisogna tener presente
che lo spessore dell’epidermide non è costante lungo tutto il corpo, ma esiste, per così dire, una pelle sottile,
con spessore minimo, ed un’epidermide spessa.
Continuando nella discesa, oltrepassata la lamina basale vi è il derma, costituito da tessuto connettivo
riccamente vascolarizzato e innervato. Si connette all'epidermide tramite una superficie irregolare, in cui le
papille del derma (strato papillare) si insinuano nello strato sovrastante, favorendone il nutrimento; il derma
inoltre dona alla cute le caratteristiche di consistenza e resistenza grazie alle abbondanti fibre di collagene.
L’epidermide non è vascolarizzata, al contrario del derma, dove sono presenti delle escrescenze, dette papille
dermiche, il cui compito è quello di far transitare la rete vascolare onde fornire all’epidermide i metaboliti
necessari alla sopravvivenza delle cellule.
Sull’epidermide sono presenti delle escrescenze. Tali escrescenze sono delle ventose, cioè delle strutture
atte a migliorare la capacità prensile. Il derma è ulteriormente diviso in:
-
Derma superficiale;
-
Derma medio;
-
Derma profondo.
Il derma è un composito, e come tale è in grado di resistere a forze di taglio, trazione e compressione.
Resiste alle forze di compressione data l’abbondanza di proteoglicani, mentre il collagene ne aumenta la
resistenza alla trazione. La struttura è in grado di resistere alle forze di taglio in quanto nel derma è
presente una certa quantità di elastina. Gli strati dermici ed epidermici sono orientati secondo delle direzioni
specifiche. Tale orientazione è finalizzata allo scopo di poter meglio scaricare le forze. Tali strutture
prendono il nome di isostatiche dermiche. Per quanto riguarda le strutture vascolari, nel derma è possibile
rinvenire due plessi vascolari, di cui uno superficiale e l’altro profondo. Accanto tali plessi vi sono anche i
plessi venosi sub-papillari.
Nel derma sono presenti gli adipociti, riconoscibili, in analisi istologica, dalla caratteristica forma di anello
con castone. L'adipocita, o cellula adiposa, è l'unità morfo-funzionale del tessuto adiposo. Essa ha
caratteristiche peculiari, sia morfologiche che funzionali. Le caratteristiche morfologiche dell'adipocita sono
dovute alla presenza di proteine strutturali presenti nella membrana plasmatica, proteine che fungono da
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impianto per le fibre che trasportano i capillari sanguigni. Il citoplasma dell'adipocita è per la maggior parte
occupato dalla gocciola lipidica o liposoma. L'adipocita è quindi una cellula che più di altre ha la tendenza ad
accumulare gocciole lipidiche al suo interno. Bisogna ricordare che il liposoma non è un organulo cellulare e non
è rivestito da membrana (al contrario degli altri -somi). Le cellule adipose sono molto voluminose, e si trovano
spesso a formare ammassi, divisi in lobuli da sepimenti connettivali in cui si trovano i vasi sanguigni. Se le
cellule sono a stretto contatto fra loro subiscono delle forti pressioni e per questo motivo la loro forma sarà
poliedrica oppure ovale. Le caratteristiche funzionali dell'adipocita sono quelle che rendono il tessuto adiposo
materiale di riserva energetica e proprio per questo motivo la sua funzione si può anche definire trofica. Le
sue caratteristiche fisico-chimiche rendono questo tessuto un sistema di rivestimento coibentante (cioè
evita la dispersione di calore interno) e proprio per questo motivo riveste l'organismo. Inoltre svolge una
funzione di sostegno e meccanica e contribuisce a determinare la forma di alcune regioni del corpo. La
diposizione dell’adipe presenta notevoli differenze in base al sesso dell’individuo. Nelle donne tende a disporsi
maggiormente lungo i fianchi e sui glutei, mentre nell’uomo principalmente sulla fascia addominale. La
presenza di adipociti nel derma crea una quinta barriera che è un eventuale ostacolo al transito di sostanze.
Il sudore viene continuamente prodotto da 2 milioni di termoconvertitori che sono le ghiandole sudoripare.
Una ghiandola sudoripara ha un condotto autonomo che si guadagna lo sbocco direttamente sulla superficie
dell’epidermide. La ghiandola sudoripara è altamente vascolarizzata da mini-glomi vascolari. Tale rete
vascolare fa in modo che il calore presente nel sangue venga utilizzato per fare evaporare il sudore. Infatti
per far evaporare 1 grammo di acqua vi è bisogno di 580 calorie. Le ghiandole sudoripare hanno una
distribuzione disomogenea lungo il corpo. Vi è un’abbondanza sulla palma della mano e sulla pianta del piede,
mentre sono scarse lungo tutto il dorso. La ghiandola sudoripara eccrina è una lunga e complessa struttura
secernente che origina negli strati più profondi del derma ed il suo condotto escretore comunica attraverso
l’epidermide con l’esterno. Quindi la produzione del sudore avviene nel glomerulo presente nel derma. Il
sudore poi viaggia nel condotto che oltrepassa tutta l’epidermide. Nella ghiandola sudoripara possiamo
trovare tre popolazioni cellulari diverse:
-
Cellula scura;
-
Cellula chiara;
-
Cellula mioepiteliale.
La cellula scura regola la tensione superficiale del sudore attraverso l’assorbimento di sodio e cloro, invece la
cellula chiara produce NH3, ioni potassio e urea, in più acido lattico, acetico, propionico, butirrico, capronico,
caprilico e citrico. In sintesi il sudore nasce dalla stretta collaborazione della cellula chiara e scura. La cellula
mioepiteliale serve a sospingere il sudore verso l’alto. Il sudore prodotto viene immesso nel condotto e
trasferito lungo il derma e l’epidermide. Alla fine si deposita sull’epidermide dove evapora. Evaporando, il
sudore forma un mantello acido protettivo, che inibisce la proliferazione dei batteri presenti sulla superficie
dell’epidermide.
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Accanto ai termoconvertitori esistono dei termodeflettori o unità pelo-sebacea. A seguito dell’invaginazione
della lamina basale si forma una fossa che raggiunge il derma. Tale fossa viene poi a costituire il luogo in cui si
sviluppa il pelo. I peli sono piccole formazioni sottili e filiformi che crescono sulla cute degli organismi viventi;
in particolare, essi si presentano sulla maggior parte dei mammiferi, mentre le altre specie non le posseggono.
Il pelo dell'essere umano è corto e setoso sulla maggior parte del corpo, mentre in alcuni punti specifici come
la testa, il pube e le ascelle è più lungo e di qualità diversa; in particolare, il pelo che cresce sulla pelle del
cranio viene generalmente chiamato capello e può raggiungere lunghezze molto considerevoli. Chimicamente un
pelo consiste in una serie di filamenti di cheratina, una scleroproteina che viene prodotta nel più profondo
degli strati del derma. Partendo da qui, la cheratina migra verso gli strati superiori e va ad addensarsi in
cellule specifiche, che perdono il nucleo e vengono dette cornee. Queste cellule morte ricche di cheratina e
quindi molto dure e fibrose vanno a formare, oltre ai peli, diversi altri elementi degli organismi animali, come
ad esempio le unghie, gli artigli, gli zoccoli e i corni dei rinoceronti. Il pelo nasce da una particolare struttura
della pelle, detta follicolo pilifero: qui è presente la vera e propria radice del pelo, la parte viva di esso. Per il
resto, il pelo non è composto che di cellule morte stratificate e ricoperte di fitte e sottili scaglie. Alla radice
del pelo, irrorata di vasi sanguigni e a contatto con i nervi, sono sempre presenti altre due strutture, cioè una
ghiandola sebacea ed un muscolo erettore del pelo; la prima si trova in comunicazione con il follicolo pilifero e,
tramite esso, secerne una sostanza grassa e oleosa, il sebo, che ha la funzione di ammorbidire la pelle. Il
secondo invece, molto più piccolo dei normali muscoli scheletrici, è connesso direttamente al pelo e
contraendosi è capace di causare il fenomeno dell'orripilazione, comunemente chiamato "pelle d'oca". Gli
animali spesso posseggono, al contrario dell'uomo, particolari peli detti "peli tattili" o "vibrisse", situati vicino
agli occhi o sul muso e dotati di molte più connessioni nervose al livello della radice. Tutti i peli contengono
comunque, fatta eccezione per gli animali albini, dei pigmenti che conferiscono loro una grande varietà di
colori.
Quindi, il bulbo del pelo risiede nel follicolo pilifero, mentre all’esterno esce lo scapo. Il follicolo pilifero è
altamente irrorato da una papilla dermica. Il nutrimento portato dal sangue serve a garantire la sopravvivenza
delle cellule del bulbo in continua proliferazione mitotica. Le cellule poi migrano verso l’alto andando a
costituire il pelo. La fase di crescita del pelo prende il nome di telogen. Arrivato ad un certo punto non si
verificano più mitosi e tale fase prende il nome di anagen ed infine il pelo muore nella fase di catagen. Il ciclo
poi riprende. Le cellule del pelo possono essere suddivise in più strati concentrici, che dall’interno all’esterno
sono:
-
Cellule ricche di cheratina;
-
Lo strato di cellule di Henle;
-
Lo strato di cellule di Huxley;
-
Le cellule delle cuticole.
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La crescita del pelo è regolata dal diidrotestosterone prodotto dall’enzima 5-α-reduttasi che interagisce col
testosterone.
Il muscolo erettore del pelo gioca un ruolo molto importante nella termoregolazione. Infatti quando il muscolo
è rilassato lo scapo del pelo è disteso, in questo modo una maggiore quantità di calore passa dall’interno
all’esterno. Quando fa freddo e la pelle tende a raffreddarsi, il muscolo erettore si contrae, alzando lo scapo.
In questo modo una bolla d’aria viene intrappolata tra il pelo e le pareti del bulbo. Siccome l’aria è un pessimo
conduttore di calore il corpo si raffredda di meno. Ciascun pelo possiede una rete micro vascolare. Nel
follicolo pilifero sbocca il condotto della ghiandola sebacea, che produce il sebo, una miscela lubrificante che
evita l’eccessiva secchezza della pelle. Le ghiandole sebacee sono piccoli organuli esocrini appartenenti
all'apparato tegumentario; esse si trovano nella pelle e precisamente nel derma, unite al corpo di alcuni peli ad
un'altezza di poco maggiore rispetto a quella del follicolo pilifero. Una ghiandola sebacea consiste in una
piccola sacca dall'aspetto tondeggiante il cui ruolo, all'interno dell'organismo, è la produzione e la secrezione
di sebo; questa sostanza, composta prevalentemente da colesterolo e acidi grassi, serve a rendere morbida la
pelle e ad idratarla, evitando così che essa si secchi. Le ghiandole sebacee sono divisibili in due parti: una di
esse si occupa della produzione del sebo e viene detta "porzione secernente", mentre l'altra, che ha la
funzione di trasportare la sostanza grassa prodotta all'esterno, è chiamata "dotto (o condotto) escretore".
La prima parte può essere ulteriormente suddivisa in diversi acini produttori, che consistono in rigonfiamenti
circondanti il dotto escretore e che in esso riversano il sebo prodotto; la porzione secernente si trova più in
profondità nel derma del dotto escretore, che invece comunica con l'epidermide tramite il foro del pelo a cui
la ghiandola è collegata. Il sebo, uscendo la follicolo pilifero, forma sulla pelle un film lipidico detto Skin
Surface Lipid Films (SSLF). Il sebo ha la struttura di una cera con acidi grassi esterificati con alcoli
monovalenti. Il sebo forma sull’epidermide uno strato spesso tra i 4-5 nm. Le cellule che formano una
ghiandola sebacea sono:
-
Il pre-sebocita, che prende contatto con la lamina basale;
-
Il sebocita che è la cellula che produce il sebo.
L’IGF-1 stimola la sintesi del DNA e quindi aumenta il numero dei pre-sebociti e il numero dei sebociti.
Sono presenti anche ghiandole apocrine, che producono un secreto alcalino che va a confluire e a fondersi col
sebo. Le cellule che producono il secreto alcalino perdono man mano pezzi di citoplasma che andranno a
fondersi col sebo. Del secreto apocrino farebbero parte alcuni feromoni capaci di stimolare la libido. Questi
feromoni sono le copuline, che inducono all’accoppiamento.
I peli sono annessi cutanei come le unghie. L'unghia è una lamina cornea semitrasparente che ricopre
l'estremità della dita di alcune specie animali, tra cui l'uomo. Nell'uomo, l'unghia è composta da varie parti:
-
la lamina o corpo ungueale, che è la parte cornea, composta per la maggior parte da cheratina;
-
la radice ungueale, situata al di sotto del corpo;
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-
il letto ungueale o iponichio, dove la lamina si inserisce nel solco periungueale o perinichio;
-
la lunula, estremità biancastra alla base della radice che è la matrice responsabile della crescita;
-
la pellicola ungueale, che ricopre parte della lamina all'estremità inferiore.
Le unghie crescono indefinitamente circa di 0,1 mm al giorno. Se non le tagliassimo periodicamente alla fine
della nostra vita avrebbero una lunghezza di circa 60 metri.
Per i farmaci è possibile attraversare la pelle. Infatti quelli idrosolubili transitano attraverso la ghiandola
sudoripara, mentre quelli liposolubili transitano attraverso la ghiandola sebacea ed apocrina.
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11-La Melanina
La pelle è dotata di meccanismi di autoprotezione. Tali meccanismi difensivi coinvolgono due tipi di cellule
diverse:
-
La cellula di Langherans, per quanto riguarda l’immuno-sorveglianza;
-
Il melanocita, per quanto riguarda i danni arrecati alla cellule dalla luce solare.
I melanociti producono un pigmento, la melanina, che colora la pelle. Le melanine sono pigmenti delle famiglie
dei poliacetileni o delle polianiline che hanno la proprietà di rendere di colore bruno i loro copolimeri. Negli
esseri umani, la melanina è nella pelle, nei capelli e nel tessuto pigmentato che è posto sotto l'iride, nel
midollo e nella zona reticularis della ghiandola surrenale, nello stria vascularis dell'orecchio interno ed nel
pigmento di alcuni tipi di neuroni. La Melanina è la determinante primaria del colore della pelle umana. La
melanina dermale è prodotta dai melanociti che sono nella parte basale dell'epidermide, che la producono
quando sono stimolati dall'esposizione alla luce ed in particolare alla radiazione ultravioletta (UV) nel campo
da 380 a 410 nanometri (UVA). Anche se tutti gli esseri umani possiedono una concentrazione generalmente
simile di melanociti nella pelle, l'attività dei melanociti è differente in individui appartenenti a diversi gruppi
etnici esprimendo più frequentemente o meno frequentemente i geni melanina-produttori, conferendo con ciò
una maggiore o minore concentrazione di melanina nella pelle e quindi una diversa pigmentazione. Alcuni
individui sia di animali che umani hanno pochissima o nessuna melanina nella loro epidermide, una condizione
nota come albinismo. Si ritiene comunemente che la Melanina sia l'agente che protegge la vita dagli effetti
dannosi della radiazione UV solare, ma recenti studi suggeriscono che questo polimero possa avere funzioni
diverse nei vari organismi. Negli umani la forma più frequente di Melanina è la Eumelanina. La natura precisa
della struttura molecolare della eumelanina è ancora oggetto di studio. L'eumelanina esiste nei capelli di colori
grigio, nero, giallo, e marrone. Nelle creature umane, è più abbondante in persone con pelle scura. Ci sono due
tipi diversi di eumelanina, che si distinguono per il loro modo di formare legami polimerici. I due tipi sono
comunemente indicati come eumelanina nera ed eumelanina marrone. In assenza di altre cause una piccola
quantità di eumelanina nera causa i capelli grigi, mentre una piccola quantità di eumelanina marrone causa i
capelli di colore giallo (biondo). Ma la melanina oltre a difendere le cellule dal danno della radiazione solare ha
anche altri scopi. Il melanocita poggia direttamente sulla lamina basale, a livello dello strato germinativo della
pelle. Il melanocita possiede numerosi prolungamenti citoplasmatici che hanno lo scopo di facilitare la
diffusione della melanina alle cellule limitrofe. Il citoplasma del melanocita è pieno di vescicole scure o
melanosomi, vescicole specializzate nel trasporto della melanina. I melanosomi sono strutture ovoidali di 0,20,6 µm e sono paragonabili a degli scafold proteici carichi di melanina.
La melanina ha origine dalla tirosina che viene trasformata in DOPA dall’enzima tirosinasi. Con una successiva
reazione della tirosinasi si ottiene il dopachinone. Se la concentrazione di cisteina è alta il dopachinone
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diventa cisteindopa, e alla fine si avrà la PHE-melanina, cioè la melanina che viene prodotta dai melanosomi
durante l’esposizione al sole e che è causa dell’abbronzatura. Se la concentrazione di cisteina è bassa, il
dopachinone diventa dopacromo, e alla fine si ottiene l’EU-melanina, cioè la melanina che colora la pelle di
nero. Il colore della pelle non è legato al numero di melanociti, infatti un nero non ha più melanociti di un
bianco (paradosso di Szabo). I melanosomi di una persona con pelle chiara sono stretti e ipodensi, mentre
quelli di una persona di colore sono larghi e densi.
Un melanosoma è costituito da:
-
Una biomembrana;
-
Un corpo ovoidale denso.
La struttura all’interno del melanosoma è una gabbia fullarenica. Il materiale di cui è composta la gabbia
svolge le funzioni di:
-
Materiale geodetico isolante;
-
Materiale per incrementare la resistenza meccanica;
-
Attività scavanger, cioè è una trappola per gli elettroni;
-
Schermo anti-UV.
È proprio per queste caratteristiche che la melanina si trova anche sullo scroto dei testicoli (in questo caso
funge da isolante termico ed impedisce che i testicoli si raffreddino troppo bloccando la spermatogenesi) e
sull’areola della mammella (in questo caso aumenta la resistenza meccanica del capezzolo facilitando
l’operazione di suzione del neonato al momento dell’allattamento).
Non appena le cellule dell’epidermide vengono esposte ai raggi solari, il melanocita inizia la sintesi di melanina.
Tale melanina avrà lo scopo di schermare le cellule dell’epidermide dai raggi UV. I melanosomi giungono nelle
cellule grazie ai numerosi prolungamenti del melanocita, che in questo modo si assicura un’ampia area di
copertura. Per ogni 10 cellule basali o germinative vi è un melanocita. L’unità melanica epidermica è costituita
da un melanocita e da quei cheratinociti che possono essere raggiunti dai prolungamenti dendritici del
melanocita stesso. L’abbassamento di tirosinasi inibisce la sintesi di nuova melanina. L’abbassamento della
tirosinasi è attuato da IL-1α e TNF-α. Al contrario l’aumento della concentrazione di tirosinasi, ad opera di
IL-6, stimola la sintesi di melanina.
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12-Osservazione della Cute
L’esame dermatologico deve avvenire in condizioni di ottima illuminazione (possibilmente a luce naturale) e a
paziente completamente svestito. Vanno esaminate in sequenza:
-
Le unghie;
-
Le superfici anteriori e posteriori;
-
Il cuoio capelluto;
-
La faccia;
-
Il tronco;
-
Le estremità inferiori;
-
La cute interdigitale;
-
Il cavo orale e le mucose ano-genitali.
Il colore della pelle allo stato naturale dipende dai globuli rossi. Se la pelle di un individuo è troppo rossa
molto probabilmente soffrirà di ipertensione. Se invece la pelle è di un colore bluastro la persona è affetta
da cardiopatie o insufficienza respiratoria. Il colore giallo della pelle è associato all’ittero. Sulla pelle possono
essere presenti alcune macchie come le lentiggini e le efelidi. In campo specifico vengono utilizzati dei
termini particolari per descrivere lo stato di salute della pelle e tali termini sono:
-
Esocitosi, ovvero la migrazione di elementi provenienti dal sangue, che vanno a formare dei
microascessi;
-
Esosierosi, cioè la fuoriuscita del sangue dai capillari;
-
Acantolisi, perdita delle connessioni intercellulari;
-
Paracheratosi, persistenza dei nuclei nelle cellule cornee;
-
Discheratosi, isole di cheratinizzazione nel contesto Malpighiano;
-
Ipercheratosi, ispessimento dello strato corneo;
-
Poichilocarinosi, modificazione del nucleo nel sistema Malpighiano.
La pelle, per essere considerata sana, deve rispettare dei canoni relativi alla quantità d’acqua lasciata passare
all’esterno dell’organismo, alla quantità di sebo prodotto e infine al pH presente sulla sua superficie. La
funzione primaria della pelle è quella di evitare la perdita di liquidi corporei per evaporazione. La misurazione
della quantità d’acqua che attraversa i vari strati dell’epidermide e viene rilasciata sulla superficie cutanea
può essere misurata dal tewameter. Se la barriera è integra si avrà minor passaggio di sostanza in entrambe
le direzioni: essa bloccherà il passaggio di sostanze esogene all’esterno, mantenendo così la funzione di difesa
della pelle, e regolerà d’altra parte la perdita di acqua e ioni dall’interno, espletando così le funzioni di
mantenimento dell’omeostasi idro-elettrolitica dell’organismo. Minori sono i valori di TEWL, maggiore è il
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gradi di integrità delle barriere. Alti valori di TEWL, invece, indicano maggior perdita di liquidi e quindi minor
potere protettivo della barriera cutanea.
Il sebometro è un apparecchio che permette di misurare la quantità di sebo sulla superficie cutanea. La
misurazione della quantità di sebo sulla superficie cutanea serve a valutare il grado di attività delle ghiandole
sebacee ed in ambito clinico permette il riconoscimento precoce di alcune variazioni patologiche, come la
sebostasi nell’anziano. Tale apparecchio è anche utile nel valutare l’efficacia in ambito farmacologico e
cosmetologico di farmaci con funzione seboregolativa.
Il pHmeter è lo strumento che permette di misurare il pH superficiale cutaneo, ovvero la concentrazione di
ioni idrogeno degli strati superficiali della pelle. Il pH è un valore cutaneo fondamentale, che mette in
relazione il film lipidico della superficie dell’epidermide con la sua capacità di costituire una barriera
soprattutto per i microorganismi. Normalmente il pH acido della cute garantisce una protezione battericida
creando un ambiente non adatto alla sopravvivenza di microorganismi patogeni, ed inoltre permette la
funzionalità di enzimi che servono per la processazione e la formazione del film lipidico di superficie.
Un’alcalinizzazione cronica determinata da agenti aggressivi o patologie sistemiche provoca un lento
deterioramento della pelle e fenomeni di invecchiamento cutaneo precoce.
Le patologie della pelle possono essere catalogate in:
-
Patologie del pelo;
-
Patologie della ghiandola sebacea;
-
Patologie della ghiandola sudoripara;
-
Patologie di cheratinizzazione;
-
Psoriasi;
-
Patologie vascolari/metaboliche.
Tra le patologie associate al pelo le più interessanti sono l’irsutismo e l’alopecia. Una percentuale di donne che
varia tra il 5% e il 10% sono soggette al cosiddetto fenomeno dell’irsutismo, definito come la presenza di peli
terminali, con aspetto androgeno-dipendente, in aree che sono considerate primariamente mascoline.
L’eccesso di androgeni, che causa tale fenomeno, può essere causato da ovaio policistico (nel 65-85% dei
casi), patologie surrenaliche o gonadiche, oppure ancora in rapporto alla somministrazione eccessiva di ormoni
androgeni o derivati del progesterone. L’irsutismo idiopatico o familiare è una forma di irsutismo legato
all’aumentata sensibilità dei recettori cutanei agli androgeni secreti sia pure in normale quantità. Altre
manifestazioni di tale patologia sono:
-
acne post-adolescenziale;
-
pelle grassa;
-
oligo/amenorrea;
-
sanguinamento disfunzionale uterino;
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-
mascolinizzazione;
-
depressioni psicologiche.
L’eccesso di androgeni a lungo termine può determinare:
-
anormalità nel quadro lipoproteico, con diminuzione del HDL-2 colesterolo;
-
innalzamento dei trigliceridi;
-
in più del 50% dei casi, queste donne possono mostrare vari gradi di resistenza all’insulina, con un
aumento del rischio dell’intolleranza al glucosio e al diabete mellito.
L’oligo-ovulazione iperandrogenica può portare allo sviluppo del carcinoma endometriale e alla infertilità.
Nell’analisi del follicolo pilifero, sono state individuate delle cellule progenitrici in un’area specifica definita
“bulge”, che si trova in continuità con la guaina epiteliale esterna subito al di sotto dell’inscrizione del follicolo
con la ghiandola sebacea, nel punto di attacco con il muscolo erettore del pelo. Dalle piccole cellule
indifferenziate del “bulge”, originano le cellule della matrice che, a loro volta, formano sei tipi di strutture
che compongono il pelo. Esistono diversi tipi di peli:
-
peli sessuali, la cui crescita dipende dalla normale concentrazione degli androgeni nel plasma e
dall’elevata attività della 5-α-reduttasi nelle cellule della matrice (barba, peli delle orecchie, peli
del triangolo soprapubico);
-
peli non-sessuali, la cui crescita è indifferente agli stimoli ormonali (ciglia, sopracciglia, capelli
della regione occipitale, mentre quelli della regione frontale e del vertice sono estremamente
sensibili agli androgeni);
-
peli ambisessuali, che hanno una crescita normale in rapporto alle concentrazioni plasmatiche
abituali di androgeni, che si riscontra nella donna (ascelle, pube).
Il ciclo del pelo è un ciclo a “mosaico”, costituito da tre fasi:
-
anagen o fase di crescita;
-
catagen o fase di transizione;
-
telogen o fase di riposo.
La durata della fase di anagen varia in relazione al distretto cutaneo interessato. È molto elevata a livello del
cuoio capelluto (2-6 anni), scende ad un anno a livello della barba ed è minima alle sopracciglia (4-8 settimane).
In circa il 40% dei casi, la perdita di capelli di tipo androgenico nelle donne è causato da un aumento della
produzione di ormoni androgeni o da una maggiore sensibilità dei follicoli agli androgeni, causando capelli più
fini e crescita meno abbondante, contemporaneamente il cuoio capelluto produce sostanze più grasse. Si nota
tra i trenta e i quaranta anni, rispetto ai venti-trenta anni negli uomini e può proseguire fino ad età avanzata.
In generale non si tratta di una vera è propria calvizie, ma di un forte diradamento. Può essere dovuta al
periodo postmenopausale, a deficit enzimatico surrenalico, a tumore secernente androgeni, a ovaio policistico
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ed ipercolesterolemia, ad anoressia nervosa, ad alopecia androgenetica ereditaria. È probabile che inizi in
coincidenza di un cambiamento ormonale, ad esempio l’inizio o l’arresto nell’assunzione di pillole
contraccettive, il periodo post-parto, il periodo post-puberale, i periodi perimenopausali e postmenopausali.
Spesso risulta particolarmente basso il tasso di un certo tipo di globulina, SHGB (sexual hormones binding
globulin), in grado di legare gli ormoni sessuali. Esistono varie forme di alopecia:
-
L’alopecia cicatriziale è irreversibile, in quanto comporta la distruzione del follicolo pilo-sebaceo;
-
Alopecia da farmaci o iatrogena, dovuta a determinati farmaci ad azione alopecizzante, si
risolvono spontaneamente alla sospensione del farmaco responsabile;
-
Alopecia da trazione o traumatica, è la conseguenza di trazioni ripetute sui capelli;
-
Alopecia da radiazioni, può essere il seguito di trattamenti radianti per curare tumori maligni o
altre malattie. L'alopecia di questo tipo può manifestarsi in modo acuto ed avere carattere
transitorio, oppure manifestarsi anche dopo trenta anni dall'esposizione;
-
Alopecia fronto-parietale maschile, è la tipica stempiatura a forma di M. Corrisponde allo stato
uno della scala di Hamilton. Non necessariamente è il preludio ad una calvizie di tipo
androgenetico;
-
Alopecia post-parto e post-infettiva, si manifesta con la caduta dei capelli in fase telogen maturi,
circa 3 mesi dopo il parto. È dovuta alla brusca interruzione degli estrogeni e alla prolattina (alta
durante gravidanza ed allattamento) che è l'ormone che stimola la secrezione lattea (potrebbe
attivare la 5-α-reduttasi, un eccesso di prolattina può essere dovuto allo stress). Tende a
risolversi spontaneamente. L'alopecia post infettiva si manifesta durante o dopo stati morbosi,
tipo l'alopecia tifica, sifilide secondaria, epatite virale.
L’effluvio in telogen è una caduta diffusa di capelli che consegue al passaggio simultaneo di un elevato numero
di follicoli dalla fase di crescita (anagen) alla fase di riposo (telogen), ed è caratterizzata dalla caduta di
notevoli quantità di capelli al giorno. È un fenomeno generalmente benigno e reversibile, ben diverso dal più
pericoloso defluvio in telogen (in pratica la calvizie androgenetica). È comunissimo. È in pratica un'onda di
muta. Provoca un diradamento diffuso dei capelli. A volte il diradamento è più marcato nelle regioni frontotemporale e del vertice. Spesso segue ad un episodio emotivamente importante, ad esempio stress acuti fisici
o psicologici, interventi chirurgici, parto, emorragie, lutti, etc… I capelli caduti sono capelli terminali (senza
segni di involuzione come i capelli vellus), simili ad una clava. Può protrarsi anche per tre mesi. Spesso un
corticosteroide blando (idrocortisone butirrato) o generale (metilprednisolone) da risultati rapidissimi, con
ripresa della fase anagen dei follicoli. Può iniziare dopo 12-15 settimane dall'evento scatenante e durare per
3 mesi, successivamente la caduta termina e i capelli ricrescono, si è avuta cioè, un'onda di muta.
La follicolite decalvante è un’infiammazione follicolare con pustole piene di pus. Poi si ha la distruzione del
follicolo, caduta dei capelli e calvizie cicatriziale La causa si ipotizza possa essere un difetto nella risposta
immunitaria. La terapia è immunostimolante e antibiotica, non è però risolutiva.
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Il lichen planus è una malattia infiammatoria con probabile origine autoimmune e può interessare cute, mucose
e annessi. È caratterizzata da papule di colorito lilla (rossiccio su avambracci, polsi, dorso delle mani, genitali,
arti inferiori e biancastre all'interno delle guance o sulla lingua). Porta ad alopecia cicatriziale, con
distruzione irreversibile dei follicoli. È tra le cause più frequenti di alopecia cicatriziale dell'adulto. La
terapia è solitamente a base di corticosteroidi anche per via generale.
Del lupus erimatoso esistono due forme:
-
LES;
-
LED.
Nella LES l'alopecia è solitamente reversibile. Nella LED ci sono delle chiazze arrossate prive di capelli,
fittoni di materiale corneo ai follicoli piliferi, atrofia con riduzione dello spessore della cute, desquamazione,
dilatazione permanente dei piccoli vasi superficiali cutanei. Porta ad alopecia cicatriziale. La causa è
probabilmente autoimmune. Per la terapia si usano corticosteroidi.
La mucinosi follicolare ha tre forme:
-
la prima, detta mucinosi acuta, è caratterizzata da chiazze eritematose e da papule dello stesso
colore della pelle, sul viso, spalle e cuoio capelluto, ove i capelli cadono; si risolve spontaneamente;
-
la seconda forma, detta mucinosi cronica, è caratterizzata da lesioni più numerose. Nonostante
abbia lungo corso è benigna ma da esiti di alopecia cicatriziale;
-
la terza forma, detta mucinosi paraneoplastica, è sempre associata ad un linfoma (tumore maligno
dei linfociti) si presenta con placche multiple generalizzate. L'esito è l'alopecia cicatriziale.
La sclerodermia è una dermatosi (malattia della pelle) cronica. La causa è autoimmune. La cute assume un
aspetto cicatriziale, ispessito e di colore simile all'alabastro. Può iniziare alle mani, al torace, al volto per poi
interessare anche organi interni. La terapia, basata sui corticosteroidi è spesso inutile.
La tigna è l'attacco dei capelli o dei peli da parte di un micete (detto anche fungo). La tigna capitis è la tigna
del cuoio capelluto. È caratterizzata da chiazze eritematose e desquamanti, da capelli spezzati e dall'aspetto
polveroso. Il contagio può essere dovuto a gatti, cani, animali da stalla, alla terra oppure l'uomo. Se ben
curata guarisce in circa 1 mese. Se invece trascurata può portare ad alopecia cicatriziale.
La tricotillomania è un disturbo psicotico di persone che coscientemente o no, hanno l'abitudine di
attorcigliare e tirare i capelli. Nei casi gravi può portare a fratture del follicolo con emorragie.
I tumori più frequenti sono nevi, cheratosi attiniche, etc…
Spesso il deflettore dl pelo può alterarsi causando alopecia areata, congenita, cicatriziale e sifilitica.
Le patologie legate alla ghiandola sebacea sono per lo più seborrea e acne. Mentre le patologie della ghiandola
sudoripara possono portare a:
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-
iperidrosi (eccessiva sudorazione);
-
anidrosi (assenza di sudorazione);
-
bromidrosi;
-
cromoidrosi.
La bromidrosi è di origine batterica, mentre la cromoidrosi di origine lipofuscinica. Anidrosi e iperidrosi sono
invece correlate a patologie della tiroide.
L’ereutofobia è l’arrossamento improvviso della cute. Tale arrossamento è spesso causa di situazioni
imbarazzanti per chi ne soffre. Tale problema dell’ereutofobia si risolve con un intervento chirurgico detto
simpatectomia endoscopica. Si pratica una piccola incisione di 1 cm a livello del cavo ascellare in
videotoracoscopia e si va a tagliare il nervo del simpatico causa del fenomeno.
Le patologie che causano la cheratinizzazione sono ittiosi, malattie geneticamente trasmesse. Tale
trasmissione può essere:
-
autosomica dominante;
-
recessiva legata al sesso (XX);
-
autosomica recessiva.
La flessibilità e l’idratazione dello strato corneo sono parametri utili nel valutare la severità clinica delle
ittiosi congenite. L’idratazione e la flessibilità dello strato corneo sono significativamente ridotte in ogni tipo
di ittiosi. Le misurazioni dell’idratazione, della flessibilità e della permeabilità dello strato corneo sono
effettuate da un corneometer applicato sul braccio. I risultati ottenuti possono indicare la gravità del
fenotipo di ittiosi. L’associazione delle mutazioni della cheratina con malattie genetiche che causano fragilità
della pelle è uno dei migliori esempi di scompensi citoscheletrici. Danni alla cheratina dimostrano la grande
importanza delle proteine dei filamenti intermedi a livello delle cellule epiteliali. Nella pelle umana, la proteina
HSP-27, un membro di una piccola famiglia di proteine, è espressa abbondantemente negli strati più
superficiali dell’epidermide. La proteina HSP-27 ha funzioni di chaperone e regola il ritmo di crescita
cellulare e la differenziazione. In accordo con i dati sperimentali, l’HSP-27 presente nelle cellule
dell’epidermide, oltre ad essere una proteina chaperone, gioca un ruolo importante nell’assemblaggio dei
filamenti di cheratina e nel processo di cheratinizzazione. Persone affette da ittiosi presentano un difetto
dell’HSP-27 a livello epidermico. Tale difetto porta a scompensi citoscheletrici e ad una cattiva
cheratinizzazione degli strati superficiali dell’epidermide. Anche le gap junctions risultano essere implicate
nell’origine di particolari patologie della pelle. Infatti disordini ereditari della pelle sembrano essere causati
dalla mutazione di un gene che codifica per una proteina delle gap junctions, meglio conosciuta come
connessina. Attualmente si sa che tale mutazione è causa di:
-
ittiosi;
-
eritrocheroderma variabile;
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-
sindrome di Vohwinkel;
-
ipotricosi.
Gli ittiosi sono una categoria clinica eterogenea per quanto riguarda gli agenti eziologici. Le molecole mutate
che causano tale disturbo possono essere diverse e riguardare:
-
proteine, come cheratina e loricrina;
-
enzimi associati al metabolismo dei lipidi;
-
proteine del catabolismo;
-
DNA mal riparato.
La Psoriasi è una malattia autoimmune, mediata dai linfociti T. Attraverso meccanismi poco noti si determina
una proliferazione anomala delle cellule della pelle, caratterizzata da macchie infiammate e desquamanti. La
sua forma più comune è costituita dalle cosiddette placche psoriasiche, macchie della pelle ("lesioni")
ricoperte da croste bianche argentee. La Psoriasi è estremamente visibile, ma assolutamente non contagiosa,
può essere limitata a pochi punti o coinvolgere aree estese del corpo. La sua influenza sul benessere, l'autopercezione e la vita di relazione del paziente può spesso condizionarne pesantemente la qualità di vita; inoltre
l'aumento progressivo del numero di persone che ne soffrono nel mondo occidentale la rende una malattia
dall'impatto sociale sempre più elevato. Nella psoriasi si verifica un processo di desquamazione che porta alla
formazione della pellicola di Brocq. Esistono vari modi per poter riconoscere la psoriasi, come il segno di
Auspitz o il fenomeno di Koebner. Di psoriasi ne esistono varie forme:
-
Psoriasi vulgare;
-
Psoriasi guttata, con chiazze lenticolari;
-
Psoriasi pustolosa-palmantare di Barber;
-
Psoriasi pustolosa generalizzata di von Zumbsc;
-
Psoriasi invertita, che colpisce le grandi pieghe con poca o niente desquamazione ed intensa
infiammazione;
-
Psoriasi eritrodermia, che si associa a febbre;
-
Artrite psoriasica;
-
Onicopatia psoriasica.
Altre patologie della pelle sono associate a disfunzioni vascolari e metaboliche. Tra tali patologie ricordiamo:
-
Ulcus cruris;
-
Tromboflebiti;
-
Angeiti;
-
Raynaud.
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Uno dei maggiori ostacoli per un farmaco applicato alla cute è quello di dover oltrepassare numerose barriere.
La tecnologia versafoam cerca di eliminare tali ostacoli sfruttando la transizione di fase dallo stato di mousse
a liquido. Tale transizione di stato avverrebbe a 37 °C, cioè alla normale temperatura corporea, e il farmaco
verrebbe rilasciato gradualmente. La mousse è costituita da un veicolo trifasico di solvente, olio e alcool. Tale
miscela deve avere lo stesso punto di transizione di fase, cioè la miscela è eutettica. La mousse, una volta
applicata sulla zona della cute interessata, cambia fase è viene lentamente assorbita dalla pelle giungendo
fino alla rete vascolare. I percorsi di veicolazione sono sia trans (cioè attraverso le cellule dell’epidermide)
sia para (cioè sfruttando lo spazio presente tra le cellule). Tale modo di veicolazione del farmaco è detto
veicolazione mista. La mousse, in confronto ad altri modi di veicolazione, non lascerebbe residui, non macchia,
non sgocciola, è facile da applicare, è inodore e scompare.
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13-Il Sangue
61
La cellula può essere paragonata ad una macchina e come tale necessita di un combustibile e di un
comburente. I prodotti di reazione sono combusti e gas-residui. Il mezzo che ad una cellula porta
combustibile e comburenti ed elimina combusti e gas residui è il sangue. Il sangue è un tessuto fluido
contenuto nei vasi sanguigni degli animali, dalla composizione complessa, che fa parte della più ampia categoria
dei tessuti connettivi. Il sangue è costituito da una parte non corpuscolare, il plasma, e una parte
corpuscolare, formata da piastrine, leucociti e, in maggioranza, da eritrociti. Il sangue presente nel corpo di
una persona rappresenta 1/12 del suo peso corporeo, quindi una persona di 70 Kg avrà tra i 5-6 litri di sangue.
Il plasma sanguigno è una componente del sangue. È il liquido in cui sono sospese le cellule sanguigne. Il plasma
contiene proteine, nutrienti, prodotti del metabolismo, ormoni e elettroliti inorganici. Il plasma ha un colore
paglierino. È composto principalmente da acqua, proteine e sali minerali. Serve come mezzo di trasporto per il
glucosio, i lipidi, ormoni, i prodotti del metabolismo, anidride carbonica ed ossigeno. La capacità di trasporto
dell'ossigeno è relativamente bassa comparata a quella dell'emoglobina contenuta nei globuli rossi; può essere
aumentata in condizioni iperbariche. È il mezzo di immagazzinamento e trasporto dei fattori di coagulazione,
quali la fibrina, e il suo contenuto di proteine è necessario per mantenere la pressione osmotica del sangue.
Il colore del sangue varia se si tratti di sangue arterioso o di sangue venoso. Il colore del sangue arterioso è
di un rosso acceso, dovuto alla presenza della ossi-emoglobina, mentre il colore di quello venoso è più scuro di
quello arterioso, dovuto alla presenza di deossi-emoglobina. L'emoglobina è una proteina globulare solubile di
colore rosso presente nei globuli rossi nel sangue dei vertebrati, responsabile del trasporto dell'ossigeno
molecolare da un compartimento ad alta concentrazione di O2 ai tessuti che ne abbisognano. L'emoglobina
(che si indica con il simbolo HbO2 quando legata all'ossigeno, altrimenti Hb) viene sintetizzata inizialmente a
livello dei proeritroblastii policromatofili (precursori dei globuli rossi), rimanendo poi in alte concentrazioni
all'interno dell'eritrocita maturo. Le alterazioni di origine genetica della struttura primaria della molecola
vanno sotto il nome di emoglobinopatie
Il sangue ha un pH di 7,4 ed una densità compresa tra 1048-1066 g/dm3.
Il sangue porta alla cellula
metaboliti, ossigeno, acqua e segnali, e ne riceve cataboliti, anidride carbonica, acqua e segnali. Per analizzare
la struttura del sangue bisogna smontarlo. Una volta prelevato un campione, questi viene centrifugato, e dopo
un po’ si osservano tre aree diverse in cui sono collocati componenti diversi del sangue.
La prima componente del sangue ad essere analizzata è il plasma, cioè un miscuglio di proteine molto
importanti nel mantenere in salute l’organismo. Analizzando il plasma, attraverso opportune tecniche che
portano alla formazione di un tracciato elettroforetico, è possibile distinguere tre classi principali di
proteine:
-
Le Albumine, prodotte dal fegato, rappresentano il 60% delle proteine presente nel plasma.
L'albumina è una proteina del plasma sanguigno prodotta dal fegato con peso molecolare di 69000
daltons. È contenuta anche nel latte e nell'albume dell'uovo, da cui il nome. Il normale intervallo di
valori della concentrazione di albumina nel corpo umano va da 3.5 a 5.0 g/dL, e costituisce circa il
60% di tutte le proteine del plasma; l'insieme di tutte le altre proteine plasmatiche può essere
chiamato nel suo complesso globuline. L'albumina è essenziale per la regolazione ed il
mantenimento della pressione oncotica, ovvero la pressione osmotica necessaria per la corretta
distribuzione dei liquidi corporei nei compartimenti intervascolari e nei tessuti. La molecola
dell'albumina è carica negativamente, come la membrana glomerulare dei reni, la repulsione
elettrostatica impedisce quindi il passaggio dell'albumina nell'urina. Nelle sindromi nefritiche
questa proprietà viene persa e quindi si nota la comparsa di albumina nelle urine del malato.
L'albumina per questo è considerata un importante marcatore di disfunzioni renali che compaiono
anche a distanza di anni;
-
Il 35% del plasma è formato da globulina-tirolegante, transcortina (ACTH), transcalciferina
(calcitriolo), transferrina (Fe++), apoliproteine e ormoni steroidei;
-
La rimante parte è formata dalle γ globuline, ovvero gli anticorpi. Un anticorpo o immunoglobulina
è una proteina con una peculiare struttura quaternaria che le conferisce una forma a "Y". Gli
anticorpi hanno la funzione, nell'ambito del sistema immunitario di neutralizzare corpi estranei
come virus e batteri, riconoscendo ogni antigene legato al corpo come un bersaglio. In maniera
schematica e semplificata si può dire che ciò avviene perché al termine dei bracci della "Y" vi è
una struttura in grado di "chiudere" i segmenti del corpo da riconoscere. Ogni chiusura ha una
chiave diversa, costituita dal proprio antigene; quando la "chiave" (l'antigene) è inserita,
l'anticorpo si attiva. La produzione di anticorpi è la funzione principale del sistema immunitario
umorale. Gli anticorpi sono una classe di glicoproteine del siero, il cui ruolo nella risposta
immunitaria specifica è di enorme importanza. Hanno la capacità di legarsi in maniera specifica
agli antigeni (microorganismi infettivi come batteri, tossine, o qualunque macromolecola estranea
che provochi la formazione di anticorpi). Vengono prodotte dai linfociti B differenziati in
plasmacellule.
Un altro elemento da non trascurare è il rapporto tra percentuale di albumine e la rimanente parte del
plasma. Tale rapporto A/G, in soggetti normali, è pari a 1,5. Alterazioni della composizione del plasma indicano
che qualcosa non va. Infatti picchi di γ globuline indicano la presenza di infezioni croniche. Il plasma, del
campione iniziale, rappresenta il 55%, mentre il restante 45% è rappresentata dagli eritrociti. Tale
configurazione del sangue è detta ematocrito. Se la percentuale di globuli rossi è minore del 45% allora il
paziente potrebbe essere anemico. La parte corpuscolare del sangue può essere contata. Visto al microscopio,
il sangue è formato da una componente bianca e una componente rossa. La componente bianca è formata da:
62
-
Eosinofili per il 2-4%;
-
Basofili per lo 0,5%;
-
Neutrofili per il 60%;
-
Linfocita per il 20-35%;
-
Monocita per il 3-8%.
La componente rossa del sangue è formata dagli eritrociti. A seguito della rottura del vaso, il sangue inizia ad
uscire. Arrivato ad un certo punto il flusso in uscita si arresta. L’arresto è consentito grazie alla formazione
di una rete proteica che intrappola gli eritrociti e ne impedisce la fuoriuscita. La rete tamponante è formata
da fibrina. La Fibrina è una proteina utilizzata nella coagulazione del sangue. È una proteina fibrillare che è
polimerizzata per formare una maglia, (insieme con le piastrine) sopra il luogo della ferita. La fibrina deriva
dal fibrinogeno, una proteina plasmatica sintetizzata dal fegato. Nel processo della coagulazione si attiva la
trombina responsabile della conversione del fibrinogeno in fibrina. La fibrina è allora trasversalmente
collegata dal fattore XIII per formare un grumo. La fibrina è già presente nel plasma nella sua forma
inattiva, il fibrinogeno. A seguito di taglio proteolitico, il fibrinogeno viene attivato diventando fibrina.
L’attivazione del fibrinogeno è sotto il controllo di un’altra proteina la trombina. La forma inattiva della
trombina è la protrombina. A queste proteine si unisce un altro fattore, definito STUART, originatosi in
seguito al danno tessutale. La serie di reazioni che portano alla formazione del tappo di fibrina prende il nome
di cascata coagulativa. Lo start alla cascata è dato sia da fattori intrinseci che tessutali. Il fattore STUART
è costituito da proteoglicani.
La coagulazione del sangue è il risultato di una serie di processi nei quali, all'interno o all'esterno di un vaso
sanguigno si viene a formare un coagulo o un trombo. Il processo di coagulazione è unico, ma si può distinguere
una sua versione fisiologica che è detta emostasi e conduce alla riparazione di una ferita, mentre la versione
patologica della coagulazione, la trombosi, può portare a conseguenze anche gravi. L'emostasi normale è
l'effetto di alcuni processi che, se ben regolati, svolgono due importanti funzioni: mantenere il sangue in uno
stato fluido nei vasi normali; indurre un tappo emostatico in modo rapido e ben localizzato presso la sede del
danno al vaso. Questo tappo emostatico rappresenta una formazione transitoria, in condizioni fisiologiche,
necessaria per permettere ai meccanismi di riparazione delle ferite di riparare la lesione. Nel caso di
trombosi, il trombo che si è formato presso la lesione tarda a distaccarsi e può tendere all'aumento di
volume, aumentando la sua potenziale pericolosità. La scansione dei passaggi della coagulazione può essere
variamente definita con un modello a cinque passaggi o con uno a tre soli passaggi. L'iniziale danno alla
superficie interna del vaso provoca il rilascio da parte delle cellule dello stesso tessuto di alcuni fattori
chiamati endoteline, che inducono il restringimento del vaso a livello della lesione, in modo tale da contrastare
l'eventuale perdita di materiale. Sempre l'endotelio secerne il fattore di von Willebrand (vWF) che fa
aderire ad esso le piastrine; queste espellono ADP e trombossano A2, con l'effetto di richiamare altre
piastrine. Questa fase è caratterizzata dalla stabilizzazione dell'aggregato, grazie all'attivazione della
63
fibrina. In questo frangente l'endotelio secerne il fattore tissutale (TF) e le piastrine espongono sulla loro
superficie particolari fosfolipidi, favorendo l'adesione. Il processo di attivazione della fibrina segue invece
un meccanismo a catena che vede la partecipazioni di molti più fattori. La fibrina si trova normalmente sotto
forma di fibrinogeno che non può dar luogo ad un aggregato. Per far sì che il fibrinogeno venga attivato
esistono due vie, una intrinseca ed una estrinseca, ma la divisione tra queste non è così netta, poiché elementi
dell'una possono influenzare l'attivazione dell'altra. Queste due vie differiscono tra di loro principalmente
per:
-
l'agente iniziale che le attiva;
-
il numero di fattori coinvolti nella cascata.
Le due vie si congiungono, originando la via comune, che ha inizio con l'attivazione del fattore X. La via
estrinseca è più rapida per il minor numero di fattori che vi prendono parte. Essa viene attivata quando una
lesione di un vaso sanguigno produce la liberazione, dalle cellule danneggiate, di fosfolipidi e di un complesso
proteico detto fattore tissutale o tromboplastina tissutale. I fattori attivati, oltre il fattore tissutale, sono i
fattori plasmatici VII, X e V. La via intrinseca è più lenta, perché comprende, oltre i tre fattori dell'altra via,
anche i fattori XII, XI, IX e VIII, tutti fattori plasmatici. Questa via è innescata dall'attivazione del
fattore XII, o fattore di Hageman, la quale si verifica quando il sangue entra a contatto con la matrice
extracellulare, in particolare con le macromolecole di collagene. Ovviamente una lesione tissutale attiva
entrambe le vie della coagulazione; infatti, la lesione non solo determina la liberazione della tromboplastina
tissutale, ma anche, danneggiando i vasi sanguigni, consente al sangue di venire a contatto con superfici
diverse da quelle endoteliali. La coagulazione per sola via intrinseca può verificarsi in condizioni patologiche,
all'interno di vasi la cui superficie endoteliale sia danneggiata. Anche la via estrinseca, pur avendo il vantaggio
di essere veloce, da sola non porta alla formazione di un coagulo stabile, se non viene rafforzata
dall'attivazione della via intrinseca. Il contributo fondamentale di questa via è dimostrato dal fatto che, se
essa non può avvenire per l'assenza di uno dei suoi fattori plasmatici, si manifestano gravi malattie
emolitiche, note come emofilie. La fase di retrazione del coagulo è caratterizzata dalla cessione di acqua da
parte del polimero di fibrina con il conseguente accorciamento dello stesso. Questa fase richiede un
dispendio di energia sotto forma di ATP che viene prodotta dalle piastrine stesse ed è denominata
metamorfosi viscosa. La fibrinolisi è operata dal sistema della plasmina, ovvero la forma attiva del
plasminogeno. Questo fattore anticoagulante viene attivato dalla trombina, la stessa che attiva proprio la
fibrina. Il significato di questo accoppiamento di reazioni ad effetto biologico opposto è quello di garantire
ad una rapida formazione di un trombo, un'altrettanto rapida eliminazione (in proporzione alle dimensioni
dello stesso).
I test attualmente utilizzati per valutare l'efficienza della coagulazione consistono nella conta delle
piastrine, che misura la concentrazione ematica delle stesse (valori normali: 150 - 400 mila per microlitro) e
nei test sui fattori di coagulazione:
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-
PT (tempo di protrombina), misura il tempo necessario alla formazione del coagulo di fibrina
quando al plasma (addizionato di sodio citrato) del paziente si aggiungono tromboplastina e calcio;
-
PTT (tempo parziale di protromboplatina attivata) è un valore numerico, espresso in secondi, che
indica il tempo necessario affinché del sangue in provetta addizionato ad alcuni reagenti coaguli.
Il termine "parziale" sta ad indicare che tra i reagenti non vi è la tromboplastina (fosfolipide
liberato normalmente dalle cellule traumatizzate, per es. quelle di una ferita). Valore normale del
PTT in laboratorio è 28-34 secondi. Il PTT indaga principalmente il corretto funzionamento della
via intrinseca della coagulazione e alterazioni di questo valore possono far sospettare diversi
quadri patologici legati ai fattori di questa via (per es. l'emofilia) . L'utilizzo di gran lunga più
comune concerne però il monitoraggio della terapia eparinica. L'eparina è una sostanza
anticoagulante, che influenza in modo importante il valore del PTT;
-
TT (tempo di trombina) è un test del fattore di coagulazione del sangue, utilizzato per
identificare il livello terapeutico dell'eparina anticoagulante e per riconoscere specificatamente
le anomalie che riguardano la reazione trombina-fibrinogeno. Il plasma da saggiare e un plasma
normale di controllo vengono fatti coagulare con l’aggiunta di un reagente contenente trombina
bovina diluito in maniera tale da ottenere un tempo di coagulazione di circa 15 secondi per il
plasma di controllo.
La rete di fibrina risulta essere molto deformabile ed elastica. L’elasticità della fibrina e regolata dal XIII
fattore della cascata coagulativa, un enzima, la transglutaminasi. La rete di fibrina è organizzata nello spazio
dalle piastrine. A seguito di lesione, le piastrine nella prossimità della ferita cambiano forma, assumendo
quella stellata. Al microscopio la piastrina non ha nucleo, ma è costituita da numerose vescicole ed abbondante
citoscheletro. Le piastrine o trombociti sono elementi figurati (corpuscolari) del sangue. Sono specializzate
nei fenomeni di emostasi (impedire la perdita di sangue dopo una lesione). Le piastrine, prodotte nel midollo
osseo, sono presenti in un valore numerico di 200.000-300.000 per mm3 hanno una vita media di circa 10
giorni: questo numero può tuttavia variare anche significativamente in condizioni fisiologiche particolari, come
per esempio nell'esercizio fisico. Sono prive di nucleo poiché derivano dai frammenti citoplasmatici del
megacariocita, cellula emopoietica per le piastrine, ma possiedono granuli e molti organelli citoplasmatici e
RNA in attività Si presentano di forma tondeggiante o ovale di circa 2-4µm. Al microscopio ottico presentano
due zone distinte: una centrale granulare (granomero) e una zona periferica quasi ialina (ialomero). All’interno
del citoplasma presentano in particolare actina sia in forma polimerica (microfilamenti), complessata con la
profilina, che in forma globulare. Morfologicamente nella piastrina sono rilevabili granuli, suddivisi in tre tipi:
-
Granuli alfa: poco opachi e molto numerosi, contenenti fattore quarto piastrinico, la
trombospondina e fattori di crescita (ad esempio PDGF);
-
Granuli meno densi: Serotonina, ioni Calcio, ADP, ATP;
-
Granuli lambda: contengono idrolasi lisosomiali e perossisomi.
65
Alcune malattie emorragiche sono causate da difetti piastrinici qualitativi (piastrinopatie) o quantitativi
(piastrinopenia). Il cambiamento di forma è dovuto alla produzione di trombossano (COX-1) e le piastrine da
lisce diventano spinose. Il trombossano, assieme leucotrieni e prostanoidi, è un prodotto del metabolismo
dell’acido arachidonico. L’inizio della produzione di trombossano è la mancata produzione da parte delle cellule
endoteliali danneggiate di prostacicline. La cicloossigenasi produce i prostanoidi, segnali molecolari che
agiscono a breve raggio di azione. Queste molecole regolano importanti funzioni fisiologiche e dirigono alcune
fasi dell’infiammazione. Quindi dall’acido arachidonico derivano:
-
Le prostacicline (PGI-2);
-
Le prostaglandine (PDG-2,PGE-2,PGF-2a);
-
Il trombossano (TXA-2).
La lesione del vaso scatena la risposta delle cellule limitrofe che iniziano ad inviare segnali a breve raggio di
azione.
La
piastrina
scandaglia
le
pareti
endoteliali
attraverso
la
produzione
di
endoperossidi.
Contemporaneamente viene attivata, nella piastrina, la produzione di trombossano. Se entro 5 secondi la
piastrina non riceve il segnale dalle cellule endoteliali, la piastrina cambia da liscia a spinosa. Se invece
l’endotelio è integro, questo produce le prostacicline, che neutralizzano il trombossano. In caso di danno
endoteliale, il segnale non arriva e le piastrine continuano a produrre trombossano attivandosi. Una volta
attivata, la piastrina si porta sulle aree endoteliali danneggiate, dove aggregano e, cambiando forma,
organizzano la rete di fibrina. Tale rete forma il tappo che impedisce la fuoriuscita del sangue.
Se un vaso viene ostruito, le cellule che erano irrorate dal vaso, vanno in necrosi. L’ostruzione è causata dalla
presenza di un tappo di fibrina. Ciò accade poiché le piastrine monitorano la presenza di danni dell’endotelio in
continuazione e non soltanto quando avviene un taglio. L’endotelio viene rinnovato una volta ogni 20 anni, e in
tale periodo, alcuni fattori, come il fumo, producono numerosi danni all’endotelio dei vasi. Le piastrine non
ricevendo il segnale dall’endotelio si attivano formando un ostruzione del vaso. Tale meccanismo è alla base
della formazione dei trombi che possono generare anche infarti.
66
14-EBI ed Eritropoiesi
Ogni secondo vengono perduti 3 milioni di eritrociti e altrettanti ne sono prodotti nello stesso tempo.
Mediamente, durante la sua vita, ogni singolo eritrocita percorre una distanza pari a 11 mila Km. Durante il suo
tragitto, la cellula subisce tutta una serie di cambiamenti nella forma, che allo stadio ultimo la porteranno ad
essere eliminata poiché inadatta a svolgere il suo compito di trasporto dell’ossigeno. L’eritropoiesi, cioè la
costruzione dei globuli rossi, avviene nel midollo osseo. L’insieme delle strutture che svolgono tale ruolo viene
detto eritrone. Visto al microscopio il midollo osseo appare pieno di particolari strutture che formano
l’arcipelago EBI. È in queste strutture che avviene l’eritropoiesi. EBI sta per Erytroblastic Island. Tale
struttura, o meglio fabbrica, è costituita da:
-
Un capillare estremamente slargato, posto centralmente nell’isola, il sinusoide;
-
Cellule avventiziali;
-
Cellule reticolari;
-
Macrofagi.
Le cellule avventiziali si dispongono attorno il sinusoide a mò di raggi di una ruota di carro, mentre le
reticolari formano dei ponti di collegamento tra una cellule avventiziale e l’altra. In questo modo si viene a
costituire un microambiente induttivo dell’eritropoiesi. Le cellule reticolari lasciano degli spazi aperti ed è in
questi spazi che si vanno ad inserire i macrofagi. Dalla collaborazione di queste tre popolazioni cellulari nasce
l’HIM, ovvero Hematopoietic Inductive Microenvironment (Microambiente induttivo dell’eritropoiesi). L’HIM
è composto da una serie di proteine necessarie affinché l’eritropoiesi venga portata a completamento. La
sintesi di nuovi globuli rossi è possibile grazie alla presenza di cellule staminali proto-differenziate (EPO).
L’EPO da origine ad un’altra classe di cellule, le BFU-E, che a loro volta generano le CFU-E. Dalle CFU-E
prendono poi origine le cellule che andranno incontro al processo maturativo in globulo rosso nell’eritrone. Tali
cellule sono cellule sensibili all’eritropoietina, una sostanza che amplifica l’attività dell’eritrone producendo
una quantità maggiore di eritrociti al secondo.
Quindi, il sangue circola nel midollo osseo, ed è nei sinusoidi che avviene l’aggiunta di globuli rossi neosintetizzati, a partire dalle cellule staminali. L’eritrone viene anche definito come insula sanguinis. Il ruolo del
macrofago fisso nell’EBI è molto importante. Infatti da recenti studi risulta proprio che il macrofago svolga il
ruolo di driver, di modulatore della formazione di globuli rossi. Infatti accompagna nei vari stati intermedi la
cellula staminale fino a farla trasformare in un globulo rosso. Le singole cellule sono in comunicazione con il
macrofago attraverso gap junctions.
La produzione e immissione in circolo di eritropoietina è controllata dal rene. Il rene è un organo riccamente
vascolarizzato e mentre il sangue circola nella sua rete vascolare, una cellula apposita, chiamata cellula
stellata del rene, monitora in continuazione la concentrazione di ossigeno nel sangue. Se questa scende al di
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sotto di una certa soglia, la cellula stellata rilascia eritropoietina, che raggiunge il midollo osseo, ed
incrementa le mitosi delle cellule BFU-E e CFU-E. In questo modo la produzione di globuli rossi sale a 30
milioni al secondo. La cellula stellata del rene possiede dei sensori dell’O2. Tali sensori, quando avvertono un
calo della concentrazione di ossigeno, liberano l’HIF, un fattore di trascrizione per il gene dell’eritropoietina.
In questo modo l’eritropoietina viene messa in circolo.
Durante l’arco della sua vita, un globulo rosso cambia forma, passando da forme altamente idrodinamiche e
comprimibili a forme, nella sua vecchiaia, statiche e poco efficienti. Gli eritrociti di diversa età si possono
separare su gradiente discontinuo di poliarabinogalattano. Le cellule si separano in base alla densità di
galleggiamento e le più vecchie sono le più dense. Un globulo rosso subisce continui controlli. Questi controlli
sono di due tipi:
-
Analisi della superficie, che avviene nel sistema reticolo-istiocitario (SRI);
-
Test resistenza/deformabilità, che avviene nella milza.
Man mano che un globulo rosso invecchia, il suo volume si riduce del 20% e la sua superficie del 25%. L’età di
un globulo rosso è collegata alla perdita dell’asimmetria della sua membrana plasmatica. La membrana
plasmatica è costituita da:
-
Il bilayer lipidico;
-
Proteine;
-
Citoscheletro;
-
Carboidrati.
L’asimmetria di membrana viene mantenuta grazie alla presenza di particolari enzimi (translocasi, flippasi,
scramblasi). Con il passare del tempo l’asimmetria viene persa, è alcuni fosfolipidi presenti sul lato citosolico
della membrana passano dal lato esterno. Questo è il caso della fosfatidil serina, che quando è presente in
grande quantità sul lato esterno della membrana segnala che il globulo rosso ha raggiunto il suo limite
temporale e non è più adatto a svolgere efficacemente il suo compito. Il sistema reticolo-istiocitario è
formato dal fegato, midollo, milza, surrene, pancreas e timo. Nei vasi del SRI oltre alle normali cellule
endoteliali, sono presenti dei macrofagi. Questi macrofagi, captata la presenza di un globulo rosso anziano, lo
bloccano. A questo punto il macrofago non fagocita direttamente il globulo rosso, ma deve ricevere il segnale
dalle cellule reticolari e dai linfociti limitrofi. Una volta ricevuto il segnale il macrofago fagocita il globulo
rosso. Le cellule dell’endotelio, per disattivare il macrofago, producono TGFβ. Quanto la produzione cessa il
macrofago si attiva.
Nella milza, invece, avviene il crash test, cioè si testa la resistenza del globulo rosso. La milza è costituita da
una serie di cavità labirintiche. Lo scopo di tali cavità è quello di obbligare i globuli rossi a seguire un preciso
percorso. La superficie esterna di questi cunicoli è tappezzata da cellule in grado di contrarsi. Al passaggio di
un globulo rosso, il lume del passaggio si riduce, e se il globulo rosso è sano passa indenne al controllo. Ma se il
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globulo rosso è deformato o poco elastico, questi non riuscirà a superare il crash test. Tale globulo rosso
viene segnalato e più avanti verrà rimosso direttamente da un macrofago, questa volta senza il parere del
“consulto” inter-cellulare.
Un macrofago una volta riconosciuto un batterio lo fagocita. Questo processo avviene in ogni momento dato il
fatto che i batteri sono dappertutto e sono numerosissimi. Un batterio, rispetto ad una cellula eucariota,
risulta essere molto piccolo. Eppure, sono presenti dappertutto. Nel nostro corpo vi sono delle zone ove non
devono esserci batteri, come l’orecchio medio, i seni paranasali, l’apparato respiratorio, le pleure, il fegato, il
peritoneo, l’uretere, l’osso, le articolazioni, i muscoli, il sangue. Ma vi sono anche zone piene zeppe di batteri
come il nasofaringe, la pelle, l’esofago, lo stomaco, l’intestino, l’uretra, la vagina. I batteri rappresentano l’alba
della vita e nonostante la loro semplicità biologica rappresentano una minaccia continua per l’uomo, così come
un valido aiuto in certe attività. Data la loro numerosità per 1 cellula eucariotica del nostro corpo vi sono 9
batteri. Circa i ¾ della biomassa terrestre è formata da batteri. I batteri, essendo molto adattabili, riescono
a vivere dappertutto. Molto spesso sono presenti delle vere e proprie comunità di batteri, che vivono secondo
delle precise regole. Ultimamente, particolare interesse, desta la ricerca sul quorum sensing, il modo di
comunicare dei batteri. Infatti tali organismi hanno una sorta di alfabeto chimico che permette loro di
comunicare e di interagire. La comunicazione avviene con composti derivati dall’omoserina lattone. Un batterio
è un’arma molto potente poiché è in grado di distruggere le normali barriere protettive di una cellula. Grazie a
delle proteine di membrana, le adesine, il batterio si lega alla barriera cellulare e la distrugge. Prima di
iniziare un nuovo processo di mitosi, ogni singolo batterio cerca informazioni relative all’ambiente circostante.
Tali informazioni vengono fornite dalle colonie batteriche limitrofe. Ogni batterio invia un segnale di
autorizzazione alla proliferazione. In caso di ambiente ostile o poco adatto la colonia batterica invia un
segnale di inibizione. In caso di buone condizioni, il batterio prolifera una volta ricevuto il retro-segnale di
proliferazione da parte della colonia. Per poter trasmettere e ricevere segnali, sulla membrana dei batteri
sono presenti delle apposite strutture, dei recettori connessi ad un trasduttore citoplasmatico, che a sua
volta interagisce con particolari geni. All’arrivo di un segnale, il sistema di trasmissione si attiva e vengono
sintetizzate particolari molecole bio-reporter. Il principale bio-reporter è l’AHL, l’N-Acil-Omoserina-Lattone.
Il flusso informazionale interbatterico è un milione di miliardi di volte più rapido di quello di un computer.
Attraverso tale sistema di comunicazione i batteri attuano tattiche e strategie complesse. Alcuni per eludere
il sistema di sicurezza producono tossine killer oppure inducono all’apoptosi la cellula avversaria. La vita
sociale dei batteri è una vita democratica, volta alla cooperazione per la conquista dell’organismo. I batteri
sono dappertutto e alcuni di questi, presenti negli strati alti dell’atmosfera, incorporano l’ossigeno gassoso e
lo trasformano in ozono grazie all’energia fornita dai raggi ultra-violetti. Interferendo nel sistema di
comunicazione batterica sarà possibile evitare epidemie oppure ordinare ai batteri di distruggere cellule
tumorali.
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15-L’Eritropoiesi
Vista al microscopio, una piastrina presenta un citoscheletro ben disposto nello spazio, alcuni tubuli che si
aprono in superficie e numerosi granuli citoplasmatici. Tali granuli possono essere classificati in:
-
Granuli α;
-
Granuli δ;
-
Granuli λ.
Questi granuli contengono i fattori di coagulazione della cascata coagulativa.
L’assorbimento del calcio avviene nell’intestino tenue, sotto forma di Sali solubili. Se il calcio transita
nell’intestino sotto forma di Sali insolubili viene eliminato. Per il 75% della popolazione la dose giornaliera di
calcio è inferiore a quella consigliata (1 g nell’adulto). Sulla superficie delle cellule dei villi intestinali sono
presenti degli appositi sistemi di trasporto del Ca2+. La sintesi di tali proteine di assorbimento è regolata dal
calcitriolo. Quindi è il calcitriolo che regola l’assorbimento a livello intestinale del calcio. La sintesi del
calcitriolo inizia nell’epidermide, dove il 7-deidrocolesterolo viene trasformato in colecalciferolo. Una certa
quantità di colecalciferolo è già presente nella dieta. La sintesi continua nel fegato dove viene aggiunto un
gruppo ossidrilico al carbonio 25, formando il calcidiolo. Un secondo gruppo OH nella posizione 1 viene
aggiunto nel rene, e il calcidiolo si attiva diventando calcitriolo, che stimola l’assorbimento di calcio e fosforo.
Tale processo è regolato dal paratormone (PTH) prodotto dalle ghiandole parotidi. Il PTH è un induttore della
α-1-idrossilasi renale. All’aumentare della calcemia corrisponde una riduzione del PTH con riduzione della
idrossilazione in posizione 1 del 25-OH-D3, riduzione del calcitriolo e riduzione dell’assorbimento intestinale
di calcio e viceversa. Il calcidiolo rappresenta la principale scorta di vitamina D dell’organismo e il test che lo
misura serve ad assicurare che il corpo ne abbia una riserva adeguata. Il test del calcitriolo, invece, serve a
garantire che i reni convertano la giusta quantità di calcidiolo nella forma attiva. Recenti studi hanno
dimostrato che anche nell’epidermide vi è già una piccola dose di calcitriolo. La carenza del calcitriolo provoca
il rachitismo, una malformazione delle ossa dovuta al male assorbimento e fissazione nelle ossa del calcio.
I globuli rossi (o eritrociti o emazie) sono delle cellule del sangue prive di nucleo, adibite al trasporto
dell'ossigeno dai polmoni verso i tessuti e di una parte dell'anidride carbonica dai tessuti ai polmoni, che
provvedono all'espulsione del gas all'esterno del corpo. Costituiscono gran parte della componente
corpuscolare del sangue (circa 5 milioni per mm3). I globuli rossi umani sono cellule acidofile discoidali
biconcave, con la membrana cellulare trasparente ed il citoplasma composto da acqua ed emoglobina (Hb). Non
esiste il nucleo e non esistono organuli citoplasmatici. Il disco ha un diametro di 6-8 µm ed ha uno spessore
che da 2,5 µm ai bordi, degrada sino a 0,9 µm. Questa forma è favorevole perché aumenta la superficie della
cellula rispetto al volume. La loro funzione è principalmente quella di trasportare ossigeno ed una piccola
frazione dell'anidride carbonica prodotta dal metabolismo (20% circa); il resto raggiunge i polmoni sciolta nel
70
plasma sottoforma di carbonati. Dalla membrana citoplasmatica, come sempre, di doppio strato fosfolipidico,
sporgono delle catene di oligosaccaridi che hanno attività antigenica determinando il gruppo sanguigno,
derivato dalla combinazione degli alleli AB0;
-
Antigene A, gruppo A;
-
Antigene B, gruppo B;
-
Antigeni A e B, gruppo AB (esempio di codominanza);
-
Nessun antigene, gruppo 0.
Dalla membrana, inoltre può sporgere anche un altro antigene, il fattore Rh:
-
Presenza dell’antigene, Rh+;
-
Assenza dell’antigene, Rh-.
La forma di un eritrocita è quella di un disco biconcavo, il colore varia a seconda se si tratti di sangue venoso
o arterioso. Visto al microscopio, il citoplasma di un globulo rosso è pieno di numerosi puntini. In realtà tali
puntini sono molecole di emoglobina e se ne possono contare circa 280 milioni. Ogni singola molecola di
emoglobina è formata da quattro subunità:
-
α1, formata da 141 amminoacidi;
-
α2, formata da 141 amminoacidi;
-
β1, formata da 146 amminoacidi;
-
β2, formata da 146 amminoacidi.
Ogni singola subunità presenta un gruppo EME con al centro un atomo di ferro. La molecola di emoglobina è
formata dall’unione delle quattro subunità. L’emoglobina riesce a legare l’ossigeno gassoso grazie all’atomo di
ferro del gruppo EME. Ma all’interno del globulo rosso l’idratazione è molto alta ed in queste condizioni il Fe+++
forma ossido di ferro. L’atomo di ferro dovrà quindi posizionarsi in domini idrofobici della molecola e l’EME è
appunto il microambiente che consente al ferro di essere costantemente disidratato. Infatti il gruppo EME è
posizionato in un particolare dominio della globina, ricco di residui amminoacidici idrofobici. Tale dominio è
detto tasca di Perutz. Quando il globulo rosso giunge in prossimità dei tessuti periferici, le subunità cedono
l’ossigeno. La CO2 si lega ai gruppi α aminici, formando il complesso carboaminico.
Quando i globuli rossi sono della stessa forma si parla di anisocitosi, mentre se hanno forme diverse di
poichilocitosi. Un uomo adulto di 70 kg ha, per ogni mm3, circa 5 milioni di globuli rossi, mentre una donna 4,5
milioni. Mediamente si possiedono 25 mila miliardi di globuli rossi, e se messi uno in fila all’altro si potrebbe
fare il giro della terra più volte. La forma è quella di una lente biconcava, avente uno spessore ai margini
compreso tra i 2,31-2.85 µm e al centro compreso tra 0,45-1,16 µm. La lunghezza è di circa 7,75 µm e se tale
parametro è al di sotto di 5,5 il soggetto sarà microcitemico, cioè avrà globuli rossi più piccoli, mentre se è al
di sopra di 8,8 il paziente sarà macrocitemico. Il design del globulo rosso gli permette di poter attraversare
71
tranquillamente capillari molto stretti. Al microscopio, la disposizione in fila indiana dei globuli rossi è detta
disposizione a rouleaux.
La costruzione degli eritrociti avviene nel midollo osseo. Tutto inizia da una singola cellula: l’emocitoblasta. Da
una cellula completa di tutto, durante l’eritropoiesi, bisognerà passare ad una cellula altamente specializzata,
priva di nucleo e contenente 280 milioni di molecole di emoglobina. Il primo stadio è quello di eritroblasta
basofilo, nel quale inizia la costruzione dell’emoglobina. La basofilia è legata alla presenza nel citoplasma di
grandi quantità di mRNA, un acido. Parallelamente alla sintesi delle 4 subunità dell’emoglobina inizia la sintesi
dell’EME. A questo stadio sono presenti sulla membrana plasmatica i recettori per il trasporto del ferro. Allo
stadio di eritroblasta policromatofilo si incomincia a vedere la prima emoglobina. La policromaticità è dovuta
alla presenza contemporanea di proteine e mRNA, che rispettivamente legano coloranti acidi e basici. Allo
stadio di eritroblasta ortocromatico la sintesi dell’emoglobina è ormai inarrestabile. Ormai tutto lo spazio
deve essere occupato dall’emoglobina e anche il nucleo deve scomparire. Precedentemente tutte le altre
strutture cellulari sono scomparse man mano. Lo stadio in cui il nucleo viene eliminato o, per meglio dire,
espulso è lo stadio di normoblasta. Allo stadio di reticolocita si sta per entrare in circolo, ma la sintesi di
emoglobina non è ancora terminata, perciò residuano dei ribosomi che stanno ancora sintetizzando
emoglobina, formando una sorta di struttura a reticolo. Il reticolocita, colorandosi con il creysel violetto, è
anche detto cresiocita. All’interno di questa cellula si possono notare delle strutture reticolari da cui deriva il
nome di reticolocita. Quindi, riepilogando, i vari stadi sono:
-
STEM;
-
Emocitoblasta;
-
Basofilo;
-
Policromatofilo;
-
Ortocromatico;
-
Normoblasta;
-
Reticolocita;
-
Globulo rosso.
Accade spesso che all’interno del citoplasma, durante lo stadio di normoblasta, restino presenti dei residui
del nucleo. Tali residui se sono puntiformi vengono detti corpi di jolly, mentre se assumono una forma anulare
(ed in questo caso si tratta di DNA) si parla di anelli di Cabot. I corpi di Pappenheimer sono dei veri è propri
pezzi di nucleo, e le cellule con tali detriti prendono il nome di siderociti.
L’origine delle piastrine è dovuta alla frammentazione del citoplasma di un tipo particolare di cellula
polinucleata: il megacariocita. Il megacariocita è il risultato di successive divisioni mitotiche non seguite da
citodieresi. Arrivato ad un certo punto, il citoplasma del megacariocita si riempie di invaginazioni e alla fine
esplode generando le piastrine.
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73
16-Monociti
Fu Elia Metchnikoff a scoprire il fenomeno della fagocitosi, e per tale scoperta, nel 1908, ricevette il premio
Nobel.
I macrofagi sono cellule mononucleate tissutali che appartengono al sistema dei fagociti. A questo sistema
fanno pure parte i granulociti neutrofili e i monociti. Essi svolgono un ruolo molto importante nelle risposte
immunitarie naturali e specifiche. La loro funzione principale è la fagocitosi cioè la capacità di inglobare nel
loro citoplasma particelle estranee, compresi i microrganismi, e di distruggerle. Secernono inoltre citochine
ad attività pro-infiammatoria e presentano l’antigene ai linfociti T-CD4. La cellula progenitrice dei macrofagi,
come peraltro di tutte le altre cellule ematiche, è la cellula staminale multipotente (STEM). Nel midollo osseo
questa cellula si differenzia in vari stipiti cellulari tra cui quello che dà origine al monoblasto; maturando
questa cellula lascia il midollo e si riversa nel torrente circolatorio sotto forma di monocita. I monociti in
circolo sono circa 500-1000/mm3, hanno un diametro di 10-15 micron, un nucleo reniforme o a fagiolo e un
citoplasma finemente granulare contenente lisosomi, vacuoli fagocitici e filamenti di citoscheletro. Dal sangue
migrano nei tessuti e maturando si trasformano in macrofagi. Quindi i monociti e i macrofagi tissutali
rappresentano due stadi di uno stesso stipite cellulare spesso denominato sistema dei fagociti mononucleati;
questo sistema era indicato in passato con il termine ormai abbandonato di sistema reticolo-endoteliale. Nella
sede di migrazione, caratterizzata dalla posizione strategica dalla quale captare gli agenti microbici, i
macrofagi assumono caratteristiche citomorfologiche diverse a seconda del tessuto nel quale si sono
localizzati:
-
Nel fegato rivestono i sinusoidi vascolari e prendono il nome di cellule di Kuppfer;
-
Nel sistema nervoso centrale sono stati denominati cellule gliali;
-
Nel polmone prendono il nome di macrofagi alveolari;
-
Nell’osso invece osteoclasti.
A volte sviluppano un abbondante citoplasma e per la somiglianza con le cellule epiteliali cutanee sono state
chiamate cellule epitelioidi.
Altre volte più macrofagi possono fondersi insieme per formare le cellule giganti multinucleate.
Ricapitolando, esistono tre tipologie di macrofagi:
-
Macrofagi insulari;
-
Macrofagi Stromali;
-
Monociti Circolanti.
I monociti circolanti, a loro volta, si differenziano in macrofagi tessutali e macrofagi presentanti. Tutti i
monociti hanno origine nel midollo osseo, più precisamente nelle isole EBI. In tali strutture i macrofagi,
74
definiti insulari, svolgono l’importante ruolo di assistere la sequenza di passaggi che porta alla formazione di
un globulo rosso completo.
I monociti viaggiano nel sangue ad una velocità di 50 cm al secondo. Tali cellule sono in grado di oltrepassare
la parete dei vasi e di giungere nei tessuti. Per poter fare ciò la loro velocità deve scendere a 0,03 cm al
secondo. La fase di frenatura è detta fase di rolling ed è mediata da proteine trans-membrana quali le
integrine. Una volta giunto nel tessuto, il monocita si differenzia in macrofago. Il macrofago tessutale può
essere inattivato (resting), oppure, a seguito di fenomeni infiammatori, può attivarsi, divenendo full
activated. Le fasi di attivazione del macrofago sono:
-
Resting;
-
Primed;
-
Activated;
-
Full activated.
I macrofagi tissutali si riconoscono data la presenza sulla loro membrana plasmatica di determinate proteine,
come il fattore XIII, MMR, CD11b, CD42b, CD10, intra-MHCII. Tale famiglia di macrofagi si trova in tutti i
tessuti, ma soprattutto nelle tonsille, nelle meningi, nei linfonodi e negli alveoli polmonari. I macrofagi, oltre a
risiedere nei tessuti, svolgono un ruolo importante nel sistema reticolo-istiocitario. Infatti sono proprio i
macrofagi all’interno del capillare a riconoscere ed eliminare i globuli rossi anziani, oppure sono i macrofagi,
nella milza, ad eliminare tutti quegli eritrociti che non hanno superato il crash test.
Oltre alla funzione di difesa espletata con la fagocitosi di agenti estranei quali i microbi, i macrofagi svolgono
un ruolo importante nel complesso meccanismo delle risposte immunitarie. Nell'immunità innata hanno il ruolo
di:
-
Fagocitare microbi e distruzione degli stessi;
-
Produzione di citochine capaci di richiamare e attivare altre cellule infiammatorie;
-
Secrezione di enzimi e di fattori di crescita;
-
Produzione, in corso di infezioni virali, di interferon-alfa, citochina capace di inibire la
replicazione virale e il diffondersi dell’infezione ad altre cellule sane.
Nell'immunità specifica i macrofagi hanno il ruolo di:
-
Presentazione dell'antigene ai linfociti T.
I macrofagi posseggono sulla loro superficie cellulare dei recettori di membrana con cui captano i
microrganismi o altre particelle. I recettori una volta attivati trasmettono dei segnali di rimodellamento della
membrana cellulare che dapprima emette una estroflessione, quindi forma una rientranza sempre più
profonda fino a quando le due estremità che avvolgono la particella non si toccano e si fondono fra loro. In
questo modo il materiale estraneo si trova immerso nel citoplasma del macrofago formando una vescicola
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rivestita di membrana detta fagosoma. In seguito alla inglobazione del microrganismo si attiva un processo
per cui il fagosoma viene avvicinato ai lisosomi fino a fondersi con essi formando il fagolisosoma. Il materiale
fagocitato viene così a contatto con vari enzimi contenuti nei lisosomi e quindi digerito. Tra questi enzimi
ricordiamo:
-
La ossidasi fagocitica che converte l’ossigeno molecolare in prodotti intermedi reattivi
dell’ossigeno che esplicano una azione tossica sui microrganismi. Una carenza genetica di tale
enzima caratterizza la malattia granulomatosa cronica: in questa immunodeficienza i fagociti non
riescono a eliminare i microbi e quindi l’organismo tenta di arginare l’infezione richiamando un
numero sempre più grande di linfociti e macrofagi con formazione di granulomi;
-
La sintetasi inducibile dell’ossido nitrico che converte l’arginina in ossido nitrico dotato di attività
microbicida;
-
Le proteasi lisosomiali che digeriscono le proteine batteriche, ad esempio: lisozima, proteine
cationiche, difensine a ph acido e lattoferrine.
Bisogna comunque sottolineare che una reazione infiammatoria molto energica può portare alla liberazione di
enzimi lisosomiali nello spazio extracellulare con danno ai tessuti dell’ospite stesso. Questo fenomeno accade
in particolare ai macrofagi alveolari quando cercano di fagocitare fibre di amianto: la fagocitosi frustrata
comporta la dannosa extravasazione del liquido lisosomiale nello spazio extracellulare causando un processo
infiammatorio. Si ritiene che questo fenomeno possa essere alla base della cancerogenicità degli amianti.
Tra le funzioni effettrici dei macrofagi troviamo anche la capacità di lisare cellule opsonizzate da anticorpi o
da fattori del complemento. Queste funzioni dei fagociti mononucleati sono possibili grazie alla presenza sulla
membrana citoplasmatica di quest'ultimi di recettori specifici: CD16 che riconosce l'Fc (parte terminale)
delle IgG e diversi recettori per le molecole del complemento. L'azione citotossica dei macrofagi sulle cellule
infettate è molto diversa dalla fagocitosi, che sarebbe improponibile viste le dimensioni delle cellule da
eliminare.
In seguito all’attivazione sollecitata dai microrganismi i macrofagi, come peraltro anche altre cellule del
sistema immunitario, producono delle sostanze chiamate citochine: esse sono delle proteine che fanno da
collegamento tra i diversi tipi di cellule coinvolte nell’infiammazione e nell’immunità. I microbi si legano
tramite un componente liposaccaridico detto LPS delle loro endotossine ad un recettore espresso sulla
membrana dei macrofagi. Questo induce i macrofagi a secernere le seguenti citochine:
-
Fattore di necrosi tumorale (TNF): oltre che dai macrofagi è prodotto dai linfociti T, determina
infiammazione attivando i neutrofili e le cellule endoteliali, nonché attivazione della coagulazione.
Agisce inoltre sull’ipotalamo provocando febbre, sul fegato stimolando la sintesi delle proteine
della fase acuta, sul muscolo e sul tessuto adiposo favorendo il catabolismo e nei casi estremi la
cachessia. A concentrazioni elevate provoca vasodilatazione marcata e riduzione della
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contrattilità miocardia: con questo meccanismo si determinano ipotensione e formazione di trombi
e nei casi più gravi shock;
-
Interleuchina 1 (IL-1): è prodotta anche dalle cellule endoteliali e possiede effetti molto simili al
TNF;
-
Interleuchina 12 (IL-12): è prodotta anche dalle cellule dendritiche. Sui linfociti T e sui linfociti
NK stimola la sintesi di interferon-gamma (IFN-γ) che amplifica la risposta degli stessi macrofagi.
Sui linfociti T la differenziazione verso la linea Th1;
-
Interferon-alfa (IFN-α): è prodotto in caso di infezioni virali ed è capace di inibire la replicazione
dei virus.
Affinché i linfociti T riconoscano gli antigeni e continuino la risposta immunitaria essi devono essere loro
presentati sotto forma di peptidi associati a molecole del Complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). Le
cellule che svolgono questo delicato compito sono chiamate cellule presentanti l’antigene (APC professionali).
A questa famiglia di cellule appartengono i macrofagi e in genere i fagociti mononucleati, le cellule
dendritiche come le cellule di Langerhans.
Il processo di presentazione dell’antigene prevede una fase di processazione degli antigeni fagocitati durante
la quale gli antigeni proteici vengono degradati per via enzimatica e trasformati in peptidi. Successivamente i
peptidi vengono inseriti, in particolari tasche, delle molecole MHC formando un unico complesso che viene
esposto sulla superficie cellulare. In questo modo i linfociti T sono in grado di riconoscere gli antigeni
estranei e di dare l’avvio al proseguimento della risposta immunitaria fornendo gli stimoli per la proliferazione
e la differenziazione dei linfociti B e dei linfociti citotossici (CTL).
La presentazione degli antigeni ai linfociti T avviene nelle aree corticali dei linfonodi dove confluiscono
trasportati dalle APC attraverso le vie linfatiche. Come era stato precedentemente esposto i macrofagi,
come le altre cellule presentanti l’antigene, risiedono in forma inattiva in sedi strategiche che possono essere
potenziali vie di ingresso degli agenti microbici, quali la cute, gli epiteli del sistema respiratorio e digerente, i
sinusoidi del fegato. Una volta catturati e digeriti gli antigeni, queste cellule, attratte da chemochine,
migrano per via linfatica nei linfonodi drenanti; durante la migrazione esse vanno incontro a maturazione
aumentando la sintesi di molecole MHC e di altre molecole dette costimolatori, in altri termini da cellule
semplicemente capaci di captare l’antigene diventano ACP professionali cioè cellule capaci di presentare
l’antigene ai linfociti T e di stimolare gli stessi a rispondere efficacemente.
Il sistema immunitario è in grado di riconoscere il self, cioè tutte quelle cellule che appartengono
all’organismo, dal non self, cioè tutto ciò che è estraneo. Tale distinzione è resa possibile grazie a delle
proteine transembrana, le TLR, ovvero toll-like receptors. Le TLR sono recettori a sette α-eliche transmembrana, accoppiate a G protein. Tali proteine sono GTP-dipendenti e sono direttamente collegate al
citoscheletro. Inoltre regolano la concentrazione di calcio intracellulare e particolari tipi di enzimi. Le TLR
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rappresentano una famiglia composta da 10 membri, e alcuni di questi membri sono rilevabili su determinati
tipi di organismi. La TLR3 è propria dei virus, mentre la 9 dei batteri. Sui macrofagi sono presenti i recettori
TLR, mentre i linfociti posseggono recettori v-γ9 e v-δ2 e i natural killer recettori nK. Quando il sistema di
riconoscimento self-non self viene alterato si possono avere delle gravi conseguenze. L’attivazione dei
macrofagi può portare all’insorgenza di gravi danni tessutali. La sindrome emofagocitica (HPS) è un disturbo
molto raro e poco conosciuto, che coinvolge il sistema immunitario. Tale sindrome è caratterizzata
dall’eccessiva
proliferazione
e
infiltrazione
multisistemica
di
istiociti
che
perdono
il
controllo
dell’emofagocitosi nel midollo osseo e/o nel sistema reticolo-istiocitario.
Le cellule NK (NK sta per Natural Killer) sono cellule del sistema immunitario, particolarmente importanti nel
riconoscimento e successiva distruzione di cellule tumorali e infette da virus. Producono citochine. Sono
linfociti grandi granulari che non necessitano di attivazione. A differenza dei linfociti T le cellule NK
riconoscono come non-self le cellule con bassa espressione di MHC-I, inducendone la lisi. Cellule con alta
espressione di MHC-I sono resistenti alla citotossicità mediata dalle cellule NK perché queste ultime
posseggono sulla loro superficie una famiglia di recettori inibitori (KIRs) che, ingaggiati nel legame con il
complesso MHC-I mediano una cascata di segnali che prevengono il rilascio dei granuli citotossici.
Le cellule natural killer sono in grado di distruggere le cellule provocandone l’apoptosi. Ciò è reso possibile
grazie a delle particolari proteine, le perforine, che fisicamente bucano la parete della cellula inducendone la
morte. Esistono più geni delle perforine e mutazioni di questi possono causare perforinopatie.
È possibile distinguere i singoli macrofagi tessutali, o cellule dendritiche, data la presenza sulla loro
membrana plasmatica di particolari tipi di recettori. Data questa alta specificità di recettori è possibile
distinguere ogni singolo tipo di monocita, cioè si è in grado di immunotipizzare le cellule della serie bianca.
Una tecnica di immunotipizzazione è la FACS (Florescence Activated Cell Sorter). Marcando le cellule, grazie
all’ausilio di un laser, si è in grado di riconosce una particolare categoria, di contarle e anche di estrapolarle
dalle altre.
Le cellule dendritiche sono cellule APC, cioè cellule presentanti antigeni. Quando queste cellule vengono
stimolate da un antigene, questi viene endocitato, ma non distrutto, viene processato e alla fine esposto sulla
superficie della membrana plasmatica assieme alla proteina MHC-II e con altre proteine (CD80/86, CD40,
CD83). L’antigene così processato viene presentato ad un linfocita T, che si attiva scatenando la risposta
immunitaria specifica. Le cellule dendritiche attivate rilasciano anche particolari segnali, come IL12, IFN di
tipo I, IL10, IL18.
Il macrofago è una cellula molto importante che svolge ruoli vitali. Tra le sue più svariate funzioni, viene
anche impiegato come test su particolari tipi di biomateriali, per valutarne la tolleranza da parte
dell’organismo. Ma i macrofagi svolgono un ruolo importantissimo nella riparazione tessutale, interagendo con
le cellule endoteliali.
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Il Complesso Maggiore di Istocompatibilità o anche Major Histocompatibility Complex (MHC) è un gruppo di
geni polimorfici che codificano per proteine espresse sulla membrana cellulare le quali espletano una funzione
di riconoscimento di alcuni agenti proteici da parte dei linfociti T. Legano frammenti di antigeni ad una
porzione di tale molecola rendendoli visibili ai recettori dei linfociti T. Identificati inizialmente perché
responsabili del fenomeno del rigetto dei trapianti, si è in seguito potuto verificare l'esistenza di due
principali classi di queste molecole (e di questi geni), definiti appunto come Classe I (MHC-I) e Classe II
(MHC-II), responsabili di situazioni fisiologiche, e talvolta patologiche, nettamente differenti nell'ambito
dell'organismo. Infatti, mentre i prodotti dei geni MHC-I sono antigeni direttamente implicati nel fenomeno
del rigetto, quelli che derivano dall'MHC-II sono attivi nei fenomeni di cooperazione cellulare che si
verificano nell'ambito della risposta immunitaria. Nell'uomo l'MHC prende il nome di Human leukocyte antigen
(HLA). Le molecole di Classe I vengono espresse pressoché su tutte le cellule e sono formate da un
polipeptide transmembrana di 44.000 dalton, codificato dall'MHC, associato alla β2-microglobulina, una
molecola invariante di 15.000 dalton codificata dal cromosoma 15. Le molecole HLA di classe II sono presenti
solo su alcune cellule immunocompetenti, in grado di effettuare la presentazione dell'antigene. Inoltre la loro
presenza, anche su queste cellule, non è costante, ma soggetto a modulazione, cioè possono essere presenti o
meno a seconda dello stato di attivazione della cellula. Questa espressione viene modulata dalla presenza o
meno di alcune interleuchine e/o interferoni. Le molecole di Classe II sono proteine di membrana
eterodimeriche, formate cioè da una catena α (che varia fra i 33.000 e i 34.000 dalton), e da una catena β
(fra i 28.000 e i 29.000 dalton), entrambe codificate dall'MHC. C'è poi una terza catena, detta invariante,
che non attraversa la membrana cellulare. Sia le molecole di classe I che quelle di classe II fungono da
bersaglio per i linfociti T, che regolano la risposta immunitaria. Gli antigeni espressi in associazione all'MHC
di classe I vengono riconosciuti dai linfociti T citotossici, anche detti linfociti T CD8+ che vengono attivati
agendo da effettori per la risposta immunitaria cellulo-mediata, ossia risposte immunitarie specifiche,
provocando la lisi delle cellule che esprimono tali proteine. Queste ultime possono essere cellule tumorali o
cellule in cui stanno avvenendo processi di replicazione di virus. L'MHC di seconda classe sarà riconosciuta
invece dai recettori dei linfociti T helper, altrimenti detti linfociti T CD4+, che rispondo alla stimolazione
producendo citochine.
Nell'uomo le molecole dell'MHC sono codificate da un complesso genico situato sul braccio corto del
cromosoma 6. I geni per le molecole MHC di classe II nell'uomo (HLA-D), sono divisi in famiglie, ognuna
codificante le catene α e β, che vanno a formare il dimero. Le tre famiglie principali prendono il nome di DP,
DQ e DR. Ogni famiglia esprime geni per entrambe le catene del dimero proteico. I geni dell'MHC sono
polimorfici e questo polimorfismo è molto alto. L'operazione di definizione dei differenti alleli che
caratterizzano un individuo prende il nome di determinazione dell'aplotipo o anche, nell'uomo, di tipizzazione
HLA. Il polimorfismo dei geni MHC è di grande rilevanza nel definire qualità e quantità della risposta
immunitaria di un individuo.
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Ci si è sempre interrogati sull’insorgenza di malattie autoimmuni. In tali patologie il sistema immunitario
riconosce come non self il self e lo distrugge. In base alla danger theory, a seguito di infiammazione o
infezione, i neutrofili rilasciano granuli di proteine e cromatina che insieme formano una sorta di colla su cui
restano intrappolati i batteri gram positivi e negativi. Tale substrato viene definito NETs, cioè Neutrophil
extracellular traps. Recenti ricerche hanno evidenziato il ruolo delle proteine istoniche nell’indurre l’apoptosi
cellulare. Infatti alcuni istoni sono batteriostatici, cioè bloccano i batteri e ne inducono l’apoptosi. Le
proteine istoniche sono strettamente legate al DNA, quindi quando vengono esocitate anche il DNA viene
esocitato. Da tali studi risulta che la cromatina ha anche una funzione antimicrobica. Le proteine esocitate
(L30, S19, ubiquitina, H1,5, H2B) normalmente si trovano all’interno della cellula e contribuiscono alla
formazione della barriera antimicrobica. Tra queste proteine, l’istone H1,2 esercita una buona azione
antimicrobica. Vivier sostiene che la causa dell’insorgenza di patologie autoimmuni è legata all’esocitosi, da
parte dei neutrofili, di cromatina a seguito di un attacco microbico. Il macrofago riconosce come non self la
Cromatina, in quanto generalmente si trova all’interno della cellula e così, una volta presentato l’antigene,
vengono prodotti anticorpi. Quando si ripresenta la stessa infezione, l’esocitosi di cromatina può scatenare un
vero è proprio attacco di massa degli anticorpi prodotti in precedenza verso le cellule del self,
distruggendole. Tale teoria spiega anche perché in tali patologie esistano anticorpi che si legano al nucleo
delle cellule e non alla sua membrana.
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17-Neutrofili
Una mucosite è causata da una neutropenia, cioè una carenza di neutrofili. I sintomi di una mucosite sono
inizialmente malessere, piccoli brividi, rialzi termici. Successivamente il quadro clinico può peggiorare
portando prostrazione, brividi intensi, febbre elevata. Una mucosite è un’infezione delle mucose causata da
batteri. Al di sotto di una mucosa vi è la sottomucosa, che è irrorata dai vasi sanguigni. A seguito di uno
stress, i neutrofili presenti possono attivarsi passando da resting ad activated.
I granulociti neutrofili sono un tipo di granulociti, globuli bianchi il cui citoplasma contiene granulazioni
caratteristiche ed un nucleo lobato (per cui i granulociti vengono anche chiamati polimorfonucleati) ed hanno
funzioni di difesa dell’organismo contro infezioni batteriche e fungine. Vengono chiamati neutrofili perché
non incorporano coloranti istologici, né acidi né basici (neutrofilo). Rappresentano il 50-70% dei leucociti.
Ogni giorno circa 100 miliardi di cellule staminali del midollo osseo si differenziano in granulociti neutrofili, i
quali hanno però un tempo di vita abbastanza breve: dalle 7 alle 10 ore in circolo e circa 3 giorni nei tessuti.
Queste cellule prendono origine dal midollo osseo da una cellula progenitrice comune per tutte le cellule del
sangue, da cui passa al torrente circolatorio e da lì all'interno dei tessuti. Il compito fondamentale di queste
cellule è quello di catturare e distruggere sostanze estranee mediante il meccanismo della fagocitosi. Si è
potuto constatare che la loro fagocitosi è più efficace di quella dei macrofagi. I neutrofili aumentano nelle
persone allergiche e in corso di infezioni, prevalentemente sostenute da batteri, nonché negli stadi terminali
di alcuni tipi di shock. I granulociti neutrofili hanno dimensioni intorno ai 10-12 micron, in realtà sono più
grossi ma subiscono un ridimensionamento nel momento in cui vengono sottoposti a schiacciamento e
colorazione sui vetrini per l'osservazione. La caratteristica fondamentale dei granulociti neutrofili è la
presenza di una pluralità di lobature del nucleo. Il nucleo non è multiplo ma semplicemente plurilobato
(comunemente non superiore a 3 lobi), ogni lobo è unito da un filamento eterocromatinico molto evidente.
Al microscopio elettronico, il citoplasma di un neutrofilo è ricco di granuli. Tali granuli rappresentano il
sistema litico difensivo, cioè sono le armi primarie per la lotta contro l’infezione batterica. Il cromosoma 17
decide il numero dei neutrofili circolanti, mentre il fattore G-CSF ha un ruolo analogo all’eritropoietina,
stimolandone la produzione. L’evoluzione clinica di una neutropenia è la risultante del quorum sensing
batterico. I batteri, attraverso opportuni sistemi, riescono a neutralizzare le linee difensiva del nostro
organismo.
Le mucose sono tappezzate da due popolazioni cellulari differenti:
-
Cellule che secernono muco, nel quale restano invischiati polveri e batteri;
-
Cellule ciliate, le quali, attraverso apposite strutture, le cilia, riescono a spingere all’esterno il
muco in cui sono impregnati polveri e batteri.
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I batteri, secernendo la proteina P97, riescono a bloccare le cilia, così il muco non viene eliminato e l’infezione
ha inizio. Nei neutrofili di soggetti femminili, nello studiare il nucleo, è possibile notare un aggregato di
cromatina, il corpo di Barr, che viene denominato drumstick, per la sua tipica forma a mazza di tamburo. Il
corpo di Barr è uno dei due cromosomi sessuali che è stato disattivato tramite un’estrema condensazione.
Analizzando il nucleo del neutrofilo è possibile ricavare ulteriori informazioni sullo stato di salute del
paziente e diagnosticare eventuali patologie. L’età del neutrofilo è correlata al numero di lobature del nucleo.
Tale metodo di catalogazione dell’età del neutrofilo prende il nome di metodo di Arneth & Schilling. La
valutazione del potenziale del neutrofilo è proporzionale al numero di granuli citoplasmatici in esso presenti,
rilevabili facilmente se marcati con la fosfatasi alcalina. Il citoplasma di un neutrofilo è formato da circa 200
granuli, suddivisibili in 3 categorie distinte:
-
Granuli azzurofili;
-
Granuli specifici;
-
Granuli terziari.
I granuli azzurofili, o primari, rappresentano il 70-75 % dei granuli totali. Tali granuli contengono idrolasi
acide, mieloperossidasi (55 kD), elastasi, BPI (Bacterial Permeability Increasing), catepsina G, collagenasi,
difensine. Tutte queste sostanze attaccano direttamente i batteri, cercando di distruggerli immediatamente.
I granuli specifici sono il 15-20 % del totale e contengono: fosfolipasi A2, lactoferrina, fagocitina, fosfatasi
alcalina, aril sulfatasi, istaminasi, β-glucuronidasi, fosfatasi acida, fosfolipasi, proteina maggiore basica,
proteina cationica eosinofila, neurotossina, ribonucleasi, perossidasi, lisozima. Il restante 5 % è
rappresentato dai granuli terziari, che contengono gelatinasi e catepsine. Il citoplasma del neutrofilo è ricco
di granuli di glicogeno. Il glucosio che viene assorbito dal neutrofilo può seguire due diversi destini:
-
Il primo è quello dell’immagazzinamento e il glucosio viene prima fosforilato, divenendo glucosio-6fosfato, e poi raccolto in granuli di glicogeno;
-
La seconda via è quella della degradazione immediata a piruvato per ottenere immediatamente
energia chimica.
I granuli di glicogeno occupano dall’1 al 30% del citoplasma. Il neutrofilo individua i batteri seguendo
opportuni segnali chimici lasciati da questi durante il loro percorso (chemiotassi).
La sintesi di neutrofili avviene nel midollo osseo. Tutto ha origine da una cellula staminale emopoietica
pluripotente, PHSC, che genera:
-
Cellule CFU-Ly, che danno origine ai linfociti T e B;
-
Cellule CFU-S, dalle quali originano le restanti cellule della serie bianca;
-
Cellule BFU-E, che danno origine ai globuli rossi.
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Le CFU-S si differenziano in CFU-N, che a loro volta danno origine all’emocitoblasta che si differenzia in
neutrofilo. All’emocitoblasta segue il mieloblasta e, poi, il promielocita. Dal promielocita possono originarsi:
-
Gli eosinofili;
-
I basofili;
-
I neutrofili.
Gli stadi successivi sono quelli di mielocita, metamielocita e granulocita. Lungo questo percorso il nucleo della
cellula comincia a presentare curvature con la formazione di lobi e tale processo prende il nome di
metamorfosi nucleare. I primi granuli a comparire già allo stato di mieloblasto sono gli azzurrofili. I granuli
specifici compaiono nella fase di promielocita e i granuli terziari nella fase di mielocita. Il tempo impiegato
per costruire i neutrofili è di circa 11 giorni, contando sia la fase mitotica (da mieloblasto a mielocito dai 3 ai
9 giorni) che la fase maturativa (da metamielocito in poi). Marcando i neutrofili con diisopropionil fluoro
fosfato si è visto che alcuni restano in circolo, formando il compartimento circolante, mentre altri si adagiano
sulle pareti dei vasi, formando il compartimento marginato. La ragione di tale compartimentazione è
sconosciuta, ma è probabile che i neutrofili diventino neutrofili marginati poiché invecchiano oppure perché
vengono richiamati per ecotassi.
La produzione giornaliera è di circa 100 miliardi ma l’immissione dei neutrofili nel circolo sanguigno è variabile.
Se vi è neutropenia, vi è un’abbondante riserva detta riserva granulocitaria midollare e la produzione viene
incrementata notevolmente. È possibile mobilizzare tali riserve con un farmaco, il pyrexal. La leucocataresi
avviene per il 30 % nei polmoni e nell’intestino.
Una valutazione dell’efficacia degli antisettici e disinfettanti disponibili è difficile perché i metodi di
valutazione adottati sono controversi ed i risultati soggetti a diverse interpretazioni. L’antisettico ideale
deve essere:
-
Letale per i microrganismi a basse concentrazioni;
-
Innocuo per cellule e tessuti;
-
Non reattivo con sostanze inorganiche;
-
Stabile;
-
Incapace di macchiare;
-
Inodore;
-
Ad azione rapida;
-
Attivo anche in presenza di proteine estranee, essudati o detriti;
-
Funzionale alla riparazione tessutale.
I radicali liberi hanno una natura controversa e difficile da catalogare. Questi sono dei potenti tossici
cellulari e sono essenziali al corretto funzionamento delle cellule. Tra i radicali liberi più famosi vi è il
perossido di idrogeno, che svolge un ruolo centrale nella riparazione tessutale, ma ad alte concentrazioni la
83
inibisce. La produzione di energia comporta la produzione di un 6 % di ROS, quindi la presenza di tali composti
all’interno delle cellule è inevitabile. Negli ultimi anni, la cattiva reputazione dell’ H2O2 e delle altre molecole
radicali liberi è cambiata. Queste molecole sono ora viste come molecole della vita, nel senso che sono
essenziali alla sopravvivenza e alla proliferazione delle cellule. È risaputo che basse concentrazioni di H2O2
hanno effetti mitogeni e possono mimare le funzioni dei fattori di crescita. Inoltre alcune ricerche
sostengono che l’acqua ossigenata sia una sorta di secondo messaggero. Quindi il perossido di idrogeno, a
basse concentrazioni (10 mol/L), è un regolatore della funzione cellulare. Tuttavia l’acqua ossigenata è
generalmente considerata un prodotto tossico della respirazione cellulare, ma nuove ricerche suggeriscono
che i ROS potrebbero essere i componenti integrali di particolari recettori di membrana. La famiglia dei
recettori TKR (Tyrosine Kinase Receptors) è una serie di recettori che necessitano di acqua ossigenata per
dimerizzare, in modo da attivarsi, è innescare così una cascata di segnali intracellulari che regolano
direttamente l’espressione di particolari geni. Ma ad alte concentrazioni il perossido di idrogeno diventa
un’arma micidiale, avendo un effetto killing sia su cellule estranee che non. Per contrastare tale azione
distruttiva esistono degli antiossidanti primari, come la SOD, la catalasi, la glutatione perossidasi, e degli
antiossidanti secondari, scavangers, vitamina E, C, catechine. L’utilizzo di farmaci antiossidanti dovrebbe
essere valutato con attenzione, in quanto i ROS sono i maggiori responsabili dell’invecchiamento di tutte le
cellule e della loro morte. In un certo senso si è vivi anche grazie ai ROS. Questo sottile legame tra ROS e
invecchiamento cellulare è importante quando si ha a che fare con cellule tumorali. Gli antiossidanti bloccano
l’azione dei ROS e le cellule anormali sono libere di proliferare.
Alla luce di ciò, il perossido di idrogeno può essere utilizzato sia per l’antisepsi che per la riparazione
tessutale. A seguito di una lesione si forma il tappo emostatico. Successivamente segue l’infiammazione, cui
segue la sintesi di nuova matrice e angiogenesi. La somministrazione giornaliera di H2O2 a basso dosaggio
accelera la riparazione tessutale, mentre una dose elevata influenza negativamente la chiusura. L’acqua
ossigenata a basse concentrazioni incrementa il flusso nell’area ripartiva, portando ad una rapida angiogenesi.
Attualmente l’acqua ossigenata è venduta soltanto ad alte concentrazioni. La tecnologia Crystalip cerca di
utilizzare correttamente l’acqua ossigenata, attraverso un rilascio termico graduale. L’H2O2 si trova
all’interno di monogliceridi biocidici alla concentrazione dell’1 %. Il rilascio è regolato dalla temperatura della
superficie su cui viene applicato. Tale tecnologia permette un lento rilascio dell’acqua ossigenata, che a basse
concentrazioni apporta numerosi vantaggi alla serie di eventi della riparazione tessutale.
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18-Risposta Immunitaria
Quando la pelle viene lesionata, milioni di batteri invadono il campo entrando nel nostro organismo. A questo
punto può iniziare un processo infiammatorio. L'infiammazione è un meccanismo di difesa non specifico innato,
nonché una risposta protettiva, il cui obiettivo finale è l'eliminazione della causa iniziale di danno cellulare o
tissutale. Si caratterizza per una intensa reazione vascolare che porta al passaggio di liquidi dal letto
vascolare al tessuto leso. L'infiammazione serve, dunque, a distruggere, diluire e confinare l'agente lesivo, ma
allo stesso tempo mette in moto una serie di meccanismi che favoriscono la riparazione o la sostituzione del
tessuto danneggiato. Segni cardini dell'infiammazione sono: RUBOR, TUMOR, CALOR, DOLOR e FUNCTIO
LESA (Arrossamento, Tumefazione, Calore, Dolore, Alterazione funzionale). Sono manifestazione delle
modificazioni tissutali che prevedono: vasodilatazione, aumento permeabilità capillari, stasi circolatoria con
marginazione leucociti, rotolamento, espressione di molecole di adesione che provvederanno alla fase di
adesione sulla superficie endoteliale dei leucociti, fase finale di diapedesi. Segue poi la chemiotassi per
risposta dei leucociti presenti nello spazio interstiziale agli agenti chemiotattici, i quali li indirizzano verso la
sede del danno.
L’insieme di cellule e organi addetti alla protezione da infezioni causate da batteri e altri simili prende il nome
di sistema immunitario. Appena i batteri invadono un interstizio, dal vaso sanguigno più vicino, i monociti
abbandonano la circolazione e, oltrepassando l’endotelio, raggiungono l’invasore. I batteri sono riconosciuti dai
monociti poiché la loro membrana plasmatica è ricoperta da antigeni e sono proprio gli antigeni ad attirare i
monociti fuori dal flusso sanguigno. Una volta che il monocita incontra l’antigene, si attiva, divenendo un
macrofago che fagocita l’invasore. Se la difesa allestita dai macrofagi fallisce, l’eccesso di antigeni richiama
dal circolo eosinofili, basofili e neutrofili che attaccano i batteri. Tale attacco porta alla formazione di pus.
Un’infiammazione purulenta è un’infiammazione caratterizzata principalmente da un essudato cellulare
granulocitario. I granulociti non vengono lisati durante la reazione infiammatoria e attaccano i tessuti,
causando un'infiammazione per disfacimento, o colliquazione, o suppurazione cellulare. Si forma quindi il pus,
un essudato caratteristico di questo tipo di infiammazione. È un materiale viscoso di aspetto denso e
cremoso, giallastro. La viscosità del pus è dovuta all'alto contenuto di DNA che deriva dal disfacimento dei
granulociti. Il pus è formato da: leucociti morti o morenti, altri componenti dell'essudato infiammatorio
(liquido d'edema e fibrina), microrganismi e prodotti del disfacimento dei tessuti (acidi nucleici e lipidi). Se
anche tale sistema di difesa fallisce, i batteri continuano la loro proliferazione e l’antigene, aumentando man
mano la concentrazione, raggiunge la rete linfatica. La rete linfatica, oltre a vari organi, e costituita da vasi e
linfonodi, stazioni che convogliano momentaneamente la linfa e la analizzano. Quando l’antigene arriva nei
linfonodi più vicini alla zona infettata, il sistema immunitario, grazie a particolari cellule, allestisce una nuova
linea di attacco, questa volta diretta unicamente contro quel tipo di antigene e per questo definita specifica.
All’arrivo dell’antigene nei linfonodi, un particolare tipo di macrofago, detto macrofago presentante, fagocita
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l’antigene, ed anziché di distruggerlo lo presenta sulla propria membrana unito ad altre proteine, quali quelle
MHC.
I linfociti sono cellule presenti nel sangue che costituiscono tra il 20 e il 40% dei leucociti (secondo i dati
delle formule leucocitarie riconosciute). Hanno la dimensione di 7-15 micrometri (piccoli linfociti fino a 8
micrometri e grandi linfociti da 9 in su), con un nucleo rotondeggiante, un citoplasma scarso (si riduce a un
sottile anello) e pochi granuli. La cromatina risulta molto addensata e al microscopio elettronico è possibile
distinguere un nucleolo. Svolgono un ruolo molto importante nel sistema immunitario: sono la struttura
portante della nostra risposta immunitaria adattativa (ovvero specifica per un tipo di antigene). I Linfociti
derivano dalla linea linfoide delle cellule staminali multipotenti presenti nel midollo osseo e a seconda del
luogo, all'interno dell'organismo, nel quale avviene la maturazione cellulare, si ottengono due linee linfocitarie
ben distinte: i linfociti B (da Bursa, con riferimento alla borsa scoperta da Fabrizio da Acquapendente negli
uccelli e dove si sviluppano i linfociti B ) e i linfociti T (da Timo). Il luogo di maturazione dei linfociti risulta
appunto diverso a seconda delle caratteristiche che questi hanno; il linfocita T infatti matura pienamente nel
timo, mentre i linfociti B e NK (Natural Killer, i nostri linfociti "ancestrali") hanno piena maturazione nel
midollo osseo, ovvero dove nascono.
Nel differenziamento linfocitario si possono individuare principalmente due fasi: una fase antigene
dipendente e una antigene indipendente. Nella fase antigene indipendente, che avviene negli organi linfoidi
primari (midollo osseo e timo), vengono inizialmente prodotti linfociti provvisti di tutti i recettori per ogni
tipo di antigene; successivamente alla fine di questo processo sono isolabili linfociti maturi che sono
considerabili come "vergini" in quanto saprebbero riconoscere l'antigene ma non lo hanno mai incontrato
direttamente. Nella fase antigene dipendente che si svolge negli organi linfoidi secondari (milza, linfonodi,
ecc.) vi è l'incontro tra l'antigene e il linfocita che possiede il recettore adatto. A questo punto si formano
due categorie di cellule:
-
cellule memoria, un pool di cellule capaci, in casi di rimanifestarsi dell'attacco patogeno, di
velocizzare moltissimo (per scatenare una risposta linfocitaria adatta a contrastare un attacco
patogeno sono necessari dai 3 ai 5 giorni circa) la risposta adattativa da affiancare alla risposta
innata;
-
cellule effetrici, in grado esse stesse di combattere e distruggere il patogeno (esempio per i
linfociti B le plasmacellule).
Tutte le cellule della linea linfoide derivano da un unico progenitore staminale multipotente riconoscibile dalla
molecola CD34 (si dice CD34+). I linfociti maturi sono riconoscibili in quanto esprimono 5 famiglie di
recettori: i recettori per l'antigene, i recettori MHC (sistema maggiore di istocompatibilità), recettori per
fattori di crescita, recettori Homing (consente al linfocita di essere indirizzato verso un organo linfoide
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secondario oppure verso un organo specifico in cui vi è proliferazione di patogeni), recettori di interazione
cellula-cellula.
I linfociti di tipo B, sono cellule che, in seguito a stimolazione antigenica, sono capaci di proliferare e
trasformarsi in cellule effetrici, le plasmacellule, queste ultime capaci di liberare anticorpi. Gli anticorpi o
immunoglobuline sono proteine specifiche che riescono ad indentificare in maniera precisa e pressoché
univoca specifici antigeni. Sono note 5 classi di Ig (dette M, A, G, D ed E). I linfociti "vergini" sono
evidenziabili appunto grazie alla molecola IGM+. Una volta che il patogeno viene circondato da anticorpi
sensibili a più antigeni del patogeno stesso, viene attivato il sistema del complemento che provvede alla lisi del
patogeno e richiama i macrofagi che "divorano" il patogeno. Il linfocita B può anche usare un sistema di
opsonizzazione limitandosi a rendere il patogeno riconoscibile al macrofago oppure in caso di presenza di
tossine può provvedere a neutralizzarle affinché sempre il macrofago (lo spazzino dell'organismo) possa
distruggerle.
I linfociti T riescono a riconoscere un antigene solo se esso viene "presentato" sulla superficie di una cellula
complessato con le proteine del Complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), e non quindi nella sua forma
solubile. I linfociti T possiedono un sistema di recettori, TCR/CD3, tramite i quali riescono a riconoscere il
peptide antigenico, presente in un complesso con le proteine dell'MHC. I peptidi espressi sulla cellula assieme
alle proteine dell'MHC non derivano solo da antigeni, ma anche dal metabolismo cellulare, dopo digestione nel
proteosoma, e possono essere quindi anche "molecole self", vale a dire proprie dell'organismo stesso e non
provenienti da organismi estranei. Nel caso in cui una cellula sia infettata da virus, il virus stesso
ineluttabilmente induce la cellula a produrre delle proteine che servono alla proliferazione virale e alcune di
queste proteine virali vengono lisate dai proteosomi e presentate sulla cellula infetta provocando il
marcamento per un linfocita di tipo T della cellula infettata. I linfociti T non hanno però solo una funzione
effettrice capace di eliminare cellule tumorali, infette e organismi patogeni, ma hanno anche una funzione
regolativa tramite la produzione di linfochine, molecole che sono alla base di fenomeni di cooperazione
cellulare nella risposta immunitaria. Le cellule a funzione effettrice possiedono la molecola di riconoscimento
CD8 (sono dette CD8+) e sono i linfociti T citotossici; le cellule con funzione regolatrice sono marcate dalla
CD4 (dette CD4+) e sono i linfociti T helper.
I linfociti T hanno una metodologia di differenziamento particolare che avviene nel timo. Nella zona capsulare
di questo possiamo trovare i timociti, linfociti non ancora maturi, che esprimono sulla loro superficie la
molecola CD7 e non quella caratterizzante la loro specie linfoide, la CD3. Un secondo stadio avviene nella zona
corticale in cui i timociti sono immersi in maglie epiteliali che producono fattori di crescita aiutandone così la
maturazione. Successivamente vi è un riarrangiamento del TCR/CD3 che è molto simile a quello delle
immunoglobuline e in questo stadio il linfocita esprime sia CD4 (tipica del T helper) sia CD8 (tipica del
linfocita effettore). Da ricordare che le cellule CD8+ riconoscono le MHC del primo gruppo mentre i CD4+
quelle del secondo gruppo. Molto importanti per il sistema immunitario e linfoide sono le cellule dendritiche
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del sistema immune che permettono il corretto espletamento delle funzione delle cellule di linea linfoide. Le
cellule dendritiche sono capaci infatti non solo di captare proteine virali espulse dalla cellula per presentarle
ai linfociti negli organi linfoidi secondari ma svolgono anche una funzione di smistamento nel timo corticale dei
linfociti che potrebbero essere dannosi per l'organismo riconoscendo una cellula "self" come "non self"
avendo un complesso TCR/CD3 mal funzionante. Un altro sistema di selezione sembra essere quello delle
cellule nurse che una volta sembravano deputate a istruire i linfociti mentre oggi sembrano avere una
funzione selettiva.
I linfociti NK (Natural Killer) sono un tipo molto curioso di linfociti e costituiscono il 20% della popolazione
linfoide. Possiedono alta attività antitumorale e antivirale pur non essendo soggetti a espansione genica. Esso
possiede due importanti recettori FCYR e NCR. Gli FCYR sono capaci di riconoscere un patogeno mentre gli
NCR sono capaci di uccidere indiscriminatamente. Per evitare possibili complicazioni i NK sono stati dotati
dall'evoluzione di KIR (Killer Inibitor Receptors) in grado di riconoscere le molecole HLA di primo tipo e di
evitare la morte cellulare.
L’antigene viene presentato ad un linfocita A, una sorta di analizzatore che controlla se esiste nella memoria
immunologica l’anticorpo per quel determinato antigene. Se è la prima volta che l’organismo incontra tale
antigene, il linfocita A, coadiuvato dal linfocita H o helper, induce una cellula B a differenziarsi in una
plasmacellula, una fabbrica di anticorpi per quel determinato antigene. Se, invece, quel tipo di antigene è già
stato incontrato una volta e quindi si possiede l’esatto anticorpo, entrano in gioco le cellule M, o cellule della
memoria, che, insieme ai linfociti S, producono quel determinato anticorpo. Un linfocita B presenta un nucleo
eucromatico molto grande, con indice prettamente nucleare, con REG e Golgi quasi assente. Invece, una
plasmacellula ha un nucleo di dimensioni minori, con indice citoplasmatico, la cui cromatina si dispone a ruota
di carro, inoltre è presente un esteso REG e Golgi. L’abbondanza di REG indica che la cellula è interessata in
una abbondante sintesi di proteine, gli anticorpi o γ globuline. Gli anticorpi prodotti, entrano nella rete
linfatica è la risalgono fino a quando, all’altezza del cuore si immettono nella circolazione sanguigna. Una volta
nel sangue, gli anticorpi raggiungono il sito di infezione e si legano agli antigeni batterici distruggendo così
l’organismo invasore. Il virus HIV, che causa l’AIDS, colpisce e distrugge il linfociti helper. In questo modo il
sistema immunitario non è più in grado di rispondere correttamente all’infezione in quanto non è in grado di
produrre
i
relativi
anticorpi
per
quel
determinato
antigene.
Infatti
il
virus
HIV
induce
una
immunosoppressione e di per sé non è letale ma rende letali infezioni banali.
Col passare del tempo e la fine dell’infezione, la produzione anticorpi cessa. Se quel tipo di antigene dovesse
ripresentarsi, sempre nei linfonodi, il macrofago presentante attiva un linfocita A che riconosce l’antigene e
stimola quella determinata cellula M che si attiva, differenziandosi in plasmacellula. Così inizia la produzione
di quel determinato anticorpo. Il nome di linfociti T o B, deriva dal fatto che i linfociti di tipo T maturano nel
timo, mentre quelli di tipo B nella Borsa di Fabrizio, una struttura presente nell’embrione degli uccelli. Per
anni nell’uomo si è cercato un organo che svolgesse funzioni analoghe alla borsa di Fabrizio, e alla fine si è
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scoperto che i linfociti B maturano nel midollo osseo, ovvero nel bone marrow, da cui il nome di linfocita B. Il
team di cellule coinvolto nella difesa dell’organismo è costituito da:
-
Linfociti CD4;
-
Linfociti CD8;
-
Linfociti B;
-
Macrofagi;
-
Cellule dendritiche;
-
Cellule natural killer o NK.
Le cellule natural killer riconoscono e distruggono le cellule tumorali, quindi un loro deficit può portare alla
comparsa del cancro.
Nella cute sono presenti un particolare tipo di cellule dendritiche, che prendono il nome di cellule di
Langherans. Costituiscono il 2-4 % delle popolazioni cellulari dell’epidermide. La loro distribuzione varia nei
vari distretti, da 460 a 1000 per millimetro quadrato, in media 700. Il citoplasma di tali cellule è pieno di
particolari granuli dalla caratteristica forma a racchetta da tennis. Tali granuli sono vescicole di elaborazione
degli antigeni, che devono essere presentati, è prendono il nome di corpi di Birbeck. Una volta che la cellula di
Langherans riceve l’antigene, lo espone sulla sua superficie ed abbandona la sua sede per immettersi nel
torrente linfatico e raggiungere il linfonodo più vicino. Le cellule di Langherans sono monociti che migrano dal
sangue attraverso la lamina basale direttamente nell’epidermide. I monociti nascono nel midollo osseo a
partire da una Stem. Migrano nel sangue come precursori CD1a, CD11c e giungono nell’epidermide dove
aspettano gli antigeni. All’arrivo dell’antigene, la cellula di Langherans, lo espone sulla propria membrana
cellulare e migra nel linfonodo satellite più vicino. Qui induce la formazione di un clone T-CD4 e alla fine
muore.
A seguito di uno stress, le cellule attivano la fosfolipasi A2, che induce la produzione di prostaglandine. Ciò è
possibile poiché la membrana plasmatica è un generatore di segnali. Infatti nella membrana è presente l’acido
arachidonico, che è in grado di produrre prostanoidi, sostanze interessate nella comunicazione intracellulare.
La fosfolipasi A2 taglia dal fosfolipide la testa idrofila e le due code vengono utilizzate nella sintesi delle
prostaglandine. L’esposizione per lunghi periodi alla luce solare è un evento di stress. Ciò induce le cellule
dell’epidermide a produrre PGE di tipo 1 e 2. Tali sostanze attivano la tirosinasi del melanocita che inizia la
sintesi di melanina che, attraverso i melanosomi, migra nelle cellule limitrofe proteggendole dai danni della
radiazione solare. La lipocortina è in grado di stoppare la sintesi di prostaglandine e di ridurre
l’infiammazione. L’agente che attiva i geni della flogosi è NFkB, che, normalmente, è presente nel citoplasma
nella sua forma inattiva legato a IkBa. A seguito di stress NFkB viene attivato rimuovendo IkBa. NFkB entra
nel nucleo dove attiva la trascrizione del gene IkBa, che a sua volta attiva i geni della flogosi. Tali geni
producono citochine che danno origine al processo flogistico. Oltre alle citochine vengono prodotti le
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interleuchine e l’interferone, sostanze che richiamano monociti dal sangue. Il cortisone è in grado di
arrestare tale processo. Infatti quando tale sostanza giunge nella cellula, si lega ad un particolare recettore,
che viene attivato, entra nel nucleo è disattiva il gene IkBa, e il processo flogistico si arresta.
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19-Artrosi
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In un processo artrosico sono i debris, cioè i frammenti di cartilagine, ad innescare il processo di flogosi.
L’artrosi può essere di tre tipi:
-
Primaria, se è causata da fattori genetici ovvero idiopatica. Si manifesta con i noduli di Heberden;
-
Secondaria, se è causata da fattori scatenanti quali traumi, interventi chirurgici o malattie
reumatiche;
-
Professionale, particolare tipo di Artrosi Secondaria, causata da un uso estensivo (tipico
dell'ambiente professionale) di alcune articolazioni.
Le artrosi più frequenti sono:
-
Gonartrosi, ovvero artrosi del ginocchio;
-
Rizartrosi ovvero artrosi dell'articolazione alla base del pollice;
-
Coxartrosi ovvero artrosi dell'anca;
-
Spondilartrosi ovvero artrosi delle articolazioni vertebrali.
In condizioni di normalità il sinoviocita A non rileva all’interno del liquido frammenti di cartilagine. Ma se sono
presenti i debris, il sinoviocita A stimola il sinoviocita B a sintetizzare acido ialuronico a bassa densità. Tale
produzione innesca i meccanismi di percolazione e immissione cellulare nella borsa sinoviale, nella quale,
normalmente, non sono presenti cellule. La produzione di acido ialuronico a bassa densità e la produzione di
segnali cellulari richiamano nel liquido cellule della serie bianca del sangue, quali macrofagi e linfociti. Esistono
due classi di linfociti, catalogati in base alla presenza di un tipo di recettore presente sulla membrana
plasmatica:
-
I linfociti CD4;
-
I linfociti CD8.
Il macrofago, una volta entrato nella membrana sinoviale è resting, ed espone sulla sua membrana plasmatica
la proteina MHC-1. La cartilagine lesionata produce particolari segnali che inducono l’attivazione del
macrofago, passando dallo stadio di resting a quello di primed, activated e full activated. Durante tale
processo il macrofago espone la proteina MHC-II. L’attivazione macrofagica innesca un’anomala funzione delle
metalloproteasi. Il macrofago activated produce IL-1, che stimola i condrociti ad attivare le metalloproteasi
inattive presenti nella matrice extracellulare, attraverso la rimozione del TIMP. Ciò innesca la graduale
degradazione della matrice, e parallelamente nei condrociti viene indotta l’attivazione di NFkB, che a sua
volta attiva la serie di reazioni che conducono all’instaurazione di un processo flogistico. Iniziano ad essere
prodotte
citochine,
interleuchine
e
interferone,
che
richiamano
linfociti,
macrofagi
e
cellule
polimorfonucleate dalla circolazione sanguigna. L’attraversamento di tali cellule della membrana sinoviale è
reso possibile grazie al sinoviocita A, che fagocita i debris e dismette all’esterno molecole che aprono la BES
e la rendono attraversabile dai leucociti. Il sangue che fuoriesce stranamente non coagula come accade di
solito. Tale anomalia è giustificata da una cellula, il mastocita che è ricco di granuli di eparina e istamina.
Il mastocita è una cellula di forma tondeggiante, ovoidale o fusata, è dotato di attività ameboide, ha un
diametro di 20-30 µm e si trova nel tessuto connettivo propriamente detto. I mastociti sono presenti, come
già detto, nel tessuto connettivo e tendono a concentrarsi in particolar modo lungo i vasi sanguigni; sono
inoltre molto abbondanti nel peritoneo. Nel citoplasma sono presenti numerosissimi granuli circondati da
membrana, i quali si colorano metacromaticamente con i coloranti basici. Questi granuli sono spesso così
stipati da mascherare il nucleo. Nel citoplasma sono anche presenti delle gocce lipidiche. Inoltre la membrana
plasmatica presenta numerose e sottili espansioni e contiene i recettori per la porzione Fc delle IgE, le quali
dopo una prima esposizione all'antigene rimangono sulla superficie dei mastociti. I granuli contengono
materiale destinato alla secrezione, in particolare istamina ed eparina. La prima è un prodotto di
decarbossilazione dell'istidina e ha azione vasodilatatrice, aumenta la permeabilità vascolare; la seconda è un
proteoglicano con forte carica elettrica negativa, ciò spiega le proprietà tintoriali dei granuli, ed ha azione
anticoagulante. I corpi lipidici contengono riserve di acido arachidonico, tramite il quale vengono prodotti
rapidamente i leucotrieni quando i mastociti vengono attivati. I mastociti intervengono nella genesi delle
reazioni allergiche, di ipersensibilità e anafilattiche (shock anafilattico). Quando i mastociti vengono attivati
rapidamente secernono il contenuto dei granuli (degranulazione) e in più altre sostanze, quali l'ossido di azoto
(NO), un altro vasodilatatore, i leucotrieni, che inducono la contrazione della muscolatura liscia, intervenendo
ad esempio nella broncocostrizione, cioè nella crisi asmatica. Inoltre i mastociti liberano interleuchine e altre
sostanze chemiotattiche. Una volta che i mastociti sono già stati sensibilizzati contro un antigene, sulla loro
superficie rimangono, legate ai recettori, le IgE specifiche per quell’antigene, in questo modo quando si
verifica una seconda esposizione allo stesso antigene il riconoscimento è immediato ed avviene la
degranulazione, che è una reazione veloce ed efficace. È sufficiente che due IgE contigue contraggano il
legame con l’antigene per scaturire la risposta biologica dei mastociti. Per molto tempo si è creduto che i
mastociti fossero lo stesso tipo cellulare dei granulociti basofili, presenti nel connettivo anziché nel sangue.
Si è poi scoperto che i mastociti esibiscono recettori specifici e rispondono a un fattore differenziativo
diverso da quello dei basofili. I progenitori dei mastociti si trovano nel midollo osseo. I mastociti maturi
hanno una limitata capacità proliferativa che però aumenta in caso di infezioni.
Recenti studi hanno dimostrato che è proprio il mastocita che, fisicamente, apre il vaso e rilascia nello stesso
istante i granuli. Quindi, ialuronato ad alto peso molecolare chiude la BES, mentre ialuronato a basso peso
molecolare la apre. Man mano che si accumulano i debris, il sinoviocita A viene continuamente stimolato a far
entrare leucociti nel liquido, portando ad una escalation, che avrà come risultato finale la nascita del dolore
articolare. Nel pieno spessore della BES sono presenti numerosissime terminazioni nocicettive. La situazione
di flogosi comporta la produzione di PG-2, che attivano le terminazioni nervose, facendo partire il messaggio
di dolore al cervello. Per bloccare tutto ciò basterà un’iniezione di cortisone, che disattiva i geni della flogosi,
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oppure bloccare l’azione dell’IL-1α utilizzando un suo antagonista, una glicoproteina di 22 KDa che va ad
occupare il sito del recettore plasmatico su cui si aggancia l’IL-1α.
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20-L’Apparato Respiratorio
Il tessuto epiteliale è un particolare tipo di tessuto costituito da cellule di forma regolare e quasi
geometrica, che aderiscono le une alle altre. Le cellule che costituiscono il tessuto epiteliale svolgono funzioni
di rivestimento, di trasporto, di secrezione e di assorbimento. Nei vertebrati questo tessuto costituisce, in
particolare, il rivestimento interno ed esterno della maggior parte delle superfici corporee. In qualunque
posto si trovino, i tessuti epiteliali sono separati dai sottostanti mediante una membrana basale non cellulare,
di natura fibrosa. Un tipo particolare di tessuto epiteliale è l'epidermide, o pelle; altri esempi sono i
rivestimenti della bocca, della cavità nasale, dell'apparato respiratorio, dei canali dell'apparato riproduttore,
dell'intestino e dei vasi sanguigni.
Le cellule dell’epitelio possono avere forma piatta, cubica o cilindrica. A seconda del compito che l’epitelio
dovrà svolgere, il dominio apicale delle cellule potrà essere libero da eventuali strutture, oppure possedere
ciglia, stereociglia (ciglia più lunghe ma prive della capacità di muoversi), microvilli.
In istologia, i tessuti epiteliali possono essere classificati in base al ruolo che svolgono all'interno del corpo.
Possono essere così distinti l'epitelio di rivestimento, l'epitelio sensoriale e l'epitelio ghiandolare. L'epitelio
di rivestimento ha, appunto, la funzione di rivestire le cavità esterne ed interne del corpo. Va a formare lo
strato di protezione esterno chiamato cute, costituisce le tonache mucose e sierose, localizzate nelle cavità
interne del corpo, e ricopre inoltre i vasi sanguigni e i dotti escretori delle ghiandole. In particolare:
-
la cute (o pelle) riveste l'esterno del corpo, formando una barriera che ha lo scopo di proteggere
l'organismo da traumi fisici, da sostanze chimiche nocive o, ancora, dall'ingresso di virus, batteri ed
altri microrganismi pericolosi per la salute;
-
la tonaca (o membrana) mucosa ricopre le cavità interne del corpo comunicanti con l'esterno, come
l'apparato digerente, l'apparato respiratorio, l'apparato urinario e genitale;
-
la tonaca (o membrana) sierosa riveste le cavità interne del corpo non comunicanti con l'esterno, come
il pericardio, la pleura ed il peritoneo.
Nelle sue varie localizzazioni, questo tipo di epitelio poggia sempre su un tessuto connettivo sottostante,
denominato derma nel caso della cute e tonaca propria nel caso di sierose e mucose.
L'epitelio sensoriale è costituito da cellule disperse negli epiteli di rivestimento, che hanno la funzione di
ricevere e trasmettere determinati stimoli esterni alle cellule del tessuto nervoso. Ne sono un esempio le
cellule che costituiscono le papille gustative e le cellule acustiche dell'orecchio. Sebbene possano apparire
simili in funzione, non sono da confondere con le cellule nervose. Le cellule epiteliali sensoriali infatti non
presentano assone. Sono invece avvolte dalle espansioni terminali di fibre nervose appartenenti a neuroni
sensoriali il cui soma è localizzato nei gangli cerebro-spinali.
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L'epitelio ghiandolare (chiamato anche tessuto ghiandolare) forma le ghiandole, strutture atte alla
produzione e secrezione di sostanze utili all'organismo.
A seconda di come le cellule epiteliali sono organizzate tra di loro e come si dispongono nello spazio si
avranno:
-
Epitelio pavimentoso semplice, costituito da un unico strato di cellule piatte, questo tipo di
epitelio si ritrova negli alveoli polmonari, in alcune porzioni dei reni, in particolare nella capsula di
Bowman, nell'orecchio e va a formare le sierose della pleura e del pericardio;
-
Epitelio cubico semplice formato da un singolo strato di cellule cuboidali, costituisce la parete
dell'ovaio e i dotti escretori di molte ghiandole;
-
Epitelio cilindrico semplice (con la presenza di cellule mucose e microvilli oppure cilia), costituito
da un unico strato di cellule di aspetto cilindrico, può essere suddiviso in due tipi differenti:
l'epitelio cilindrico ciliato, munito di cilia, e quello non ciliato. L'epitelio cilindrico semplice non
ciliato si ritrova principalmente nell'intestino, dove svolge la funzione di assorbire le sostanze
nutritive assimilate tramite la digestione. Prive di cilia, le cellule che lo compongono, chiamate
anche enterociti, presentano sul versante apicale invaginazioni ed estroflessioni digitiformi,
chiamate microvilli, che aumentano enormemente la superficie cellulare atta all'assorbimento.
Visto al microscopio, il complesso dei microvilli assume un caratteristico aspetto dell’orletto a
spazzola, tipico degli enterociti. L'epitelio cilindrico semplice ciliato è presente invece nella
mucose dell'ovidotto, ed ha la funzione di spingere l'ovulo, tramite le cilia, per i condotti
dell'utero durante l'ovulazione;
-
Epitelio pseudo-stratificato, in realtà formato da un unico strato, come l'epitelio semplice;
tuttavia essendo le cellule disposte in modo non ordinato, i nuclei si trovano ad altezze diverse e
pertanto danno l'impressione di essere posti in più strati quando invece si tratta di uno strato
solo, come nelle vie respiratorie o nella trachea. Le sue cellule possono essere o appiattite
(pavimentoso) o cubiche (cubico);
-
Epitelio stratificato costituito da cellule appiattite disposte in più strati. Può presentarsi in due
tipologie: cheratinizzato o non cheratinizzato. Il tessuto pavimentoso pluristratificato non
cheratinizzato è presente nel rivestimento interno della bocca, nella cornea e nella vagina. Il
tessuto pavimentoso pluristratificato cheratinizzato costituisce, invece, l'epidermide.
Cenno a parte va fatto per l’epitelio che tappezza le vie urinifere. Tali strutture, vescica e uretra, hanno un
particolare tipo di epitelio, unico nel suo genere, definito urotelio. L’epitelio della vescica è costituito da
cellule batiprismatiche, a clava e ad ombrello. La funzione di tale epitelio è quella di impedire il transito
secondo gradiente del contenuto della vescica nel limitrofo letto capillare. Tale funzione è resa possibile dalla
presenza di giunzioni strette tra le cellule e dalla ricca componente proteica della membrana plasmatica delle
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cellule ad ombrello. La massiva presenza di proteine ispessisce la membrana plasmatica annullando il grado di
assorbimento.
Tutti i tubi cavi sono tappezzati da una mucosa, che è formata dall’epitelio e, al di sotto, lo stroma. A seconda
delle funzione che quella determinata parte del corpo dovrà svolgere vengono utilizzati i diversi tipi di epiteli.
Ogni cellula del nostro organismo, per poter vivere, ha bisogno di combustibile e comburente. Il combustibile
è fornito dall’apparato digerente, mentre il comburente dall’apparato respiratorio. Il comburente di ogni
cellula è l’ossigeno e l’anidride carbonica è il gas residuo. L’ossigeno, insieme all’azoto, è il costituente
principale dell’aria della troposfera e come tale è ricca di numerosissime particelle corpuscolate e polveri. La
presenza di polveri nell’aria può essere misurata con un precipitatore a getto, formato da un compressore che
aspira l’aria e da una camera a fondo cieco che porta un vetrino millimetrato. L’aria viene aspirata e
convogliata sul vetrino. Se l’aria è priva di pulviscolo il vetrino non presenterà macchie, ma se del pulviscolo è
presente questo si concentrerà sul vetrino che apparirà macchiato. Le macchie sul vetrino sono costituite da
polveri, polline e tante altre sostanze. Tali sostanze sono in grado di provocare gravi patologie. Ciò è stato
dimostrato da Kotin, che nel suo esperimento iniettò sotto la cute di un ratto quanto prelevato in prossimità
di aree ad emissione di gas o vapori ad alto rischio. In molti casi è possibile ottenere la formazione di un
tumore. Ogni volta che respiriamo introduciamo mezzo litro di aria, per un totale di 10 mila litri al giorno. Ma
assieme all’aria introduciamo anche pulviscolo che è libero di entrare nei polmoni.
L’aria a nostra disposizione o è troppo calda o troppo fredda e quasi sempre sporca. Per risolvere tali
inconvenienti l’apparato respiratorio si organizza in due settori o compartimenti, ognuno con i propri epiteli
specializzati e le proprie funzioni:
-
Il tratto pre-respiratorio;
-
Il tratto respiratorio, che è la sede dello scambio ematosico.
Il tratto pre-respiratorio è strutturato per adattare, sterilizzare, umidificare e filtrare l’aria inspirata, è
formato dal naso, faringe, trachea, bronchi, bronchioli. Il tratto respiratorio è costituito dal sacco alveolare.
Nell'uomo, il naso occupa la parte centrale del viso posizionato al di sopra della bocca. È costituito da una
parte sporgente (piramide nasale), da una parte interna (cavità nasali) suddivisa da una parete mediale (setto
nasale). Le cavità nasali formano la parte interna del naso e sono alte e profonde. Anteriormente si aprono nel
naso esterno mediante le narici; posteriormente, terminano in una fessura verticale a lato della porzione
superiore della faringe, sopra il palato molle e vicino agli orifizi delle trombe di Eustachio che portano alla
cavità timpanica dell'orecchio. Sia le cavità nasali sia le narici sono rivestite da mucosa e le seconde anche da
peli duri, detti vibrisse. Sia la mucosa che le vibrisse impediscono il passaggio a sostanze estranee, quali la
polvere o piccoli insetti, che altrimenti potrebbero penetrare nelle vie respiratorie insieme all'aria inspirata.
Un'altra funzione della mucosa nasale consiste nel riscaldare e rendere umida l'aria in ingresso verso
l'apparato respiratorio. Nella regione del naso deputata alla percezione olfattiva, la mucosa è molto spessa;
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essa si presenta scura a causa della presenza di un pigmento bruno. I recettori dell'olfatto inviano gli stimoli
al cervello attraverso il nervo olfattivo, che si dirama nelle cavità nasali con numerose piccole fibre. Le cavità
nasali esercitano una triplice funzione: respiratoria, olfattoria e fonatoria. Durante l'inspirazione, l'aria
attraversa le fosse, di lì si divide in due flussi, di cui uno passa a contatto con la mucosa olfattoria, ed
entrambi giungono alla rinofaringe. L'aria umidificata e scaldata viene ulteriormente filtrata per mezzo di
grossi peli e le secrezioni nasali. Le particelle odorose convogliate verso la mucosa olfattiva ne stimolano le
cellule che inviano il messaggio, tramite il nervo olfattivo, ai centri olfattivi cerebrali diventando sensazioni di
odore. Ma le fosse nasali contribuiscono, anche, alla corretta pronuncia e modulazione delle consonanti nasali
(appunto dette).
Il pulviscolo presente nell’aria entra nelle coane. Il primo passo è quello di portare l’aria inspirata alla stessa
temperatura del corpo e di umidificarla. Se l’aria è fredda, quando entra nelle fosse nasali, man mano che
attraversa le coane, progressivamente si riscalda. Il riscaldamento è reso possibile grazie anche alla presenza
dei seni paranasali, in cui l’aria viene immediatamente riscaldata. I seni paranasali sono una serie di cavità
ossee simmetriche della faccia. Sono rivestite da mucosa e comunicanti con le fosse nasali. Aiutano a
riscaldare e ad umidificare l’aria, influenzando inoltre il timbro della voce. Gli epiteli presenti in questo tratto
devono essere capaci di sterilizzare ed umidificare. La mucosa che riveste le cavità nasali è formata da:
-
Una componente cellulare mucosa che produce molecole ad azione lubrificante;
-
Un ricco plesso vascolare arterioso e uno venoso, che sono in grado di riscaldare ed umidificare
l’aria che è in transito nella cavità nasale.
La mucosa di questo primo tratto respiratorio è formata da tre popolazioni cellulari:
-
Una prima popolazione cellulare secernente muco;
-
Cellule ciliate;
-
Cellule basali.
La prima popolazione cellulare produce glicoproteine a funzione tensioattiva, che una volta secrete si legano al
pulviscolo. Il complesso glicoproteina-pulviscolo viene allontanato dalle cellule ciliate, attraverso il battito
metacronale. Attraverso il battito, il muco, intriso di polveri, viene eliminato. Le cellule basali sono cellule in
grado di differenziarsi o in cellule secernenti muco o in cellule ciliate, a seconda del tipo di cellule che vanno
sostituite. È molto importante mantenere il corretto rapporto numerico tra cellule della mucosa e cellule
ciliate. L’epitelio nasale è un epitelio pseudo stratificato.
L’aria dalla faringe giunge alla laringe, attraversando la trachea fino ai bronchi. Il pulviscolo entra con l’aria
nelle fosse nasali e viene intercettato, bloccato e neutralizzato a livello della trachea. La trachea fa parte
delle vie aeree inferiori insieme alla laringe che la precede e ai bronchi che la seguono.
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La laringe è un condotto superficiale mobile, a forma di piramide triangolare, posto nel collo, la cui base
corrisponde alla faringe e il vertice con la trachea. Nella parete della laringe sono presenti parti cartilaginee
che ne impediscono la sua chiusura. Oltre a permettere il passaggio dell'aria (sia ispirata che espirata
durante la respirazione), è la sede dell'organo della fonazione. I rapporti della laringe sono, a livello
posteriore, con la faringe e l'esofago, mentre anteriormente e lateralmente, con la tiroide. Le cartilagini della
laringe sono la tiroidea, la cricoide, le due aritenoidi con le piccolissime corniculate (formate da cartilagine
ialina), e l'epiglottide (formata da cartilagine elastica). All'interno della laringe, in uno spazio chiamato
glottide (lungo dai 14 ai 25 mm a seconda del sesso della persona), si trovano le corde vocali: due superiori
(false) più sottili e quasi prive di muscolatura, che hanno funzione protettiva e non servono né a cantare né a
parlare, ma, se stimolate, producono un suono sordo e rauco; due inferiori (vere) più spesse e con importanti
fasci muscolari, che hanno funzione fonatoria. Di norma è più sviluppata nell'uomo che nella donna.
La trachea costituita da tessuto cartilagineo, muscolare e legamenti. Gli anelli cartilaginei che costituiscono
la trachea sono incompleti nel quarto posteriore per permette l'espansione dell'esofago al momento della
deglutizione. La sua funzione primaria è di trasferire l'aria dall'esterno verso i polmoni. Termina a livello
mediastinico dividendosi nei 2 bronchi polmonari principali destro e sinistro. La trachea è un cilindro
contrattile cavo e appiattito, accessoriato da circa 15-20 anelli cartilaginei. Gli epiteli di tale zona sono
epiteli capaci di monitorare e trattare l’aria in transito. Sono quattro le popolazioni cellulari che rivestono la
mucosa tracheale e che sono pertanto in contatto con l’aria in transito:
-
Cellule basali, formano delle anse propulsive in cui sono ospitate le altre cellule;
-
Cellule ciliate, sono responsabili del battito metacronale;
-
Cellule mucose, producono glicoproteine a funzione tensioattiva
-
Brush-cell, analizzano le caratteristiche dell’aria in transito regolando così il funzionamento delle
altre cellule.
Le modalità del battito muco-ciliare sono in relazione all’aria in transito. Le Brush-cell analizzano il pulviscolo
ed attraverso le cellule basali comunicano le modalità di funzionamento. Le cellule mucose secernono una
quantità di tensioattivo adeguato alla quantità ed alla qualità del pulviscolo. Il battito metacronale promosso
dalle cellule ciliate è anch’esso programmato dalle Brush-cell. Ma se il pulviscolo è atipico per dimensione e/o
natura chimica il trasporto monitorato dell’aria si arresta, e la Brush-cell attiva la P-cell che produce una
serie di molecole capaci di attivare la contrazione della parete tracheale originando il riflesso della tosse. Il
calibro tracheale va incontro ad una riduzione ciclica indotta da una contrazione dei suoi anelli. Il movimento
degli anelli amplifica le spinte propulsive verso l’alto determinando una serie di colpi di tosse. Eventuale
materiale ostruente può essere così espulso.
Il bronco è ciascuna delle ramificazioni delle vie respiratorie della trachea fino alle ultime diramazioni. Vicino
ad ogni bronco decorre un’arteria e una vena. L’aria viaggia veloce lungo i bronchi, passando nei bronchioli e
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giunge in apposite sacche dette alveoli polmonari. Con il termine alveolo polmonare si identifica la parte
terminale dei bronchioli polmonari. I bronchioli sono sottilissimi rami, di calibro inferiore al millimetro, che
terminano con un "grappolo" detto infundibolo; questo grappolo è costituito da un gruppo di alveoli polmonari,
paragonabili a dei sacchetti che hanno una sottilissima parete fibro-muscolare. Nei polmoni vi sono migliaia di
infundiboli, e questo ci permette di avere un'enorme superficie di scambio in uno spazio contenuto come la
cavità toracica. Intorno agli alveoli vi sono dei sottilissimi capillari sanguigni, che si immergono per metà
nell'alveolo; questi vasi trasportano sangue venoso (ricco di anidride carbonica). All'interno dell'alveolo il
sangue è separato dall'aria inspirata solo da un sottile strato di endotelio. Il sangue abbandona l'anidride
carbonica ed il vapore acqueo, e si lega all'ossigeno: questo scambio si chiama ematosi. I capillari, che prima
trasportavano sangue venoso, adesso trasportano sangue arterioso e vanno a raccogliersi nelle vene
polmonari, che sfociano nell'atrio sinistro del cuore. Il cuore distribuirà poi il sangue ossigenato a tutto
l'organismo. I polmoni contano circa 700 milioni di alveoli e ogni alveolo ricorda un grappolo d’uva: i singoli
chicchi sono cavi all’interno e sono rivestiti all’esterno da un ricco plesso artero-venoso. È in tali strutture
che avviene lo scambio ematosico. Nel compartimento venoso verrà ceduta l’anidride carbonica mentre nel
compartimento arterioso verrà caricato l’ossigeno. Le popolazioni che tappezzano l’alveolo polmonare sono:
-
Pneumocita I;
-
Pneumocita II.
L’epitelio che riveste il sacco alveolare è sottilissimo e in tali circostanze occorre che l’epitelio funzioni come
una valvola. A tale scopo, lo pneumocita I si lascia attraversare dal gas che possiede pressione parziale
maggiore, quindi l’ossigeno, che nell’alveolo ha una pressione parziale di 98 torr, tende ad entrare nel vaso
dove la sua pressione è pari a 40 torr. Nell’alveolo la pressione dell’anidride carbonica è pari a 40 torr, minore
rispetto alla pressione del gas nel vaso sanguigno (46 torr) quindi tale gas tende ad uscire. I globuli rossi
carichi di CO2 raggiungono il sacco alveolare dove cedono l’anidride carbonica e si caricano di O2. Poi si
allontano dal sacco alveolare per ritornare al cuore che li immetterà nel circolo arterioso. Gli pneumociti di
tipo I sono cellule molto appiattite con una parte centrale rilevata contenente il nucleo ed esili lamine
citoplasmatiche che rivestono tratti estesi della superficie alveolare. Identificare tali cellule, in passato, è
stato molto difficile, dato il loro esile spessore. Lo pneumocita di tipo due è l’attuazione biologica del
principio fisico di Fick in base al quale la quantità di gas che diffonde attraverso una superficie è
direttamente proporzionale all’area ed inversamente proporzionale allo spessore. Esistono dei pori, detti pori
di Kohn, che mettono in comunicazione due alveoli adiacenti. La cavità alveolare è tuttavia ricoperta da un
sottile strato d’acqua che proviene dal microcircolo che riveste il sacco alveolare. Tale strato, nel pieno
rispetto della legge di Henry, migliora l’efficienza dello scambio gassoso. Tuttavia questo strato acquoso, a
causa della struttura tridimensionale dell’alveolo, determina l’aumento della forza di tensione superficiale
dell’acqua (legge di Laplace), che tenderebbe a far collassare l’alveolo. Tale forza viene antagonizzata grazie
ad epiteli capaci di regolare la tensione superficiale. A ciò serve lo pneumocita II, capace di produrre un
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fattore tensioattivo che antagonizza la forza di tensione superficiale che tenderebbe a far collassare
l’alveolo. Sono di forma rotondeggiante e sporgenti dalla superficie alveolare, hanno i caratteri tipici degli
elementi secernenti, con grosse vescicole citoplasmatiche che contengono sistemi di lamelle disposte a
vortice, i corpi multilamellari (finger prints). Questi riversano all'interno dell'alveolo il loro secreto, una
sostanza tensioattiva che impedisce l'eccessiva distensione dell'alveolo nell'inspirazione e il suo collasso
nell'espirazione. Quando la produzione di tensioattivo è in eccesso, e ciò comporterebbe una iperdistensione
dell’alveolo, lo pneumocita di tipo II produce allora un anti-tensioattivo che, neutralizzando il tensioattivo,
riporta l’alveolo alle dimensioni originali.
Eppure, nonostante questi meccanismi ed automatismi, del pulviscolo può raggiungere ancora il sacco
polmonare. All’interno degli alveoli sono strategicamente disposti dei macrofagi, che sono in grado di
concentrare il pulviscolo e di fagocitarlo, dismettendo nell’alveolo radicali liberi ed una serie di fattori come il
TNF, citochine, leucotrieni. I macrofagi alveolari sono monociti del sangue che oltrepassando il vaso sono
giunti nell’alveolo, differenziandosi in macrofagi.
100
21-L’Apparato Digerente
La fame è quella sensazione che induce tutti gli organismi a mangiare fino a raggiungere un senso di sazietà. A
volte tale senso di sazietà non coincide con il reale fabbisogno energetico dell’organismo, inducendo così a
mangiare di più di quanto sia necessario. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno lo assimiliamo dalla dieta. L’uomo, al
contrario degli altri animali, ha un rifornimento continuo di cibo e tale situazione ha comportato la
progettazione, da parte della natura, di metodi di deposito dell’energia. Il tessuto adiposo è l’organo addetto
a tale funzione, ma oltre a ciò svolge:
-
Funzioni endocrine;
-
Regolazione della pressione;
-
Regolazione della R/I;
-
Deposito di energia;
-
Funzione di tessuto di imballaggio;
-
Funzione termoregolatrice.
I lipidi sono un sistema ideale per fornire energia continuamente disponibile perché pesano poco e occupano
meno volume. Infatti a parità di massa l’ossidazione di acidi grassi fornisce più energia rispetto all’ossidazione
dei carboidrati, inoltre i carboidrati richiamano una grande quantità di acqua e l’immagazzinamento
dell’energia a lungo termine sotto forma di zuccheri comporterebbe un aumento eccessivo della massa
corporea. La massa grassa tende a disporsi in zone predefinite del corpo, con una certa differenza nei due
sessi. Il tessuto adiposo si presenta in due versioni:
-
Tessuto adiposo bianco;
-
Tessuto adiposo bruno o grasso bruno.
Le funzioni del tessuto adiposo bianco o giallo (colore fisiologico) sono:
-
Funzione meccanica: occupa interstizi, riveste i nervi, i vasi ed i muscoli foderandoli. Riempie
alcuni interstizi del midollo osseo;
-
Funzione termoisolante: il grasso non conduce il calore, per cui non disperde il calore generato
dall’organismo;
-
Funzione di riserva: la membrana citoplasmatica dell’adipocita contiene la lipoproteinlipasi, un
enzima che scalza i lipidi dalle loro proteine vettrici (lipoproteine epatiche o chilomicroni enterici)
e scinde questi ultimi in glicerina ed acidi grassi; questi ultimi passano la membrana ed entrano nel
citoplasma, dove sono riconvertiti in lipidi. La conversione in lipidi può essere anche fatta a
partire da glucosio. Inoltre, gli adipociti possiedono anche la lipasi ormone-dipendente, che agisce
tagliando i trigliceridi in glicerina ed acidi grassi, su stimolo del glucagone, dell’adrenalina, della
tiroxina, della triiodiotironina e del neurotrasmettitore noradrenalina. Questo fa sì che i prodotti
101
della lisi fuoriescano dalla cellula e s’attacchino all’albumina ematica per essere portati dove ce n’è
bisogno.
Oltre a queste tre, ce ne sono altre importanti funzioni di questo tessuto:
-
è parte integrante della regolazione dell'appetito;
-
è parte integrante della regolazione del metabolismo;
-
è coinvolto nelle funzioni della fertilità umana;
-
regola in misura rilevante la formazione e la differenziazione di cellule ematiche;
-
è coinvolto nei processi della coagulazione del sangue;
-
gioca un ruolo centrale in diversi meccanismi di difesa immunitaria aspecifici e specifici, cellulari e
umorali. Infatti in caso di infezioni libera dei mediatori immunitari che attivano e stimolano le
difese immunitarie.
Il testosterone lo fa accumulare solo nell’addome, mentre l’estrogeno tende a distribuirlo un po’ ovunque, ma
soprattutto sui fianchi. È impossibile che cellule di questo tipo muoiano spontaneamente, mentre è possibile
che si riducano di molto, soprattutto con l'esercizio fisico.
Il tessuto adiposo bruno è costituito dalle cellule adipose multiloculari, è molto scarso nell’uomo adulto e
appare brunastro se osservato al microscopio ottico, sia per la presenza massiccia di mitocondri che per
l'elevata vascolarizzazione. Il tessuto adiposo bruno ha esclusivamente la funzione di produrre calore perché
i mitocondri delle cellule adipose multiloculari non hanno l’ATP sintetasi. Questa peculiarità fa sì che l'energia
prodotta dalla scissione dei trigliceridi non venga utilizzata per la produzione di ATP ma venga dissipata sotto
forma di calore. Il grasso bruno è ben rappresentato nei neonati di molte specie (nella specie umana
sopratutto a livello della nuca, del collo e delle scapole). Negli adulti è abbondante invece quasi esclusivamente
nelle specie che vanno in letargo, mentre negli adulti di altre specie, compresa quella umana, esso è
scarsamente presente.
Molto spesso nei preparati istologici la gocciola lipidica viene rimossa. L’adipocita uniloculare bianco ha la
classica forma definita come anello con castone.
Una cellula per poter sopravvivere ha bisogno di comburente, ossigeno, e combustibile, lipidi, aminoacidi,
zuccheri e basi azotate. Tutto il combustibile necessario e sufficiente alla sopravvivenza della cellula è
presente negli alimenti ingeriti con la dieta. Ma il combustibile, così come è presente negli alimenti, non può
essere assorbito direttamente, ma deve essere scomposto in parti più piccole. A ciò serve l’apparato
digerente, composto da un tubo digerente, lungo circa 10 metri, e una serie di ghiandole ausiliari. Il cibo,
transitando nel tubo digerente viene dapprima masticato e sminuzzato, poi digerito nello stomaco, mentre
l’assorbimento inizia nell’intestino. Tutto ciò che è inutile alla fine viene eliminato sotto forma di feci. Il cibo
entra nel tubo digerente dalla cavità orale. La prima fase è quella della masticazione, cioè il boccone ingerito
102
viene frammentato in pezzi più piccoli dai denti e amalgamato con un liquido, la saliva, prodotta dalle ghiandole
salivari.
I denti sono strutture che si trovano all'interno del cavo orale di molti vertebrati. La funzione primaria
dell'insieme dei denti (la dentatura) è quella della masticazione del cibo mentre, in alcuni animali (i carnivori,
ad esempio) i denti sono utilizzati anche per la caccia e la difesa. Le radici dei denti sono coperte dalle
gengive. Il processo di formazione dei denti è chiamato odontogenesi ed inizia fin dalle prime settimane
successive al concepimento. Agli uomini, nel corso del loro sviluppo, spuntano due serie di denti. La prima è
rappresentata dai denti da latte, o temporanei o caduchi, che cominciano a spuntare in genere verso il sesto
mese di vita. All'età di due anni, di solito, un bambino ha venti denti. La seconda serie di denti, o seconda
dentizione, è composta dei denti permanenti. Il germe dentario, da cui si sviluppano i denti permanenti, è
presente all'interno delle gengive, nascosto dai denti da latte. Quando il bambino ha circa sei anni, i denti
permanenti cominciano a svilupparsi e sospingono via i denti della serie da latte. Al suo termine l'uomo adulto
è provvisto di trentadue denti. Nella bocca, esistono diversi gruppi di denti, variabili per forma, dimensione e
funzione. Nei mammiferi e nell'uomo, si distinguono gli incisivi, i canini, i premolari e i molari. Pertanto, l'uomo,
su entrambe le metà arcate superiore ed inferiore, e partendo dal centro stesso dell'arcata ha: 4 incisivi, 2
canini, 4 premolari e 6 molari. Raddoppiando ciascuno di questi numeri, poiché due sono le metà arcate
superiori e due le metà inferiori, si avranno: 8 incisivi, 4 canini, 8 premolari e 12 molari. La dentatura umana è
di due tipi:
-
dentizione decidua (alias "da latte"), presente nei bambini e composta da 20 denti. Essa è
completamente presente all'età di 2 anni e mezzo; e fino all'età di sei anni, epoca in cui inizia
l'eruzione dei denti permanenti;
-
dentizione mista, dove si ha compresenza dei denti decidui e degli erompenti denti permanenti. Va
dai sei anni ai 12 anni, epoca in cui l'adolescente presenterà 28 denti permanenti e più nessun
deciduo;
-
dentizione permanente (alias "definitiva"), presente dai dodici anni. Mancando solo i terzi molari
permanenti che erompono tra i 18 e i 25 anni. Portando così la dentatura a 32 elementi.
Le malattie dei denti sono diverse più o meno gravi. Le più diffuse e dannose sono la carie e la malattia
parodontale, in quanto provocano se non intercettate in tempo la perdita del dente. Il bruxismo
(digrignamento dei denti durante il sonno) può provocare tra l'altro danneggiamenti ai denti. I denti si
sviluppano bene in dipendendenza di molti fattori. Poiché nella sostanza che compone i denti si ha un'alta
percentuale di calcio, fosforo ed altri minerali, la dieta influisce notevolmente sul buono sviluppo e sulla
conservazione dei denti. In questi processi, le vitamine A, B, D sono indispensabili, mentre il fluoro aiuta a
mantenere sani e robusti i denti. Un'insufficiente produzione di ormoni, da parte di alcune ghiandole
endocrine, come la tiroide e la paratiroide, impedisce lo sviluppo di denti robusti. Alcuni agenti chimici
rendono solubili i sali di calcio presenti nello smalto e consentono alla carie di iniziare la sua azione
103
distruttrice. La solubilizzazione dei sali di calcio è provocata dai batteri presenti nella bocca, i quali,
digerendo i carboidrati, liberano acidi. Il deperimento dei denti, detto anche carie dentaria, sembra sia la
malattia più comune del genere umano. L'acido agisce sullo smalto dei denti, formando una cavità, o buco, ed
in seguito il deperimento del dente. Se la cavità non viene pulita per tempo e otturata dal dentista, la dentina,
simile all'avorio, o corpo del dente, comincia a cariarsi, permettendo alla cavità di raggiungere la polpa
dentaria. Se la polpa esposta si infetta, si forma un ascesso. Un ascesso è un sacchetto di pus che si forma
alla fine della radice del dente. Da qui, l'infezione può propagarsi per tutto il corpo; pertanto, il dente infetto
deve essere estratto per proteggere la salute della persona interessata. Ma la carie dei denti non è causata
solo dallo zucchero e dall'amido. I denti di certe persone possono essere più o meno resistenti di quelli di
un'altra. Un fattore importante è dato dalle condizioni dei denti: se lo smalto è in cattive condizioni, ciò ne
facilita il deperimento. Un altro fattore è il grado di acidità della saliva; inoltre, alcuni sono del parere che
anche lo stato emotivo di una persona sia un fattore positivo per il deperimento. Se il cibo rimane a lungo
nelle fessure che dividono un dente da un altro, le sue piccole particelle risultano un ottimo centro di
allevamento per i batteri che producono gli acidi. Naturalmente, i posti più pericolosi sono quelli che più
difficilmente si possono pulire, e cioè la superficie interna dei denti e le parti dei denti che vengono fra loro
in contatto. Non si è ancora del tutto in grado di prevenire la carie dei denti. Per ridurre la formazione di
cavità, si consiglia di mangiare pochi alimenti dolci, specialmente fuori pasto. Si consiglia, inoltre, una sana e
bene equilibrata alimentazione, una regolare ed appropriata pulizia e la visita dal dentista ad intervalli
regolari e frequenti.
Nella fase della masticazione un ruolo importante ha la lingua. La lingua è un organo eminentemente muscolare
e mobilissimo in tutte le direzioni, adagiato sul “pavimento” della bocca. Esso è collegato posteriormente a un
piccolo osso chiamato ioide e anteriormente ad un piccolo e sottile filamento detto frenulo o filetto. La lingua
è dotata di papille gustative, ed è, appunto, il principale organo del gusto. Essa svolge la funzione di impastare
il cibo con la saliva e di spingerlo sotto i denti affinché venga triturato. Inoltre ha anche una notevole
importanza nel deglutire e nella fonazione. Abbiamo 4 sensazioni di gusto situati in punti diversi e sono:
-
Dolce: che si trova sulla punta della lingua;
-
Salato: che si trova sulla parte laterale anteriore della lingua (in entrambi i lati);
-
Acido: che si trova sulla parte laterale posteriore della lingua (in entrambi i lati);
-
Amaro: che si trova al centro della lingua.
Le sensazioni gustative dei 2/3 anteriori della lingua vengono recepite da 4 tipi di papille presenti sull'organo:
-
Papille foliate;
-
Papille fungiformi;
-
Papille circumvallate;
-
Papille filiformi (hanno funzione meccanica, trattengono il cibo, non hanno calici gustativi).
104
La lingua si muove per mezzo di due sistemi di muscolatura: quella "estrinseca" e quella "intrinseca". La prima
comprende tutti i muscoli "al di fuori" dell'organo in questione, mentre la seconda viene spesso definita come
muscolatura propria (o interna) della lingua.
La saliva gioca un ruolo molto importante nel processo della masticazione. Infatti svolge l’importante funzione
di lubrificare il boccone onde facilitarne la frammentazione ed evitare i danni che l’attrito tra boccone e
mucosa buccale provocherebbe sulla superficie della cavità orale. Proprio per questo, in base al boccone
ingerito, le ghiandole salivari secerneranno salive diverse. Le ghiandole che producono la saliva sono:
-
La parotide;
-
La salivare sublinguale;
-
La salivare mandibolare.
La saliva è un liquido pseudo-plastico non newtoniano, ricco in acido ialuronico, acqua ed enzimi digestivi per lo
zucchero, quali l’amilasi. Infatti la digestione degli zuccheri inizia in bocca, e più il tempo della masticazione è
lungo più rapidamente questi verranno assorbiti. La prima digestione avviene in bocca. Da un punto di vista
citologico, una ghiandola salivare è formata da più popolazioni cellulari diverse, che di concerto producono
salive diverse, in base alla tipologia di boccone ingerito. Tali popolazioni sono:
-
Cellule della mucosa;
-
Cellule sierose;
-
Cellule intercalari;
-
Cellule striate.
Ognuna di queste cellule produce un ingrediente particolare della saliva, fino ad ottenere un liquido omogeneo,
adatto per quel tipo di cibo. Può accadere che il condotto in cui transiti la saliva in formazione resti ostruito e
che tale ostruzione causi dolore. Le ghiandole salivari sono strutturate in adenomeri. Sul fondo di ogni
adenomero sono presenti le cellule mucose e sierose che secernono all’interno del lume dell’adenomero. In
preparati istologici, data la differente funzione delle due cellule, queste formano delle strutture definite
semilune o croissant del Giannuzzi. Il secreto viene poi convogliato nei dotti intercalari, che a loro volta
confluiscono nel dotto striato. Le cellule del dotto striato arricchiscono la saliva di ulteriori componenti
oppure la concentrano, in base alle proprietà meccaniche del boccone ingerito. Alla fine più dotti striati
confluiscono nel dotto escretore della ghiandola. La superficie esterna degli adenomeri è tappezzata da
cellule mio epiteliali che, contraendosi, imprimono alla saliva la giusta forza per essere secreta.
Una volta terminata la fase della masticazione, il boccone intriso di saliva viene inghiottito. La fase di
deglutizione è una fase molto delicata e pericolosa, poiché il bolo alimentare per potere immettersi
nell’esofago deve transitare vicino all’apertura della trachea. In questa fase il boccone potrebbe entrare nella
trachea anziché scendere nell’esofago e causare il soffocamento della persona. L’accesso alla laringe viene
bloccato, durante la deglutizione, dall’epiglottide, che si piega, tappandone così l’entrata.
105
L'esofago è un organo a forma cilindrica dell'apparato digerente della lunghezza di circa 25-30 cm e una
larghezza di 2-3 cm. Collega la faringe allo stomaco e presenta una duplice funzione: consentire il passaggio
del cibo (bolo alimentare) fino allo stomaco dove avverrà la digestione ed impedirne il reflusso dallo stomaco
insieme ad acido e succhi gastrici. Le pareti dell’esofago sono formate da strati, o tuniche, sovrapposte:
mucosa, sottomucosa, tonaca muscolare e tonaca avventizia. La mucosa è, a sua volta, costituita da tre strati:
epitelio di rivestimento (di tipo pavimentoso stratificato non cheratinizzato), tonaca propria e muscolaris
mucosae. Lo strato più esterno della parete esofagea, è muscolare (muscolaris mucosae), ed è costituito da
tessuto muscolare liscio involontario; durante la deglutizione questi muscoli si contraggono, spingendo il cibo
nello stomaco (peristalsi). Nello strato intermedio, invece, si trovano le ghiandole esofagee (ghiandole
cardiali), che versano la loro secrezione nel lume dell'esofago. Questo secreto permette di mantenere umido
l'esofago. Nella sottomucosa si trovano plessi nervosi ed un gran numero di vasi sanguigni e linfatici. L’esofago
è uno sfintere a lume variabile, caratterizzato da un restringimento cricoideo e uno aorto-bronchiale. Il bolo
viaggia nell’esofago a seguito di una serie di contrazioni della muscolatura liscia, dette peristalsi. Tali
contrazioni restringono a monte del bolo il lume dell’esofago, sospingendo il bolo in direzione dello stomaco.
L’esofago termina poco al di sotto del diaframma, dove si immette nello stomaco. La porta di entrata dello
stomaco prende il nome di cardias. Il cardias è l'apertura tra l'esofago e lo stomaco, al di sotto del
diaframma. Oltre a dare il nome a tale struttura, esso è anche la sede di una complessa forma valvolare di
forma ovalare che svolge una funzione importantissima: quella di impedire il passaggio del contenuto dello
stomaco in esofago. Se questa valvola funziona male si determina il reflusso. A volte il cardias può non
funzionare perfettamente o non funzionare del tutto. Le cause possono essere molteplici e nella maggioranza
dei casi rimangono sconosciute. L'obesità, gravidanze ripetute, attività che richiedono sforzi intensi come il
sollevare pesi, alcuni farmaci possono far funzionare male il cardias o favorire il reflusso aumentando
eccessivamente la pressione nell'addome. Anche l'ernia iatale può essere una delle cause di malfunzionamento
del cardias. Dall’epitelio dell’esofago si passa bruscamente all’epitelio gastrico, diversamente organizzato.
Appena il bolo alimentare entra nello stomaco, inizia la fase gastrica. Dopo tale fase, la poltiglia alimentare
uscirà dal piloro per immettersi nel primo tratto intestinale, il duodeno.
Lo stomaco è un organo dell'apparato digerente che svolge la seconda fase della digestione, quella successiva
alla masticazione. Nello stomaco si riconoscono tre porzioni principali: il fondo, che è la porzione più alta; il
corpo, che è la porzione più ampia; infine l'antro pilorico, la parte conclusiva che sbocca nell'intestino.
Nell'uomo lo stomaco ha un volume di 0,5 L se vuoto ed ha la capienza media completamente pieno di un litro,
un litro e mezzo. Dopo un pasto normale generalmente si espande per contenere circa 1 l di cibo ma può anche
arrivare a dilatarsi per contenerne fino a 4 L ed oltre, comprimendo però gli altri organi della cavità
addominale e spesso anche del torace. Le pareti dello stomaco sono costituite da quattro strati: la tunica
sierosa, la quale avvolge l'organo; la tunica muscolare, la quale è composta da tre strati di fibre muscolari, uno
longitudinale, uno orizzontale e l'altro obliquo; la tunica cellulare la quale contiene un intreccio di filamenti
106
nervosi; infine la tunica mucosa, la quale riveste la superficie interna dello stomaco, formata da un unico
strato di cellule epiteliali e dalle ghiandole sottostanti. Il suo ruolo principale è quello di scomporre in
frammenti più piccoli le molecole di grandi dimensioni ingerite, mediante acido cloridrico, per consentirne
l'assorbimento da parte dell'intestino tenue. Altre funzioni sono la digestione proteica svolta dagli enzimi
litici rennina e l'assorbimento dell'acqua, di alcuni ioni e composti liposolubili quali l'alcol, l'acido
acetilsalicilico e la caffeina. La pepsina lavora solamente in ambiente a basso pH. Questo viene garantito
sempre dall'acido cloridrico. L'insieme di tutti questi elementi è detto succo gastrico, che viene azionato
anche solo se pensiamo di mangiare. Le pareti dello stomaco si corroderebbero per colpa del succo gastrico,
ma lo stomaco secerne una sostanza, la mucina, che evita questo problema. La spessa muscolatura garantisce
infine i movimenti di rimescolamento degli alimenti che durante la permanenza nello stomaco, che può variare
da una a tre ore, si trasformano in chimo. Caratteristica peculiare delle pareti dello stomaco è la barriera
mucosale gastrica, una specializzazione della mucosa atta a neutralizzare l’azione corrosiva dell’acido
cloridrico prodotto dallo stomaco stesso, onde evitarne l’auto-digestione. La mucosa dello stomaco è
tappezzata da 35 milioni di crateri, ovvero gli sbocchi di altrettante ghiandole secernenti succo gastrico. Il
succo gastrico è formato da HCl e pepsine. Lo spessore della parete mucosale dello stomaco può essere divisa
in due compartimenti:
-
Sul fondo un compartimento aggressivo, formato da ghiandole che secernono il succo gastrico;
-
All’apice, un compartimento difensivo, atto a neutralizzare l’azione corrosiva del succo gastrico.
Il compartimento aggressivo è formato da due popolazioni cellulari diverse: una producente pepsinogeno (Boss
Cell), l’altra HCl (cellula oxintica). Il compartimento difensivo, invece, è formato da cellule rivestite da una
spessa coltre di muco. L’organizzazione di tali cellule forma tre livelli di difesa onde evitare la corrosione
delle pareti gastriche. La prima linea difensiva è rappresentata dal muco, la seconda dalle cellule di tale
compartimento e la terza dalle tight junctions che collegano tali cellule. La mucosa gastrica viene rinnovata
totalmente ogni 3 giorni. Inoltre sul fondo di tale compartimento, è presente una quarta linea difensiva,
formata da cellule che secernono un tampone alcalino, che neutralizza l‘acido. L’ulcera gastrica è dovuta ad un
eccesiva secrezione di succo gastrico ed a un cattivo funzionamento difensivo. Oltre a tali cellule sono anche
presenti cellule della serie APUD, che gestiscono con particolari ormoni l’intera attività secretiva. Nello
stomaco, le varie componenti del bolo, ora detto chimo, sono ulteriormente scomposte in unità più semplici. Il
chimo, dallo stomaco, attraverso il piloro, viene immesso nel primo tratto dell’intestino o duodeno.
Dal piloro il chimo passa nel C duodenale dove inizia la fase di mixing con i secreti pancreatici e della colecisti.
La parete del duodeno è tappezzate dalle ghiandole di Brunner, secernenti un secreto alcalino ad azione
tampone verso l’acidità del chimo.
La fase di assorbimento dei metaboliti avviene nell’intestino tenue, formato dal duodeno, digiuno ed ileo. Per
facilitare tale operazione esistono due ghiandole specializzate nella produzione di fattori enzimatici atti a
107
scomporre particolari sostanze e a facilitarne ulteriormente l’assorbimento. La prima di queste due ghiandole
è il pancreas. Il pancreas è una voluminosa ghiandola annessa all'apparato digerente. La sua principale
funzione esocrina è quella di produrre succo pancreatico. Il succo pancreatico ha la funzione di digerire
alcune sostanze nell'intestino tenue ed è composta da:
-
enzimi proteolitici (tripsina e chimotripsina);
-
enzimi gliocolitici (amilasi);
-
enzimi lipolitici (lipasi);
-
ribonucleasi e desossiribonucleasi.
La struttura risulta simile a quella della ghiandola parotide, cioè "acinosa" composta a secrezione "sierosa";
risulta suddivisa in "lobuli" da esili "sepimenti connettivali" che prendono origine dalla capsula che avvolge
l'organo. Il secreto si trova sotto forma di granuli di zimogeno all'interno delle cellule pancreatiche, e viene
poi secreto per esocitosi nel "lume dell'acino"; dai "condottini intralobulari" il secreto si getta nei "condotti
interlobulari" che, a loro volta, sboccano nei due grossi dotti pancreatici, il dotto pancreatico "principale"
(dotto di Wirsung) e il dotto pancreatico "accessorio" (di Santorini). L'azione secernente del pancreas è
continua, ma si svolge a un livello modesto; essa aumenta però considerevolmente sotto lo stimolo
neuroendocrino della "secretina" e della "pancreozimina", prodotti nel duodeno che raggiungono il pancreas
per via ematica. La componente endocrina è rappresentata da circa 1 milione di "isolotti pancreatici", ed è ben
marcata rispetto alla componente esocrina. Gli adenomeri non sono strutturati come acini, ma come tubuli
"anastomizzati" tra loro, drenati da un numero di dotti relativamente basso. Le cellule sierose del pancreas
hanno forma piramidale, con la parte slargata rivolta verso la lamina basale, e quella assottigliata che
prospetta verso il lume. Il nucleo si trova in posizione basale, il citoplasma basale è intensamente basofilo
(RER sviluppato), il Golgi è in posizione sovranucleare. Il citoplasma apicale presenta gocciole di zimogeno. Le
cellule sierose del pancreas producono tutta una serie di enzimi proteolitici, lipolitici ed amilolitici. La
regolazione della secrezione del succo pancreatico si compie con meccanismi nervosi ed ormonali (ormoni
gastrointestinali). Dal pancreas esocrino, come dallo stomaco, si distinguono una "secrezione basale"
(interdigestiva) ed una "post pradiale" (digestiva). La secrezione pancreatica basale è piuttosto modesta. Il
succo pancreatico viene immesso nel duodeno non in modo episodico, come la bile: al momento della digestione
avviene un rilascio massivo e rapido di succo pancreatico. La mancanza di un serbatoio per il succo pancreatico
rende necessaria l'esistenza di altri meccanismi di regolazione, in primo luogo le formazioni sfinteriche della
"papilla duodenale", che occludono parzialmente il condotto pancreatico principale: ciò tuttavia non spiega il
rilascio massivo nella fase digestiva. La secrezione pancreatica viene resa notevolmente attiva da stimolazioni
di natura nervosa ed endocrina (pancreazimina e secretina). Questa stimolazione determina uno svuotamento
massivo delle cellule sierose, i granuli di "zimogeno" si fondono tra loro e si ha lo svuotamento massivo in un
colpo solo (come il "granulocito basofilo"). Il secreto pancreatico ha un pH di circa 7,9-8,6 e mediamente se
ne producono 1,5-3 litri al giorno. Una funzione molto importante del secreto pancreatico è quella di
108
abbassare la concentrazione di ioni H+ presenti nel chimo proveniente direttamente dallo stomaco. Infatti le
pareti del duodeno, siccome non presentano un compartimento difensivo, sono facilmente attaccabili
dall’acido, ed è per questo che il secreto pancreatico è leggermente basico. Il secreto pancreatico è formato
da:
-
Per il 97 % tampone alcalino (bicarbonato);
-
Il restante 3 %, amilasi, proteasi (endopeptidasi, tripsina, chimotripsina, elastasi, esopeptidasi,
carbossipeptidasi A e B), lipasi, nucleasi.
Il secreto pancreatico viene prodotto dalle cellule acinose del pancreas. Gli enzimi viaggiano nel Santorini in
forma inattiva e soltanto quando giungono nell’intestino divengono attivi. Infatti le cellule dei villi intestinali
secernono enterochinasi, che attiva gli enzimi. Al momento dell’ingresso nel duodeno, il chimo è molto
compattato e ciò renderebbe lenta l’aggressione ad opera degli enzimi pancreatici. Per evitare tale
inconveniente, si utilizzano dei tensioattivi. Il tensioattivo per eccellenza è la bile, prodotta dal fegato.
Il fegato è una voluminosa ghiandola localizzata nell'ipocondrio destro. È l'organo più voluminoso del corpo
umano. Gioca un ruolo fondamentale nel metabolismo e svolge una serie di processi tra cui l'immagazzinamento
del glicogeno, la sintesi delle proteine del plasma e la purificazione del sangue. Inoltre produce la bile,
importante nei processi della digestione. Le funzioni del fegato sono espletate dalle cellule del fegato, gli
epatociti. Il fegato produce e secerne la bile, usata per sciogliere i grassi. Parte della bile viene riversata
direttamente nel duodeno, parte viene accumulata nella cistifellea o colecisti dove viene concentrata. Il
fegato svolge numerose funzioni nel metabolismo dei carboidrati:
-
la gluconeogenesi, ovvero la sintesi del glucosio a partire da alcuni amminoacidi, dall'acido lattico o
dal glicerolo;
-
la glicogenolisi, ovvero la formazione del glucosio dal glicogeno (avviene anche all'interno dei
muscoli);
-
la glicogenesi, ovvero la sintesi del glicogeno a partire dal glucosio;
-
la demolizione dell'insulina e di altri ormoni;
-
il metabolismo delle proteine.
Il fegato inoltre interviene nel metabolismo dei lipidi:
-
vi avviene la sintesi del colesterolo;
-
vi avviene la sintesi dei trigliceridi.
Il fegato produce i fattori di coagulazione I (fibrinogeno), II (trombina), V, VI, IX, X e XI, nonché la
proteina C, la proteina S e l'antitrombina. Il fegato demolisce l'emoglobina, creando metaboliti che vengono
aggiunti alla bile come pigmenti. Il fegato demolisce numerose sostanze tossiche e numerosi farmaci nel
processo noto come metabolismo dei farmaci. Il processo può portare ad intossicazione, quando il metabolita
109
è più tossico del suo precursore. Il fegato converte l'ammoniaca in urea. Il fegato funge da deposito per
numerose sostanze, tra cui il glucosio (come glicogeno), la vitamina B12, il ferro e il rame. Nel feto fino al
terzo mese, il fegato è la sede principale della produzione di globuli rossi; viene rimpiazzato in questo compito
dal midollo osseo alla 32a settimana di gestazione.
Il sistema reticolo endoteliale del fegato contiene numerose cellule specializzate del sistema immunitario che
agiscono da "filtro" nei confronti degli antigeni trasportati dal sistema della vena porta. Attualmente non
esiste un organo artificiale capace di emulare tutte le funzioni del fegato. Alcune di esse sono emulate dalla
dialisi epatica, trattamento sperimentale per casi di grave insufficienza epatica. Una delle principali attività
del fegato è la disintossicazione dell'organismo da tossine, scorie ed altri elementi nocivi. La più importante
di tali azioni disintossicanti è la trasformazione dell'ammoniaca presente nel sangue (sostanza tossica
derivata dalle proteine) in una sostanza tollerabile a concentrazioni più alte, l'urea. L'urea viene poi
reimmessa nel sangue. Le caratteristiche citologiche degli epatociti rispecchiano la funzione detossificante
della ghiandola. Essi infatti presentano un reticolo endoplasmatico liscio molte abbondante. Quest'organello
infatti, oltre a presiedere alla sintesi di alcuni steroidi è intensamente implicato proprio nell'attività di
detossifacazione di molecole potenzialmente nocive o estranee (alcool, farmaci, etc…). Nel feto il fegato si
sviluppa a partire dal diverticolo epatico e attinge il sangue delle vene vitelline. La parte superiore del
diverticolo dà origine agli epatociti e ai dotti biliari, quella inferiore diventa la cistifellea con il dotto cistico.
Durante lo sviluppo del feto la principale fonte di sangue è la vena ombelicale, che trasporta al feto le
sostanze nutrienti. La vena ombelicale entra nell'addome all'altezza dell'ombelico e sale lungo l'estremità
libera del legamento falciforme fino alla superficie inferiore del fegato, dove si unisce al ramo sinistro della
vena porta. Il dotto venoso porta il sangue dal ramo sinistro della vena porta al ramo sinistro della vena
epatica e quindi alla vena cava inferiore, permettendo al sangue della placenta di aggirare il fegato del feto.
Nel feto il fegato si sviluppa durante la gestazione e non esegue le normali funzioni di purificazione del
sangue. Non esegue nemmeno le operazioni connesse alla digestione, dato che il feto viene nutrito
direttamente dal sangue della madre attraverso la placenta. Dopo la nascita, la produzione delle cellule
staminali si sposta nel midollo osseo. Entro cinque giorni dalla nascita la vena ombelicale e il dotto venoso si
chiudono, il primo diventa il ligamentum teres e il secondo il ligamentum venosus. In caso di cirrosi o
ipertensione della vena porta, la vena ombelicale può nuovamente riaprirsi.
La bile viene raccolta nella cistifellea o colecisti e al momento opportuno viene svuotata. La bile è un liquido di
colore giallo-verde secreto dal fegato della maggior parte degli animali vertebrati. In molte specie, essa è
immagazzinata nella colecisti tra un pasto e l'altro e, mangiando, è iniettata nel duodeno dove collabora ai
processi della digestione. Chimicamente la bile si costituisce di:
-
acqua;
-
colesterolo;
-
lecitina (un fosfolipide);
110
-
pigmenti biliari (bilirubina e biliverdina);
-
acidi biliari (sodio taurocolico).
La bile è prodotta dagli epatociti (cellule del fegato) e durante questo processo, le cellule epiteliali
aggiungono una soluzione acquosa, ricca in bicarbonati che diluisce e aumenta l'alcalinità del liquido. La bile
quindi fluisce nel dotto epatico comune, che unisce il dotto cistico dalla colecisti a formare il dotto biliare
comune. Il dotto biliare comune curvando si unisce con il dotto pancreatico per sfociare alla fine nel duodeno.
Quando lo sfintere di Oddi è chiuso, alla bile è impedito il refluire nell'intestino e fluisce invece nella
colecisti, dove viene immagazzinata e concentrata fino a cinque volte fra i pasti. Tale concentrazione avviene
attraverso l'assorbimento di acqua ed elettroliti, conservando però le sostanze originali. Il colesterolo è
anche rilasciato con la bile e disciolto negli acidi e i grassi biliari. Quando il cibo è rilasciato dallo stomaco nel
duodeno sotto forma di chimo, la colecisti rilascia la bile concentrata per completare la digestione. Il fegato
umano è in grado di secernere quasi un litro di bile al giorno (in base al peso corporeo). Il 95% dei sali secreti
nella bile vengono riassorbiti nell'intestino ileo terminale e riutilizzati. Il sangue dall'ileo fluisce
direttamente nella vena porta del fegato e li riporta nei dotti biliari per essere riusati, anche due o tre volte
per pasto. La bile funge per un certo grado da detergente, aiutando ad emulsionare i grassi e partecipa così al
loro assorbimento nel piccolo intestino; quindi ha parte importante nell'assorbimento delle vitamine D, E, K e
A che si trovano nei grassi. Oltre alla funzione digestiva, la bile serve anche all'eliminazione della bilirubina,
prodotta dalla degradazione della emoglobina, che le dà il tipico colore; neutralizza anche l'eccesso di acidità
nello stomaco prima di arrivare nell'ileo, la sezione finale del piccolo intestino. I sali biliari hanno anche un
effetto battericida dei microbi nocivi introdotti con il cibo.
Nel duodeno è presente un mixing, formato da secreto pancreatico e bile. Il chilo nel duodeno viene
continuamente rimescolato dagli sfinteri che creano delle camere di impasto. Una prima strizzata viene
fornita dallo sfintere apico-bulbare, segue lo sfintere medio-duodenale o di Busi-Kapandji e infine lo sfintere
del ginocchio inferiore o di Ochsner. Nel suo viaggio lungo l’intestino tenue, la componente nutriente del
chimo viene man mano assorbita dai villi intestinali. I villi sono tappezzati da ulteriori microstrutture, dette
microvilli. Tali formazioni servono ad aumentare il rapporto superficie/volume e ad ottimizzate i processi di
assorbimento dei metaboliti. Carboidrati, aminoacidi, lipidi e basi azotate sono disponibili nel lume intestinale
e vengono assorbiti, passando poi al sangue.
L’ultima fase è quella dell’assorbimento idrosalino. Infatti tutte le fasi precedenti a questa prevedevano un
largo consumo di acqua e sali minerali. Nell’intestino crasso avviene l’assorbimento idrosalino comportando una
graduale diminuzione del volume del chimo, che tende a solidificare. Le pareti dell’intestino crasso sono lisce e
non presentano strutture come villi e microvilli.
111
22-Ormoni e Sistema Nervoso
Nel 1949 Shannon e Weaver elaborarono la teoria generale della comunicazione. In base a tale teoria,
affinché si verifichi uno scambio di dati, vi deve essere una sorgente di informazione ed un ricevitore.
L’informazione viaggia sul BIT, ovvero sul binary digits. L’informazione è un evento che scioglie l’incertezza. Il
tragitto che viene percorso dall’informazione si chiama canale e contiene numerosi rumori di fondo che
possono alterare il significato dell’informazione che sta viaggiando. Tale teoria può essere applicata in pieno
alla comunicazione cellulare.
Le cellule hanno diversi modi per comunicare a seconda di quanto distanti siano la sorgente ed il ricevitore. Si
è visto, da esperimenti, che iniettando del colorante nel citoplasma di una cellula, questi passa al citoplasma di
quella limitrofa. Tale passaggio è possibile grazie alla presenza di nexus, cioè proteine transmembrana che
creano un canale che mette in comunicazione le due cellule vicine. Se le cellule sono molto lontane,
l’informazione, per poter raggiungere la sua cellula bersaglio, necessita di un canale più potente, in questo
caso la rete vascolare. La molecola segnale viene prodotta dalla sorgente ed immessa nella circolazione. Una
volta in circolo il segnale si legherà soltanto a quelle cellule che sono provviste del recettore adatto. Quando
il segnale si lega al recettore, la cellula bersaglio produce un segnale di risposta che viene messo in circolo e
raggiunge la sua cellula bersaglio, cioè la cellula provvista sulla sua membrana del recettore adatto per quel
segnale. Il retrosegnale stoppa la produzione del segnale di origine. Il segnale può essere inteso come un
input, mentre il retrosegnale l’output. Quando viene prodotto un retrosegnale che stoppa la produzione di
segnale, si è in presenza di un feedback negativo, mentre se la produzione del retrosegnale amplifica la
produzione del segnale il feedback è di tipo positivo. La cellula secernente il segnale è una ghiandola. Il
segnale è un ormone che viaggia nella rete vascolare per raggiungere la sua cellula bersaglio. Ma nel sangue
viaggiano anche altre sostanze, che creano una sorta di rumore di fondo, che può intralciare la comunicazione.
L’evoluzione ha suggerito un altro sistema di comunicazione tra due cellule poste ad una certa distanza.
L’informazione, anziché viaggiare nel sangue, può viaggiare in appositi prolungamenti citoplasmatici che dalla
cellula ghiandolare sono diretti alla cellula bersaglio, secernendo direttamente nei pressi di questa l’ormone.
Se poi la trasmissione avviene attraverso un codice elettrico si assiste alla formazione del sistema nervoso.
Per favorire la velocità di comunicazione, il prolungamento citoplasmatico è rivestito all’esterno da un bioisolante, onde evitare possibili campi elettrici di disturbo. La conduzione è di tipo saltatoria quando sono
presenti delle interruzioni lungo la membrana bio-isolante. In questo modo l’impulso salta da una zona libera
all’altra, aumentando di molto la propria velocità. Il sistema nervoso è l’evoluzione della comunicazione
attraverso gli ormoni. Più cellule nervose sono collegate tra loro formando una rete neuronale su cui viaggia
l’impulso.
Esistono vari tipi di ghiandole endocrine:
112
-
Ci sono degli ammassi di cellule ghiandolari che immettono il proprio secreto all’interno del
capillare a loro adiacente;
-
Ci sono ghiandole dette cordoni, poiché le cellule si dispongono a formare delle corde che
circondano la rete capillare;
-
Vi sono ghiandole che si dispongono a formare isole;
-
Ghiandole follicolari;
-
Ghiandole unicellulari.
Un ormone è un messaggero chimico che trasmette segnali da una cellula (o un gruppo di cellule) ad un'altra
cellula (o altro gruppo di cellule). Tale sostanza è prodotta da un organismo con il compito di modularne il
metabolismo e/o l'attività di tessuti od organi dell'organismo stesso. Gli ormoni sono prodotti da ghiandole
endocrine, che li riversano nei liquidi corporei. Gli ormoni sono classificati, in base alla struttura, in tre
gruppi:
-
ormoni peptidici;
-
ormoni steroidei;
-
amminoacidi modificati.
Gli ormoni peptidici sono degli ormoni costituiti da oligopeptidi o proteine. Vengono sintetizzati sotto forma
di pre-ormoni e solo dopo successiva modificazione divengono attivi. Un esempio è il paratormone, che nella
suo forma di pro-ormone è lungo 90 amminoacidi, mentre nella sua forma attiva ne contiene solo 84. Altri
ormoni di natura protidica sono l'insulina prodotta dalle cellule ß del pancreas e il TRH prodotto
dall'ipotalamo, che è un importante fattore di rilascio che va ad agire sull'ipofisi per il rilascio dell'ormone
TSH che a sua volta va ad agire sulla tiroide. Gli ormoni protidici viaggiano nel circolo sanguigno fino ad
arrivare alle cellule bersaglio. Qui, essendo polari, non riescono ad oltrepassare la membrana ma si legano a
particolari recettori intramembranali. Il loro attacco attiva l'adenilato ciclasi un enzima che forma AMPc
partendo da ATP e questo, con funzione di secondo messaggero, va a fosforilare e quindi attivare tutti gli
enzimi necessari per la risposta ormonale.
Gli ormoni steroidei sono ormoni di natura lipidica e derivano da un precursore comune che è il colesterolo.
Anche essi viaggiano nel flusso circolatorio, trasportati da particolari proteine che prendono il nome di
carrier: le SBP (Steroid Binding Protein). Questo fa in modo che l'ormone possa raggiungere le cellule
bersaglio. Qui, essendo di natura lipidica, entra nella cellula e trova i suoi recettori a livello citoplasmatico o a
livello nucleare. Il legame tra i due attiva come per gli ormoni protidici l'adenilato. Alcuni di questi ormoni
però hanno il loro recettore posto sulla membrana esterna: qui il legame attiva la proteina G formata da tre
subunità alfa, beta e gamma. La subunità alfa dopo l'attacco si fosforila e si dissocia, andando in circolo nel
citoplasma dove viaggia e va ad attivare l'adenilato ciclasi. Tra gli ormoni steroidei abbiamo:
113
-
gli androgeni, tra i più noti il testosterone, a 19 atomi di carbonio, prodotto in maggior parte dal
testicolo e dalle ghiandole surrenali nell'uomo. Nella donna è prodotto in piccole quantità dalle
cellule della teca e dalle ghiandole surrenali. L'androsterone prodotto dall'ovario. Entrambi sono
importanti per la determinazione dei caratteri sessuali e del comportamento conseguente.
-
Gli estrogeni, a 18 atomi di carbonio. Tra i più importanti c'è l'estradiolo, prodotto dalle ovaie,
importante per l'accumulo di acidi grassi e per il processo di vitellogenesi;
-
Progestinici, a 21 atomi di carbonio. Tra i più importanti c'è il progesterone prodotto dalle ovaie e
dalla placenta.
L’enzima che da origine al colesterolo è il 3-idrossi-metil-glutaril-CoA, che parte dallo mevalonato, segue poi
genaril, farnesil, squalene, lanosterolo ed infine il colesterolo.
L’ormone agisce legandosi ad un particolare recettore presente solo sulla membrana cellulare della cellula
bersaglio. Al recettore, internamente è legato un trasduttore che, originando AMPc, genera la trasmissione
interna del segnale. L’AMPc va ad agire sull’inibitore della chinasi, che viene attivata, entrando nel nucleo e
attiva o disattiva l’espressione di particolari geni. La ghiandola più importante è l’ipofisi, che regola l’attività
di tutte le altre ghiandole dell’organismo.
L'ipofisi o ghiandola pituitaria, è una ghiandola endocrina situata alla base del cranio, nella sella turcica
dell'osso sfenoide. Consta di due lobi, strutturalmente e funzionalmente diversi, che controllano, attraverso
la secrezione di numerosi ormoni, l'attività endocrina e metabolica di tutto l'organismo: il lobo anteriore
(adenoipofisi) e il lobo posteriore (neuroipofisi), divisi da una pars intermedia, piccola e poco vascolarizzata.
L'ipofisi è di dimensioni piuttosto piccole con un peso non superiore a 0.8 gr. È separata dall'encefalo da una
porzione della dura madre che la sovrasta ad ombrello e attraverso un peduncolo vascolo-nervoso comunica
con l'ipotalamo, quest'ultimo regola attraverso altre sostanze ormonali l'ipofisi stessa. Intorno alla sella
turcica si trovano i seni cavernosi da cui defluiscono le carotidi interne ed i nervi cranici III, IV, V e VI; è
facile immaginare che alterazioni a carico dell'ipofisi possono quindi causare diversi effetti secondari sulla
funzione visiva (compromissione del chiasma), vascolare, neurologica. Gli effetti dell'ablazione del lobo
anteriore sono in parte caratterizzati dalla diminuita attività delle altre ghiandole endocrine: la tiroide si
atrofizza, e così pure i surreni e le gonadi, con scomparsa della spermatogenesi nel maschio e dell'ovulazione
nella femmina; aumenta la sensibilità all'insulina per la compromissione delle isole pancreatiche, e insorge una
lieve forma di diabete insipido. L'ipofisectomia comporta inoltre arresto dello sviluppo somatico negli animali
giovani, con alterazioni scheletriche e muscolari. Queste osservazioni hanno permesso di individuare i diversi
ormoni secreti dall'ipofisi. Il lobo posteriore dell'ipofisi o neuroipofisi, più che una ghiandola vera e propria, è
un'appendice secretoria di due nuclei encefalici (nei quali probabilmente avviene la sintesi degli ormoni), da
cui riceve le fibre nervose che la costituiscono. Gli ormoni che esso produce sono:
114
-
l'ormone antidiuretico (ADH) o vasopressina, che controlla l'escrezione dell'urina da parte del
rene e regola in tal modo il ricambio idrico ed elettrolitico dei liquidi organici;
-
l'ossitocina che agisce sull'utero, stimolandone le contrazioni e inoltre determina, probabilmente,
la liberazione di prolattina dall'adenoipofisi.
Il controllo sull'attività della neuroipofisi è esercitato direttamente dai nuclei nervosi a cui è collegata,
mentre la regolazione dell'adenoipofisi è garantita da un particolare sistema di irrorazione sanguigna, che si
affianca a quella di provenienza sistemica e che raggiunge i nuclei encefalici prima di sfociare nella ghiandola.
Alcune sostanze, liberate dalle cellule nervose dell'ipotalamo, stimolerebbero così la secrezione dei diversi
ormoni. Inoltre l'attività dell'adenoipofisi è regolata dagli ormoni prodotti dalle stesse ghiandole che sono
sotto il suo controllo; infatti quando questi ormoni sono carenti nel sangue, l'ipofisi stimola selettivamente coi
propri ormoni l'attività delle ghiandole produttrici; quando invece tali ormoni sono presenti in quantità
elevate, l'ipofisi cessa di stimolare le ghiandole coi propri ormoni specifici. L'ormone somatotropo (GH, meno
comunemente STH) agisce direttamente sui tessuti ed è indipendente dall'attività delle altre ghiandole
endocrine; stimola la deposizione del calcio nel tessuto osseo e la proliferazione delle cellule cartilaginee,
aumenta la massa dei muscoli scheletrici e stimola la sintesi proteica. È detto anche ormone della crescita e
la sua mancanza causa l'arresto dello sviluppo staturale e ponderale dell'individuo. La prolattina (PRL) agisce
sulla ghiandola mammaria stimolando la secrezione di latte dopo il parto. L'intermedina (MSH) ha effetto
trofico sui melanociti, responsabili della pigmentazione della pelle. Gli ormoni tropici sono quelli ormoni che
agiscono su altre ghiandole endocrine:
-
L'ormone tireotropo (TSH) agisce sulla tiroide, favorendo la liberazione degli ormoni che questa
produce (tiroxina e triiodotirorina);
-
L'ormone adrenocorticotropo (ACTH) determina a sua volta la sintesi e la secrezione molto rapida
degli ormoni della corteccia surrenale e stimola il metabolismo lipidico;
-
L'ormone follicolo-stimolante (FSH) e l'ormone luteinizzante (LH) sono invece gonadotropi
(agiscono cioè sulle gonadi); nelle ovaie il primo stimola la formazione dei follicoli e la secrezione
dei loro ormoni (estrogeni), il secondo la formazione del corpo luteo e la secrezione dell'ormone
corrispondente, il progesterone; nel testicolo, l'LH agisce invece sulle cellule interstiziali (e viene
perciò anche contraddistinto con la sigla ICSH), promuovendo la spermatogenesi e la secrezione
dell'ormone testicolare (testosterone, mentre l'FSH favorisce la sintesi di una proteina (ABP)
che lega il testosterone, attivando gli spermatozoi).
Un’altra ghiandola è l’epifisi, che produce la melatonina, un ormone che regola i bioritmi e i ritmi circadiani. La
ghiandola pineale o epifisi è una ghiandola endocrina delle dimensioni di una nocciola, sporge all'estremità
posteriore del 3° ventricolo. Appartiene all'epitalamo ed è collegata mediante alcuni fasci nervosi pari e
simmetrici (peduncoli epifisari), alle circostanti parti nervose. Le sue cellule, i "pinealociti" producono
l'ormone melatonina che regola il ritmo circadiano sonno-veglia, reagendo al buio o alla poca luce. La
115
melatonina è inoltre l'ormone antagonista degli ormoni gonadotropi ipofisari, infatti gli elevati quantitativi di
melatonina nell'individuo in età pre-puberale, ne impediscono la maturazione sessuale. All'inizio della pubertà i
livelli di melatonina decrescono notevolmente e nell'epifisi si accumula la sabbia pineale. La ghiandola pineale
secerne melatonina solo di notte: poco dopo la comparsa dell'oscurità le sue concentrazioni nel sangue
aumentano rapidamente e raggiungono il massimo tra le 2 e le 4 di notte per poi ridursi gradualmente
all’approssimarsi del mattino. L'esposizione alla luce inibisce la produzione della melatonina in misura dosedipendente. In questo senso l'epifisi sembra rappresentare uno dei principali responsabili delle variazioni
ritmiche dell'attività sessuale, sia giornaliere che stagionali (soprattutto negli animali).
La tiroide, utilizzando lo iodio, produce due classi di ormoni, T3 e T4, che regolano la velocità del
metabolismo. La tiroide è una ghiandola endocrina situata nella parte frontale del collo (al di sotto della
laringe) ed è formata da due lobi uniti da una porzione intermedia detta istmo. È isolata dagli organi vicini da
una guaina fibrosa e risulta riccamente vascolarizzata da: arterie tiroidee inferiori, rami delle succlavie, rami
delle carotidi esterne e dalle arterie tiroidee superiori. Questa caratteristica ne impedisce un facile accesso
chirurgico. La tiroide rappresenta l'unico caso di ghiandola endocrina che possiede la capacità di accumulare il
secreto, prima che esso venga riversato nel torrente circolatorio, in sede extracellulare in quanto gli ormoni,
legati ad una glicoproteina iodata (tireoglobulina), si accumulano nel lume follicolare sotto forma di colloide.
Nella parete follicolare si evidenziano due popolazioni cellulari:le cellule parafollicolari o cellule C e le cellule
follicolari o tireociti. Queste due popolazioni cellulari hanno una diversa origine embriologica: solo le cellule
follicolari, più numerose, originano propriamente dall'abbozzo tiroideo che deriva da un'introflessione della
mucosa del faringe primitivo (tasca di Ratke) alla base della lingua; le cellule parafollicolari migrano invece
successivamente nella tiroide provenendo dai corpi ultimobranchiali, abbozzi embrionari dei quali nei
mammiferi non resta traccia, e vengono considerati parte del sistema endocrino diffuso denominato APUD
(Amine Precursor Uptake and Decarbossilation). Gli ormoni prodotti dalle cellule follicolari o tireociti sono
due dipeptidi iodati: la tiroxina (T4) prodotta in maggior quantità e la triiodotironina (T3). Entrambe sono
sotto il controllo dell'ormone ipofisario TSH. Gli ormoni aumentano il consumo di ossigeno agendo sul
metabolismo energetico, coadiuvando il differenziamento e la crescita del sistema nervoso di cui regolano
molte funzioni. La componente cellulare parafollicolare, cellule C, produce un terzo ormone, la calcitonina, che
regola il metabolismo del calcio con l'ormone secreto dalle ghiandole parotirodi, l'ormone paratiroideo o
paratormone.
Affianco alla tiroide, vi sono le paratiroidi, che regolano la calcemia nel sangue producendo paratormone (che
attiva il rilascio dalle ossa di calcio). Il paratormone è un peptide sintetizzato dalle ghiandole paratiroidi:
esercita il controllo del metabolismo del calcio regolandone l’assorbimento nell’intestino tenue e l’escrezione a
livello renale. In presenza di una riduzione della concentrazione di Ca nel sangue l’ormone aumenta la
mobilizzazione
di
Ca
dall’osso
intervenendo
sugli
osteoblasti
(direttamente)
e
sugli
osteoclasti
(indirettamente). Le cellule delle ghiandole paratiroidi hanno recettori di membrana per il calcio. Il legame di
116
questi recettori con il Ca attiva una proteina G che causa la formazione di inositolo trifosfato e
mobilizzazione di ioni calcio inibendo il rilascio di paratormone (il paratormone viene infatti inibito da alti
livelli di calcemia e aumenta quando la calcemia si abbassa). La forma attiva della vitamina D, l'1,25
diidrossicolecalciferolo, inibisce la sintesi del paratormone. Un aumento della concentrazione plasmatica di
fosfato abbassa la calcemia e stimola la secrezione di paratormone. A livello renale produce 2 effetti: il
primo di aumentare l’assorbimento di calcio nei tubuli distali e di inibire il riassorbimento di fosfato, il
secondo è quello di stimolare l’idrossilazione della vitamina D per formare 1,25 diidrossicolecalciferolo che
determina un aumento dell’assorbimento di Ca nell’intestino. A livello osseo agisce sugli osteoblasti e sugli
osteoclasti attivando il riassorbimento dell’osso e favorendo il rilascio di Ca nei fluidi extracellulari;
contemporaneamente favorisce la formazione di osteoclasti dai loro precursori cellulari del sangue.
La calcitonina è un polipeptide sintetizzato dalle ghiandole parafollicolari della tiroide. Ha funzione
antagonista al paratormone, infatti la sua azione consiste nel ridurre le concentrazioni plasmatiche di calcio,
agendo principalmente sull’osso bloccandone il riassorbimento da parte degli osteoclasti e accelerando
l’attività osteoblastica di deposizione della matrice. L’ormone agisce anche a livello renale, stimolando la
secrezione urinaria di calcio e inibendo il riassorbimento da parte dei tubuli distali.
Il pancreas produce due importantissimi ormoni che regolano la glicemia nel sangue. L’insulina sequestra il
glucosio presente nel sangue, inducendo le cellule epatiche a trasformarlo in glicogeno. Il glucagone ha
l’effetto contrario, cioè quello di far aumentare il livello di glucosio nel sangue. Le ghiandole surrenali
producono cortisone, aldosterone e adrenalina.
Il cortisone è un ormone. Chimicamente è un corticosteroide di formula C21H28O5 strettamente correlato al
corticosterone. Cortisone e adrenalina sono ormoni rilasciati nel sangue dalle ghiandole surrenali in situazioni
di stress. Essi elevano la pressione arteriosa e preparano l’organismo alla reazione di lotta o fuga. Il cortisone
è il precursore inerte della molecola del cortisolo. Esso viene attivato per deidrogenazione del 11-cheto
gruppo mediante un enzima chiamato 11-β-steroide-deidrogenasi. La forma attiva del cortisolo è detta anche
idrocortisone. In Farmacia il cortisone è usato nel trattamento di diversi disturbi, somministrato per via
orale, endovenosa e cutanea. Uno degli effetti del cortisone sull’organismo, potenzialmente dannoso per certi
aspetti, è di deprimere il sistema immunitario; ciò spiegherebbe l’evidente correlazione tra uno stress elevato
e numerose malattie.
L'aldosterone è un ormone prodotto dalla zona glomerulare del corticosurrene. L'aldosterone è il capostipite
dei mineral-corticoidi che, come i glucocorticoidi, vengono prodotti nella corteccia del surrene ma attraverso
due vie biosintetiche distinte. A differenza del glucocorticoide cortisolo il controllo della sintesi non dipende
da nessun ormone ipofisario ma il segnale che la promuove parte dal rene. L'effetto dell'aldosterone si
esplica a livello del tubulo contorto distale e del dotto collettore del rene aumentando la permeabilità della
membrana apicale delle cellule cosiddette "principali" allo ione sodio, permettendone il riassorbimento
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combinato con acqua. Pertanto la ritenzione idrosalina aumenta, di conseguenza si verifica un innalzamento del
volume ematico e l'aumento dei valori di pressione arteriosa. La liberazione di aldosterone nell'organismo
dipende da diversi fattori, uno dei più importanti è l'attivazione del sistema Renina-AngiotensinaAldosterone.
L'adrenalina o epinefrina (insieme alla noradrenalina) è un ormone e un neurotrasmettitore rilasciato dal
corpo in situazioni di stress; appartiene a una classe di sostanze attive farmacologicamente di nome
catecolammine, contenendo nella propria struttura sia un gruppo amminico che un orto-diidrossi-benzene, il
cui nome chimico è catecolo. L'adrenalina è stata ritenuta per anni il neurotrasmettitore principale del
sistema nervoso simpatico, nonostante fosse noto che gli effetti della sua somministrazione erano differenti
da quelli ottenuti tramite stimolazione diretta del simpatico. Solitamente, la stimolazione del sistema nervoso
simpatico causa una preparazione dell'organismo a una situazione detta di "Attacco o fuga". La sintesi
dell'adrenalina avviene nella midollare surrenale ed è la stessa della noradrenalina, con un passaggio in più,
catalizzato dall'enzima feniletanolammina-N-metiltransferasi, che converte la noradrenalina in adrenalina.
L'adrenalina viene sintetizzata nelle cellule cromaffini, presenti nella zona midollare delle ghiandole surrenali.
Noradrenalina, adrenalina e dopamina sono catecolamine che vengono degradate da due diversi sistemi
enzimatici: le catecol-O-metiltrasferasi (COMT) localizzate prevalentemente al livello postsinaptico e negli
epatociti, e dalle monoaminossidasi (MAO) localizzate all'interno della cellula addossate ai mitocondri. Le
MAO a loro volta si dividono in due sottoclassi o isoforme A e B. L'isoforma A è adibita alla deamminazione
ossidativa della noradrenalina, dell'adrenalina e della serotonina, mentre l'isoforma B metabolizza
soprattutto la dopamina. Le COMT invece metilano uno dei due ossidrili catecolici e porta alla formazione di
metaboliti, i quali vengono poi deaminati nel fegato dalle MAO. La noradrenalina dopo essere stata rilasciata
nella sinapsi può legarsi ai recettori adrenergici dell'effettore e dare una reazione, oppure può essere
allontanata per diffusione e mediante flusso ematico, oppure può essere ricaptata dalle varicosità e una volta
ritornata nel terminale assonico viene reimpacchettata per essere utilizzata un'altra volta al sopraggiungere
di una nuova depolarizzazione di membrana.
Anche i testicoli e le ovaie sono ghiandole. Il timo può essere considerato una ghiandola in quanto induce il
differenziamento di cellule della serie bianca attraverso la produzione di particolari sostanze. Il rene,
proprio perché produce eritropoietina, può essere considerato una ghiandola. Infine anche il tessuto adiposo
è una ghiandola. Attorno a tali strutture ghiandolari, sparse lungo tutto il corpo, vi sono delle microghiandole
che formano la serie APUD.
Un esempio di cellule chiaramente endocrine non appartenenti a un sistema ghiandolare è il sistema APUD. Le
cellule Cromaffini e Produttrici sono localizzate in tutto il sistema digerente (è stato calcolato che se
fossero localizzate in un organo esso avrebbe all'incirca le dimensioni di un'arancia) i cui ormoni mediano
funzioni quali l'acidità gastrica, la motilità, lo svuotamento della colecisti. Altre cellule endocrine si trovano
nei polmoni dove regolano le secrezioni; se ne trovano anche nella prostata e in altri organi che non sono
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endocrini. Recentemente si è cominciato a parlare di sistema neuroendocrino, intendendo sottolineare la
stretta relazione tra ormoni e cellule nervose, le quali infatti grazie alle terminazioni nervose sono in grado di
determinare la liberazione di ormoni, come accade ad esempio nella zona midollare del surrene con la
liberazione di amine biogene: dopamina, adrenalina e noradrenalina. Sinora sono state classificate fra le
cellule APUD oltre 40 tipi di cellule che deriverebbero dall’ectoblasto programmate come neuroendocrino.
Attualmente vi sono dati sperimentali che evidenziano che molte cellule APUD siano di origine:
-
le cellule endocrine gastroentero-pancreatiche, entodermica;
-
le cellule mioendocrine del cuore forse di origine mesodermica, che possono essere raggruppate
con altre cellule del sistema neuroendocrino perché producono ormoni peptidici.
Sempre Pearse considera l’insieme delle cellule APUD come una 3° componente del sistema nervoso ad attività
lenta ma più duratura dei neuroni viscerali. Il loro secreto (trasmettitori) agisce sulle cellule adiacenti e su
cellule distanti. Recentemente studiosi hanno sottolineato che il S. APUD e Sistema Immunitario hanno
caratteristiche in comune. Entrambi sono diffusi ed hanno meccanismi sensoriali e di regolazione simili:
recettori di membrane per neuropeptidi, ormoni e amine, correlazioni genetiche.
Esistono tre tipi di sistema nervoso:
-
Il sistema nervoso centrale;
-
Il sistema nervoso periferico;
-
Il sistema nervoso automatico.
Il cervello umano è l’oggetto più complesso che si conosca, o meglio che il cervello umano conosca. L’unità
strutturale del sistema nervoso è il neurone, che ricevendo informazioni le elabora e le smista ai neuroni
competenti, generando così un nuovo flusso di informazioni.
119
23-Le Popolazioni Cellulari del Cervello
Un neurone è formato da una parte centrale, detta soma. Dal soma partono i dendriti, il cui compito è quello di
convogliare l’impulso al soma, e l’assone, struttura specializzata nella trasmissione dell’impulso elettrico.
L’assone termina con un bottone sinaptico. A seconda di come il soma e disposto rispetto alle altre strutture
neuronali, esistono diverse tipologie di neuroni. La forma del neurone è dovuta alla particolare organizzazione
del citoscheletro. Da un punto di vista metabolico, il citoplasma del neurone presenta un abbondante REG, che
è visibile con particolari colorazioni chimiche, formando quella che viene definita la sostanza di Nissl. Il
neurone viene attivato dall’impulso proveniente dai dendriti, elabora l’informazione e infine la ritrasmette
attraverso l’assone al prossimo neurone. Le fasi di funzionamento del neurone sono:
-
Ricezione;
-
Elaborazione;
-
Attivazione;
-
Sintesi o Spike.
L’impulso può portare alla sintesi di particolari proteine e molecole segnale. Le proteine neosintetizzate
regolano la sintesi di mediatori chimici oppure si integrano nella struttura del neurone, innestandosi sui
dendriti o sull’assone, generando nuove sinapsi. I dendriti di un neurone possono avere varie modalità di
collegarsi ad un altro neurone:
-
Connessione dendro-somatica;
-
Connessione dendro-dendritica;
-
Connessione dendro-assonica.
Le proteine vengono smistate all’interno del neurone grazie al citoscheletro. Bisogna di distinguere tra flusso,
che è una modalità di trasporto lenta (slow), e il trasporto vero e proprio che è di tipo fast. Nella modalità di
flusso le sostanze sono spinte nelle varie direzioni dal gradiente di concentrazione, mentre il trasporto
richiede un grande consumo di energia. Le sostanze che vengono smistate sono in maggioranza mediatori
chimici. Quando tali sostanze vengono secrete, al fine di svolgere la loro funzione, vengono poi endocitate e
viaggiano in vescicole dirette verso il soma, dove vengono riciclate. Quindi assieme ad un flusso centrifugo,
che dal soma è diretto alla periferia, è presente anche un retroflusso di recupero centripeto, diretto dalla
periferia al soma.
Lo spike è la trasmissione dell’impulso elettrico che si visualizza come una rapida depolarizzazione della
membrana, seguita da un calo del potenziale elettrico e da un periodo refrattario. Lungo l’assone sono
presenti numerosi canali del sodio e del potassio. In condizioni di riposo, il potassio viene pompato all’interno,
mentre il sodio è presente in alte concentrazioni all’esterno. Tale situazione genera un potenziale di
120
membrana di -70 mv. All’arrivo del segnale, i canali del sodio vengono aperti, e questi lentamente entra
all’interno. Nel frattempo il potenziale aumenta gradualmente. Ad un certo punto, i canali del potassio si
aprono totalmente ed il potenziale sale a +35 mv. Ora avviene la trasmissione del segnale. Segue poi un
successivo periodo refrattario con calo del potenziale, fino a quando la membrana si ripolarizza ed è pronta
per la trasmissione di un nuovo segnale. La trasmissione avviene quindi attraverso un codice elettrico. La
conduzione lungo l’assone è di tipo saltatoria. Tale modo di conduzione è reso possibile dall’involucro di mielina
che avvolge l’assone. La mielina è il bio-isolante e non è altro che l’avvolgimento della membrana della cellula di
Schwann attorno l’assone. La mielina è la cellula di Schwann e questi è la mielina.
Le cellule di Schwann sono un tipo di cellula del sistema nervoso periferico, facenti parti della glia. La loro
principale funzione è quella di rivestire gli assoni dei neuroni con uno strato di mielina, che conferisce ai nervi
e ai tratti un aspetto bianco brillante. Grazie alle doti di isolante elettrico la mielina aumenta la capacità di
conduzione degli assoni stessi. Infatti se gli assoni amielinici hanno una velocità di conduzione da 0,5 a 10
m/s, gli assoni mielinici più veloci possono arrivare a 150 m/s. Le cellule di Schwann formano la guaina
mielinica avvolgendosi attorno agli assoni numerose volte; gli strati più interni sono composti principalmente
da mielina, appunto, che forma la membrana cellulare di queste cellule, mentre il citoplasma e il nucleo stanno
negli strati più esterni, e formano il neurolemma. Siccome la dimensione di una cellula di Schwann (fino ad 1
mm) sono molto inferiori alla lunghezza di un assone (i più lunghi possono oltrepassare il metro), per
mielinizzare completamente un singolo assone sono necessarie numerose cellule di Schwann, disposte lungo la
lunghezza dell'assone. Le piccole parti demielinizzate che si trovano tra due cellule di Schwann si chiamano
nodi di Ranvier e svolgono una funzione importante: essendo le uniche aree di scambio ionico dell'assone, il
potenziale d'azione si propaga (e si riproduce) solo in corrispondenza di questi nodi, dando vita al fenomeno
della conduzione saltatoria, che permette di accelerare la trasmissione degli impulsi nervosi risparmiando
energia. L'analogo delle cellule di Schwann nel sistema nervoso centrale sono gli oligodendrociti, che come le
cellule di Schwann svolgono principalmente funzioni di mielinizzazione degli assoni.
Il punto in cui inizia l’avvolgimento della guaina mielinica attorno l’assone prende il nome di mesoassone
interno, mentre il punto in cui termina l’avvolgimento è detto mesoassone esterno. Tra una cellula di Schwann
e l’altra è presente un po’ di spazio che mette a nudo la membrana dell’assone. Tale zona viene detta nodo di
Ranvier e l’impulso si trasmette da nodo a nodo, amplificando la velocità di conduzione. La cellula di Schwann
esiste anche se non forma la mielina. La differenza tra fibre fast e slow è legata alla presenza o assenza
della guaina mielinica.
I neuroni si connettono tra di loro, per formare una rete, attraverso sinapsi. A seconda di dove l’assone
forma la sinapsi si potrà avere:
-
Sinapsi asso-somatica;
-
Sinapsi asso-assonica;
121
-
Sinapsi asso-densritica.
Alla nascita la rete neuronale non risulta essere molto complessa, ma col passare del tempo lo diventa sempre
di più. Il numero di sinapsi possibili è immensamente grande e l’esercizio mentale può produrre trasformazioni
anatomiche e biochimiche. La creazione di nuove sinapsi porta alla creazione di nuovi percorsi che l’impulso è
in grado di percorrere, facilitando così alcuni aspetti macroscopici di tale nuova rete, come la memoria e
l’apprendimento.
Tra due spike successivi vi è un periodo definito ritardo sinaptico. La sinapsi è una struttura altamente
specializzata che consente la comunicazione tra le cellule del tessuto nervoso, i neuroni. Attraverso la
trasmissione sinaptica, l'impulso nervoso può viaggiare da un neurone all'altro o da un neurone ad una fibra
neuromuscolare (giunzione neuromuscolare). Dal punto di vista funzionale, esistono due tipi di sinapsi: le
sinapsi elettriche e le sinapsi chimiche. Nei vertebrati superiori prevalgono le sinapsi di tipo chimico. Nella
sinapsi elettrica, due cellule stimolabili sono tra loro connesse mediante una giunzione comunicante detta
anche gap junction. Le gap junctions consentono la comunicazione tra cellule per passaggio diretto di correnti
da una cellula all’altra, quindi non si verificano ritardi sinaptici. In genere le sinapsi elettriche, al contrario di
quelle chimiche, consentono la conduzione in entrambe le direzioni. Esistono anche sinapsi elettriche che
conducono preferenzialmente in una direzione piuttosto che nell’altra. Le sinapsi elettriche sono
particolarmente adatte per riflessi (dette anche azioni riflesse) in cui sia necessaria una rapida trasmissione
tra cellule, ovvero quando sia richiesta una risposta sincronica da parte di un numero elevato di neuroni, come
ad esempio nelle risposte di attacco o di fuga. Le particelle intermembranarie delle gap junction sono
costituite da 6 subunità che circondano un canale centrale. Le 6 subunità sono disposte ad esagono e formano
una struttura chiamata "connessone". Ciascuna subunità è formata da una singola proteina, la connessina.
Attraverso i connessoni passano molecole, soluzioni idrosolubili e quindi il passaggio di ioni determina un
passaggio di corrente elettrica. Una sinapsi chimica è formata da tre elementi: membrana pre-sinaptica,
spazio sinaptico o fessura inter-sinaptica e membrana post-sinaptica. La membrana pre-sinaptica è quella
parte del neurone portatore del messaggio che rilascia il neurotrasmettitore nello spazio sinaptico. Qui
quest'ultimo entra in contatto con la membrana post-sinaptica ove sono presenti specifici recettori o canali
ionici. Il neurotrasmettitore in eccesso viene riassorbito nella membrana pre-sinaptica (ricaptazione), o
scisso in parti inerti da un apposito enzima. I filamenti nervosi che raggiungono le singole fibre muscolari
danno luogo alla placca motrice. La giunzione neuromuscolare è la sinapsi che il motoneurone forma con il
muscolo scheletrico. Fra nervo e muscolo c’è uno spazio intersinaptico. In prossimità della giunzione
neuromuscolare, la fibra motrice perde il suo rivestimento di mielina e si divide in 2-300 ramificazioni
terminali che si adagiano lungo la doccia sinaptica sulla superficie del sarcolemma. La membrana plasmatica
della fibra muscolare è notevolmente invaginata e forma numerose pliche giunzionali per aumentare la
superficie di contatto fra nervo e muscolo. Nei terminali assonici sono presenti molte vescicole sinaptiche
contenenti acetilcolina (ACh), il mediatore chimico della placca motrice, sintetizzata in periferia del neurone.
122
Quando il potenziale d'azione raggiunge la parte terminale del neurite si aprono canali potenziale elettricodipendenti per il Ca2+ (presenti nei bottoni sinaptici). Siccome la concentrazione extracellulare di Ca2+ è
maggiore di quella interna il Ca2+ entra nella cellula secondo il gradiente di concentrazione. Inoltre è attratto
nello spazio intracellulare anche dalla polarità negativa della membrana. Quindi è spinto ad entrare da un
doppio gradiente. Il suo ingresso permette la liberazione di ACh nello spazio intersinaptico: la membrana della
vescicola si avvicina alla membrana della sinapsi, le due membrane si fondono e viene rilasciata ACh. Sulla
membrana del muscolo ci sono molecole recettoriali con grande affinità per ACh: si tratta di canali attivi che
si aprono in seguito al legame con ACh. A differenza dei canali voltaggio-dipendenti questi canali sono
aspecifici, cioè consentono il passaggio di ogni tipo di ione. All’apertura di questi recettori-canale il Na+ entra
all’interno del muscolo spinto sia dalla forza chimica che da quella elettrostatica e il K+ esce fuori dal muscolo
spinto dalla forza chimica. Questo passaggio di ioni avviene contemporaneamente. Si ha quindi una
depolarizzazione di membrana, perché entra più Na+ spinto da una forza maggiore di quella che spinge il K+
fuori dalla cellula.
L’ACh è l’unico mediatore che agisce nella giunzione neuromuscolare, ma agisce anche nelle sinapsi di SNC e
SNP. Le sinapsi il cui mediatore è l’ACh sono dette colinergiche. L'acetilcolina viene distrutta dall'enzima
acetilcolinesterasi (acetil-colina-esterasi). Le monoammine sono mediatori che presentano il gruppo funzionale
(–NH2). Dopamina (DA), noradrenalina (NA) e adrenalina sono caratterizzate dal catecolo, perciò sono dette
catecolammine, e sono presenti nelle sinapsi di SNC e SNP. Sia l'adrenalina (epinefrina) che la noradrenalina
(norepinefrina) si ritrovano nel circolo sanguigno, agendo anche come ormoni. I neuroni che utilizzano le
monoammine sono detti aminergici e le monoamine vengono distrutte dal complesso delle Monoaminossidasi
(MAO). La serotonina o 5-idrossitriptamina deriva dal triptofano ed è utilizzata in alcune regioni del SNC
come quella ippocampica. Glicina e GABA sono inibitori a livello delle sinapsi del SNC, si legano sempre a una
classe di recettori che provoca effetti inibitori. I mediatori trattati fin ora sono monomeri, cioè mediatori a
piccola molecola. Vale il principio di Dale: ogni neurone è in grado di sintetizzare esclusivamente una sola
classe di mediatori a piccola molecola. Peptidi sono polimeri di un numero limitato di amminoacidi (da 7 a 3334). Questi peptidi neuroattivi sono sintetizzati all’interno del soma (a differenza dei monomeri di minute
dimensioni). Questi sono trasportati lungo l’assone fino al bottone sinaptico. Alcuni sono prodotti nelle cellule
nervose, altri in altre cellule. Il peptide inibitore gastrico è prodotto da una parte delle cellule intestinali,
funziona come ormone ma ha anche funzione neuroattiva. Ogni neurone può produrre una classe di mediatori a
piccola molecola (liberati anche solo con un potenziale d’azione) e uno o più peptidi neuroattivi (liberati dopo
più potenziali d’azione ad elevata frequenza).
I recettori sono molecole proteiche localizzate sulla membrana post-sinaptica. Ne esistono di vari tipi:
-
Recettori ionotropici: sono essi stessi canali attraverso i quali passano ioni. Una porzione della
molecola accoglie il mediatore, mentre il resto fa da canale attraverso il quale passano ioni.
123
L'interazione fra il neurotrasmettitore ed il recettore ne facilita l'apertura per il passaggio degli
ioni;
-
Recettori metabotropici: il loro legame col mediatore apre canali alla fine di reazioni a cascata
che modificano il metabolismo della cellula. Per ogni molecola di mediatore che si lega al recettore
si aprono più canali in seguito alla reazione a cascata indotta dal recettore.
I recettori metabotropici agiscono attraverso l’intervento di proteine G di membrana. In prossimità del
recettore è presente la proteina G, costituita da tre subunità (α, β, γ). Alla subunità α è legato il guanosindifosfato (GDP). Quando il mediatore si lega al recettore e lo attiva, la subunità α della proteina G rilascia il
GDP, si lega al guanosin-trifosfato (GTP) e si dissocia dal complesso βγ. L’α-GTP si lega ad una proteina
effettrice, la cui attivazione scatena una risposta a cascata, e il GTP si idrolizza spontaneamente in GDP + P.
La molecola effettrice può essere un canale ionico che a contatto con α-GTP si apre. Ci sono due tipi di
proteine G di membrana:
-
Attivanti, se attivate α-GTP attiva l’adenilico ciclasi;
-
Inibenti: se attivate α-GTP inibisce l’adenilico ciclasi.
Il meccanismo con cui α-GTP agisce sull’adenilico ciclasi è sempre lo stesso. L’inibizione dell’adenilico ciclasi
causa una diminuzione di cAMP e quindi una diminuzione della velocità delle reazioni a cascata.
Conseguentemente a questo meccanismo uno stesso mediatore può avere sia un effetto attivante che un
effetto inibente. Un mediatore che si lega a un recettore ionotropo può avere sempre e solo effetto
attivante o sempre e solo effetto inibente. I mediatori che si legano a metabotropi possono avere entrambi
gli effetti, a seconda del tipo di recettore al quale si legano. Il legame del mediatore a un recettore
metabotropo comporta un ritardo di 50-100 msec dell’apertura dei canali, al contrario degli ionotropi. La
cascata di reazioni innescata da un singolo mediatore (che si lega a un singolo canale) comporta
l’amplificazione del segnale cioè comporta l’apertura di più canali, al contrario di quanto accade per gli
ionotropi (in cui ogni mediatore apre un solo canale). L’effetto complessivo in seguito all’attivazione di un
metabotropo è una modulazione dell’elemento postsinaptico, poiché il segnale è ritardato, prolungato nel
tempo e generalizzato.
Una sinapsi è formata da una membrana pre-sinaptica e una post-sinaptica. Tra le due vi è uno spazio, ed è
proprio la trasmissione dell’impulso in tale fessura a generare il ritardo. Sul lato pre-sinaptico vengono
secreti dei mediatori chimici, che vanno a legarsi sui recettori presenti sul lato post-sinaptico. Quando il
mediatore si lega al recettore il neurone viene attivato e si ha un nuovo spike. La rimozione del mediatore dal
recettore avviene ad opera di un enzima. Man mano il mediatore si accumula nella fessura sinaptica e alla fine
viene recuperato dal lato pre-sinaptico per poi essere riciclato. Una sinapsi molto importante è quella che
utilizza come mediatore chimico l’acetil-colina. L’acetil-colina si lega al suo recettore e autorizza l’apertura di
un canale particolare che crea lo spike. L’acetil-colina viene rimossa dal recettore dall’enzima acetil-colina-
124
esterasi. Tale enzima scinde il mediatore in acetil e colina. Tali sostanze vengono recuperate e alla fine
riutilizzate per una successiva trasmissione. Oltre all’acetil-colina, come mediatori chimici, si hanno:
-
Adrenalina;
-
Noradrenalina;
-
Dopamina;
-
GABA;
-
Aminoacidi.
Con particolari inibitori selettivi è possibile interferire con la trasmissione sinaptica. L’interferenza può
avvenire su due livelli diversi:
-
Sull’uptake, impedendo l’esocitosi del mediatore o la sua unione al recettore;
-
Sull’reuptake, impedendo l’endocitosi o il distacco del mediatore dal recettore.
Quindi, attraverso l’utilizzo di particolari farmaci è possibile controllare o bloccare la conduzione del segnale
nervoso. La perfetta conoscenza dei meccanismi di trasmissione dell’impulso e dei farmaci inibitori è molto
importante in ambito anestesiologico.
Il tessuto nervoso non è fatto solo da neuroni. Esiste una seconda popolazione cellulare, la glia. La glia si
suddivide in:
-
Astrociti, divisi ancora in fibrosi e protoplasmatici;
-
Oligodendrociti;
-
Microglia.
Il tipo più abbondante di cellule della glia, gli astrociti si dividono in astrociti protoplasmatici, presenti nella
sostanza grigia e caratterizzati dalla presenza di espansioni corte, e astrociti fibrosi, presenti nella sostanza
bianca e caratterizzati da prolungamenti citoplasmatici lunghi e sottili. Regolano l'ambiente chimico esterno
dei neuroni rimuovendo gli ioni, in particolare il potassio, e riciclano i neurotrasmettitori rilasciati durante la
trasmissione sinaptica. La teoria corrente sostiene che gli astrociti protoplasmatici siano i "blocchi di
costruzione" della barriera emato-encefalica. Gli astrociti dovrebbero essere inoltre in grado di regolare la
vasocostrizione e la vasodilatazione producendo sostanze come l'acido arachidonico i cui metaboliti sono
vasoattivi. Gli astrociti fibrosi sono le cellule addette al supporto degli assoni neuronali, cioè tali cellule
formano una sorta di impalcatura su cui poggiano i vari assoni di neuroni diversi. Tali cellule sono un network
intelligente in quanto presiedono alla formazione della rete neuronale. Gli astrociti protoplasmatici sono
addetti alla nutrizione del neurone. Infatti il neurone non preleva direttamente dal sangue ciò di cui ha
bisogno. Tale compito è assegnato all’astrocita protoplasmatico, che attraverso una particolare struttura
poggiata sul capillare sanguigno, il piede, assorbe i nutrienti li elabora e li invia al neurone. Tale sistema evita
125
che sostanze dannose giungano direttamente al neurone, causando dei seri danni. Tali cellule costituiscono la
barriera emato-encefalica. Gli astrociti protoplasmatici sono una piattaforma metabolica essenziale.
L’oligodendroglia forma la guaina mielinica degli assoni dei neuroni, aumentando così la velocità di conduzione
elettrica. La guaina isola l'assone permettendo quindi una migliore propagazione dei segnali elettrici
(conduzione saltatoria). Al contrario delle cellule di Schwann, gli oligodendrociti possono rivestire più di un
assone perché forniti di numerosi prolungamenti.
Ogni giorno muoiono circa 10 mila neuroni. La microglia rimuove tali cellule apoptotiche creando spazio per la
costruzione di nuove sinapsi e per l’ampliamento della rete neuronale. La microglia non elimina totalmente il
neurone defunto, ma lascia dei corpi neri, formati da materiale indigerito. La microglia non è una popolazione
cellulare autoctona, ma deriva dalla differenzazione di monociti del sangue che, in età embrionale, migrano in
tali zone e si differenziano in microglia. La glia gioca un ruolo molto importante nella regolazione delle
funzioni neuronali e si pensa che in qualche modo riesca anche ad influire nei processi fisiologici del neurone.
I neuroni sono docili computer nelle mani delle cellule gliali. Il dibattito sul ruolo della glia è ancora aperto.
Le cellule ependimali, chiamate anche ependimociti delimitano le cavità del sistema nervoso centrale e, col
battito delle ciglia favoriscono la circolazione del liquido cerebrospinale. Esse costituiscono i "muri" che
delimitano le varie sezioni. Sono privi di una membrana basale e continuano in prolungamenti e connessioni in
continuità con gli astrociti. È stata ipotizzata una loro possibile funzione di cellule staminali del tessuto
nervoso e comunque sembra siano coinvolte nella rigenerazione del medesimo.
126
24-Il Cervello
Il cervello è racchiuso da un involucro osseo, il cranio, formato dalla saldatura di più ossa. Al momento della
nascita, le ossa del cranio non sono completamente saldate tra di loro. Ciò serve a facilitare il passaggio della
testa nel canale del parto. Il cervello è avvolto da più strati che lo proteggono, che prendono il nome di
meningi. Le meningi sono un sistema di membrane che, all'interno del cranio, rivestono il sistema nervoso
centrale, e proteggono l'encefalo. Sono involucri connettivali membranosi costituiti di 3 lamine concentriche
denominate, dall'esterno all'interno, dura madre (o dura meninge), aracnoide, e pia madre (o pia meninge). Per
la loro derivazione embrionale possono anche essere chiamate Meninge Dura (dura madre) e Leptomeninge la
quale è composta dall'aracnoide e dalla pia madre. Le meningi aderiscono alla scatola cranica, precisamente al
tavolato interno a cui la dura è attaccata e separata soltanto da uno spazio virtuale detto spazio epidurale. La
dura madre consiste in un doppio strato di tessuto connettivale fibroso ricco di fibre elastiche. Segue lo
strato intermedio, l'aracnoide, che con i suoi filamenti rimane saldo all’ultimo strato, la pia madre, a contatto
col cervello. L'aracnoide e la pia madre sono costituite da un connettivo più lasso, l'aracnoide da fibre
collagene ed elastiche rivestite internamente ed esternamente da cellule piatte, mentre la pia madre da fasci
collagene ad andamento circolare. L'aracnoide non è vascolarizzata al contrario della dura madre e
soprattutto della pia madre. La dura è detta anche pachimeninge. L'aracnoide e la pia connesse da tralci
connettivali possono essere anche considerate una entità unica dette leptomeningi. Lo spazio tra aracnoide e
pia madre si chiama subaracnoide, e in esso è contenuto il liquido cerebrospinale o liquor, prodotto dai plessi
corioidei situati nei ventricoli cerebrali. È percorso da trabecole fibrose che lo fissano alla pia madre. Il
liquor bagna, drena e nutre ogni parte del sistema nervoso centrale, creando sia l’ambiente ottimale per la
riproduzione e il funzionamento delle cellule nervose, sia un’ulteriore protezione dai traumi esterni,
assorbendo e distribuendo le forze che vengono applicate su tutta la superficie dell'encefalo. Inoltre
all'esterno della dura madre troviamo lo spazio epidurale che la separa dalla superficie ossea e che contiene
adipe e plessi venosi. Il ruolo fondamentale delle meningi è di protezione meccanica del nevrasse (soprattutto
la dura madre) e l'aracnoide e la pia madre, interponendosi tra i vasi e il materiale nervoso, costituiscono la
barriera meningea; quest'ultima impedisce a sostanze tossiche, metaboliti e farmaci di penetrare dal sangue
all'ambiente perineuronale. Inoltre la leptomeninge funziona da emuntorio per le sue funzioni di controllo
della produzione e del riassorbimento del liquor (che avviene a livello delle granulazioni aracnoidali,
estroflessioni dello spazio subaracnoideo).
Il cervello, la fabbrica del pensiero, da un punto di vista funzionale, può essere suddiviso in:
-
Brainstem;
-
Midbrain;
-
Forebrain.
127
In un mm3 di pelle delle dita sono presenti 4 metri di fibre nervose, che raccolgono informazioni dal mondo
esterno. Queste terminano con specifiche formazioni recettoriali specializzate nel decifrare:
-
La pressione, con 25 recettori per mm3;
-
Il caldo, con 2 recettori;
-
Il freddo con 12 recettori;
-
Il dolore con 200 recettori.
A seconda della loro funzione, tali recettori possono occupare strati diversi della pelle. La pelle è la sede del
senso del tatto. Le sensazioni tattili vengono rilevate dai recettori di Meissner, localizzati nell’epidermide, a
livello della lamina basale. Tali recettori periferici specializzati trasformano gli stimoli meccanici applicati alla
cute in impulsi nervosi e li trasmettono attraverso le fibre nervose sensitive, ai centri nervosi superiori, dove
vengono decodificati. Nel midollo spinale gli impulsi sensitivi tattili decorrono lungo il sistema lemniscale e
lungo il sistema dei cordoni anterolaterali. L'intensità della sensazione è tanto maggiore quanto più forte è lo
stimolo, ma si discute ancora su come aumenti la sensazione all'aumentare dello stimolo. La "risoluzione" della
sensibilità tattile si misura con il test clinico dei due punti che individua la distanza minima tra due punti alla
quale il soggetto è in grado di percepire due stimoli puntiformi differenti. La capacità discriminativa è
direttamente proporzionale al numero di recettori presenti per unità di superficie cutanea, e raggiunge il
massimo sul palmo della mano, inoltre la sensibilità tattile della mano è più sviluppata quando il soggetto muove
l'arto attivamente. Questo dimostra che l'esperienza somatica più sofisticata consta nell'esplorazione attiva
manuale dell'ambiente e che il sistema tattile non ha solo un ruolo passivo (che riceve ed elabora gli stimoli),
ma è parte integrante della catena dei meccanismi nervosi che controllano le contrazioni muscolari, i
movimenti ed in generale l'esplorazione tattile. Tali recettori funzionano come meccanocettori che codificano
stimoli tattili. Hanno una forma ovoidale e sono costituiti da un involucro connettivale che avvolge cellule di
Schwann modificate.
I recettori addetti alla percezione del caldo sono i recettori di Ruffini, localizzati nel derma, assieme ai
recettori del freddo o di Krause. I nocicettori si trovano nell’epidermide mentre quelli della pressione o di
Pacini nell’ipoderma. Le Merckel’s cells sono formazioni che poggiano sulla lamina basale. Sono cellule dal
colore chiaro e dalla forma tondeggiante che vengono ospitate da terminazioni nervose che provengono dal
derma. Vista al microscopio le cellule di Merckel sono ricche di granuli dal diametro di 100 nm. Al momento
attuale non è nota la funzione di queste cellule.
Tutte queste terminazioni convertono le sollecitazioni in input, è le inviano al midollo spinale, una sorta di
collettore di input. Il midollo spinale è una porzione del sistema nervoso centrale; ha forma pressoché
cilindrica, leggermente schiacciata in senso antero-posteriore. Il midollo spinale è posto nel canale vertebrale
e si estende dal corpo dell'atlante, la prima vertebra cervicale, poco sotto il foro occipitale, al corpo della II
vertebra lombare per una lunghezza complessiva di circa 45 cm. In alto il midollo spinale è continuo con il
128
midollo allungato, in basso si assottiglia nel cono midollare da cui origina il filo terminale. Questo è lungo circa
25 cm, ha un raggio di circa 1 mm e si fissa sul coccige, più precisamente sulla faccia posteriore del primo
segmento, tramite il legamento coccigeo. Il midollo spinale non ha un diametro omogeneo in quanto presenta
due rigonfiamenti: il rigonfiamento cervicale e quello lombare. Il primo corrisponde all'emergenza dei nervi
spinali che innervano gli arti superiori e si estende dal foro occipitale alla II vertebra lombare; il secondo
corrisponde a sua volta all'emergenza dei nervi spinali diretti agli arti inferiori e si estende dalla IX vertebra
toracica alla I lombare. Il midollo spinale non colma completamente il canale vertebrale in quanto rimane
separato dalle sue pareti da uno spazio detto spazio perimidollare contenente le meningi spinali e il tessuto
adiposo peridurale. Il midollo spinale è mantenuto nella sua posizione da alcuni elementi di fissità quali la sua
contiguità con il midollo allungato, l’impianto del filo terminale e l’emergenza dei nervi spinali dai fori
intervertebrali. Inoltre è immerso nel liquido cefalo-rachidiano. Sulla superficie anteriore il midollo spinale è
percorso dalla fessura mediana anteriore, un solco con labbri divaricabili; sulla superficie posteriore vi è il
solco mediano posteriore simile a quello anteriore ma meno profondo e i cui labbri non sono divaricabili. In
questo modo il midollo spinale è divisibile in due metà. In ognuna di esse si trovano le origini apparenti delle
radici anteriori e posteriori dei nervi spinali allineate verticalmente che se strappate rivelano il solco laterale
anteriore e il solco laterale posteriore. Questi solchi delimitano per ogni lato:
-
Il cordone anteriore (tra fessura mediana anteriore e solco laterale anteriore);
-
Il cordone laterale (tra i due solchi laterali anteriore e posteriore);
-
Il cordone posteriore (tra solco laterale posteriore e solco mediano posteriore).
Da ogni lato del midollo spinale emergono 31 paia di nervi spinali composti da 31 radici anteriori e 31 radici
posteriori. I nervi spinali sono distinti in 8 paia cervicali, 12 toracici 5 lombari 5 sacrali e tre coccigei di cui
gli ultimi 2 rudimentali. Il midollo spinale può, così, essere suddiviso in tratti, quindi vi sarà:
-
Il midollo spinale cervicale;
-
Il midollo spinale toracico;
-
Il midollo spinale lombare;
-
Il midollo spinale sacrale;
-
Il midollo spinale coccigeo.
Il midollo spinale serve a trasportare sia gli input che gli output, secondo delle direzioni preferenziali. Infatti
gli input entrano posteriormente, mentre gli output escono anteriormente. Visto in sezione, il midollo
presenta al centro una particolare struttura che prende il nome di farfalla. Tale farfalla è formata da due
corna posteriori, che ricevono gli input, e due corna anteriori, che trasmettono gli output. Quando l’input
raggiunge le corna posteriori, questi viene immediatamente smistato verso il cervello, dove verrà elaborato e
ritrasmesso. Durante il suo viaggio, l’input incontra più neuroni:
-
Un primo neurone lo incontra a livello della farfalla, è decide di smistare l’input al cervello;
129
-
Un secondo neurone lo incontra a livello della base del cervello. Tale neurone fa parte del filtro
talamico, cioè decide se l’input ha rilevanza o meno. Se l’input è rilevante viene ritrasmesso;
-
Un terzo neurone lo incontra a livello della corteccia celebrale, ed è questo neurone che elabora
definitivamente il messaggio e inizia la trasmissione del segnale di output.
La via di output è la stessa di quella di input, soltanto che si incontrano soltanto due neuroni:
-
Il primo, quello della corteccia che inizia a trasmettere l’output;
-
Il secondo a livello delle corna anteriori della farfalla.
Visto al microscopio, il SNP e il SNC sono formate da due sostanze di colore diverso, bianca e grigia. Nel
SNP, la sostanza grigia è formata da gangli, raccolta di corpi cellulari di neuroni caratteristiche del SNP,
mentre la sostanza bianca sono nervi cioè fasci di assoni del SNP. Nel SNC, la sostanza grigia è organizzata
in:
-
Corteccia, sostanza grigia presente sulla superficie dell’encefalo;
-
Nuclei, raccolta di corpi cellulari di neuroni all’interno del SNC;
-
Centri, raccolte di corpi cellulari di neuroni nel SNC; ogni centro ha specifiche funzioni di
elaborazione;
-
Centri superiori, centri più complessi nell’encefalo.
La sostanza bianca è organizzata in:
-
Tratti, fasci di assoni che hanno medesima origine e destinazione;
-
Colonne, alcuni tratti che formano masse anatomicamente distinte.
Il percorso neuronale dell’input non è sempre lo stesso, ma a volte l’elaborazione dell’input avviene a livello
delle corna anteriori, velocizzando il tutto e generando un arcoriflesso monosinaptico. In tale situazione
soltanto un neurone entra nel percorso di elaborazione.
A livello del brainstem, troviamo una particolare organizzazione di neuroni che viene detta bulbo. Il bulbo
definito anche midollo allungato o meiencefalo, fa parte di quello che è chiamato tronco cerebrale (composto
da mesencefalo, ponte di Varolio, cervelletto e bulbo). Deriva dalla metà caudale (denominata mielencefalo)
del romboencefalo. Dal bulbo passano le informazioni inerenti al gusto, al tatto e principalmente all'udito. Vi
hanno sede i centri bulbari della respirazione, bersaglio di svariate sostanze quali l'eroina e numerosi farmaci
come gli antidepressivi, i sonniferi ed i tranquillanti che inibiscono i centri respiratori. Il midollo allungato,
assieme al ponte di Varolio controlla il ph del sangue. Nel caso in cui questo dovesse diventare troppo basso (a
causa dell'eccessiva formazione di acido carbonico, dovuta al legame tra anidride carbonica e acqua) queste
due regioni del cervello inviano uno stimolo di contrazione ai muscoli intercostali e al diaframma.
Al di sopra del bulbo troviamo il ponte, poi ancora il mesencefalo. Il ponte di Varolio (detto anche
semplicemente ponte) è una parte anatomica dell'encefalo, posizionata nel tronco encefalico rostralmente al
130
bulbo e caudalmente al mesencefalo. Embriologicamente fa parte del metencefalo insieme al cervelletto, che
si trova subito dorsalmente al ponte, dal quale è separato tramite la cavità del quarto ventricolo. Il suo nome
deriva dal fatto che i peduncoli cerebrali, continuandosi verso il basso, vengono ricoperti ventralmente da una
massa di fibre nervose trasversali provenienti dal cervelletto che attraversano a mò di "ponte" appunto la
linea mediana. Il suo peso, variabile in base alla mole del cervelletto, è di media pari a 18 gr, con altezza di 27
mm. e larghezza di 38 mm. Il ponte è diviso dal bulbo dal solco bulbo-pontino e dal mesencefalo dal solco
pontino superiore (o ponto-mesencefalico). La faccia superiore si trova subito al di sotto della "sella turcica"
dell'osso sfenoide; la faccia inferiore presenta il solco bulbo-pontino che separa le fibre del ponte
(trasversali) dalle fibre del bulbo (longitudinali). La faccia antero-ventrale presenta sulla sua superficie
mediana un incavo o depressione detto solco basilare dove riposa l'arteria omonima, ai lati del solco vi sono
due rilievi, i tori piramidali che originano dalla corteccia e che in seguito si portano al ponte. Ancora
lateralmente troveremo i peduncoli cerebellari medi, grossi fasci di fibre mieliniche per la connessione con il
cerebello. Il ponte internamente ha forma romboidale ed è contenuto assieme al bulbo nella cavità del quarto
ventricolo. Dorsalmente sul tetto del ventricolo poggia il cerebello. Il ponte presenta nuclei per il quinto,
sesto e settimo paio di nervi cranici oltre agli importantissimi nuclei basilari che sono intercalati nelle
connessioni tra corteccia cerebrale e cerebellare per l'esecuzione dei movimenti volontari.
Nell'anatomia il mesencefalo (detto anche "cervello medio") è la seconda di tre vescicole che nascono dal
tubo neurale che forma il cervello degli animali in via di sviluppo. Caudalmente il mesencefalo si unisce al
metencefalo e rostralmente al diencefalo. Nel cervello di un umano totalmente sviluppato, il mesencefalo
diventa il meno sviluppato, sia come aspetto che nella sua stessa struttura, delle tre vescicole. Il mesencefalo
è considerato parte del tronco encefalico. La sua substantia nigra è associata alle vie motorie dei nuclei della
base. La dopamina prodotta nella substantia nigra svolge un ruolo nello sviluppo di motivazione e abitudini in
molte specie, dagli umani a quelli più elementari come gli insetti. Il mesencefalo forma la parte superiore del
tronco encefalico. Esso porta i corpi quadrigemini sulla superficie dorsale e i peduncoli cerebrali sulla
superficie ventrale dell'acquedotto cerebrale.
Posteriormente vi è il cervelletto. Il cervelletto è un organo del sistema nervoso centrale posto in posizione
dorsale rispetto al tronco encefalico, con il quale è collegato tramite 3 coppie di peduncoli:
-
peduncoli cerebellari superiori (che lo collegano con il mesencefalo);
-
peduncolo cerebellari medi (i più voluminosi, che lo collegano con il ponte);
-
peduncoli cerebellari inferiori (che lo collegano con il bulbo).
Viene quindi ad essere separato dal tronco dal IV ventricolo cerebrale. Si trova collocato nella fossa
endocranica posteriore. La parte superiore viene in rapporto con il tentorio del cervelletto, che lo separa
dagli emisferi cerebrali, mentre la porzione inferiore con le fosse dell'osso occipitale. Il volume cerebellare
costituisce il 10% del volume totale dell'encefalo ma contiene più della metà dei neuroni cerebrali.
131
Macroscopicamente possiamo riconoscere una porzione centrale, il verme ed i due emisferi cerebellari di
destra e di sinistra. L'asse trasversale è di circa 10 cm, mentre lo spesso nella zona del verme è di 3 cm e in
quella dei due emisferi cerebellari è di circa 5 cm. La superficie cerebellare ha un'organizzazione
estremamente regolare e presenta una caratteristica suddivisione ad opera di fessure primarie in lobi, che a
loro volta sono suddivisi in lobuli da fessure secondarie, suddivisi in lamine e poi in lamelle da fessure via via
sempre più piccole, il tutto per aumentare la superficie cerebellare. Mentre la corteccia cerebellare è
formata da sostanza grigia, la porzione più profonda è costituita da sostanza bianca, da cui si diramano
porzioni che costituiscono gli assi dei lobi, quindi dei lobuli e via via sempre più piccoli tralicci che infine
costituisco l'asse centrale delle lamelle, venendo così ad assumere la forma di un albero, tale da prendere il
nome di "arbor vitae". La funzione principale è quella di coordinare le uscite motorie: infatti, le lesioni
cerebellari compromettono la coordinazione dei movimento degli arti e degli occhi ma anche l'equilibrio.
Il diencefalo è posto sopra il mesencefalo, ed è proprio in tale area che è presente il filtro talamico. Il talamo
è una struttura del sistema nervoso centrale più precisamente del diencefalo posto bilateralmente ai margini
laterali del terzo ventricolo. Il talamo è un ammasso di sostanza grigia al cui interno si trovano la stria
midollare interna e la stria midollare esterna. Queste due unendosi fra loro formano una struttura ad Y
delimitando innanzi, compresi nella biforcazione, i nuclei anteriori, i nuclei laterali e mediali (rispetto alla
lamina midollare interna); i nuclei laterali vengono distinti in ventrali e dorsali.
Il cervelletto gioca un ruolo molto importante, perché conserva traccia di tutti i messaggi che il filtro
talamico decide di inviare alla corteccia celebrale, e che questi elabora e rispedisce. La corteccia cerebrale è
una struttura presente negli esseri vertebrati. Nei cervelli non vivi conservati, l'esterno dell'encefalo assume
un colore grigio, che dà il nome di sostanza grigia. Essa è formata dai neuroni a da fibre nervose senza mielina
al contrario della sostanza bianca la quale ha numerose fibre ricoperte e chiamate assoni interconnettendo
differenti regioni del sistema nervoso centrale. La corteccia cerebrale umana è spessa 2-4 mm e gioca un
ruolo centrale in meccanismi mentali complicati come la memoria, la concentrazione, il pensiero, il linguaggio e
la coscienza. La corteccia cerebrale invia e riceve connessioni da molte strutture subcorticali come il talamo e
i gangli basali. Molte delle stimolazioni sensoriali raggiungono la corteccia cerebrale indirettamente
attraverso differenti gruppi del talamo. Questo è il caso del tatto, della vista e dell'udito ma non
dell'olfatto, che arriva direttamente alla corteccia olfattiva. La maggior parte delle connessioni (75%) non
arrivano alla corteccia cerebrale grazie a strutture subcorticali, bensì dalla corteccia stessa. Lo spessore
della corteccia non rimane inalterato durante la vita della persona, in quanto, in relazione all'età e allo
sviluppo, si hanno precise modificazioni, responsabili, tra l'altro, di periodi di particolare "verve" emotiva e di
conseguenti variazioni nel tono dell'umore. In particolare, il neonato ha una corteccia cerebrale con un
numero di connessioni, tra neuroni, pari a quella di un cervello adulto; all'età di 2-3 anni si verifica un
progressivo inspessimento della stessa, con una moltiplicazione esponenziale delle connessioni sinaptiche ed
un consistente aumento del volume della corteccia (si possono avere un numero di connessioni anche del 50%
132
superiori a quelle del cervello adulto). Non a caso è proprio in questo periodo che il cervello umano, del
bambino, è definito come una "spugna", pronto ad assorbire quantità considerevoli di nozioni. Questo numero
impressionante di connessioni sinaptiche, con il relativo spessore corticale di circa 60 mm di sostanza grigia,
rimane tale più o meno sino all'età di 12-13 anni, età in cui, come è risaputo, il tono dell'umore degli
adolescenti è molto labile, passano facilmente dall'esaltazione e dal buon umore, a fasi di depressione e forte
insicurezza, soprattutto a causa degli sbalzi ormonali e del fatto che determinate zone della corteccia non
sono ancora stabilizzate. All'età di 16-17 si verifica un progressivo ridimensionamento della corteccia, con
eliminazione di un determinato numero di connessioni sinaptiche: è il periodo in cui il cervello inizia la
cosiddetta specializzazione delle aree, ovvero ogni individuo inizierà a capire più precisamente quali sono le
proprie attitudini, predisposizioni e preferenze nei vari campi della vita (sociale, di studio, lavorativo ecc...);
durante questa fase possono essere eliminate sino al 50% delle connessioni sinaptiche instauratesi durante
l'infanzia. La superficie del cervello è formata da più circonvallazioni o pieghe. È possibile distinguere una
regione frontale del cervello, una occipitale, una parietale e una temporale. Sulla sua superficie è possibile
rinvenire i vari centri addetti all’elaborazione di particolari tipi di informazioni. Sull’area temporale sono
presente l’area acustica, olfattiva e il centro associativo. Sul lobo frontale sono presenti l’area del linguaggio
articolato e della scrittura. Nell’area temporale sono presenti i vari centri motori (capo/collo, arto
superiore/tronco, arto inferiore), il centro della sensibilità generale e il centro della memoria visiva. L’area
occipitale è la sede del centro della visione.
133
25-Il Piacere e il Sonno
La corteccia celebrale occupa una superficie pari a quella occupata dal guanciale di un cuscino. La corteccia è
una ragnatela neuronale ipercomplessa. I suoi neuroni sono organizzati secondo livelli ben precisi e ad ogni
livello corrisponde una funzione tipica. Al centro del cervello troviamo il talamo. Avanti ed indietro a tale
struttura sono siti l’ipotalamo e l’epitalamo. L’ipotalamo è direttamente collegato con l’ipofisi, mentre
l’epitalamo con l’epifisi. Il talamo è collegato con il circuito limbico che porta poi alla corteccia celebrale.
Il sistema limbico è una rete di neuroni che formano anse intorno alla parte interna dell'encefalo, mettendo
in connessione l'ipotalamo con la corteccia cerebrale e con altre strutture. Sempre a partire dal talamo, per
mezzo delle vie centrali talamo-limbiche, i segnali algogeni raggiungono il sistema limbico, dove vengono
elaborati come elementi emotivi e inconsci. Le più importanti stazioni per l'elaborazione dei segnali algogeni
sono:
-
L'ippocampo, che ha un ruolo centrale nella formazione e nell'elaborazione della memoria a breve
termine;
-
L'ipotalamo, che controlla fra l'altro l'ipofisi e quindi lo stato ormonale dell'organismo;
-
L'amigdala, che stabilizza l'umore e regola l'aggressività e il comportamento sociale.
La proiezione dei segnali algogeni al sistema limbico è la base per l'effetto che ha il dolore sullo stato
d'animo (il dolore rende irrequieti e tristi). Tuttavia, il sistema limbico influenza anche la percezione
cosciente del dolore (chi è euforico o sotto choc non sente dolore) e viceversa (chi è ipocondriaco o ansioso
sente in modo accentuato anche minimi dolori).
Il circuito limbico di Papez è formato dal nucleo caudato e dall’amigdala. Tali strutture sono responsabili dello
stato di ansia di una persona. Farmaci ansiolitici vanno ad agire su tali strutture anatomiche. L’aggravamento
di tali situazioni può portare a depressione. Ma il circuito limbico di Papez è anche il responsabile degli stati
di benessere psichico, ovvero della felicità e del piacere. Nel cervello è presente un’area edonica, formata dal
lobo frontale, dal circuito limbico di Papez e dal nucleus accumbens. Un ruolo centrale in tale area occupa il
nucleo accumbens, che è formato da più strutture, dette:
-
Processore;
-
Relè I;
-
Relè II.
Il processore è in grado di rilasciare la dopamina.
La dopamina (o dopammina) è una ammina biogena naturalmente sintetizzata dal corpo umano. All'interno del
cervello la dopamina funziona da neurotrasmettitore, tramite l'attivazione di recettori specifici D1, D2 e D3
subrecettori. La dopamina è anche un neuro-ormone rilasciato dall'ipotalamo. La sua principale funzione come
134
ormone è quella di inibire il rilascio di prolattina da parte del lobo anteriore dell'ipofisi. La dopamina non può
essere utilizzata come farmaco ma viene comunemente somministrato un suo precursore: la L-dopa
(profarmaco), che subisce decarbossilazione ad opera dell'enzima decarbossilasi degli amminoacidi aromatici.
La dopamina agisce sul Sistema nervoso simpatico causando l'accelerazione del battito cardiaco e
l'innalzamento della pressione sanguigna. Gli antagonisti dopaminergici sono farmaci che trovano ampio
utilizzo come neurolettico in ambito psichiatrico, mentre agonisti dopaminergici sono usati sia come terapia di
prima scelta nel morbo di Parkinson, sia -in misura minore- come antidepressivi. La biosintesi della dopamina
avviene, a livello centrale, a partire da L-tirosina che viene idrossilata a L-dopa. La successiva
decarbossilazione porta alla dopamina. Successivi passaggi biosintetici portano prima alla noradrenalina e poi
all'adrenalina. La dopamina viene rilasciata a livello centrale dalla substantia nigra e la sua azione è mirata a
modulare l'attività inibitoria dei neuroni GABAergici.
Il rilascio di dopamina è amplificato dalle enchefaline. L’alto rilascio attiva i neuroni del Relè I, che induce uno
stato di euforia, piacere, analgesia. Sostanze come dinorfina o CCK, invece, inibiscono il rilascio di dopamina
attivando il Relè II, che provoca uno stato di depressione, ansietà e vigilanza. È il nucleus accumbens che
decide se rilasciare o meno sostanze che stimolino o inibiscano il rilascio di dopamina. In natura esistono
molecole edoniche, cioè molecole in grado di favorire l’alto rilascio di dopamina. Tra queste sostanze vi sono il
tabacco e l’alcol, sostanze lecite, e l’eroina e la cocaina, sostanze illecite.
Uno dei primi medici ad occuparsi dello studio della corteccia celebrale fu Gall, che suppose l’esistenza di
aree della corteccia adibite allo sviluppo di particolari proprietà dell’individuo, come l’amore per la patria, il
coraggio, ecc…. Brodman suggerì una nuova suddivisione della corteccia celebrale, assegnando ad ogni area
delle particolari funzioni. Tale suddivisione è stata chiarifica da ulteriori studi condotti stimolando
particolari aree della corteccia. Tali studi hanno rilevato che il lobo frontale è la sede dell’Io, della propria
personalità. Un’asportazione del lobo frontale vuol dire eliminare da una persona la propria individualità. Ma il
lobo frontale ha anche altre funzioni:
-
È la sede della memoria recente;
-
È la sede dell’attenzione;
-
È la sede delle previsioni future;
-
È la sede del riconoscimento dell’errore.
Inoltre svolge ruoli importanti nella visione dall’alto verso il basso, nella creatività, nella formazione della
personalità e del pensiero.
L’area Rolandica è la sede della melodia del movimento. Tale area è composta da un’area pre-motrice, che
ricorda tutti gli spostamenti spaziali che bisogna effettuare, e un’area motrice, che ordina di effettuare quei
movimenti. Il lobo occipitale è la sede della visione, mentre quello parietale della percezione dello spazio. Ma
nel lobo temporale si trova anche la cineteca della nostra vita ed è in tale area che avviene il riconoscimento
135
del senso del tempo. Tale area è in grado di discriminare tra passato è presente secondo un gradiente di 1
centesimo di secondo, che corrisponde al tempo della realtà. Ma è possibile modificare tale gradiente,
accorciandolo e rendendo passato e presente più vicini, oppure allungandolo rendendo i due tempi lontani.
Le varie parti e aree del cervello sono collegate tra di loro da particolari tipi di neuroni che vanno a formare
la sostanza reticolare. Quando la sostanze reticolare si spegne, ovvero impedisce il collegamento tra le varie
parti, si ha lo stato di sonno fisiologico. La sostanza reticolare è una rete di minineuroni che quando è attiva
induce lo stato di veglia, quando invece è spenta si ha il sonno. Alcune sostanze, come le anfetamine, possono
bloccare lo spegnimento della sostanza reticolare inducendo uno stato di veglia forzato. Il sonno viene
regolato dalla reticolare, che fa avvenire l’addormentamento, dal rafe, che gestisce e dal locus coeruleus che
è la sede del sogno. Quando la reticolare non si disattiva totalmente si possono avere stati di insonnia.
Generalmente il sonno fisiologico è di 8 ore. Durante tale periodo si attiva il rafe. In media, ogni due ore, si
presenta una fase REM, ovvero una fase in cui gli occhi si muovono rapidamente, REM sta infatti per rapid eye
movement. Le aree della memoria sono in stretto collegamento con le aree che controllano il sogno. Nelle
cellule di tali strutture sono attivi i geni dei sogni. I sogni sono un frutto di particolari elaborazioni del
cervello che mettono in luce particolari stati di animo convertiti in simboli. Il primo ad inaugurare uno studio
scientifico sull’interpretazione dei sogni fa Sigmound Freud. Il risveglio avviene a seguito della riattivazione
della reticolare. Particolari tipi di farmaci, come tranquillanti e sonniferi facilitano il distacco della
reticolare, ma ne rallentano l’attivazione.
136
26-Ipofisi e Innamoramento
L’ipofisi è la ghiandola più importante del corpo umano. Infatti, tale struttura, ricevendo gli ordini
dall’ipotalamo, rilascia importanti ormoni che vanno ad influenzare importanti funzioni fisiologiche. Con la
produzione di fattori di rilascio o relasing factors, l’ipotalamo induce l’ipofisi a secernere ormoni. L’ipofisi è
formata da una parte anteriore e una posteriore. Al centro di tali zone è presente una zona intermedia.
L’ipotalamo è situato sopra l’ipofisi ed è formato da una serie di nuclei. La stretta comunicazione tra
ipotalamo e ipofisi è facilitata da un sistema portale di vascolarizzazione, che velocizza l’azione dei fattori di
rilascio prodotti dall’ipotalamo. L’ipofisi anteriore secerne l’ormone tireotropo (TSH), che va a stimolare la
produzione di ormoni tiroidei, ormoni che regolano la velocità del metabolismo dell’organismo. Lo iodio viene
immagazzinato nella tiroide e il TSH ne stimola il prelevamento da parte della tireoglobulina per la sintesi
degli ormoni T3 e T4. Se un individuo secerne quantità minori di tali ormoni verrà detto ipotiroideo, mentre se
ne produce in eccesso ipertiroideo. Il somatotropo (STH) è un ormone che stimola l’allungamento delle ossa.
L’accrescimento osseo avviene in seguito a stimolazione da HGH, che induce in un primo momento alla
proliferazione dei condrociti. Tali cellule vanno in apoptosi e le loro lacune vengono rimpiazzate dagli
osteoblasti che sintetizzano la componente inorganica dell’osso. Nella tiroide particolari cellule, dette cellule
C secernono la calcitonina, un ormone che attiva la fissazione del calcio a livello osseo e disattiva gli
osteoclasti. Le parotidi producono il paratormone, un ormone ad effetto contrario alla calcitonina. Il
paratormone agisce anche sul riassorbimento del calcio a livello dei reni, ma anche a livello dell’assorbimento
di calcio nel lume intestinale, stimolando la produzione di calcitriolo. Tale ormone regola anche le
concentrazioni di fosforo nel sangue.
L’ipotalamo è costituito da una serie di nuclei detti nuclei ipotalamici. Il nucleo paraventricolare induce
l’ipofisi posteriore a secernere vasopressina, che regola il calibro delle arterie, mentre il nucleo sopraottico
stimola l’ipofisi posteriore a secernere l’ossitocina, che aumenta il ritmo e l’intensità delle contrazioni della
muscolatura liscia uterina.
La vasopressina è un ormone prodotto dall'ipotalamo e secreto dalla neuroipofisi. È nota anche come ormone
antidiuretico o ADH. Agisce sulle cellule dei tubuli distali del rene, aumentando la permeabilità all'acqua,
favorendone così il riassorbimento. Quest'ormone agisce a livello del tubulo contorto distale (zona
iperosmotica) attivando delle proteine sulla parete del tubulo, le acquaporine, che aumentano il
riassorbimento dell'acqua secondo gradiente osmotico. Il rilascio dell'ormone ADH è regolato dall'ipotalamo
che possiede degli osmorecettori che regolano in modo molto preciso la concentrazione di soluti nel sangue,
che devono restare su un valore di 300 mMol/l. Un aumento di osmolarità (causata anche dalla perdita
d'acqua dovuta per esempio alla sudorazione) provoca il rilascio di ADH che porta a un maggior
riassorbimento di acqua riportando il valore di osmolarità nella norma; le urine in questo caso risulteranno
concentrate (fino a 1200 mMol/l). Viceversa una diminuzione di osmolarità portano ad urine diluite (300
137
mMol/l). La vasopressina agisce anche a livello cerebrale da neurotrasmettitore svolgendo un ruolo nella
formazione della memoria tramite un meccanismo, a tutt'oggi ignoto, che implica il rilascio dai neuroni del
nucleo soprachiasmatico dell'ipotalamo. Svolge anche un ruolo attivo nel controllo della temperatura corporea
e un suo aumento è correlato con comportamento aggressivo.
L'ossitocina è un ormone prodotto dai nuclei ipotalamici e secreto dalla neuroipofisi. L'azione principale
dell'ossitocina è quella di stimolare le contrazioni della muscolatura liscia dell'utero. Nell'ultimo periodo della
gravidanza la responsività dell'utero all'ossitocina aumenta notevolmente e l'ormone esercita un ruolo
importante nell'inizio e nel mantenimento del travaglio e del parto. Altro fondamentale ruolo è quello di
stimolo delle cellule dei dotti lattiferi delle mammelle. In tal modo l'ossitocina provoca una contrazione delle
cellule muscolari e l'eiezione del latte. Durante la gravidanza il progesterone iperpolarizza le cellule del
miometrio, sopprimendone l'attività contrattile spontanea. Ciò determina una relativa ineccitabilità e una
quiescenza elettrica e meccanica. Durante il parto l'utero ha un aumento di recettori dell'ossitocina indotto
dagli estrogeni e sviluppa la sua massima sensibilità all'ossitocina. Al momento del parto il fondo uterino
espleta la funzione di pacemaker e induce delle contrazioni regolari e coordinate che giungono alla cervice.
L'ormone esogeno viene utilizzato per indurre o aumentare il travaglio in caso di scarsa funzionalità della
muscolatura uterina, previa amnioressi. Dosi elevate di ossitocina esogena interferiscono col flusso ematico
attraverso la placenta e possono determinare ipossia del feto e morte. Le prostaglandine invece sono
vasoattive con azione costrittrice, causano cioè necrosi ischemica, e sono uterotoniche, aumentando, quindi, il
tono della muscolatura uterina.
I nuclei preottico e preottico posteriore sono il termostato del corpo umano e regolano la temperatura,
mantenendola intorno ai 37 °C. Se la temperatura sale si attiva una particolare classe di neuroni, detti T+, che
innescano i processi necessari per fare abbassare immediatamente la temperatura corporea, come la
sudorazione o la vasodilatazione. Se invece la temperatura scende sotto una certa soglia, si attivano i neuroni
T-, che ordinano ai muscoli di contrarsi, generando quelli che sono i brividi. Il nucleo ventromediale è il
responsabile del senso della fame e della sazietà. I neuroni di tale struttura possono essere considerati il
glucostato dell’organismo. In caso di normoglicemia tali neuroni sono disattivati, ma se si giunge ad uno stato
di ipoglicemia si attivano, innescando il senso di fame. Quando il livello di glicemia sale, sino a raggiungere uno
stato di iperglicemia, tali neuroni cooperano generando il senso di sazietà.
L’innamoramento può essere suddiviso in diversi stati, in ognuno dei quali particolari ormoni esercitano
determinate influenze. Le fasi dell’innamoramento costituiscono un ciclo, e sono:
-
Infatuazione;
-
Attaccamento;
-
Passione;
-
Bivio.
138
In base a particolari condizioni fisiologiche, il ciclo può ripartire oppure interrompersi. Durante la fase di
infatuazione si attiva il mesencefalo, che produce alte quantità di dopamina. Tale struttura influenza sia
l’ipotalamo che il simpatico. Infatti i segni di tale fase sono la dilatazione delle pupille, frequenza respiratoria
veloce, aumento del battito cardiaco, pelle d’oca. Se tale situazione si verifica in entrambi i membri della
coppia il ciclo ha inizio, passando alla fase successiva dell’attaccamento. In tale fase vengono prodotte tutta
una serie di molecole che inducono determinati tipi di comportamento. La serotonina induce un senso di
ossessione. La noradrenalina e la feniletilamina danno un senso di eccitazione, mentre la dopamina accende il
desiderio. La fase della passione vede protagonista la neuroipofisi, che secerne vasopressina, che induce alla
fedeltà verso il partner, e ossitocina, che porta alla tenerezza negli atteggiamenti. Alla fine di tale situazione
si ha una massiccia liberazione di endorfine, secrete dal limbico. Se tale situazione comporta una dipendenza
dal partner per la produzione di endorfine, il ciclo continua. Se, invece, si arriva ad uno stato di assuefazione
il ciclo finisce.
La ghiandola pineale regola la percezione delle stagioni, dei ritmi circadiani e regola anche alcune fasi
dell’innamoramento. Tale ghiandola è composta da due popolazioni cellulari. Un ruolo importante di tale
ghiandola è nello sviluppo dell’istinto materno, inoltre regola i bioritmi e la riproduzione.
139
27-La Mente Bicamerale
Il cervello è suddiviso in due emisferi, uno destro e l’altro sinistro. A lungo ci si è interrogati sul perché le
aree del linguaggio si trovino solo a sinistra. Julian Jaynes ha affermato che le aree del linguaggio si trovano
a sinistra per potere ascoltare il linguaggio degli dei. Infatti, anticamente, l’area di Wernicke del linguaggio e
l’area allucinatoria situata sul lato temporale destro erano collegate tra di loro, formando una sorta di
corridoio neuronale, detto corridoio degli dei.
L'area di Wernicke è una parte dell'emisfero sinistro del cervello le cui funzioni sono coinvolte nella
elaborazione e comprensione del linguaggio. Fa parte della corteccia cerebrale, può anche essere descritta
come la parte posteriore dell'area di Broadmann 22, ed è connessa all'area di Broca da un percorso neurale
detto fascicolo arcuato. L'area di Broca è una parte dell'emisfero sinistro del cervello le cui funzioni sono
coinvolte nella elaborazione e comprensione del linguaggio. Tale area può anche essere descritta come l'unione
dell'area di Broadmann 44 e della 45, ed è connessa all'area di Wernicke da un percorso neurale detto
fascicolo arcuato. L'area di Broca consta di due zone principali, con diversi ruoli nella comprensione e
produzione del linguaggio. La pars triangularis (anteriore) sembra essere associata all'interpretazione di
varie modalità di stimoli e alla programmazione dei condotti verbali. La pars opercularis (posteriore) è invece
associata a un unico tipo di stimolo e presiede al coordinamento degli organi coinvolti nella riproduzione della
parola; essa è fisicamente prossima ad aree del cervello dedicate al controllo dei movimenti. Un danno
funzionale in quest'area (dovuto a ictus, ischemia, o altro) può provocare la così detta afasia di Broca o afasia
non fluente. I pazienti colpiti da afasia non fluente possono essere incapaci di comprendere o formulare frasi
con una struttura grammaticale complessa. Alcune forme di afasia legate a danni nell'area di Broca possono
colpire solo determinate aree del linguaggio, come i verbi o i sostantivi. Nel caso di pazienti sordomuti, può
essere inibita la capacità di produrre quei gesti corrispondenti al messaggio che essi vogliono comunicare, pur
essendo in grado di muovere mani, dita e braccia come prima.
Quindi, il temporale sinistro ascolta, mentre il temporale destro parla. La funzione degli dei era
principalmente quella di guidare e progettare l’azione degli uomini in situazioni nuove. Gli dei valutavano i
problemi e organizzavano l’azione secondo un modello o scopo costante che dette origine a complesse civiltà
bicamerali, combinando tutte le diverse parti, i tempi della semina, i tempi del raccolto, la scelta dei prodotti,
l’intera vasta composizione delle cose in un disegno grandioso, e dando istruzioni all’uomo neurologico nel suo
santuario verbale analitico nell’emisfero sinistro. Oggi, l’emisfero destro svolge una funzione vestigiale, di
tipo organizzativo, la selezione cioè delle esperienze di una civiltà e la loro combinazione in un modello in
grado di dire all’individuo cosa fare. La mente bicamerale era la responsabile di voci, visioni, e quindi decisioni.
Quando il corridoio si è rotto è sorta la coscienza, che ha preso il posto degli dei. Il termine coscienza deriva
dal latino Cum-scire ("sapere insieme") ed indicava originariamente un determinato stato interiore.
Anticamente con coscienza si intendeva qualcosa di diverso da ciò che si ritiene oggi nell'ambito psicologico e
140
filosofico. Non tutti gli antichi dividevano l'uomo in mente e corpo. Anzi era molto diffusa l'idea che l'uomo
avesse tre funzioni relativamente indipendenti chiamate "Centro intellettivo", "Centro motore-istintivo" e
"Centro Emozionale", collocate rispettivamente: in una parte dell'encefalo, nella parte terminale della colonna
vertebrale e nella zona del plesso solare, in quelli che sono oggi chiamati "gangli del parasimpatico". Ebbene
"Coscienza" indicava quello stato interiore di sintonia tra i tre centri (sapere insieme) che, se raggiunto,
permetteva all'uomo di elevare la propria ragione. A seconda dell'ambito nel quale viene osservata, la
coscienza viene intesa:
-
In ambito neurologico, coscienza è lo stato di vigilanza della mente contrapposta al coma;
-
In ambito psicologico, coscienza è lo stato o l'atto di essere consci contrapposta all'inconscio;
-
In ambito psichiatrico, coscienza come funzione psichica capace di intendere, definire e separare
l'io dal mondo esterno;
-
In ambito etico, coscienza come capacità di distinguere il bene e il male, per comportarsi di
conseguenza contrapposta all'incoscienza.
Quindi la coscienza ha avuto origine dalla rottura della mente bicamerale. Se tale rottura avviene in maniera
parziale si hanno casi di schizofrenia. Esistono varie forme di schizofrenia: paranoide allucinatoria,
catatonica, ebefrenica, semplice. La schizofrenia (dalla parola greca σχιζοφρένεια, o schizophreneia, che
significa "mente divisa") è una forma di malattia psichiatrica caratterizzata da un decorso superiore ai sei
mesi (spesso cronica), dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e
dell'emozione, con una gravità tale da limitare le normali attività della persona. È da tenere presente che
schizofrenia è un termine piuttosto generico che indica una classe di disturbi, tutti caratterizzati da una
certa gravità e dalla compromissione del cosiddetto "esame di realtà" da parte del soggetto. A questa classe
appartengono quadri sintomatici e tipi di personalità anche molto diversi fra loro, estremamente variabili per
gravità e decorso. Nella maggioranza dei casi di schizofrenia vi è qualche forma di apparente
disorganizzazione o incoerenza del pensiero. Vi sono però certe forme dove questo sintomo non compare, e
compaiono invece rigide costruzioni paranoidi. La schizofrenia si caratterizza, secondo la tradizione medica,
per due tipi di sintomi:
-
sintomi positivi: sono comportamenti o esperienze del soggetto "in più" rispetto all'esperienza e al
comportamento dell'individuo normale. Si possono perlopiù includere sotto il termine più generale
di psicosi. Questi sintomi possono essere: le idee fisse, i deliri, le allucinazioni e il disordine del
pensiero;
-
sintomi negativi: sono chiamati così quelli che sono diminuzione, declino o scomparsa di alcune
capacità o esperienze normali del soggetto. Possono includere inadeguatezza nel comportamento
della persona, distacco emotivo o assenza di emozioni, povertà di linguaggio e di funzioni
comunicative, incapacità di concentrazione, mancanza di piacere (anedonia) e mancanza di
motivazione.
141
I sintomi possono prendere la forma di deficit neurocognitivi: si tratta dell'indebolimento di alcune funzioni
di base quali la memoria, l'attenzione, la risoluzione di problemi, la funzione esecutiva e la cognizione sociale.
La schizofrenia colpisce più frequentemente soggetti nella tarda adolescenza e nella prima fase dell'età
adulta. I sintomi si manifestano generalmente prima negli uomini che nelle donne. Fu lo psichiatra Emil
Kraepelin il primo a descrivere questa sindrome nel 1883 e nel suo Trattato di psichiatria aveva individuato
tre forme possibili di schizofrenia:
-
schizofrenia ebefrenica, in cui prevale la dissociazione del pensiero;
-
schizofrenia paranoica, dove prevalgono idee fisse, allucinazioni e deliri;
-
schizofrenia catatonica, in cui prevalgono i "disturbi della volontà" o disorganizzazione
comportamentale.
L'approccio diagnostico e trattamentale alla schizofrenia è stato oggetto di forti dibattiti nella storia della
Medicina. In particolare il movimento anti-psichiatrico sostenne che proprio la classificazione di pensieri e
comportamenti specifici come "malattia" è ciò che permette il controllo sociale di persone considerate
indesiderabili o scomode da parte della società, persone che tuttavia non hanno commesso alcun "crimine". La
diagnosi di schizofrenia richiede il soddisfacimento del seguente criterio:
-
Sintomi caratteristici, ovvero la presenza persistente di due o più dei sintomi che seguono, per un
periodo significativo che si considera di almeno un mese: deliri, allucinazioni, disorganizzazione del
discorso verbale, grave disorganizzazione del comportamento oppure stato gravemente
catatonico;
-
Presenza di sintomi negativi, cioè che trasmettono un forte senso di disinteresse, lontananza o
assenza del soggetto: appiattimento affettivo, alogia (assenza di discorso), avolizione (mancanza
di motivazione), disturbi dell'attenzione e delle capacità intellettive, assenza di contatto visivo;
-
Deficit o disfunzione sociale e/o occupazionale: per un periodo di tempo significativo uno o più
degli ambiti principali della vita del soggetto sono gravemente compromessi rispetto a prima della
comparsa del disturbo;
-
Durata, ovvero persistenza dei sintomi per almeno sei mesi.
La schizofrenia è una malattia ubiquitaria, riscontrata in ogni epoca e cultura. Dopo i 35 anni sembra più
frequente nell'uomo che nella donna. Alcuni studi dimostrano che non esistono differenze nella distribuzione
tra i sessi; altri, invece, sostengono una maggiore prevalenza nell'uomo. I pazienti sono spesso non coniugati, o
se lo sono hanno maggiori probabilità di divorziare. Si evidenzia una maggioranza del disturbo nelle classi
socio-economiche più basse e tra gli individui con un livello di istruzione inferiore. Un difetto della produzione
della dopamina sembra giocare un ruolo chiave nell'eziologia di questa sindrome. Si sa, inoltre, che i fattori
genetici giocano un ruolo predominante: ad esempio, attraverso studi effettuati tra gemelli monozigoti il
rischio di ammalarsi di tale disturbo è del 50%. Nella popolazione cosiddetta sana la probabilità di sviluppare
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ex novo la Schizofrenia si avvicina all' 1% del campione. Infine, non sono da sottovalutare le esperienze
soggettive e il contesto familiare in cui il paziente affetto da schizofrenia viene allevato e in cui vive, poiché
è dimostrato che l'ambiente è determinante nello sviluppo della malattia. Il decorso della Schizofrenia è
quasi nella totalità dei casi cronico, sebbene possa alternare periodi di relativa sanità a periodi di
peggioramento della patologia. In ogni caso, un individuo affetto da schizofrenia non arriverà mai al punto di
regredire fino alla completa guarigione. La prognosi della Schizofrenia è, quindi, di solito sfavorevole tranne
che nel caso della Schizofrenia Catatonica la quale può avere in alcuni casi decorso favorevole. La terapia può
essere effettuata con farmaci neurolettici (antipsicotici), i quali agiscono soprattutto sui deliri e sulle
allucinazioni, diminuendo il senso di angoscia e le reazioni aggressive. Alcuni antipsicotici specifici possono
essere d'ausilio anche in una moderata riduzione dei sintomi negativi. È indicata anche la psicoterapia, che
può coinvolgere o meno familiari e conoscenti, allo scopo di individuare eventuali difficoltà relazionali col
malato e gestire il suo isolamento. Inoltre la psicoterapia può aiutare il paziente a contestualizzare il
problema e le risposte dell'ambiente, rendendolo maggiormente autoconsapevole, facilitando il contatto di
realtà e rinforzando l'Io.
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28-L’Apparato Riproduttivo Maschile
La riproduzione è affidata a due cellule particolari aploidi che prendono il nome di gameti. Il gamete maschile
è lo spermatozoo ed è il gamete mobile, mentre il gamete femminile è l’ovulo ed è il gamete fisso. I gameti
sono cellule altamente specializzate prodotte da organi particolari che sono sotto l’influenza di particolari
ormoni. I due gameti hanno un corredo cromosomico aploide in quanto sono il risultato di serie di divisioni
meiotiche che avvengono a partire da cellule diploidi. Le cellule precursori degli spermatozoi sono cellule
diploidi detti spermatogoni, aventi corredo cromosomico 44+XY. Lo spermatogonio è una cellula più giovane,
presente sulla membrana basale del tubulo seminifero. Si dividono per tutto il periodo riproduttivo. Fra le
cellule figlie, alcune si differenzieranno in spermatozoi, altre contribuiscono a mantenere la riserva delle
cellule staminali. Quindi, alla base del tubulo, si possono distinguere due differenti tipi di spermatogoni, in
base alla organizzazione della cromatina: gli spermatogoni staminali, che hanno una elevata percentuale di
eterocromatina; quelli invece impegnati nella spermatogenesi, sono caratterizzati da una maggiore quantità di
eucromatina. Il secondo tipo di spermatogoni, deriva dalla proliferazione dei primi, secondo un tipo di
programmazione che è tipico di ciascuna specie. Ad un certo punto smettono la mitosi, si ingrossano e
prendono il nome di spermatociti primari. Lo stadio successivo è quello di spermatocito I, con corredo 44+XY.
Con lo stadio di spermatocito II ha inizio la meiosi. Il 50 % di tali cellule avrà come corredo cromosomico
22+X e l’altra metà 22+Y. Con lo stadio di spermatide ha inizio il differenziamento morfologico in
spermatozoo.
La cellula precursore dell’ovulo è l’oogonio, con corredo diploide, segue poi l’oocita I e II, generando infine
l’uovo maturo. La differenza sostanziale è che delle uova mature i ¾ degenerano in globuli polari, mentre tutti
gli spermatidi giungono a maturazione completa. Infine il sesso dello zigote è da attribuire completamente al
tipo di spermatozoo che feconderà l’ovulo, in quanto questi potrà solo fornire il cromosoma sessuale X. I due
gameti sono cellule con profonde differenze a livello morfologico. Lo spermatozoo è piccolo e mobile, con un
citoplasma ridotto al minimo indispensabile, con una perfetta organizzazione del citoscheletro atta a rendere
rapidi ed efficaci gli spostamenti. L’ovulo, invece, è grande, con un citoplasma ricco di nutrienti e tale
peculiarità si dimostra basilare durante i primi giorni di vita dello zigote, cioè durante l’attraversamento delle
tube.
Il problema principale è quello di fare incontrare i gameti, che si trovano in due organismi differenti,
affinché possano fondersi ed originare lo zigote. Dopo che lo spermatozoo ha fecondato l’ovulo, la cellula
zigote inizia immediatamente a dividersi, arrivando ad impiantarsi nell’utero. Da tale massarella di cellule avrà
origine un individuo completo, avente corredo cromosomico per metà paterno e l’altra metà materno.
L’apparato riproduttivo maschile è formato dai testicoli, la sede anatomica della spermatogenesi. Il testicolo
fa parte dell'apparato genitale maschile di quasi tutti gli animali e rappresenta la gonade maschile. È un
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organo pari (presente in numero di due) e nei Mammiferi Euteri è racchiuso all'interno dello scroto, una sorta
di "sacchetto" situato inferiormente al pene. Ha la funzione principale di produrre gli spermatozoi (la parte
più importante dello sperma) ed alcuni ormoni fra i quali il testosterone. I testicoli sono di forma ovale,
misurano 5 centimetri circa di lunghezza, 3 centimetri circa di larghezza e 3 centimetri circa
trasversalmente. Il peso dei testicoli di un adulto è di circa 30 grammi l'uno, anche se uno dei testicoli può
essere un po' più pesante e più grande dell'altro, e in genere pende un po' più in basso. La ragione di questo
fatto non è certa, ma potrebbe ragionevolmente essere quella di impedire ai testicoli di urtare l'uno contro
l'altro. I testicoli hanno due funzioni: la produzione degli spermatozoi dal momento della pubertà sino alla
morte, e la produzione degli ormoni sessuali maschili chiamati androgeni, tra i quali il testosterone è il più
importante. La produzione degli ormoni da parte dei testicoli è evidente fin dalla nascita, ma aumenta
enormemente intorno alla pubertà e si mantiene ad alto livello per tutta l'età adulta fino a manifestare una
diminuzione durante gli ultimi anni di vita. La produzione degli spermatozoi non comincia fino alla pubertà,
anche se segue il modello della produzione di ormoni riducendosi in età avanzata. Gli spermatozoi vengono
prodotti in ogni testicolo in speciali strutture chiamate tubuli seminiferi in particolare dalle cellule del
Sertoli. Questi tubicini sono al centro di ogni testicolo e sono collegati con una serie di condotti che
convogliano lo sperma ad altri importanti organi e, alla fine, fuori dal pene, se ciò è richiesto. In ogni
testicolo, vicino ai tubuli seminiferi, ci sono numerose cellule chiamate cellule interstiziali o cellule di Leydig
che si raggruppano attorno un capillare a formare un’isola. Esse sono responsabili della produzione
dell'ormone sessuale maschile (testosterone) che viene secreto direttamente nei vasi sanguigni circostanti.
Al momento della pubertà, la maggior parte dei cambiamenti che avvengono nel ragazzo è prodotta dalla
maggior quantità di testosterone che scorre nel suo corpo. Durante l'eccitazione sessuale i testicoli
aumentano di grandezza. Il sangue riempie i vasi sanguigni che si trovano in essi causando il loro
ingrandimento. Dopo l'eiaculazione essi tornano alle loro normali dimensioni. Subito prima dell'eiaculazione i
testicoli vengono tratti molto vicini al corpo. Dopo l'eiaculazione essi ritornano alla loro posizione usuale nello
scroto. Il medesimo avvicinamento dei testicoli al corpo avviene nei momenti di intensa paura, collera o quando
l'uomo ha freddo. In questo modo, naturalmente, il corpo protegge questo meccanismo delicato e vulnerabile.
I testicoli pendono fuori dal corpo per potere stare alla temperatura leggermente più bassa che è richiesta
per la produzione dello sperma. Quando la stagione è molto calda o durante un bagno tiepido essi pendono più
in basso del normale, lontano dal corpo e dal suo calore; al contrario, nella stagione fredda, essi si avvicinano
al tepore del corpo per mantenere una temperatura ottimale. Se vengono tenuti alla temperatura corporea, i
testicoli non sono più in grado di produrre spermatozoi e l'uomo diventa sterile. Il testicolo è costituito dalla
tonaca albuginea e dalle sue dipendenze, da un parenchima costituito dai tubuli seminiferi, e dallo stroma che
circonda i tubuli seminiferi e contenente quest’ultimo le cellule di Leydig a funzione endocrina. La tonaca
albuginea è la tonaca più intima del testicolo, costituta da tessuto connettivo fibroso denso con fasci di fibre
collagene ad andamento parallelo, è resistente e inestensibile, spessa mezzo o un mm, che all’esterno si
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continua con l’epiorchio. Negli strati più superficiali troviamo fibrocellule muscolari lisce mentre negli strati
più profondi troviamo fibre elastiche. Dalla faccia profonda dell’albuginea, detta tonaca vascolosa perché
riccamente vascolarizzata, si dipartono dei setti convergenti verso il mediastino testicolare che si
approfondano all’interno del testicolo delimitandolo in logge, circa 300. ciascuna loggia ha forma piramidale,
con la base volta verso la superficie del testicolo e l’apice in corrispondenza del mediastino testicolare (dà
passaggio alla rete testis). Il parenchima di colorito roseo giallastro, riempie le logge all’interno delle quali si
organizza in lobuli. Ciascun lobulo contiene tubuli seminiferi contorti, le cui estremità si uniscono a formare i
tubuli retti che sboccano nella rete testis, posta a livello del mediastino testicolare, una serie di tubuli
riccamente anastomizzati. Dalla rete testis si dipartono circa 15-20 condottini efferenti che confluiscono a
formare l’epididimo. I tubuli seminiferi contorti sono lunghi da 30 cm a 70 cm e occupano il poco spazio a loro
disposizione grazie al loro andamento convoluto. La parete dei tubuli seminiferi è costituita da epitelio
pluristratificato detto epitelio germinativo che poggia su una lamina propria. L’epitelio germinativo comprende
accanto alle cellule germinali in diverso stato differenziativo le cellule del Sertoli che sono cellule di
sostegno. Le cellule del Sertoli sono cellule di derivazione mesodermica non spermatogeniche che oltre a
sostenere e a nutrire gli spermatozoi svolgono importanti funzioni endocrine. Si estendono per tutto lo
spessore dell’epitelio con la base che poggia sulla membrana basale e l’apice verso il lume; l’apice presenta
delle infossature entro cui sono contenute le teste degli spermatidi in via di sviluppo. Sono riconoscibili per il
nucleo triangolare con nucleolo evidente e cromatina dispersa. Le cellule del Sertoli sono unite da complessi
giunzionali tight junctions che suddividono l’epitelio germinativo in due compartimenti conosciuti come basale
e come luminale. Le cellule del Sertoli mediano quindi gli scambi metabolici tra il compartimento luminale degli
spermatidi e quello sistemico costituendo una barriera ematotesticolare che isola gli spermatidi dal resto
dell’organismo, proteggendoli dal sistema immunitario. Il citoplasma è acidofilo, con gocciole lipidiche, scarso
RER e abbondante REL. Sono talora visibili aggregati proteici noti come corpi di Charcot Bottcher. Troviamo
anche lisosomi primari e secondari. Le cellule del Sertoli mediano la spermatogenesi e la spermiazione,
riassorbono i corpi residui tramite fagocitosi. Svolgono anche funzione endocrina: producono ABP (protein
binding androgen), sotto lo stimolo dell’FSH ipofisario che concentra il testosterone favorendo la
spermatogenesi; secernono inibina che agisce con feedback negativo a livello ipotalamo ipofisario. Le cellule
germinali sono cellule in vario stadio differenziativo. Quelle in stadio precoce di sviluppo si trovano
perifericamente mentre quelle negli stadi tardivi prospettano verso il lume. Il processo attraverso il quale gli
elementi cellulari passano dalla periferia al lume prende il nome di spermatogenesi. Dura 74 giorni circa e
comprende la spermatogoniogenesi (proliferazione per mitosi delle cellule germinali primitive, da cui originano
gli spermatociti primari), la spermatocitogenesi (divisione meiotica degli spermatociti primari a formare
spermatociti secondari e da questi gli spermatidi) e la spermiogenesi (differenziazione degli spermatidi in
spermatozoi maturi, non si hanno fenomeni moltiplicativi). Nello stroma vi sono le cellule di Leydig che
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producono sotto lo stimolo dell’ormone ipofisario LH o ICSH ormoni androgeni, dei quali il testosterone
rappresenta il prototipo.
Quindi, i testicoli sono formati da tubuli seminiferi, nei quali avviene la spermatogenesi. Gli spermatozoi
ultimati si accumulano in una sorta di vaso collettore, detta rete testis, passano poi nell’epididimo e
attraversando il deferente raggiungono le vescichette seminali e qui aspettano l’arrivo dello stimolo sessuale
che darà origine all’eiaculazione.
L' epididimo è una parte del apparato genitale maschile dell'uomo ed è presente in tutti i mammiferi maschi. È
un dotto di piccolo diametro e strettamente avvolto che collega i dotti efferenti dal retro di ogni testicolo al
suo dotto deferente.
Gli spermatozoi che si sono formati nei testicoli entrano nella testa dell'epididimo, avanzano verso il corpo e
alla fine giungono nella regione della coda, in cui vengono immagazzinati. Gli spermatozoi che entrano nella
testa dell'epididimo sono incompleti - mancano della capacità di muoversi in avanti (motilità) e di fecondare un
ovulo. Durante il loro transito nell'epididimo, gli spermatozoi subiscono processi di maturazione a loro
indispensabili per acquisire queste funzioni. La maturazione dello spermatozoo viene completata nel tratto
riproduttivo della donna (capacitazione). Durante l'eiaculazione, gli spermatozoi scorrono dalla porzione più
bassa dell'epididimo (che ha la funzione di serbatoio d'immagazzinamento). Essi sono così stipati che non gli è
possibile nuotare, ma sono trasportati, grazie all'azione peristaltica di alcuni strati muscolari all'interno del
dotto deferente, e si mischiano con i fluidi diluenti delle vescicole seminali e di altre ghiandole accessorie
prima dell'eiaculazione (formando lo sperma). L'epididimo è una delle sole due regioni del corpo ad avere
stereociglia (l'altra è l'orecchio interno). L'infiammazione dell'epididimo prende il nome di epididimite. Un
varicocele è un vaso sanguigno venoso rigonfio del testicolo che appare o che si apprezza al tatto con un
epididimo ingrandito. Embriologicamente l'epididimo deriva da tessuto che una volta formava il mesonefro, un
rene primitivo che si trova in molti vertebrati acquatici. La permanenza dell'estremità craniale del dotto
mesonefrico lascia un rimasuglio chiamato l'appendice dell'epididimo. In aggiunta, alcuni tubuli mesonefrici
possono rimanere come paradidimo, un piccolo corpo in posizione caudale rispetto ai condottini efferenti.
Nell’uomo, durante l’eiaculazione, gli spermatozoi transitano nell’uretra, che ha anche il compito di portare
all’esterno l’urina a partire dalla vescica. Il pH anomalo di tale area, causato dal transito dell’urina, potrebbe
danneggiare gli spermatozoi. Così, al momento dell’eiaculazione, lo sperma attraversa la prostata, una
ghiandola che produce un secreto alcalino atto a neutralizzare l’acidità dell’uretra.
La prostata o ghiandola prostatica è una ghiandola che fa parte dell'apparato genitale maschile dei
mammiferi. La sua funzione principale è quella di produrre ed emettere il liquido seminale, uno dei costituenti
dello sperma, che contiene gli elementi necessari a nutrire e veicolare gli spermatozoi. La prostata differisce
considerevolmente tra le varie specie di mammiferi, per le caratteristiche anatomiche, chimiche e
fisiologiche. Una prostata umana in buona salute ha le dimensioni di una grossa castagna. La prostata è
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collocata nella parte frontale del retto, circa 5 cm dopo l'ano, e parte di essa può essere toccata durante un
esame rettale e un rapporto anale. La ghiandola prostatica è la zona erogena più sensibile nel maschio, e per
questo viene paragonata al punto G femminile, col nome di "punto A".
La formazione degli spermatozoi avviene in apposite strutture dei testicoli, detti tubuli seminiferi. Gli
spermatozoi appena formati si accumulano nella rete di Haller e, passando attraverso i coni, giungono
nell’epididimo. Visto in sezione, un tubulo seminifero non è vascolarizzato e i nutrienti diffondono per
trasporto passivo dalla rete di circolo alle cellule all’interno del tubulo. Attorno alla rete vascolare è presente
l’isola di Leydig formata appunto dalle cellule di Leydig.
Le cellule di Leydig, anche conosciute come cellule interstiziali di Leydig, si trovano accanto ai tubuli
seminiferi nei testicoli. Possono secernere testosterone e sono spesso strettamente associate a strutture
nervose. Le cellule di Leydig hanno un nucleo cellulare tondo e un citoplasma granuloso eosinofilo. Le cellule di
Leydig rilasciano una categoria di ormoni chiamati androgeni. Secernono testosterone, androstenedione e
dehydroepiandrosterone (DHEA), quando sono stimolate dall'ormone luteinizzante ipofisario (LH). L'LH
aumenta l'attività dell'enzima colesterolo desmolasi (associato alla trasformazione del colesterolo in
pregnenolone ), incentivando la sintesi e secrezione di testosterone da parte delle cellule di Leydig. L'ormone
follicolo-stimolante (FSH) aumenta la risposta delle cellule di Leydig all'LH aumentando il numero di recettori
per tale ormone. Le cellule di Leydig sono poligonali, con citoplasma eosinofilo granuloso contenente gocciole
lipidiche, con un nucleo vescicolare circolare. Hanno un abbondante reticolo endoplasmatico liscio (REL), che
spiega l'acidofilia citoplasmatica, attivamente coinvolto nella sintesi ormonale. Contengono inoltre spesso
lipofuscine e delle strutture cristalliformi chiamate cristalli di Reinke.
Cellule e tubuli sono circondate dal TIL o tessuto inter-Leydighiano, una sorta di specializzazione del tessuto
connettivo. Le cellule di Leydig sono sotto lo stretto controllo dell’ipotalamo e dell’ipofisi. L’ipofisi secerne
l’ormone ICSH, che una volta in circolo stimola le cellule di Leydig a produrre il testosterone, un ormone
steroideo. Le cellule di Leydig hanno il classico aspetto di cellule impiegate nella steroido-sintesi:
-
Gocciola lipidica;
-
Intenso sviluppo del REL attorno la gocciola lipidica;
-
Creste interne del mitocondrio di tipo vescicoloso.
Il testosterone in circolo va a stimolare il nucleo dorsale dell’ipofisi, che induce la libido. Le cellule di Leydig
hanno origine da fibroblasti embrionali, che si differenziano in cellule di Leydig a seguito di stimoli da parte
dell’ICSH. Tale prima generazione di cellule di Leydig inizia a produrre testosterone, molto importante nel
determinare la formazione delle gonadi e nel determinare il sesso del feto. Dopo la nascita tali cellule si
atrofizzano, smettendo di sintetizzare testosterone, per poi riattivarsi alla pubertà. Tale II generazione di
cellule di Leydig inizia a sintetizzare testosterone massivamente. Il testosterone induce tutta una serie di
cambiamenti a livello anatomico come la barba, l’incremento della massa muscolare, sviluppo delle ossa,
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sviluppo degli organi genitali, ma ha anche effetti particolari sulla pelle rendendola grassa e portando alla
comparsa di acne. Successivamente l’acne può anche scomparire e la produzione di testosterone si assesta su
determinati valori. Il testosterone influenza anche il sistema nervoso, rendendo più aggressivo il carattere
dell’individuo. Un’ultima generazione di cellule di Leydig si ha durante la vecchiaia e tali cellule continuano a
produrre ancora testosterone.
Lo spermatozoo è una cellula altamente specializzata, e per poter realizzare tale macchina sono necessari dei
particolari tipi di cellule che assistano la spermatogenesi. Innanzitutto, nel passaggio da spermatogoni a
spermatozoi, il volume citoplasmatico deve diminuire, inoltre il citoscheletro deve organizzarsi per poter
formare la coda. Nel tubulo, sono presenti particolari cellule dette cellule del Sertoli, che hanno il compito di
assistere il gamete nel suo processo maturativo.
La cellula del Sertoli è una cellula di sostegno che si trova nei tubuli seminiferi dei testicoli. La loro principale
funzione è quella di guidare le cellule germinali attraverso i passaggi della spermatogenesi. Sono inoltre
responsabili del mantenimento di un certo numero di spermatogoni che, essendo cellule staminali, assicurano
sia la propria omeostasi (il mantenimento di un numero fisso di spermatogoni) sia il differenziamento in cellule
mature, fino al rilascio degli spermatozoi. Da un punto di vista morfologico si presentano come cellule
allungate che posano sulla membrana limitante il tubulo seminifero e arrivano fino al lume centrale. Hanno
forma irregolare poiché ospitano, come incastonate, le cellule germinali nei vari stadi, le più staminali vicino
alla base, le più differenziate verso l’apice. Come menzionato prima le cellule del Sertoli sono coinvolte nel
processo di spermatogenesi. Il processo è stimolato dall'FSH secreto dall’adenoipofisi, per cui le cellule del
Sertoli esprimono recettori specifici. Durante la vita fetale precoce queste cellule secernono l'ormone antiMülleriano (AMH), in tal modo concorrono alla degenerazione del dotto di Müller (o dotto paramesonefrico) e
alla differenziazione in senso maschile delle gonadi indifferenziate. Dopo la pubertà, le cellule del Sertoli
secernono gli ormoni inibina e attivina. Secernono anche proteine leganti gli androgeni (ABP, androgen binding
protein) e il fattore neurotrofico delle cellule derivate della linea gliale (GDNF), che è stato dimostrato
avere un effetto proliferativo sugli spermatogoni indifferenziati, che assicurano l'auto-rinnovamento di tali
cellule staminali durante il periodo perinatale. Produce inoltre altri fattori, come ERM (Ets related molecule,
fattore di trascrizione), per il mantenimento degli spermatogoni staminali anche nel testicolo adulto. Una
funzione fondamentale delle cellule del Sertoli è quella di formare la barriera emato-testicolare. Questa
barriera è prodotta della giunzioni occludenti (o tight junction) tra una cellula del Sertoli e l’altra appena al di
sopra degli spermatogoni che appoggiano sulla membrana basale contigua alla membrana limitante il tubulo.
Questo fatto è fondamentale non solo per il controllo dell’entrata e dell’uscita di nutrienti, ormoni e sostanze
chimiche dal sangue al compatimento luminale del tubulo seminifero; ma soprattutto per la difesa delle cellule
in spermatogenesi. Difatti, gli spermatogoni, diploidi, esprimono le medesime molecole di membrana delle
altre cellule dell’organismo, mentre gli spermatidi e poi gli spermatozoi, aploidi, sono diversi dalle altre cellule
self e potrebbero innescare una risposta del sistema immunitario che ne provocherebbe la distruzione.
149
Sembra inoltre che le cellule del Sertoli fagocitino i residui (citoplasmatici) del differenziamento degli
spermatozoi. Le cellule del Sertoli derivano dalle cellule pre-Sertoli, o sostentacolari, che sotto l’azione di
TDF (fattore di determinazione testicolare), espresso dal gene SRY (sul cromosoma Y), si differenziano dai
cordoni sessuali primitivi (nella gonade indifferenziata), trasformandoli in cordoni seminiferi, chiusi fino alla
pubertà, quando svilupperanno il lume centrale. Una volta totalmente differenziate, le cellule del Sertoli non
sono in grado di proliferare. Quindi, una volta che la spermatogenesi è iniziata, non vengono create nuove
cellule del Sertoli. Tuttavia, recentemente, alcuni scienziati hanno trovato una via per fare proliferare
nuovamente queste cellule in vitro. Ciò aumenta la possibilità di curare alcuni difetti che causano l’infertilità
maschile.
All’interno del citoplasma della Sertoli sono presenti granuli di glicogeno. Tali granuli sono le riserve
energetiche della cellula, in quanto non può ricevere un rifornimento continuo data l’assenza di vasi sanguigni
limitrofi all’interno del tubulo. Sotto azione dell’FSH, la Sertoli si attiva e scinde i granuli di glicogeno, che
passano agli spermatogoni vicini e innescano il processo di spermatogenesi. Ma la Sertoli, attraverso
particolari invaginazioni della membrana plasmatica, accompagna verso il centro del tubulo il gamete che si sta
formando e fagocita la porzione di citoplasma che è inutile per lo spermatozoo. Dalla digestione del
citoplasma superfluo la cellula di Sertoli recupera i nutrienti necessari per non fare bloccare il sistema. Dal
centro del tubulo seminifero, gli spermatozoi si spostano nella rete di Haller, poi nell’epididimo, nel deferente
e aspettano nelle vescichette seminali l’arrivo dello stimolo eiaculatorio. All’arrivo dello stimolo lo
spermatozoo percorre il pene che ora è in erezione. L’erezione è resa possibile data la presenza dei corpi
cavernosi, strutture cave che riempendosi di sangue rendono eretto e duro il pene, e dalla fitta rete
vascolare.
Per quanto concerne la contraccezione, un primo metodo consiste nel bloccare fisicamente il passaggio degli
spermatozoi, dai testicoli alle vescichette seminali, bloccando il lume del deferente. Un altro metodo
consisterebbe nel disattivare la cellula di Sertoli, con particolari farmaci, bloccando così la funzione ausiliare
alla spermatogenesi di tali strutture.
150
29-Lo Spermatozoo
Il gamete maschile è lo spermatozoo, una cellula altamente specializzata nel portare al termine il suo compito,
ovvero la fecondazione dell’ovulo. Gli spermatozoi sono cellule aploidi che hanno origine da precursori diploidi.
Da uno spermatogonio, in media, hanno origine 256 spermatozoi. La prima linea di cellule precursori prende il
nome di capostipiti. Con successive divisioni mitotiche, hanno origine i plurivalenti fino a giungere agli
spermatogoni di transizione. Lo stadio successivo è quello dei crostosi. A questo stadio avviene la mitosi
equazionale, che porta alla formazione di spermatociti primari. Successivamente segua la mitosi riduzionale e
compaiono le cellule con corredo cromosomico aploide o spermatociti secondari. Ora inizia il differenziamento
sul piano morfologico a partire da spermatidi. Il risultato di tale catena di montaggio è lo spermatozoo pronto
all’uso. In totale, per costruire un singolo spermatozoo ci vogliono 1700 ore.
Il processo di formazione dello spermatozoo, altrimenti detto spermatogenesi, avviene in particolari organi
chiamati testicoli, chiamati anche gonadi maschili, presenti nell'apparato genitale di individui di sesso
maschile. Più precisamente la spermatogenesi avviene all'interno dei tubuli seminiferi, strutture tubulari
rivestite da una sorta di tessuto epiteliale pluristratificato costituito in maggioranza dalle cellule germinali e
perciò detto epitelio germinativo. Oltre alle cellule germinali (presenti in diversi stadi di maturazione
dall'esterno all'interno del tubulo seminifero) si trovano nell'epitelio germinativo cellule isolate dal nucleo
grosso e chiaro aventi funzione di sostegno e di ricezione ormonale per gli ormoni FSH e testosterone: il loro
nome è cellule del Sertoli. Come già detto, dall'esterno all'interno dei tubuli seminiferi si osservano
differenti fasi di maturazione delle cellule germinali: le cellule più esterne dunque corrispondono alla prima
fase di maturazione dello spermatozoo, lo spermatogonio. Gli spermatogoni si dividono in due classi:
spermatogoni A (a nucleo pulverulento, con cromatina dispersa in fini granulazioni) e B (a nucleo crostoso, con
cromatina addensata in numerose zolle). A loro volta gli spermatogoni di tipo A si dividono in tipo A scuro e
tipo A chiaro. Gli spermatogoni di tipo B sono i diretti precursori degli spermatociti e derivano dagli
spermatogoni A chiari, a loro volta derivati dagli spermatogoni A scuri. Spermatogoni e spermatociti
costituiscono la parte basale dell'epitelio dei tubuli seminiferi: il tratto caratteristico di questa parte basale
è la presenza di numerosissime cellule con nucleo apparentemente irregolare, in realtà costituito da
cromosomi mitotici. Lo spermatocito, chiamato spermatocito I, derivato dallo spermatogonio B subisce una
divisione meiotica, o meiosi, un processo particolare composto da due divisioni a intervalli ravvicinati che
portano, attraverso un passaggio intermedio di due cellule chiamate spermatociti II, alla formazione di
quattro cellule chiamati spermatidi, prive di flagello, di dimensioni circa un quarto di quelle dello spermatocito
I iniziale. Il corredo cromosomico dello spermatocito I è diploide e in doppia copia (nell'uomo 46 cromosomi
con 2 cromatidi identici per ciascun cromosoma), dello spermatocito II è aploide e in doppia copia (23
cromosomi con due cromatidi ciascuno) e dello spermatide è aploide e in singola copia. La fase finale della
maturazione di uno spermatozoo vede l'ulteriore compattazione del materiale cromatinico del nucleo
151
spermatico, lo sviluppo del lungo flagello e della vescicola acrosomiale e l'espulsione del citoplasma superfluo.
Questi passaggi avvengono in sincronia all'interno di gruppi di spermatozoi in maturazione (6-8 per gruppo)
perché durante le divisioni meiotiche il citoplasma cellulare ha mantenuto con le cellule vicine dei ponti
citoplasmatici (zone di collegamento in cui la cellula non si è divisa completamente). I residui citoplasmatici
sono visibili in preparati istologici nel lume dei tubuli seminiferi. A maturazione morfologica conclusa, lo
spermatozoo deve andare incontro ad un'ulteriore maturazione funzionale in due fasi: la mobilitazione, che
avviene nell'epididimo (nella gonade maschile) e permette agli spermatozoi di muovere il flagello, e la
capacitazione, che avviene nelle tube uterine femminili e permette sempre agli spermatozoi di subire la
reazione acrosomiale che permetterà loro di poter fecondare l'ovulo.
Uno spermatozoo è costituito da una testa, un corpo e una coda. Tali strutture sono finalizzate ad espletare
al meglio la funzione che lo spermatozoo deve svolgere. La diminuzione delle dimensioni citoplasmatiche ha
posto i problemi di organizzazione dei vari organuli, soprattutto quelli citoscheletrici, e del continuo
rifornimento energetico alle strutture motorie dello spermatozoo. Il sistema di locomozione dello
spermatozoo è costituito da un serbatoio di energia, che serve ad alimentare il motore principale. Accanto a
tale struttura sono presenti un turbo, un motore giroscopico e un propulsore.
Nella testa dello spermatozoo è presente il nucleo, contenente DNA estremamente compattato. Durante il
processo di spermatogenesi, il nucleo va incontro a profonde trasformazioni, tra le quali la condensazione
cromatinica. Sopra al nucleo, come un cappello, è presente una struttura vescicolare, contenente numerosi
enzimi, che prende il nome di acrosoma. Durante la spermatogenesi, l’acrosoma nasce dalla progressiva fusione
di vescicole. La testa è collegata al corpo da una struttura, detta capitello. Le proteine formanti il capitello
sono in grado di rilasciare la testa libera dal corpo al momento opportuno.
Nel corpo è presente il motore che fornisce l’energia necessaria per il movimento dello spermatozoo.
All’interno del corpo è presente un manicotto di mitocondri che circonda le fibre dense, che a loro volta
circondano l’assonema. Nella coda scompare il manicotto mitocondriale e le fibre dense sono sostituite da una
guaina fibrosa. L’assonema è una struttura citoscheletrica formata da microtubuli. I microtubuli si dispongono
in modo da formare 11 coppie di filamenti, di cui una posta al centro, le altre tutte intorno. Ciascuna coppia è
formata da un filamento chiuso e da uno incompleto. Le coppie laterali sono collegate all’asse centrale
attraverso opportune proteine. Tale struttura conferisce maggiore efficienza al sistema. Il movimento dei
filamenti dell’assonema è causato da un’attività ATPasica, che idrolizza ATP in ADP e fosfato ricavandone
energia. Le fibre dense sono composte da trigliceridi che hanno il compito di amplificare i movimenti
dell’assonema sottostante. I mitocondri sono disposti in una sorta di manicotto. Tale organizzazione dovrebbe
permettere un maggiore afflusso di energia alle strutture sottostanti. Nella coda, la guaina fibrosa avvolge
l’assonema. Il serbatoio è il reticolo endoplasmatico liscio, il motore principale sono i mitocondri, il turbo le
fibre dense, il motore giroscopico l’assonema e il propulsore la guaina fibrosa.
152
Gli spermatozoi prodotti nei tubuli seminiferi del testicolo, sono completamente disattivati, ovvero il loro
spostamento nella rete testis e successivamente in altre strutture è dovuto alla presenza di apposite
strutture presenti all’interno di tali condotti. Nella rete testis le cellule ciliate fanno in modo di spingere in
avanti gli spermatozoi, arrivando poi nell’epididimo. Nell’epididimo, oltre alle cellule ciliate, vi sono delle cellule
che secernono degli agenti protettivi in quanto mascherano gli antigeni dello spermatozoo, che, una volta nel
corpo della donna, avendo un corredo cromosomico diverso, viene riconosciuto come non-self dal sistema
immunitario e distrutto. Successivamente si passa nel deferente, caratterizzato da una parete di
muscolatura liscia, che ha il compito di sospingere in avanti gli spermatozoi. Gli spermatozoi giungono
nell’ampolla deferenziale e poi nelle vescichette seminali. Le cellule di tali ghiandole sono impegnate in una
intensa attività secretiva, infatti secernono fruttosio e altri composti, fonte primaria di energia per lo
spermatozoo. Gli spermatozoi sostano nelle vescichette fino all’arrivo di uno stimolo. All’arrivo di questi, gli
spermatozoi giungono nella prostata, le cui cellule secernono un liquido alcalino atto a neutralizzare l’acidità
dell’uretra maschile. Il liquido prostatico è prodotto in continuazione dalle cellule della prostata, ma è solo lo
stimolo a indurne il rilascio. In persone anziane tale meccanismo presenta qualche problema, e la continua
secrezione di liquido prostatico altera l’ambiente uretrale favorendo la proliferazione batterica, generando
uretriti.
153
30-L’Apparato Riproduttivo Femminile
Il gamete femminile è l’ovulo, una cellula aploide immensamente grande se paragonata alle dimensioni dello
spermatozoo. Le dimensioni di tale cellula sono dovute al particolare ruolo che questi riflette nei primi giorni
di vita dello zigote. Infatti, quando la fecondazione avviene nelle tube, lo zigote impiega circa una settimana
per raggiungere l’utero e durante questo periodo i nutrienti sono tratti dal citoplasma dell’ovulo.
L’apparto riproduttivo femminile è situato nella piccola pelvi, ed è composto da:
-
La vagina, struttura atta ad accogliere il pene durante l’accoppiamento;
-
L’utero, nel quale avviene l’impianto e la gestazione;
-
Le tube, nelle quali avviene la fecondazione;
-
Le ovaie, nelle quali avviene la gametogenesi.
La vagina (letteralmente "fodero, guaina, involucro"), è un condotto membranoso che accoglie il pene durante
il coito e consente il passaggio del feto durante il parto. Conduce dall'utero all'esterno dell'organismo nei
mammiferi e nei marsupiali femmina, o alla cloaca negli uccelli, nei monotremi ed in alcuni rettili. Anche gli
insetti femmina ed altri invertebrati hanno una vagina, che è la parte terminale dell'ovidotto. Si tratta di un
condotto muscolo-membranoso, impari, mediano, che fa seguito all'utero, attraversa il pavimento pelvico e
sbocca nella vulva. La vagina, in alto, abbraccia la porzione vaginale del collo uterino ed in basso termina con
l'ostio vaginale. L'ostio vaginale è parzialmente chiuso da una membrana trasversale detta imene, che viene
lacerata generalmente al momento della prima penetrazione. La vagina è appiattita in senso anteroposteriore, per cui si riconoscono una parete anteriore ed una parete posteriore lungo le quali si trovano delle
pliche trasversali che convergono formando la carena vaginale. Durante il parto, la vagina veicola l'espulsione
del feto dall'utero alla vita fuori dall'organismo materno. È l'organo dell'accoppiamento femminile (riceve il
pene durante il coito); serve a dar esito al sangue mestruale ed alle secrezioni dell'utero e, nel parto, serve al
passaggio del prodotto del concepimento. Ha una lunghezza media, misurata dall’orifizio vaginale al collo
dell’utero, di 6-7 cm, anche se le sue pareti interne, datane la conformazione, sono un po’ più lunghe. Queste
misure non corrispondono a quelle di un pene eretto, infatti il pene non penetra mai completamente nella
vagina che peraltro è sia molto elastica che estensibile e arriva facilmente ad allungarsi di 3-4 cm. La mucosa
vaginale è rivestita da un epitelio pavimentoso stratificato molle, mantenuto umido e lubrificato dal muco
secreto dalle ghiandole uterine. Tale ambiente è sfavorevole agli spermatozoi, che possono invece
sopravvivere anche 5-6 giorni nella cervice uterina. Le cellule dell'epitelio vaginale, in continua
desquamazione, hanno affinità tintoriali che variano durante il ciclo mestruale per il variare del pH vaginale,
fenomeno che viene utilizzato per vari test di fertilità. La parte vaginale del collo uterino è circondata dal
fornice vaginale che si distingue in una parte anteriore, poco profonda, ed una parte posteriore, più
accentuata, che limita inferiormente il cavo retto-uterino di Douglas e nel quale vengono accolti gli
154
spermatozoi al momento dell'eiaculazione. Da qui poi risalgono in utero. Durante l'eccitazione sessuale la
vagina si imbibisce similarmente al riempimento dei seni cavernosi penieni. La vagina presenta un rilievo più o
meno sviluppato nella parete anteriore, circa a livello del terzo superiore, denominata punto di Grafemberg
(punto G). Tale formazione, che è ricca di terminazioni nervose sensitive, secondo alcuni è l'omologo
femminile della prostata e produce un secreto semiliquido più o meno abbondante durante l'orgasmo. La
vagina è rivestita da una mucosa, che nelle donne in età feconda, sotto l'azione degli estrogeni, secerne
glicogeno, dalla cui fermentazione, ad opera di batteri vaginali, chiamati bacilli di Doderlen, si forma acido
lattico. Questa acidità contribuisce a prevenire le infezioni batteriche vaginali. L’ambiente vaginale in
condizioni fisiologiche è in equilibrio dinamico, modulato dall’assetto ormonale, dal pH e dalla risposta
immunitaria, fattori tra loro strettamente interdipendenti. La vagina è per la più parte un organo a
innervazione viscerale, eccetto il terzo esterno che ha un’innervazione di tipo sensitivo. Durante i rapporti
sessuali si hanno:
-
inizialmente la congestione vascolare dei tessuti più interni causa di un trasudamento, che
costituisce la lubrificazione;
-
la dilatazione e l'ispessimento del tessuto congestionato che circonda l'accesso e la porzione
inferiore, con l'innalzamento completo dell'utero dal fondo del bacino e la notevole apertura della
parte più estrema della vagina;
-
l'orgasmo, caratterizzato da contrazioni ritmiche riflesse di 0.8 secondi che coinvolgono i muscoli
intorno alla vagina;
-
infine la detumescenza e il ritorno allo stato di riposo.
L'età della donna incide sull'attività sessuale: generalmente, la secrezione vaginale è scarsa quando vi è poca
stimolazione ormonale estrogenica, come avviene prima della pubertà e dopo la menopausa, è più abbondante a
seguito di stimolazione sessuale o emotiva, in corrispondenza dell'ovulazione o in corso di gravidanza. Durante
il ciclo mestruale, quando non avviene la fertilizzazione, l'utero si libera del rivestimento ispessito
dell'endometrio con le mestruazioni. Nel corso della gestazione la secrezione vaginale aumenta e varia di
composizione, assumendo un aspetto più viscoso e biancastro.
L'utero è un organo posto al centro della piccola pelvi, tra la vescica (anteriormente) e il retto
(posteriormente). Può essere considerato formato da un corpo, la parte più estesa che termina superiormente
nel fondo dell'utero, e da un collo che penetra nella sottostante vagina fino a sporgere all'interno di essa nel
cosiddetto muso di tinca, il quale è separato dalla parete interna della vagina da uno spazio anulare detto
fornice della vagina. Caratteristica è la posizione dell'utero rispetto alla vagina: l'asse maggiore di questo è
obliquo in basso in dietro e forma con l'asse della sottostante vagina un angolo aperto anteriormente
(condizione detta antiversione fisiologica), mentre la porzione del corpo forma con l'asse del collo uterino un
angolo ottuso (120-170°) aperto anteriormente (antiflessione fisiologica). Da considerarsi sono i rapporti
dell'utero: anteriormente esso poggia sulla vescica, dalla quale è separata tramite il recesso peritoneale (cavo
155
vescicouterino) che solitamente è una cavità virtuale; posteriormente è in rapporto col retto attraverso
l'interposizione di un altro recesso peritoneale, il cavo rettouterino, che solitamente contiene anse
dell'intestino tenue; lateralmente al retto prendono inserzione, su entrambi i lati, i legamenti larghi, delle
formazioni peritoneali contenenti connettivo e strutture vasali e legamentose (legamento rotondo, tuba
uterina, uretere). La struttura dell'utero è quella tipica degli organi cavi: è formato da una parete costituita
da una successione di tonache che circoscrivono un lume. Nel caso dell'utero queste tonache sono uno strato
più superficiale (la tonaca mucosa o endometrio), uno strato muscolare o miometrio e, dove è presente, il
rivestimento peritoneale detto anche perimetrio.
Le tube di Falloppio, chiamate anche salpingi, trombe uterine o ovidotti, sono due organi tubolari pari e
simmetrici che hanno la sola funzione riproduttiva. Hanno, infatti, il compito di captare l'ovocita e lo
spermatozoo e permettere la fecondazione. Hanno una lunghezza che va dai 12 ai 18 centimetri e uno
spessore che arriva fino ai 3 millimetri. Esse sono rivestite dal peritoneo; sono collegate alla cavità
peritoneale da dei foglietti peritoneali, chiamati mesosalpingi. Le tube di Falloppio possono idealmente
dividersi in quattro porzioni:
-
il fundibolo, che ha la forma ad imbuto ed è la sezione più vicina alle ovaie;
-
la parte ampollare, che è la parte più lunga, di circa 6 - 7 centimetri. Regola il transito dei gameti
ed il transito embrionale mediante contrazioni e successivi rilasciamenti;
-
la parte istmica, è una porzione lunga circa 2 - 3 centimetri, è quasi rettilinea e sottile;
-
la parte interstiziale, è il tratto più breve ed è il punto in cui la tuba si introduce nel miometrio
per raggiungere la cavità uterina.
L'ovaia (o ovaio) è la gonade femminile consistente in una ghiandola pari, simmetrica, situata a fianco
dell'utero. L'ovaio, organo pieno, è pari e simmetrico e ha la forma e la grandezza di una grossa mandorla. È
situato ai lati dell'utero, in prossimità delle pareti laterali della pelvi femminile. Le ovaie sono importanti sia
dal punto di vista riproduttivo, in quanto producono le cellule germinali femminili o ovociti, sia dal punto di
vista endocrinologico, in quanto secernono ormoni. L'ovaio è rivestito esternamente da un epitelio
superficiale, il quale è fragile e sottile ma ha un'elevata capacità rigenerativa, utile in seguito alla deiescenza
del follicolo; questo epitelio poggia su uno strato connettivale denso detto falsa albuginea che delimita il
parenchima dell'organo. Quest'ultimo è formato da una zona corticale periferica e da una midollare centrale.
La zona corticale è caratterizzata dalla presenza di follicoli oofori in vari stadi di maturazione, e sono
immersi in uno stroma di tessuto connettivo ricco di cellule fusate che partecipano alle modificazioni dei
follicoli durante il ciclo ovarico. I follicoli oofori si distinguono in: primordiali, primari, secondari, vescicolosi,
maturi e atresici. La zona midollare si trova al centro dell'organo ed è costituita da tessuto connettivo lasso.
Ha un aspetto spugnoso di colore rosso, per la presenza di numerosi vasi che l'attraversano, i quali formano
una sorta di tessuto erettile che riempendosi di sangue facilita lo scoppio dei follicoli. La midollare raggiunge
la superficie solo in corrispondenza dell'ilo. Il gamete prodotto dalle ovaie, percorre la tuba, raggiunge l’utero
156
e alla fine, se non fecondato, viene eliminato col flusso mestruale, altrimenti si impianta e si sviluppa. Infatti,
se la produzione di spermatozoi è continua, quella dell’ovulo segue un ciclo di 28 giorni. In questo periodo,
influenze ormonali fanno in modo che la parete interna dell’utero, o endometrio, si inspessisca per poter
accogliere lo zigote. Contemporaneamente all’inspessimento dell’endometrio, avviene anche un’abbondante
secrezione di muco, atto a frenare la discesa dell’ovulo. Se l’ovulo non è fecondato, l’endometrio si sfalda e
viene eliminato come sangue durante le mestruazioni.
L’ovaio è formato da una regione midollare, vascolarizzata, e una regione corticale in cui è assente la
vascolarizzazione e dove avviene la gametogenesi. Il tutto ha inizio da particolari cellule, dette ovogoni.
Nell’arco di 14 giorni l’ovogonio evolve in una cellula uovo matura. Durante tale periodo l’ovogonio è assistito
nel suo processo maturativo da una serie di cellule ancillari che svolgono ruoli molto importanti durante la
formazione dell’ovulo, ma anche dopo lo scoppio del follicolo. Tali cellule non solo nutrono l’ovogonio, ma
producono anche quel liquido che riempie lo spazio compreso tra la cellula uovo e le cellule ancillari o cellule
della teca. Le cellule della teca si differenziano in cellule della teca esterna e della teca interna Tali cellule,
inoltre, producono estrogeni, ormoni che inducono l’ispessimento dell’endometrio uterino. Od un certo punto la
pressione che il liquido interstiziale esercita sulle pareti della corticale dell’ovaio diventa talmente tanto
forte da causare lo scoppio del follicolo. Durante questa esplosione fuoriescono non solo l’ovulo, ma anche le
cellule ancillari che si disporranno attorno all’ovulo, formando una struttura detta corona radiata, che
rappresenta una barriera che lo spermatozoo dovrà superare per poter fecondare l’ovulo. Nello scoppio, non
tutte le cellule fuoriescono, ma quelle che restano nella corticale formano il corpo luteo, che inizia a
secernere progesterone. Tale ormone ha il compito di ritardare lo sfaldamento delle pareti uterine.
Il corpo luteo è una ghiandola endocrina la cui funzione principale è quella di produrre progesterone e, in
quantità minori, estrogeni. La formazione del corpo luteo avviene durante la fase luteinica del ciclo ovarico: le
cellule della granulosa, rimaste sull'ovaio in seguito all'espulsione dell'ovocita, iniziano ad accumulare quantità
crescenti di proteine, lipidi, e un pigmento carotenoide, la luteina, che gli conferisce un aspetto giallastro.
Questi processi di ipertrofia ne fanno aumentare le dimensioni fino a 30 mm. Il mantenimento del corpo luteo
è sostenuto dall'ormone luteinizzante (LH), dalla prolattina e dall'estradiolo. Se non avviene la fecondazione
dell'uovo e l'impianto del blastomero nell'utero il corpo luteo vive per 14 giorni e poi degenera rapidamente.
La cicatrice che resta sull'ovaio ha colore biancastro e prende il nome di corpus albicans. Questa distruzione
(luteolisi) avviene con un collasso delle cellule luteiniche, ischemia e progressiva morte cellulare, seguita
dall'arresto della secrezione di progestinici. La luteolisi è un processo di degenerazione programmata a
scadenza fissa che può essere disinnescata solo dall'intervento dell'ormone gonadotropina corionica, secreto
dalle cellule del corion embrionale. Se il corpo luteo viene salvato dalla luteolisi continua a produrre
progesterone ed estrogeni, ormoni che hanno un effetto inibitore su ipotalamo e ipofisi reprimendo quindi la
produzione di FSH e LH. In questo modo non si raggiunge la concentrazione soglia di questi ormoni perché
altri follicoli primari possano raggiungere l'ovulazione, sopprimendola del tutto. È su questo stesso principio
157
che si basa il funzionamento della pillola anticoncezionale che può essere definita come un corpo luteo
artificiale. Il corpo luteo è una struttura con un ciclo di vita limitato, e se l’ovulo non viene fecondato il corpo
luteo smette di produrre progesterone e degenera in corpus albicans. L’assenza di progesterone induce la
mestruazione.
Durante lo scoppio del follicolo si ha anche un aumento della temperatura basale, che raggiunge il picco
proprio in tale periodo, per poi ritornare normale. Generalmente il corpo luteo produce progesterone per circa
10 giorni dopo lo scoppio del follicolo. La degenerazione del corpo luteo è fermata dall’impianto dello zigote,
che producendo gonadotropina corionica stimola il corpo luteo a continuare a produrre progesterone. Dopo un
po’ di tempo, il ruolo del corpo luteo verrà preso dalla placenta fetale.
Con l’accoppiamento si introduce il gamete maschile all’interno dell’apparato riproduttivo femminile. In questo
modo sarà favorito l’incontro dei due gameti e la formazione di un nuovo individuo. Lo spermatozoo dalla
vagina deve ripercorrere l’intero apparato per poter poi incontrare l’ovulo. Durante il suo percorso sono
presenti numerose barriere che decimano la popolazione del gamete maschile. Una prima barriera, detta
mucosale, è rappresentata dal muco vaginale che invischia, intrappola e rallenta l’avanzamento degli
spermatozoi. Tale barriera è formata da acido ialuronico e glicoproteine. Recenti studi hanno dimostrato che
rapporti sessuali lunghi sfaldano tale barriera, indebolendola, e favorendo così il passaggio degli spermatozoi.
Inoltre rapporti sessuali lunghi favoriscono maggiormente il transito di quegli spermatozoi che daranno vita a
zigoti femmine. Infatti lo spermatozoo 22+X risulta essere più pesante di quello 22+Y. Un rapporto sessuale
lungo indebolisce la barriera e favorisce un avanzamento degli spermatozoi 22+X. Se poi tale spermatozoo
incontra l’ovulo si avrà uno zigote femmina. Con un petting breve, quindi, il muco resta denso, mentre con un
petting lungo il muco liquefa.
Gli spermatozoi hanno una sorta di gerarchia e sono ben organizzati nel rendere più probabile la
fecondazione. Gli spermatozoi, in base ai ruoli si dividono in:
-
Scavangers, spermatozoi che si immolano neutralizzando le prime linee difensive;
-
Commando, vanno in avanscoperta e neutralizzano la barriera rappresentata dai macrofagi
tissutali;
-
Fecondatori.
L’ovulo, una volta che il follicolo è scoppiato, tenderebbe a cadere nel peritoneo, ma viene catturato dalle
fimbrie tubariche, e sospinto nelle tube. Qui, all’interno di tale microambiente tubarico, se le condizioni sono
ottimali, si verificherà l’incontro dei due gameti. Il viaggio dello spermatozoo è lungo e pieno di trappole. Le
pareti dell’utero sono piene di escrescenze che formano una sorta di falsi condotti. Se lo spermatozoo entra
in tali strutture viene intrappolato e alla fine, esaurite tutte le sue energie, viene eliminato. Alcuni
spermatozoi restano intrappolati nelle ciglia che tappezzano le pareti e, nel tentativo di liberarsi, esauriscono
tutte le loro energie. Molti spermatozoi vengono fagocitati dai macrofagi tissutali. Quei pochi che restano
158
potranno partire alla conquista dell’ovulo, ma solo uno di essi lo feconderà. Stesso il processo di fecondazione
comporta una serie di problemi, tra questi la presenza di cellule che formano un involucro, la corona radiata,
all’interno della quale è presente l’ovulo. Per poter sfondare tale barriera tutti gli spermatozoi cooperano tra
di loro pur di permettere ad uno solo di essi di raggiungere la membrana dell’ovulo. Non appena la testa dello
spermatozoo raggiunge le cellule del cumulooforo, avviene la reazione acrosomiale, e il contenuto della
vescicola acrosomiale viene rilasciato. L’acrosoma contiene tutta una serie di enzimi, che hanno il compito di
eliminare la barriera, e tra questi vi è la ialuronidasi, che elimina l’acido ialuronico formando una breccia nella
barriera. Eliminata la barriera lo spermatozoo raggiunge la membrana dell’ovulo. Ora bisogna fare in modo che
il nucleo presente nella testa superi la membrana dell’ovulo. A tale scopo, lo spermatozoo, con una serie di
movimenti pendolari, facilita l’endocitosi della testa. Appena uno spermatozoo è entrato, una serie di
meccanismi impedisce che altri possano entrarvi, evitando casi di poliploidia. Quando la testa sta per essere
endocitata, viene staccata da tutto il resto del corpo dello spermatozoo. Quando poi i due pronuclei si
fondono, avviene la nascita di un nuovo individuo, lo zigote.
Tuttavia vi sono delle condizioni, patologiche o meno, che inducono sterilità. In proporzione, le cause di
sterilità sono per il 20% associate alla coppia e per il 40% a condizioni dei partners. Per quanto riguarda la
sterilità femminile le cause possono essere diverse, riguardanti difetti anatomici oppure difetti ormonali,
oppure ancora fattori vulvo-vaginali. Per questo è consigliabile un controllo frequente con visita ginecologica,
ecografia, stereosalpingografia, laparoscopia, falloppioscopia. Anche agenti virali, come clamidia o micoplasmi
possono causare sterilità. Un’ostruzione tubarica può impedire l’incontro dei due gameti e la loro fusione, ma
se le tube sono parzialmente ostruite l’incontro è possibile, ma aumentano le probabilità di una gravidanza
ectopica, in questo caso tubarica. La donna può essere immunizzata contro gli spermatozoi del suo partner e
questi vengo immediatamente riconosciuti e distrutti. Le cause di sterilità maschile sono per lo più dovute a
difetti nel numero, nella morfologia e nella motilità degli spermatozoi.
159
31-Tecniche di Fecondazione
L’ICSI (microiniezione intraovocitaria dello spermatozoo) è una tecnica che comporta la microiniezione di un
singolo spermatozoo in un ovocita maturo allo scopo di ottenerne la fertilizzazione. Affinché ciò avvenga la
donna si deve sottoporre ad una stimolazione della crescita follicolare con gonadotropine e quindi
all’aspirazione dei follicoli per via ecografica per ottenere più ovociti maturi da iniettare.
Le Gonadotropine sono una famiglia di tre ormoni:
-
FSH o ormone follicolo-stimolante;
-
LH ormone luteinizzante;
-
hCG gonadotropina corionica.
Il nome sta a indicare il loro effetto stimolante sulle gonadi. Tali molecole, proteine eterodimeriche, hanno in
comune una catena di 92 amminoacidi detta subunità α, mentre differiscono per l’altra catena polipeptidica
detta subunità β. Le gonadotropine sono prodotte da due ghiandole diverse. FSH e LH sono sintetizzati dalle
cellule dette appunto gonadotrope dell’adenoipofisi. Queste cellule costituiscono il 10-15% del parenchima
ghiandolare. L’hCG è prodotto dal corion e poi dalla placenta nel caso in cui un embrione si impianti nell’utero.
Ha la funzione di prolungare, durante la gravidanza, l'effetto dell'LH sul corpo luteo. Tali ormoni sono
presenti sia nella femmina che nel maschio (ad eccezione dell’hCG, per ovvie ragioni) ed hanno funzioni
essenziali sullo sviluppo, la maturazione, il mantenimento delle funzioni delle ovaie e dei testicoli. FSH ed LH
vengono secreti sotto stimolazione del GnRH che è l’ormone di rilascio ipotalamico delle gonadotropine (detto
anche "LHRH") secreto nell’eminenza mediana dell’ipofisi e prodotto nei nuclei arcuati dell’ipotalamo (mediobasale). Il GnRH viene secreto in maniera pulsatile (con periodo di 1-3 ore), ciò comporta una oscillazione dei
livelli ematici anche di LH e FSH (anche se quest’ultimo ha oscillazioni minori).
Una volta che si è verificata la fecondazione, più zigoti vengono impiantati nell’utero e si attende che almeno
uno di questi sopravviva e si sviluppi. Tale tecnica viene utilizzata in tutte quelle coppie con un’infertilità
dovuta ad un fattore maschile medio/severo, quindi con una concentrazione spermatica inferiore a 10 milioni
di spermatozoi ed una motilità progressiva inferiore al 25 %, e in tutte le coppie che hanno avuto un ciclo
precedente FIVET con fallita fertilizzazione o con un tasso di fertilizzazione inferiore al 25 %. Ci sono
migliaia di bambini nati nel mondo con l’ICSI e che sono seguiti nella loro crescita fin dalla nascita. A tutt’oggi
non è stato dimostrato un aumento dei difetti di crescita in questi bambini.
I tassi di fertilizzazione con la tecnica ICSI nella maggior parte dei centri di sterilità è di circa il 50-70 %
degli ovociti iniettati. Le percentuali di gravidanza con la fecondazione in vitro con l’ICSI sembrano essere
superiori a quelle ottenute con la fecondazione in vitro senza l’utilizzo della ICSI. Ciò è probabilmente dovuto
al fatto che l’età delle donne sottoposte a ICSI è relativamente più bassa se confrontata a quella di donne
che si sottopongono ad un ciclo FIVET per motivi diversi dall’infertilità dovuta a fattore maschile severo.
160
Naturalmente la percentuale di fertilizzazione e gravidanza può variare nei singoli casi, in base alla tecnica
utilizzata, alla esperienza dell’operatore che esegue l’ICSI, alla qualità del laboratorio di embriologia come
anche alla abilità dell’operatore che esegue l’embrio-transfer. In alcuni casi selezionati, l’apertura della zona
pellucida (assisted hatching) viene eseguita sugli embrioni lo stesso giorno del transfer, allo scopo di
ottimizzare il loro potenziale di impianto. In alcuni casi si ricorre alla criobiologia, cioè un certo quantitativo
di gameti, sia maschili che femminili, vengono congelati per poi essere utilizzati quando particolari condizioni
patologiche saranno state eliminate. Talvolta la sconfitta di una malattia può avere come severa conseguenza
l’incapacità di produrre gameti e da qui l’utilizzo di quelli congelati e conservati in apposite banche, dette
banche del seme. Oggi come oggi si sono registrate più di 300 mila nascite ottenute con la fecondazione
assistita.
Una volta che l’ovulo è stato fecondato, lo zigote trascorre la sua prima settimana di vita nella tuba. Durante
tale periodo, la cellula costituente lo zigote va incontro ad una serie di divisioni mitotiche che comportano una
diminuzione del volume di ogni singola cellula senza un aumento del volume totale. Tale fase prende il nome di
segmentazione e la forma assunta dalla massarella di cellule è così caratteristica che in tale periodo lo zigote
viene detto morula. Dalla massarella cellulare, serie di migrazioni creano una cavità, ed è possibile già
distinguere due popolazioni cellulari, la prima quella che formerà il trofoblasto, cioè la struttura atta a
nutrire l’embrione, e le cellule che formeranno l’embrione vero e proprio.
161
32-L’Impianto dello Zigote
La vagina è la struttura dell’apparato genitale femminile atta ad accogliere il pene durante il rapporto
sessuale. La vagina produce un muco lubrificante. La sua mucosa, al microscopio, è ricca di batteri, definiti
batteri vaginali residenti, tra i quali vi sono i difteroidi, Staphylococcus epidermidis, Streptococchi di varie
specie, Escherichia coli, vari batteri anaerobi, Candida albicans (un fungo, o meglio un lievito, presente nella
vagina del 25 % delle donne asintomatiche). Il pH della vagina è di circa 4.0, e tale valore impedisce una
massiva proliferazione della popolazione batterica residente. Il pH basso è mantenuto grazie all’azione di un
altro batterio, il Lactobacillus acidophilus, che utilizzando glicogeno produce acido lattico che fa abbassare il
pH. Se il pH subisce variazioni, ed aumenta stabilizzandosi intorno a 5.0, i batteri presenti iniziano a
moltiplicarsi provocando una vaginite.
Alcune patologie dell’apparato riproduttivo femminile possono essere diagnosticate preventivamente
utilizzando vari metodi, come l’ecografia, la colposcopia (ideata da Hans Hinselmann) e il Pap-test. Il Pap-test
consiste nella prelievo di una piccola quantità di muco secreto a livello della cervice uterina, utilizzando
un’apposita spatola, e dall’esame delle cellule in esso presenti. Tale test è in grado di diagnosticare
rapidamente l’esistenza o meno di cancro alla cervice uterina.
Il Pap test (o citologia cervicovaginale) è un esame citologico che indaga le alterazioni delle cellule del collo
dell'utero. Il suo nome deriva dal medico greco-americano Georgios Papanicolaou, il padre della citopatologia,
che sviluppò questo test per la diagnosi rapida dei tumori del collo dell'utero. Da allora il Pap test è rimasto
pressoché invariato, e solo in anni recenti è stato aggiornato con lo sviluppo della citologia in fase liquida. Il
Pap test è un test di screening, la cui funzione principale é quella di individuare nella popolazione femminile
donne a rischio di sviluppare un cancro del collo uterino. Inoltre il Pap test può dare utili indicazioni
sull'equilibrio ormonale della donna e permettere il riconoscimento di infezioni batteriche, virali o micotiche.
Per l'esecuzione del Pap test viene prelevata una piccola quantità di cellule del collo dell'utero con una
spatolina (spatola di Aire) o una spazzolina cervicale. Nel pap test convenzionale le cellule vengono quindi
strisciate su un vetrino per l'esame di laboratorio. Nel pap test in fase liquida una macchina provvede ad
allestire un preparato a "strato sottile". Indipendentemente dal tipo di allestimento, le cellule vengono quindi
colorate secondo il metodo di Papanicolau ed esaminate al microscopio da un citologo o patologo che
provvederà a stilare un referto. Il prelievo deve essere effettuato lontano da rapporti sessuali, dalle
mestruazioni, dall'impiego di irrigatori vaginali, ovuli o candelette. L'esame può essere effettuato anche
durante la gravidanza. Il Pap test non è indicato per la individuazione dei tumori dell'endometrio o di altri
organi dell'apparato genitale femminile. Per quanto complessivamente il Pap test si sia dimostrato
estremamente efficace nel ridurre la frequenza del cancro invasivo del collo dell'utero, come tutte le
tecniche di screening presenta dei limiti intrinseci alla metodica. In particolare la sensibilità del Pap-test
viene valutata in circa 60-70%. Questo significa che sono possibili falsi negativi, cioè test negativi nonostante
162
la presenza di un tumore, ma anche falsi positivi, cioè casi in cui il risultato positivo del test non viene
confermato da successive indagini. Nel prossimo futuro, il ruolo del pap test nella prevenzione dei tumori del
collo uterino è sicuramente destinato a cambiare. La scoperta che la maggior parte dei tumori del collo
uterino sono dovuti al virus del papilloma umano (HPV) ha portato allo sviluppo di tecniche diagnostiche
biomolecolari caratterizzate da una sensibilità elevata (superiore al 95%) che ne ha fatto prospettare
l'utilizzazione come metodica di screening. Ancora discusso è tuttavia il problema della relativa specificità
delle tecniche biomolecolari di tipizzazione dell'HPV.
Un’altra importante zona del corpo femminile da esaminare è il seno. L’auto-esame del seno consiste nella
palpazione del seno e nell’individuare eventuali noduli, indizio di cancro al seno. L'autoesame della mammella è
una tecnica diagnostica utilizzata per rivelare la presenza di eventuali tumori della mammella. Questo esame è
consigliato a tutte le donne di età superiore ai 30 anni, sono sufficienti una decina di minuti ogni mese e la sua
corretta esecuzione può essere appresa dal medico o da altra persona esperta. È consigliabile apprendere la
tecnica da una persona già esperta oppure dal proprio medico. Il periodo corretto per l'esecuzione dell'esame
è l'inizio delle mestruazioni.
La mammella è un organo ghiandolare che secerne il latte. Si tratta della struttura caratterizzante l'intera
classe dei mammiferi. La mammella è un organo pari (due nell'uomo) e simmetrico, posto nella regione
anteriore del torace, ai lati della linea mediana, localizzate tra il terzo e il sesto spazio intercostale.
L'organo è costituito in parte da tessuto cutaneo, in parte da strutture ghiandolari: nel complesso queste
componenti costituiscono la ghiandola mammaria. Le mammelle sono strutture che, fino al periodo della
pubertà, sono sviluppate allo stesso modo in entrambi i sessi. Nella pubertà lo sviluppo della mammella
maschile si interrompe. La struttura femminile, invece, subisce un notevole sviluppo. La dimensione e la forma
dell'organo femminile è molto variabile. Ciò è principalmente dovuto alla quantità di tessuto adiposo presente
ed alla sua localizzazione. Con il termine seno ci si riferisce allo spazio compreso tra le mammelle. Nel
linguaggio comune, questo termine viene spesso usato in riferimento all'organo stesso. Va però precisato che
tale termine, in riferimento alla mammella femminile, risulta essere errato, poiché il termine indica una
concavità. La mammella femminile può essere idealmente suddivisa in quattro quadranti, costituiti da due linee
perpendicolari che si intersecano presso il capezzolo. Più nel dettaglio, il tessuto mammellare è composto da:
-
una componente ghiandolare, (15-20 lobi, ognuno dei quali ha uno sbocco verso il capezzolo
attraverso un dotto galattoforo);
-
una componente di tessuto adiposo, in cui sono concretamente inserite ed immerse le strutture
ghiandolari;
-
una componente fibrosa di sostegno, che genera suddivisioni tra le diverse appendici ghiandolari.
Presso l'apice della mammella, si trova una sporgenza esterna di forma conica nota come capezzolo. Nella
regione apicale, il capezzolo presenta strutture note come pori lattiferi, 15-20 forellini che costituiscono lo
163
sbocco dei dotti galattofori. Esso è circondato dall'areola, una regione circolare pigmentata avente diametro
di 3-5 cm. L'areola è costituita da piccole sporgenze, generate dalla presenza sottostante di ghiandole
sebacee. Sia il capezzolo che l'areola sono dotati di fibre muscolari lisce che ne permettono la contrazione.
La contrazione genera l'erezione del capezzolo ed il corrugamento dell'areola. Ciò permette, nel periodo
dell'allattamento, un agevole deflusso del latte. Il latte è il nutrimento che, in seguito al parto, la madre
fornisce al neonato. Il secreto della ghiandola mammaria è, inizialmente, una sostanza amarognola
particolarmente ricca di proteine, detta colostro. Successivamente ha inizio la secrezione di latte vero e
proprio. La mammella subisce notevoli modificazioni durante la gravidanza. L'areola, infatti, assume una
colorazione più scura ed aumenta di diametro. Ciò è legato essenzialmente all'azione degli ormoni gonadotropi
e, successivamente, dalla prolattina. La consistenza, poi, aumenta notevolmente in seguito al parto, durante il
periodo dell'allattamento. Le mammelle divengono più turgide durante il periodo mestruale e, in maniera più o
meno evidente, in seguito all'eccitazione della donna. L'invecchiamento porta invece ad un progressivo calo di
volume della mammella. La mammella maschile è decisamente meno sviluppato di quello femminile. Nel maschio
la mammella è costituita da un piccolo rilievo, con una piccola areola ed un piccolo capezzolo (Silloide). La
struttura ghiandolare sottostante, è composta da un numero ridotto di strutture alveolari prive di lume.
Esistono dotti lattiferi, ma sono brevi e privi di vere e proprie ramificazioni. Durante l'adolescenza, in ogni
caso, può esserci un aumento anche delle dimensioni della mammella maschile (ginecomastia puberale). Tale
aumento, in realtà, è seguito solitamente da una regressione in un tempo breve (uno-due anni).
L’ovocellula e lo spermatozoo si fondono per formare lo zigote. Lo stadio successivo è quello di morula, segue
poi la blastula, la formazione dell’area embrionale, la gastrula. Dalla gastrula avranno origine tre popolazioni
cellulari differenti che costituiranno l’ectoderma, il mesoderma e l’entoderma. Da queste tre strutture
avranno infine origine le 646 popolazioni cellulari differenti di un individuo completo. Nello stadio di blastula,
iniziano a differenziarsi due popolazioni cellulari: una formante l’involucro e l’altra l’area embrionale, da cui
avrà origine l’embrione vero e proprio. Se si formassero due aree embrionali si avrebbe la formazione di due
embrioni distinti, ovvero di due gemelli omozigotici. L’involucro nel quale si sviluppa l’area embrionale viene
detto trofoblasta. Tra l’area embrionale e il trofoblasta è presente una terza popolazione cellulare, formante
il citotrofoblasta. Quando avviene l’impianto tali strutture secernono la gonadotropina corionica, o HCG, un
ormone in grado di stimolare il copro luteo a continuare nella produzione di progesterone. In assenza del HCG
il corpo luteo va in involuzione trasformandosi in corpus albicans. I test di gravidanza si basano proprio sulla
presenza o meno di HCG. Le cellule del trofoblasta al di sotto dell’area embrionale, una volta avvenuto
l’impianto, si uniscono formando il sinciziotrofoblasta. Tale struttura si inserirà sempre più profondamente
nella parete uterina, fino a raggiungere la circolazione materna, assicurando così all’area embrionale un
corretto afflusso di nutrienti. Il periodo temporale in cui avviene l’impianto è definito window of implantation.
Lo zigote espone antigeni materni e paterni, quindi per metà è non-self, e il sistema immunitario materno
tenderebbe a distruggerlo. Durante la fase dell’impianto il sistema immunitario della madre è represso,
164
ovvero non si attiva innescando una risposta immunitaria e causando l’aborto. I linfociti TH1 e TH2 sono i
responsabili dell’attivazione dei macrofagi tissutali. Al momento dell’impianto, il TH2 (CD30+) produce
interleuchina 10 (IL 10), che inattiva il TH1 (CD30-), che a sua volta non attiva i macrofagi. L’IL 10 è prodotta
anche dalle cellule del sincizio trofoblasto. Le cellule del sincizio devono essere anche in grado di resistere
agli attacchi dei linfociti NK, che potrebbero indurre la necrosi di tale struttura. Le cellule del sincizio
inattivano l’NK producendo delle proteine (Ib, HLA-G, HLA-E) che si uniscono ai killer inhibitory receptors
(KIR), inibendo l’azione dell’NK. Il TH1 produce INT-γ che inibisce l’azione attivante del TH2. Anche le cellule
dell’utero prossime alla sede di impianto producono alcuni fattori che inibiscono la risposta immunitaria. Tali
fattori sono i LIF o leukenia inhibitory factors. Tali proteine (LIF-D, LIF-M, LIF-T) si legano ad una
particolare proteina presente sulla membrana plasmatica del sinciziotrofoblasta, la gp130, e ne impediscono la
distruzione da parte del sistema immunitario. Le interleuchine costituiscono la base del dialogo embrionemadre. Infatti l’IL-6 favorisce il pre-impianto, l’IL-11 stimola l’endotelio materno e l’IL-1 gioca un ruolo
centrale nell’annidamento. Ma vi sono ancora tutta una serie di altre proteine, come:
-
CSF o colony stimulating factor;
-
TGF family, TGF-β1, -β2, -β3 e –β4, Mϋllerian inhibitory factor, inhibine, activine;
-
EDF family, EGF, TGF-α, HB-EGF, amfiregulina;
-
Glicodelina.
L’adesione del sinciziotrofoblasta alle cellule limitrofe avviene grazie alla presenza di molecole di adesione
cellula-matrice extracellulare, le integrine, una famiglia di proteine caratterizzata dalla unione di due catene
polipeptidiche, dette l’una α l’altra β.
165
33-La Gastrula
Da una singola cellula prenderanno origine tutte le varie popolazioni cellulari che formano un organismo
completo. Le varie cellule dell’area embrionale si andranno man mano a differenziarsi e, attraverso opportune
migrazioni, si sposteranno da una zona all’altra. Tali cellule devono in primo luogo sapere dove andare
(informazione posizionale) e poi cosa fare (informazione differenziativa). Già nelle prime fasi della
segmentazione si attivano dei particolari geni, circa 40, definiti geni architetti. Sono questi i geni che
disegneranno i singoli piani del corpo e che regolano la posizione di formazione dei vari organi nello spazio.
Il sacco nel quale è racchiusa l’area embrionale forma una cavità detta blastocele. Le cellule dell’area
embrionale si differenziano immediatamente in ectoderma ed entoderma. L’entoderma, in seguito ad
estroflessioni, formerà il sacco vitellino, mentre le cellule dell’ectoderma formeranno l’amnios, che genera la
cavità amniotica.
Il sacco vitellino è il primo elemento visibile nel sacco gestazionale durante la gravidanza, di solito intorno alle
5 settimane di gestazione. Lo si vede abbastanza chiaro agli ultrasuoni, ed è riconoscibile fin dall'inizio in
modo affidabile. Il sacco vitellino è situato sulla parte ventrale dell'embrione; è rivestito dall'endoderma,
fuori dal quale si trova uno strato di mesoderma. É riempito di fluido, il fluido vitellino, che può anche essere
utilizzato per il nutrimento dell'embrione durante i primi stadi della sua esistenza. Il sangue è trasportato
verso la parete del sacco dall'aorta primitiva, e dopo aver circolato attraverso l'abbozzo del sistema
circolatorio, è riportato dalle vene vitelline al tubo cardiaco dell'embrione. Questo circolo costituisce la
circolazione vitellina, e attraverso di esso le sostanze nutritizie sono assorbite dal sacco vitellino e
convogliate all'embrione. Alla fine della quarta settimana il sacco vitellino presenta l'aspetto di una vescicola
a forma di pera (vescicola ombelicale) aperta nel tubo digestivo con un tubo lungo e stretto, il dotto vitellino.
Dopo la nascita la vescicola appare come un piccolo annesso, qualcosa di forma ovaloide il cui diametro varia da
1 a 5 mm; è situato tra l'amnios e il corion e può trovarsi sulla placenta o essere ad una distanza variabile da
essa. Solitamente il dotto subisce una completa obliterazione durante la settima settimana, ma circa nel 3%
dei casi, la sua parte prossimale persiste come un diverticolo del piccolo intestino, il diverticolo di Meckel,
situato circa trenta centimetri al di sopra della valvola ileocecale, e può connettersi con una corda fibrosa alla
parete addominale e all'ombelico. A volte un restringimento del lume dell'ileo è visibile dalla parte opposta al
sito di attacco del dotto. Il sacco vitellino inizia a formarsi durante la seconda settimana dello sviluppo
embrionale, contestualmente alla costituzione della vescicola amniotica. L'ipoblasto inizia a proliferare
lateralmente ed inizia poi a scendere verso il basso. Nel frattempo la membrana di Heuser, posta sul polo
opposto della vescicola in formazione inizia la sua proliferazione verso l'alto e si incontra con l'ipoblasto.
Quest'ultimo continua però per un certo tratto la sua discesa. Si è così costituito il sacco vitellino. Il sacco
vitellino primario è la vescicola costituitasi nella seconda settimana, il suo pavimento è costituito dalla
membrana di Heuser e la sua volta dall'ipoblasto. La prima trasformazione del sacco vitellino primario in
166
secondario è determinata dalla delaminazione del magma reticolato che riveste esternamente il sacco; questo
evento porta ad una strozzatura nella sua parte terminale, nella zona di connessione tra ipoblasto e membrana
esocelomica di Heuser. Le due parti si distaccano e quella inferiore, di dimensioni minori, costituisce una cisti
che verrà presto riassorbita. La parte superiore è adesso rivestita solo dall'ipoblasto. Il sacco vitellino
definitivo appare durante la quarta settimana di sviluppo, quando avviene la determinazione delle superfici
embrionali, il sacco vitellino subisce esternamente la pressione della piega cefalica, della piega caudale e delle
pieghe laterali. Una piccola porzione del sacco, nella parte superiore, viene a costituire il tubo intestinale. La
parte immediatamente inferiore, invece, forma il mesentere ventrale. La parte più distale costituisce una
piccola vescicola, che è ciò che resta del sacco vitellino.
L'amnios è un annesso embrionale che forma una sacca membranosa che circonda e protegge l'embrione.
Nell'embrione umano gli stadi più precoci della formazione dell'amnios non sono stati osservati; nel più
giovane embrione studiato l'amnios era già presente in forma di una sacca chiusa apparendo nella massa
cellulare interna come una cavità. Questa cavità presenta in alto un singolo strato di cellule ectodermali
appiattite, l'ectoderma amniotico, mentre il pavimento è costituito dall'ectoderma prismatico del disco
embrionale. Esternamente all'ectoderma amniotico vi è uno strato sottile di mesoderma, in continuità con
quello appartenente alla somatopleura ed è direttamente connesso con linea mesodermica del corion. La sua
formazione è imputabile principalmente alla secrezione attiva da parte della membrana amniotica, alle vie
urinarie del feto ed a quelle respiratorie, oltre che ad altri organi fetali. Poiché l'amnios è continuamente
ricambiato, il suo riassorbimento avviene per mezzo degli apparati respiratori del feto, per deglutizione o per
intermediazione della membrana amniotica stessa. Appena formatosi, l'amnios è in contatto con il corpo
dell'embrione ma, dopo circa quattro-cinque settimane ha inizio l'accumulo del liquido amniotico che
aumentando in volume provoca l'espansione dell'amnios sino a farlo aderire alla superficie interna del corion.
La rottura dell'amnios normalmente avviene a termine di gravidanza, ma può succedere che avvenga
anticipatamente, portando complicanze per la madre (rischio di infezioni e distacco della placenta) e per il
nascituro (oligoidramnios, prematurità, infezioni, sofferenza fetale). La quantità di liquido amniotico aumenta
fino al sesto-settimo mese di gravidanza, prima di diminuire lievemente; alla fine della gravidanza la quantità
di liquido sarà pari a circa 800 ml. La presenza del liquido consente libertà di movimento al feto durante gli
ultimi stadi della gravidanza, riducendo nel contempo il rischio di danni e traumi: esso ha quindi una funzione
sia meccanica, come visto, ma ha altresì una funzione immunologica e biochimica. Nel liquido amniotico vi è
anche una parte solida (circa 1%), costituita di urea, sali inorganici, una piccola quantità di proteine , tracce di
zuccheri e ormoni, oltre ad un accumulo di cellule esfoliate derivate dall'epitelio del feto e dalle sue mucose.
Normalmente l’impianto avviene nella zona compresa tra due ghiandole endometriali. Il sinciziotrofoblasta,
attraverso un’intensa attività litica, distrugge le cellule dell’endometrio sottostante e raggiunge la
circolazione sanguigna materna. Nel frattempo l’area di impianto dello zigote scompare poiché questi si
infiltra sempre più nell’endometrio materno, ed è proprio qui che si svilupperà e crescerà. A partire dal 7°
167
giorno il sinciziotrofoblasta cerca di raggiungere la circolazione materna, e forma delle strutture sinusoidali
che verranno poi riempite dal sangue. Intorno al 21° giorno si saranno già formati i villi, strutture addette al
mantenimento della comunicazione tra circolazione materna e circolazione fetale, evitando però la
commistione delle due circolazioni.
Dall’ectoderma avrà origine il mesoderma. I tre foglietti embrionali, ectoderma, entoderma e mesoderma
daranno origine a tutti i vari citotipi del corpo umano. Dall’ectoderma avranno origine la pelle e il sistema
nervoso, sia centrale che periferico. Dal mesoderma avranno origine le ossa e i muscoli, mentre dall’entoderma
tutti gli organi che si trovano nelle cavità. Già nei primissimi tempi, si differenziano le cellule germinative
primordiali che poi migrando formeranno le gonadi. In tali cellule si attivano i cosiddetti geni egoisti, cioè geni
che utilizzano le cellule come mezzo per assicurarsi la propria sopravvivenza, ed è inoltre da notare come il
singolo organismo, ancora incompleto, già si preoccupi di assicurarsi una futura discendenza con la
differenziazione di tali cellule.
Da una singola cellula avranno origine tutte le varie cellule di un individuo completo, che svolgono funzioni
differenti. Tale processo di perdita e di acquisizione di particolari caratteristiche sia morfologiche che
funzionali prende il nome di differenziamento. Secondo Weiss, in una cellula STEM avviene un primo
differenziamento a livello di espressione genica e quindi detto invisibile. Al differenziamento invisibile segue
il citodifferenziamento, cioè un differenziamento a livello morfologico. L’ultimo stadio è quello
dell’istodifferenziazione, cioè cellule simili si uniscono tra di loro formando un particolare tipo di tessuto e
svolgendo una particolare funzione. Tutto ciò avviene su un campo morfogenetico che contiene dei segnali che
indicano alle varie cellule cosa fare e dove andare. Tali segnali influenzano l’espressione di particolari geni,
attivandoli, disattivandoli oppure modulando la loro espressione.
Hans Spemann fu uno dei primi ad occuparsi del problema del differenziamento. Studiando l’embrione
dell’anfiosso notò che un particolare tipo di cellule, presenti sul labbro dorsale dell’embrione, induceva altre
cellule a differenziarsi come cellule nervose, dando origine al sistema nervoso centrale. Spemann rimosse tali
cellule e le impiantò su un altro embrione di anfiosso. Come era immaginabile, l’anfiosso da cui erano state
prelevate le cellule del labbro dorsale non sviluppava il sistema nervoso centrale, mentre sull’embrione sul
quale si erano impiantate le altre cellule si erano sviluppati due sistemi nervosi centrali. Per tali studi
Spemann vinse il premio Nobel. Tale scoperta diede origine ad una vera e propria scuola di pensiero, secondo
la quale:
-
Esistono molecole induttrici che regolano lo sviluppo;
-
Queste molecole possono regolare il differenziamento;
-
È possibile cambiare il destino di una cellula.
Un altro esperimento a supporto di tale pensiero è il trapianto di cellule embrionali dei bronchi di topo sulla
trachea. Infatti dalla trachea, normalmente, non si dipartono rami bronchiali, ma a seguito del trapianto, si
168
nota da subito la formazione di rami bronchiali, quindi tali cellule contengono dei fattori che inducono la
mitosi e lo spostamento. Tali fattori vengono definiti fattori di crescita e ne sono stati individuati alcuni,
come il GCS factor per la crescita dei neutrofili, l’FGF dei fibroblasti, EGF dell’epitelio, l’NGF dei neuroni, il
PDGF delle piastrine e il BMP dell’osso.
Il termine fattore di crescita (spesso usato nella forma inglese growth factor o col termine generico di
ormone della crescita) si riferisce a proteine capaci di stimolare la proliferazione e il differenziamento
cellulare. Sono tipiche molecole segnale usate per la comunicazione tra le cellule di un organismo. La funzione
principale dei fattori di crescita è il controllo esterno del ciclo cellulare, mediante l'abbandono della
quiescenza cellulare (fase G0) e la entrata della cellula in fase G1 (di crescita). Ma questa non è la loro unica
funzione infatti regolano l'entrata in mitosi, la sopravvivenza cellulare, la migrazione e il differenziamento
cellulari. Insieme alla proliferazione essi promuovono sempre contemporaneamente il differenziamento e la
maturazione (infatti una proliferazione senza differenziamento significa l'insorgenza d'un tumore). I singoli
fattori
di crescita
tendono
a
raggrupparsi
in
larghe
famiglie di
proteine strutturalmente
ed
evoluzionisticamente simili. Sono famose, ad esempio, le famiglie del TGF-beta (fattore di crescita
trasformante), BMP (proteina morfogenetica dell'osso), neurotrofine (NGF, BDNF e NT3), FGF (fattore di
crescita dei fibroblasti), e così via. Altri fattori di crescita abbastanza conosciuti sono:
-
Granulocyte-colony stimulating factor (G-CSF);
-
Granulocyte-macrophage colony stimulating factor (GM-CSF);
-
Nerve growth factor (NGF);
-
Neurotrofine;
-
Platelet-derived growth factor (PDGF): Localizzato nelle piastrine e rilasciato dai granuli-α delle
stesse sotto diversi stimoli. È prodotto anche dai macrofagi. Inoltre, interviene nella
stabilizzazione dei vasi sanguigni neoformati, reclutando fibre muscolari lisce;
-
Eritropoietina (EPO);
-
Trombopoietina (TPO);
-
Miostatina (GDF-8);
-
Growth Differentiation factor-9 (GDF9);
-
basic fibroblast growth factor (bFGF or FGF2);
-
Epidermal growth factor (EGF): Fattore di crescita dell'epidermide, è induttore della mitosi e lo
si può ritrovare in differenti liquidi biologici. Si lega al recettore EGFR solitamente noto anche
come ERB-B1;
-
Hepatocyte growth factor (HGF);
-
Vascular Endotelium Growt Factor (VEGF): Fattore di crescita dell'endotelio vascolare, è
implicato in processi come infiammazione, angiogenesi, cellule ischemiche. Ne esistono differenti
tipi come: VEGF A, B, C, D, E i quali si legano a recettori come VEGFR 1, 2, 3 i quali hanno
169
localizzazioni differenti e legano differenti VEGF. Il VEGF, induce aumento della permeabilità dei
capillari sanguigni, comportando la formazione di edema;
-
TGF-α: Fattore di crescita trasformante-α implicato in quasi tutti i tumori. Si lega allo stesso
recettore dell'EGF ed esercita gli stessi effetti;
-
TGF-β: Fattore di crescita trasformante-β, è prodotto da piastrine, macrofagi, linfociti. È
sintetizzato in due forme, una latente ed una attiva. La forma attiva, si lega prima al recettore 2
formando un complesso stabile primario, il quale si lega al recettore 1, formando il complesso
stabile secondario, il quale comporta la fosforilazione dei fattori di trascrizione SMAD tra i quali:
SMAD 2 e 3, che poi si legano al fattore di trascrizione SMAD 4. Ne risulta un eterodimero che è
capace di entrare all'interno del nucleo e favorire o inibire l'attivazione genica. Il TGF-β,
determina l'aumento di concentrazione di fattori inibenti le CDK, comportando il blocco del ciclo
cellulare. Inoltre, interviene nella stabilizzazione dei vasi sanguigni neoformati, reclutando
proteine matricellari.
Secondo Wolpert, nel processo di differenziazione, oltre ad un controllo genetico, esiste anche un controllo
epigenetico, rappresentato dalla posizione informazionale, cioè le cellule sono in grado di attivare o
disattivare geni rilevando la loro posizione nello spazio. Una cellula indifferenziata va incontro prima ad una
serie di processi mitotici, poi decide di migrare. Durante tale fase è probabile che alcune cellule siano inutili
al fine di un corretto sviluppo e vanno in apoptosi. Raggiunto il loro obbiettivo finale le cellule si differenziano
definitivamente e iniziano a svolgere la propria funzione. I fattori che possono innescare la migrazione sono
molteplici come l’ECM, molecole diffusibili, gap-junction o il contatto diretto. Inoltre anche particolari forze,
come forze di stiramento e pressione possono indurre la migrazione. Le cellule riescono a muoversi nello
spazio grazie ad una particolare struttura citoscheletrica, il lamellopodio. Il lamellopodio è formato da una
superficie di ancoraggio, da un uropodio che funge da propulsore e da citoscheletro che è il motore dell’intero
sistema. quando una cellule sta per spostarsi, dalla sua membrana plasmatica si dipartono dei pseudopodi
trattori, che formano delle placche di ancoraggio. Tali pseudopodi, per ottimizzare la loro funzione,
secernono una particolare sostanza che li fa aderire perfettamente alla matrice. Quando poi deve avvenire il
disancoraggio, viene secreto un particolare solvente che permette ai pseudopodi di staccarsi. Le cellule in
migrazione seguono una traiettoria, segnalata da particolari sostanze chimiche sparse sulla matrice, i
morfogeni. Soltanto quelle cellule in grado di captare quel particolare tipo di morfogeno seguirà quella
traiettoria. Per evitare che le cellule che seguono possano perdere la traccia chimica, le prime cellule che
hanno captato i morfogeni rilasciano una traccia di sub-morfogeni. Quando poi tali sub-morfogeni non vengono
più prodotti la migrazione si arresta. Generalmente le cellule migrano sempre in gruppo, ed in tale gruppo
singole cellule svolgono dei ruoli diversi:
-
Le cellule analizzatrici analizzano la presenza di morfogeni e producono sub-morfogeni per le
cellule che seguono;
170
-
Le cellule marginatrici evitano che eventuali cellule possano scappare dalla mandria, evitando così
impianti ectopici;
-
Le cellule cancellatrici sono quelle cellule che rimuovono i sub-morfogeni, arrestando così la
migrazione di cellule successive.
I morfogeni sono quindi dei binari molecolari, che indicano alle cellule dove andare.
Quando una cellule perde il proprio stadio di differenzazione diventa una cellula tumorale ed è in grado di
moltiplicarsi e di generare metastasi. Una cellule normale, a seguito di un cambiamento genetico, perde il
proprio stadio differenziativo e inizia a moltiplicarsi, invadendo le aree limitrofe. La crescita della massa
tumorale implica anche una nuova angiogenesi, e se una cellule tumorale riesce ad entrare nel torrente
circolatorio potrà formare metastasi in altre aree del corpo. Generalmente quando una cellula subisce gravi
danni al proprio materiale genetico e inizia a perdere il proprio stadio differenziativo va incontro al processo
di anoikis, cioè l’apoptosi risultante dalla perdita delle interazioni cellula-matrice. L’anoikis è quindi una
barriera fisiologica alle metastasi. Quando una cellula tumorale resiste a tale processo apoptotico è probabile
che possa generare un cancro e poi metastasi. Alcuni studi hanno messo in evidenza il ruolo del recettore
neurotrofico TrkB nella soppressione dell’anoikis e nell’induzione di metastasi. TrkB è un recettore tirosina
chinasi ed è un potente e specifico soppressore delle caspasi associate ad anoikis di cellule epiteliali non
maligne. Alcuni studi hanno rilevato il potente effetto oncogenico di TrkB e la sua funzione volta a favorire la
sopravvivenza cellulare. Ciò potrebbe contribuire ad aumentare la capacità di insorgenza di metastasi,
suggerendo che una sovraespressione di TrkB può aumentare la natura aggressiva dei tumori umani. Un altro
fattore responsabile del controllo della crescita è il BDNF, ovvero il brain derived nerve factor. Tale fattore
appartiene alla famiglia delle neurotrofine, come l’NGF (nerve growth factor), NT-3 (neurotrofina-3), NT4/5 (neurotrofina 4/5), NT-6 (neurotrofina-6). BDNF è uno dei più importanti fattori endogeni per il
controllo della sopravvivenza, della crescita e della differenziazione di certe popolazioni di neuroni sia nel
sistema nervoso centrale che in quello periferico. Il recettore per BDGF è una proteina di circa 135 kDa,
associato con una proteina ad attività tirosina chinasi. L’attività di chemiotassi è completamente bloccata
dalla protamina sulfata, un inibitore del recettore del BDGF.
Il feocromocitoma è un tumore raro della midollare del surrene. Il feocromocitoma è un raro tumore che
secerne catecolamine, derivante dalle cellule cromaffini, sito più spesso a livello dei surreni. Dato il ruolo
delle catecolamine nella tonicità dei vasi, il feocromocitoma può precipitare l'ipertensione arteriosa e le
aritmie cardiache. La clinica quindi si avvale di segni come l'ipertensione, le palpitazioni, la diaforesi
(sudorazione eccessiva). La diagnosi si sospetta clinicamente e laboratoristicamente, ma la conferma avviene
con l'imaging TC.
L'80% dei pazienti con feocromocitoma benigno risponde adeguatamente al trattamento chirurgico. Laddove
non è possibile un intervento chirurgico, si trattano le crisi ipertensive con nitroglicerina e derivati. In caso
171
di feocromocitoma maligno con metastasi MIBG responsive, il trattamento si avvale del MIBG (25% di
successo). Se le cellule tumorali del feocromocitoma vengono trattate con NGF si assiste non solo ad una
diminuzione del ritmo di crescita, ma anche al differenziamento di tali cellule in cellule nervose. Quando la
somministrazione di NGF termina, le cellule regrediscono a tumorali e la crescita riprende. Tali studi
dimostrano che con particolari sostanze è possibile cambiare il destino di una cellula.
172
34-I Tre Foglietti
Le cellule dell’area embrionale immediatamente si differenziano in due popolazioni:
-
Quelle che formeranno l’ectoderma;
-
Quelle che formeranno l’entoderma.
Tali cellule si dispongono formando due foglietti con una faccia sovrapposta all’altra. I due foglietti si
ripiegano formando due cavità: l’entoderma ripiegandosi forma il sacco vitellino e l’ectoderma la cavità
amniotica, circondata dall’amnios. Sulla superficie di contatto delle cavità, precisamente dal lato
dell’ectoderma, si forma un agglomerato di cellule detto nodo di Hansen. Tale nodo inizia a spostarsi da un
polo all’altro, e durante la migrazione lascia dietro di se un solco o linea primitiva. In tale solco precipitano
alcune cellule dell’ectoderma, che si spostano dal centro verso i margini. In questo modo si ha la formazione di
un altro foglietto, il mesoderma. Quindi il mesoderma ha origine ectodermale. Dai tre foglietti, ectoderma,
mesoderma ed entoderma, avranno origine rispettivamente la pelle e il sistema nervoso, le ossa e i muscoli, gli
organi presenti nelle cavità.
Un gruppo di cellule del mesoderma si organizza a formare una corda, che prende il nome di notocorda. La
notocorda è una struttura flessibile a forma di tubo che si riscontra in tutti gli embrioni dei cordati. La
notocorda è disposta sotto la superficie ventrale del tubo neurale. La notogenesi è la formazione della
notocorda a partire dalle cellule dell'epiblasto che costituiscono il pavimento dell'amnios. Nell'uomo (ma i
passaggi sono gli stessi degli altri vertebrati) al 16° giorno di sviluppo, subito dopo che cellule invaginate
dell'epiblasto hanno invaso l'ipoblasto formando l'endoderma embrionale, inizia un secondo processo di
invaginazione che porta uno strato di cellule ad interporsi tra l'epiblasto, che finiti i processi di gastrulazione
viene detto ectoderma embrionale, e l'endoderma. Alcune di queste cellule che si invaginano dal nodo di
Hansen migrano verso la membrana faringea in linea retta formando un cordone chiamato processo cefalico o
processo notocordale. Questo cordone inizierà a cavitarsi. Circa al 17° giorno la fossetta primitiva si prolunga
all'interno del processo cefalico trasformandolo in un tubo e formando il cosiddetto canale cordale. Circa al
18° giorno il pavimento del processo cefalico si fonde con l'endoderma sottostante e si lacera mettendo in
comunicazione amnios e sacco vitellino. In questo stadio il canale cordale (aperto) prende il nome di canale
neurenterico e il processo cefalico è detto placca cordale. Al 19° giorno, circa, la placca cordale si richiude
(arrotola) su se stessa formando un cordone pieno, che è detta notocorda o corda dorsale. Tale corda va dalla
membrana faringea anteriormente fin quasi alla membrana cloacale posteriormente, come un'asse
longitudinale per l'embrione. Nei vertebrati superiori si estende per tutta la lunghezza della futura colonna
vertebrale e raggiunge anteriormente il mesencefalo, dove finisce come un uncino nella regione della futura
sella turcica dello sfenoide. Vestigia dalla notocorda si trovano nel nucleo polposo dei dischi intervertebrali,
ma non nei corpi delle vertebre da cui le cellule notocordali spariscono interamente. Nell'uomo, a 4 anni di
173
vita, tutti i residui di notocorda sono sostituiti da una popolazione cellulare simile ai condrociti di origine
incerta. È stato dimostrato che la regione anteriore della notocorda è in grado di indurre, nel sovrastante
tubo neurale, le strutture del cervello, mentre la regione posteriore induce le strutture del midollo spinale.
Se infatti si trapianta un pezzetto di notocorda cefalica in posizione caudale, si induce la formazione del
cervello là dove dovrebbe esserci il midollo spinale. Il trapianto inverso ha avuto l'effetto opposto. La
notocorda produce una proteina, la Sonic hedgehog (Shh), che è una chiave della regolazione dei processi di
morfogenesi e organogenesi, inducendone precisi sviluppi in posizioni specifiche. È il gradiente di questa
proteina (insieme ad altri agenti) che stabilisce la distribuzione spaziale delle strutture dell'embrione e dei
futuri organi.
La notocorda induce il foglietto ectodermico sovrastante ad invaginarsi. Dall’invaginazione nasce il tubo
neurale, che diventerà il futuro midollo spinale. Il mesoderma ai lati della notocorda e del tubo neurale prende
il nome di mesoderma parassiale. Il mesoderma parassiale, lungo tutta la lunghezza dell’embrione, si suddivide
in somiti. Dai somiti avranno origine le ossa e i muscoli, nonché il derma, di quella determinata regione del
corpo. Dal mesoderma parassiale deriva anche la microglia. Nei primissimi stadi di vita dell’embrione la sua età
si esprime in somiti.
I meccanismi molecolari che controllano tali processi sono ancora abbastanza oscuri. Tuttavia, alcuni studi
hanno sottolineato l’importanza, nei vertebrati, del gene Wnt3a, che ha un importante ruolo nel controllare il
corretto svolgimento delle fasi di segmentazione del mesoderma e di somitogenesi. Inoltre il periodo di
segmentazione è controllato da periodiche oscillazioni di Notch, ma tali oscillazioni richiedono sempre la
presenza di Wnt3a. Lo start alla segmentazione è stabilito da Wnt/β-catenina, segnalata tramite un
meccanismo di feedback negativo.
Ogni somita del mesoderma parassiale è suddiviso, andando dall’alto verso il basso, in:
-
Dermatomo, zona le cui cellule formeranno il derma di tale regione del corpo;
-
Miotomo, zona le cui cellule formeranno i muscoli di tale regione del corpo;
-
Sclerotomo, zona le cui cellule formeranno le ossa di quella regione.
Saranno i somiti a generare gli arti a partire da primi abbozzi per poi estendersi man mano. Un rallentamento
in tale processo può comportare la parziale o totale assenza di arti. Alcune malattie contratte dalla madre
durante tale delicatissima fase o alcuni farmaci assunti (talidomite) possono provocare, come effetti
collaterali, la paralisi del processo di somitogenesi con il riscontro di gravi anomalie ossee e muscolari degli
arti.
Nella formazione della colonna vertebrale, la notocorda gioca un ruolo molto importante, infatti tale
struttura:
-
Induce e mantiene attiva la proliferazione dello sclerotomo;
174
-
Promuove la condrogenesi;
-
Ha un ruolo centrale nella segmentazione della colonna vertebrale.
Il meccanismo che differenzia le cellule del somita in sclerotomo, dermatomo e miotomo è regolato dalla
presenza o meno di determinati GAGs nella matrice extracellulare limitrofa. Alcuni studi hanno rilevato che
già nei primissimi stadi la matrice extracellulare del somita è ricca di: fibronectina, laminina, acido ialuronico.
Il condritin-solfato compare soltanto negli stadi successivi. Tali studi hanno quindi sottolineato il ruolo
primario delle componenti della matrice extracellulare durante tale fase. Ma, la maggior parte dei segnali che
inducono la somitogenesi e le relative dinamiche di differenziamento restano un mistero. Numerose
interazioni, soprattutto nella prima parte della somitogenesi, sono mediate dai componenti della famiglia di
segnali Notch, che svolge ruoli multipli durante tali fasi. Alcune molecole che inducono la creazione di segnali
differenziativi sono conosciute e un numero sempre crescente di geni sono implicati nelle varie tappe della
somitogenesi. Il ruolo preciso di questi geni deve ancora essere studiato ed analizzato. I filamenti della
matrice extracellulare hanno un ruolo morfogenetico, caratterizzato nella creazione di un trasporto
direzionale. Le particelle di fibrillina-2, inizialmente depositate nel mesoderma, sono traslocate lungo una
precisa traiettoria dove, eventualmente, polimerizzano in una intricata rete parallela alla sezione anteroposteriore della colonna. Inoltre forze fisiche o stress sono requisiti essenziali per il corretto sviluppo.
L’espressione di Bapx1 nello sclerotomo richiede la presenza di Pax1 e Pax9. La presenza della coppia Pax è
essenziale per la formazione della colonna vertebrale. La coppia Pax sembra influenzare la regolazione della
trascrizione del gene Bapx1, quindi la coppia Pax è necessaria e sufficiente per la differenziazione in
condrociti delle cellule dello sclerotomo.
I somiti vicino al tubo neurale, proliferano fini a raggiungere la notocorda. A questo punto, la metà caudale di
ogni colonna prolifera e raggiunge la porzione sottostante, formando così il corpo vertebrale precartilagineo.
La notocorda presente tra un corpo vertebrale e l’altro formerà il disco intervertebrale mentre la restante
degenera. Dallo sclerotomo avranno quindi origine lo scheletro, il mesenchima (tessuto connettivo, membrane
sinoviali), pachimeninge (dura madre, sclera). Man mano che la gravidanza procede il numero di somiti tende a
ridursi e al momento della nascita la colonna vertebrale presenterà un numero normale di vertebre. Al
momento della nascita la colonna vertebrale non presenta le caratteristiche incurvature presenti nell’adulto,
ma compariranno man mano col passare degli anni.
Dal miotomo avrà origine la muscolatura somatica. Il processo di formazione dei muscoli prende il nome di
miogenesi. Nei primissimi stadi di sviluppo le cellule muscolari vengono dette mioblasti A. Tali cellule iniziano a
compattarsi tra di loro, divenendo mioblasti B. A questo punto inizia la fusione e la loro organizzazione nella
formazione di un miotubo. Successivamente il citoplasma del miotubo avrà la caratteristica organizzazione di
una fibra muscolare o miofibra. Durante lo sviluppo del muscolo un ruolo importante gioca l’interazione con i
nervi. Infatti sono le terminazioni nervose a stabilire la differenziazione finale della fibra muscolare. Il
corpo umano ha circa 160 motori muscolari, composti da fibre muscolari fast e slow. Queste due fibre
175
differiscono soprattutto per il ruolo che rivestono. Quelle di tipo fast, sono fibre di potenza ma di durata
limitata, mentre quelle di tipo slow sono fibre di resistenza a lunga durata. Da un punto di vista microscopico,
se analizzate, le due fibre non presentano notevoli differenze, ma da una ulteriore analisi delle loro
componenti citoscheletriche e del citoplasma ci si rende conto della marcata differenza. Le fibre di tipo slow
possiedono quantità maggiori di mioglobina, al contrario di quelle fast. Le fibre slow hanno un’abbondanza di
mitocondri, privilegiando il metabolismo ossidativo, al contrario delle fibre fast che privilegiano il
metabolismo glicolitico. La differenza è notevole anche nella struttura della singola molecola di troponina
presente nelle fast e nelle slow. Nello stabilire quali fibre diventano fast e quali slow, un ruolo importante
giocano le terminazioni nervose. L’attività fisica regola l’espressione genica quindi sport a resistenza
(maratona) attivano i geni slow, trasformando la fibra muscolare in una fibra slow, mentre sport di tipo fast
(100 metri) attivano i geni fast. L’espressione di geni fast e slow è anche regolata dalle terminazioni nervose.
In alcuni esperimenti di cross innervation (inversione dell’innervazione delle fibre muscolari da fast a slow e
viceversa) si è visto che fibre di tipo fast innervati con terminazioni slow, diventano slow, e viceversa. Quindi
il fenotipo muscolare può essere modificato anche dallo stile di vita adottato dall’individuo. Un aumento del
peso ed una diminuzione dell’attività fisica stimolano la conversione delle fibre verso il tipo glicolitico,
diminuendo la sensibilità all’insulina ed aumentando la pressione arteriosa. Una diminuzione del peso ed un
aumento dell’attività fisica stimolano la conversione delle fibre verso il tipo ossidativo, aumentando la
sensibilità dell’insulina e diminuendo la pressione arteriosa. Tempi prolungati di stress, come corsa o
maratona, possono causare danni muscolari e necrosi delle fibre muscolari. Il tessuto muscolare danneggiato
comporta una reazione immunitaria conosciuta come risposta della fase acuta. Tale fase critica promuove la
pulizia delle fibre muscolari danneggiate e la distruzione delle fibre muscolari sane limitrofe. La fase acuta
comporta l’attivazione delle proteine del complemento, dei neutrofili e dei monociti. La serietà della risposta
acuta è legata al grado di danno subito dal muscolo. L’infiltrazione dei macrofagi nel muscolo danneggiato
inizia tra le 24-48 ore dal trauma. Il ruolo primario dei macrofagi è quello della produzione di citochine, TNFa (tumor necrosis factor-a), IL-6 (interleuchina-6) e IL-1b, innescando così un vero e proprio processo
infiammatorio.
176
35- Ectoderma, Mesoderma, Entoderma
Dal mesoderma intermedio hanno origine il pronefro, il dotto pronefrico, il mesonefro, il dotto mesonefrico e
il metanefro. Tali strutture porteranno alla definitiva formazione dei due reni. Il dotto mesonefrico a sua
volta darà origine alla midollare della gonade, al dotto deferente, al trigono vescicale e all’uretere. Dalla
placca laterale del mesoderma avranno origine la somatopleura e la splacnopleura. La somatopleura forma la
corticale della gonade, con il contributo anche del mesoderma intermedio, la corticale della surrenale e il
dotto paramesonefrico, costituente nella donna la tuba uterina, l’utero e la parte superiore della vagina. Già
nei primissimi giorni le cellule germinative primordiali migrano nel dotto mesonefrico, e a seconda del sesso,
indurranno lo sviluppo delle zone limitrofe o in testicolo o in ovaio.
I reni sono organi escretori dei vertebrati. Insieme alle vie urinarie costituiscono l'apparato urinario, che
filtra dal sangue i prodotti di scarto del metabolismo e li espelle tramite l'urea. Il settore della medicina che
studia i reni e le loro malattie è chiamato nefrologia. Il loro compito principale è quello di assicurare ogni
giorno, per mezzo delle loro unità funzionali, i nefroni, una costante depurazione dei circa 400 litri di sangue
che, circolando, pervengono loro dalle arterie renali, sangue che poi, liberato di materiali di scarto e di liquidi
in eccesso, passa nelle vene renali. I reni non hanno solo il compito, tramite i nefroni, di eliminare i prodotti
finali del catabolismo azotato e i prodotti tossici che vi giungono, nonché di regolare il volume del liquido
extracellulare e quindi il contenuto idrico dell'organismo, e poi di regolare il pH ematico tramite
riassorbimento e produzione di HCO3-. Hanno anche importanti funzioni endocrine, secernendo diversi ormoni
ad azione sistemica (quali renina, eritropoietina, calcitriolo). Negli esseri umani i reni sono situati nella
regione posteriore superiore dell'addome, ai lati della colonna vertebrale, nelle fosse lombari, esternamente
al peritoneo che tappezza la cavità addominale. Nel rene si distinguono una faccia anteriore convessa, una
faccia posteriore pianeggiante, un polo superiore arrotondato, un polo inferiore più appuntito, un margine
laterale convesso e un margine mediale. Quest'ultimo presenta una profonda fessura verticale lunga 3-4 cm,
detta ilo renale, che immette in una cavità scavata all'interno del rene, seno renale, in cui sono accolti i calici
minori e maggiori della pelvi renale, le diramazioni dell'arteria renale, le radici della vena renale, vasi linfatici
e nervi. Le pareti del seno renale sono irregolari per la presenza di sporgenze, le papille renali, corrispondenti
all'apice delle piramidi renali, le cui basi sono rivolte verso la zona più periferica; fra le papille renali esistono
altre sporgenze meno accentuate, le colonne renali. All'esame di una sezione frontale del rene si distinguono
perciò due zone: una profonda, zona midollare, disposta intorno al seno renale, ed una superficiale, zona
corticale, che avvolge la precedente.
I due reni, ciascuno dei quali è avvolto dalla capsula adiposa, sono contenuti in una loggia costituita dallo
sdoppiamento di una fascia connettivale (fascia renale). Fra la capsula adiposa e la superficie del rene si trova
una sottile membrana connettivale che riveste l'organo (capsula fibrosa). Il polo superiore di ciascun rene è
sormontato dalla rispettiva ghiandola surrenale, che si spinge anche sulla faccia anteriore e sul margine
177
mediale. I reni necessitano di un notevole apporto ematico e pertanto presentano una ricca vascolarizzazione.
Per ogni gettata cardiaca, circa il 20% del sangue fluisce attraverso questi organi; da ciò risulta che nei reni
circolano in media 1.100 ml di sangue al minuto. Ciascun rene riceve, direttamente dall'aorta addominale, una
grossa arteria renale del calibro di 5-7 mm. In corrispondenza dell'ilo di ciascun rene l'arteria renale si
divide, generalmente, in due rami, che si trovano davanti e dietro la pelvi renale, e sono chiamati
rispettivamente ramo prepielico e retropielico. Dal ramo prepielico nasce l'arteria polare inferiore, mentre
quella polare superiore origina direttamente dal tronco principale, che penetra nel seno renale. Nel seno
renale questi rami si dividono ulteriormente e penetrano nelle colonne renali con il nome di arterie interlobari
che, dopo essersi biforcate, risalgono fin verso la base delle piramidi renali, dove si ramificano (arterie
arcuate). Dalle arterie arcuate originano le arterie interlobulari e le arterie rette vere. Le arterie
interlobulari si dirigono verso la periferia del rene, dove si risolvono in ramuscoli destinati all'irrorazione
della capsula fibrosa e di quella adiposa. Le arterie interlobulari danno origine (di solito direttamente, ma
talvolta attraverso brevi arteriole intralobulari) ad arteriole collaterali, dette arteriole afferenti, che vanno
a costituire i glomeruli dei corpuscoli renali circostanti. Da questi ultimi emergono le arteriole efferenti, che
in parte si risolvono in una rete capillare ed in parte si portano verso la midollare con il nome di arterie rette
spurie. Le arterie rette vere si distaccano dalla concavità delle arterie arcuate e si portano nelle piramidi
renali formando reti capillari peritubulari. La circolazione venosa ripete abbastanza fedelmente quella
arteriosa. Dall'ilo fuoriesce la vena renale, accanto all'arteria omonima, e sbocca nella vena cava inferiore.
Nel suo complesso il circolo renale sviluppa circa 160 chilometri di lunghezza. I linfatici del rene formano una
ricca rete superficiale ed una perivascolare profonda. Essi confluiscono in collettori che terminano nei
linfonodi pre- e para-aortici. I nervi si dispongono a formare un plesso renale che si distribuisce ai nefroni ed
alle diramazioni dei vasi renali. I reni sono costituiti dal parenchima e dallo stroma. Il parenchima è formato
da un insieme di unità elementari, i nefroni, che hanno la funzione uropoietica, e da un sistema di dotti
escretori, i quali convogliano l'urina verso l'apice delle piramidi renali e provvedono anche a modificarne la
composizione. Lo stroma, di natura connettivale, contiene i vasi sanguigni e linfatici e le terminazioni nervose
del plesso renale. I nefroni sono contenuti prevalentemente nella corticale, mentre lo stroma è più
abbondante nella midollare dei dotti escretori. I corpuscoli renali hanno l'aspetto di corpiccioli sferoidali del
diametro di 150-250 micron. Nei corpuscoli renali si distinguono un polo vascolare ed un polo urinario, disposti
alle estremità opposte. L'arteriola afferente penetra nel corpuscolo a livello del polo vascolare e si risolve
subito in una rete di capillari convoluti (glomerulo) che, al termine del loro percorso, si riuniscono
nell'arteriola efferente, la quale, attraverso il polo vascolare stesso, abbandona il corpuscolo. Questa
struttura, cioè una rete capillare interposta tra due arteriole, prende il nome di rete mirabile arteriosa.
Il tubulo renale ha inizio in corrispondenza del polo urinario. Qui il foglietto esterno della capsula glomerulare
continua con la parete del tubulo renale e lo spazio capsulare continua con il lume del tubulo stesso; in tal
modo l'ultrafiltrato glomerulare, raccoltosi inizialmente nello spazio capsulare, viene convogliato verso il
178
tubulo renale. Il tubulo renale ha la funzione di modificare l'ultrafiltrato glomerulare (urina primaria),
trasformandolo nell'urina definitiva, grazie alle peculiari proprietà assorbenti e secernenti delle cellule
epiteliali che lo delimitano. Il rene è un organo escretore capace di svolgere anche un'importante funzione
regolatrice:
-
il rene regola la concentrazione nei liquidi corporei di Na+, K+, Cl-, HCO3-, PO43-, Ca2+, glucosio,
aminoacidi, acido urico, urea, mediante integrazione tra processi di filtrazione, riassorbimento,
secrezione ed escrezione;
-
il rene partecipa al mantenimento dell'equilibrio acido-base (controllo del pH ematico) agendo sul
riassorbimento dei bicarbonati e sulla secrezione di idrogenioni;
-
il rene partecipa alla regolazione del volume dei liquidi corporei mediante meccanismi che
permettono il recupero e l'eliminazione di acqua con conseguente escrezione di un'urina che, a
seconda delle esigenze dell'equilibrio idrico ed elettrolitico, può essere ipertonica, isotonica o
ipotonica (cioè avente una concentrazione di soluti maggiore, uguale o minore rispetto a quella del
sangue). D'altra parte il rene regola il riassorbimento e la concentrazione extracellulare del
cloruro di sodio, e quindi anche il volume dei liquidi corporei;
-
il rene svolge importanti funzioni endocrine mediante la secrezione di renina, eritropoietina,
prostaglandine e la sintesi, a partire dalla vitamina D, di 1,25-diidrossicolecalciferolo, necessario
per la regolazione ed il trasporto del calcio. La renina svolge un importante ruolo nel controllo
della pressione sanguigna, l'eritropoietina è un ormone indispensabile per la formazione e la
maturazione dei globuli rossi (eritropoiesi), mentre gli effetti fisiologici delle prostaglandine sono
molti e svariati e si esercitano a diversi livelli.
La ghiandola surrenale è suddivisibile in una regione corticale ed in una midollare. Le cellule della midollare del
surrene, analizzate al microscopio, presentano degli ammassi di sali metallici, che prendono il nome di
adrenocromo. La regione corticale è formata da più strati di cellule:
-
una regione glomerulare;
-
una fascicolare;
-
una reticolare.
Tali zone sono riccamente vascolarizzate. Le cellule della regione glomerulare producono aldosterone, quelle
della fascicolare cortisone, mentre quelle della reticolare testosterone.
Una cellule impegnata nei processi di steroidosintesi presenta delle particolari caratteristiche a livello dei
suoi organuli. Innanzitutto si nota la presenza di vescicole sulle creste interne mitocondriali, dovute alla
presenza di un enzima del processo di sintesi degli steroidi. A livello citoplasmatico è presente una gocciola
lipidica, intorno alla quale, concentricamente, si sviluppa un abbondante REL.
179
L’utero si sviluppa simmetricamente e alla fine le due metà si fondono per formare un'unica struttura. La
chiusura imperfetta o la formazione diseguale delle due meta, comporta delle malformazioni, come la
presenza di setti intrauterini oppure utero unicorno, cioè collegato con una sola tuba.
Dalla splancnopleura avranno origine l’epitelio del celoma, anche grazie al contributo della somatopleura.
L’epitelio del celoma formerà il pericardio, le pleure e il peritoneo. Sempre dalla splancnopleura avranno
origine il miocardio, la muscolatura viscerale, il mesenchima viscerale, la muscolatura branchiale e il relativo
mesenchima.
Il miocardio ha origine dalla fusione di strutture simmetriche. Al 20° giorno di sviluppo i due tubi cardiaci
sono simmetrici e disposti simmetricamente ai lati dell’embrione. Intorno al 22° giorno le popolazioni cellulari
delle gemme epimiocardiche circondano i primitivi tubi cardiaci, modellandosi e plasmandosi su queste. I due
tubi sono coinvolti nei movimenti morfogenetici che portano alla delimitazione del corpo dell’embrione. Dalla
unione del tubo cardiaco di destra e del tubo cardiaco di sinistra si realizza il tubo cardiaco da cui avrà
origine il cuore. Nei periodi successivi si formano le diverse cavità che contraddistinguono tale organo.
Dal
mesoderma
deriva
l’angioblastoma,
che
da
origine
all’endotelioblastoma
e
all’ematoblastoma.
L’endotelioblastoma origina l’endocardio e l’endotelio dei vasi, mentre l’ematoblastoma forma la milza, il
tessuto linfoide ed il tessuto mieloide.
L’eritropoiesi fetale, per i primi due mesi di vita, avviene nel sacco vitellino dove i megaloblasti sono le cellule
addette alla funzione di trasporto. Man mano, col procedere della gestazione, è il fegato ad assurgere questa
funzione. Intorno al quarto mese si forma il midollo osseo che, producendo globuli rossi, soppianta la funzione
eritropoietica epatica. Nel sacco vitellino, a partire dal 18° giorno si formano delle strutture insulari, dette
isole di Wolff e Pander. Tali strutture hanno origine da cellule indifferenziate, che si organizzano a formare
degli aggregati cellulari (fase ad anello). Tali aggregati inducono le cellule vicine a formare un tubo, ovvero il
vaso (fase insulare). Le cellule all’interno del vaso, che formano l’insula, iniziano a produrre segnali che
inducono l’angiogenesi, ampliando così la rete vascolare (fase morfogenetica). Alla fine l’endotelio si è bene
organizzato ed inizia un’intensa attività esocitosica, che porta all’aumento della pressione intravasale (fase
secretiva).
La milza è un organo situato tra il rene destro e lo stomaco. Se tale organo viene dato in pasto a girini, questi,
eliminando la polpa, mettono a nudo la propria struttura trabecolare. Infatti i girini hanno eliminato la polpa,
che si ammassa sulle trabecole. La milza è avvolta da una capsula, contenente la polpa splenica. La polpa
splenica a sua volta è divisa in polpa rossa e polpa bianca. Il sangue viene portato da un arteria penicillare. La
milza non è solo l’organo in cui avviene il crash test dei globuli rossi, ma produce anche una serie di messaggeri
chimici. L’FCS o fattore cardioattivo splenico (Ipossilienina di Rein) potenzia l’attività contrattile, è antiipossia, antistress, ha un’azione digito-simile, incrementa la sistolica, abbassa la telediastolica, dilata il letto
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coronarico e ha un’azione simile alla β-feniletilamina. Ma la milza produce anche il fattore eritropoietico
splenico o FES che incrementa il numero di globuli rossi prodotti a livello del midollo osseo.
La milza è un organo situato nella cavità addominale, (tra stomaco e rene sinistro) nel quadrante superiore di
sinistra, ed è rivestita dal peritoneo che ne lascia scoperta solo una piccola area di 2-3 cm contenuta tra i
foglietti anteriore e posteriore del legamento spleno-renale. La milza presenta un diametro longitudinale
massimo di 12-13 cm, un diametro trasversale di 6-7 cm ed uno spessore di 4-5cm. Peraltro esistono
variabilità dimensionali in relazione, in particolare, con l'habitus costituzionale. La milza è una ghiandola senza
sfinteri, la quale è strettamente associata con il sistema circolatorio. La sua funzione principale è distruggere
i globuli rossi vecchi presenti nel sangue trattenendo una piccola riserva di sangue. Fino a poco tempo fa le
funzionalità della milza non erano conosciute. Negli ultimi anni si stanno accumulando indizi che suggeriscono
che la sua assenza predispone a certe infezioni. L’arteria lienale nel legamento lienorenale si divide in cinque
rami, penetrano nell’ilo e poi si ramificano in tutto l’organo percorrendo le trabecole. La Vena fa la stessa
cosa ma al contrario. Le arterie si riducono progressivamente di calibro fino alle arteriole che penetrano nella
polpa bianca e poi danno origine ai rami penicillari, che dopo un percorso di 0,5 mm escono dalla polpa bianca e
si portano nella zona marginale e quindi nella polpa rossa. Il sangue segue diversi percorsi. Vi sono tre distinte
componenti della velocità di circolo: veloce, media, lenta. Il 90% del sangue transita molto rapidamente, in
pochi secondi: è la circolazione chiusa attraverso il letto capillare. Il 9,6 % impiega qualche minuto. L’1,6 %
necessita di circa un ora. La circolazione lenta comporta contatto tra cellule del sangue e cellule dei cordoni
della milza, quindi sequestro di globuli rossi, bianchi e piastrine e potenziale rimozione per fagocitosi
macrofagica di cellule danneggiate o invecchiate. La somma dei volumi di sangue della circolazione intermedia
e di quella lenta supera il volume di sangue con transito veloce. La conseguenza è che l’ematocrito all’interno
della milza è due volte maggiore della circolazione sistemica. Il parenchima splenico è organizzato in due
principali contingenti: la polpa bianca e la polpa rossa. La polpa bianca è costituita da noduli bianco-grigiastri
che sono denominati noduli di Malpighi e sono costituiti da tessuto linfoide che si addensa attorno ad una
arteriola che attraversa la polpa; questo agglomerato di tessuto linfoide è costituto da linfociti B e T che si
organizzano in modo geometrico, i linfociti T creano una membrana linfoide pre-arteriolare attorno
all'arteriola mentre in posizione più periferica si trovano i linfociti B che vanno a formare dei follicoli che
sono definiti primari se costituiti da linfociti B non stimolanti e secondari se costituiti da linfociti B
stimolanti. Quest'ultimo follicolo è caratterizzato da una zona centrale e una zona periferica, nella prima
troviamo dei linfociti B della memoria a cui macrofagi e cellule dendritiche presentano l'antigene, mentre in
periferia sono presenti i macrofagi e i linfociti B che rispondono ad agenti timo-indipendenti. Mentre la polpa
rossa è caratterizzata da seni venosi che sono come dei vasi sinusoidi, ovvero presentano un lume molto ampio
e le pareti sono fenestrate, e tra questi vasi sono presenti dei cordoni che derivano dalla polpa rossa dove
possiamo ritrovare globuli rossi, globuli bianchi e piastrine; i suddetti vasi giungono alla polpa rossa tramite
una arteriola centrale che diviene arteriola penicillari poi capillari con guscio che sono forniti di un manicotto
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di macrofagi. Si crea un circolo aperto se si aprono i cordoni e un circolo chiuso se questi capillari continuano
nei seni venosi. È presente un seno venoso perimarginale interposto tra le due polpe. Difficilmente la milza è
preda di malattie infettive o neoplastiche. In era pre-antibiotica era invece ben noto il "tumore di milza" che
si manifestava in corso di malattie infettive di lunga durata, come espressione della attivazione della
componente linfatica dell'organo. I tumori della milza sono quasi esclusivamente linfomi. Ha sempre destato
interesse in oncologia la evidente resistenza della milza a diventare sede di ripetizione metastatica da parte
di tumori solidi di altra origine. Aumenti di volume anche significativi della milza (splenomegalie) si hanno nelle
malattie del fegato, soprattutto la cirrosi epatica, che causano difficoltà di flusso nel sistema della vena
porta (sindrome di ipertensione portale), del quale la vena lienale è tributaria.
Dall’entoderma avrà origine il sacco vitellino, da cui avranno origine l’allantoide e l’intestino primitivo.
L’intestino primitivo porta alla formazione dell’intestino anteriore, medio e posteriore. L’intestino anteriore
forma il faringe primitivo ed i componenti epiteliali di esofago, stomaco, fegato e pancreas. Il faringe
primitivo originerà le tasche faringee e i componenti epiteliali della parte superiore della cavità buccale,
ghiandola sottomandibolare e sottolinguale, lingua, ghiandola tiroide, faringe, laringe, trachea e polmoni. Dalle
tasche faringee originano i componenti epiteliali di orecchio medio, paratiroidi, timo e corpo ultimo
branchiale. Dall’intestino medio originano le componenti epiteliali di duodeno (con contributo anche
dell’intestino anteriore), digiuno, ileo, appendice e cieco. Dall’intestino posteriore avranno origine i componenti
epiteliali di colon (assieme all’intestino medio) e retto. Dall’allantoide, con l’intestino posteriore, prende
origine la cloaca, che formerà i componenti epiteliali di retto, vescica urinaria, uretra, prostata e parte
inferiore della vagina.
Per quanto riguarda l’ectoderma, da particolari strutture, dette creste neurali, avranno origine i melanociti.
Dal tubo neurale si formeranno i neuroni e la glia.
La placenta è la struttura preposta al nutrimento del feto, evitando che il sangue materno e fetale entrino in
contatto diretto. Attraverso la formazione di villi, i nutrimenti presenti nel sangue materno sono liberi di
diffondere nel sangue fetale, così come gli scarti fetali seguono una via opposta. Dalla placenta si diparte il
cordone ombelicale, formato da arterie e vene ombelicali. In tali strutture circola il sangue fetale diretto alla
placenta o al feto. La gelatina di Wharton è una sostanza gelatinosa che si trova nel cordone ombelicale. Raro
esempio di tessuto mucoso maturo nell'organismo umano, la gelatina di Wharton è una ricca fonte di cellule
staminali, e serve anche per proteggere i vasi sanguigni del cordone ombelicale.
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36-Gruppi Sanguigni, Fattore Rh ed Eritroblastosi Fetale
L'eritroblastosi fetale è una malattia fetale che può colpire il feto di madre Rh negativa e padre Rh positivo
se il feto è Rh positivo. Rappresenta un tipico esempio di reazione di ipersensibilità di secondo tipo. È detta
anche malattia emolitica anti-D, per la presenza nel circolo di anticorpi anti-D di origine materna, sviluppatisi
in seguito ad una prima gravidanza. Infatti, se per il sistema AB0 esistono anticorpi naturali (nel senso che la
loro comparsa non è legata ad una stimolazione antigenica) contro gli antigeni presenti sulla membrana degli
eritrociti, per il gruppo Rh invece gli anticorpi anti-D si vengono a creare in seguito al contatto con l'antigene.
La gravidanza è un evento fisiologico per cui si possono avere scambi di sangue tra madre e feto; la madre
difatti acquisisce una certa quantità di sangue fetale (c.ca 10 ml) al momento del secondamento. In realtà
anche durante la gestazione si verificano scambi di sangue madre-feto (a partire dal 4° mese) ma in
microquantità che non sono in grado di innestare una risposta primaria. L'ingresso di cellule ematiche fetali
nel sistema circolatorio materno causano una risposta immunitaria da parte della madre, con formazione di
anticorpi anti-D. Nel caso in cui, la donna abbia una seconda gravidanza con feto Rh positivo, gli anticorpi antiD materni entreranno nel circolo fetale già a partire dal 4° mese: infatti, essendo già avvenuta una risposta
primaria sono sufficienti anche minime quantità di sangue per scatenare la risposta immunitaria. Gli anticorpi
anti-D riconosceranno gli eritrociti fetali come estranei, distruggendoli (anemia emolitica). Solitamente il
feto muore tra la 25° e la 35° settimana. In alcuni casi si può intervenire con trasfusioni di sangue Rh
negativo sul feto ripetute ogni 15 giorni per compensare l'emolisi degli eritrociti di produzione fetale. Questo
processo comporta l'iniezione di sangue nel cavo addominale fetale sotto guida ecografica e utilizzando un
mezzo di contrasto per visualizzare l'apparato digerente fetale ed è tuttora molto rischioso in quanto si può
indurre involontaria contrazione uterina con espulsione del prodotto di concepimento. Nel caso in cui il feto
sopravviva a questo processo terapeutico nuovi problemi insorgeranno al momento della nascita, causati
dall'eccesso di bilirubina in circolo. La bilirubina è il principale prodotto di degradazione dell'emoglobina
liberata in seguito alla lisi degli eritrociti; il feto può contare sul metabolismo materno e quindi sulla
degradazione della bilirubina da parte del fegato materno, mentre il neonato risulta incapace di degradare
autonomamente l'eccesso di bilirubina in circolo. La conseguenza di iperbilirubinemia è data da ittero e nel
caso specifico da kernittero (in cui la bilirubina si deposita a livello dei nuclei della base) che può causare
morte o deficit neurologici gravi (sordità, spasticità, ritardo mentale). A questo punto una possibile terapia
può essere rappresentata dall'ex-sanguino trasfusione. Appare comunque evidente che per questi bambini il
percorso terapeutico è tutt'altro che facile. Fortunatamente oggi è possibile prevenire la patologia
somministrando alla madre anticorpi anti-D in seguito alla prima gravidanza, immunizzazione che deve essere
ripetuta ad intervalli regolari. Questo tipo di profilassi è efficace al 100% ma deve essere praticata dopo
ogni gravidanza qualunque sia l'esito (anche in caso di aborto o di semplice amniocentesi). Va infine chiarito il
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perché del termine "eritroblastosi fetale". Gli eritroblasti sono i precursori midollari degli eritrociti. Per fare
fronte alla grave anemia al midollo osseo immette in circolo anche i precursori immaturi degli eritrociti.
Il fattore Rh è una particolare proteina che viene espressa sulla superficie dei globuli rossi. Da un punto di
vista genetico, il carattere Rh+ (ovvero la proteina viene espressa) è eterozigote dominante mentre la
mancata espressione della proteina è omozigote recessiva. Se il sangue di una madre Rh- viene in contatto col
sangue fetale Rh+, la madre produrrà anticorpi anti-Rh. Per la prima gravidanza non si avranno problemi, ma un
ulteriore periodo di gestazione potrebbe portare all’insorgenza della patologia, con seri danni del feto.
L’incompatibilità Rh è da aggiungere alla già nota compatibilità/incompatibilità dei vari gruppi sanguigni. I
gruppi sanguigni sono quattro:
-
A;
-
B;
-
AB, l’accettore universale;
-
0, il donatore universale.
Quando un individuo riceve una donazione di sangue di gruppo sanguigno diverso ed incompatibile, il sistema
immunitario del soggetto scatena una risposta specifica, provocando la morte dei globuli rossi riconosciuti
come estranei. Ciò ha varie conseguenze. Tale discorso vale anche per il fattore Rh. È stato provato che circa
il 15 % della popolazione è Rh-, mentre il restante 85 è Rh+. Lo scopritore del fattore Rh è Karl Landsteiner,
utilizzando nei suoi esperimenti il Macacus Rhesus (da qui deriva Rh). Alla nascita un bambino affetto da
eritroblastosi presenta fegato e milza enormemente ingrossati.
L’origine della patologia è da ricercare nel contatto fisico tra sangue materno e fetale. Normalmente esistono
opportune barriere di protezione, come la placenta, che evitano la commistione dei due fluidi. Ma se tale
filtro subisce dei danni, i globuli rossi fetali vengono immessi nella circolazione sanguigna materna. Se la
madre è Rh- e il feto Rh+, il sistema immunitario materno produrrà anticorpi anti-Rh che elimineranno i globuli
rossi fetali. L’aumento del numero di globuli rossi danneggiati sovraccarica la milza che tende ad ingrossarsi
per poter svolgere più velocemente la propria funzione. Successivamente, la presenza in circolo di globuli
rossi lesionati, fa aumentare la bilirubina, che normalmente viene metabolizzata dal fegato. La bilirubina in
circolo è tossica, così il fegato si ingrossa per poter smaltire più facilmente la bilirubina in eccesso. Tali
meccanismi creano un feedback positivo che può portare a seri danni dell’intero organismo del feto. Come
prima complicazione si verifica un intasamento del filtro renale che provoca un blocco della normale funzione
renale. Successivamente, la mancanza di globuli rossi comporta anemia e la bilirubina in circolo può
danneggiare seriamente le cellule nervose. Tutto ciò comporta anche l’aumento delle dimensioni della placenta.
Ulteriori complicazioni possono essere leucopenia e trombocitopenia. Tutto ciò può essere evitato eliminando
gli anticorpi anti-Rh materni.
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