RASSEGNE
Procedura Penale
LE MISURE CAUTELARI NEL PROCEDIMENTO DI ESTRADIZIONE PER L’ESTERO
SINTESI – La richiesta di uno Stato estero di consegnare una persona da sottoporre nel proprio
territorio a pena detentiva o ad altra misura restrittiva della libertà personale configura
l’estradizione passiva o per l’estero. Il codice di procedura penale prevede, in base ad alcuni
precisi meccanismi, la possibilità di applicare misure cautelari all’estradando. Numerose pronunce
della Corte di Cassazione non hanno chiarito tuttavia se il procedimento estradativo configuri il
presupposto necessario di tali provvedimenti.
DOTTRINA
[1] L’applicabilità “in ogni tempo” delle misure cautelari
Il procedimento di estradizione per l’estero può eventualmente comportare per l’estradando
uno stato di soggezione quale conseguenza diretta dell’applicazione di misure cautelari definite
dalla Convenzione europea di estradizione “misure restrittive della libertà personale ordinate in
aggiunta o in sostituzione di una pena, con sentenza di una giurisdizione penale” (art. 25 della
Convenzione europea di estradizione firmata a Parigi il 13 dicembre 1957).
Preliminarmente è di fondamentale rilevanza osservare come la ratio che sottende alla
disciplina in materia, modificata dal nuovo codice di procedura penale, qualifichi i provvedimenti
coercitivi quali strumenti accessori del procedimento di estradizione equiparando al tempo stesso la
condizione dell’estradando
a quella generalmente riservata, in tema di custodia cautelare,
all’imputato italiano.
Il provvedimento di estradizione rappresenta dunque il presupposto fondamentale e
necessario per l’adozione delle misure cautelari.
Le disposizioni de qua che l’autorità giudiziaria può disporre si identificano con le misure di
natura coercitiva previste e disciplinate agli artt. 281 – 286 c.p.p. (divieto di espatrio, obbligo di
presentazione alla polizia giudiziaria, allontanamento dalla casa familiare, divieto di obbligo e
dimora, arresti domiciliari, custodia cautelare in carcere e in luogo di cura) e con il sequestro del
corpo di reato e delle cose ad esso pertinenti ex art. 253 e seguenti del codice di rito.
In seguito alla presentazione rituale della domanda di estradizione formulata dallo Stato
estero l’organo competente a conoscere della procedura relativa è la Corte d’appello, giudice
naturale in subiecta materia, la quale rimette alla competenza della Corte di Cassazione il
pronunciamento in sede di impugnazione.
Il codice riferisce, generando non pochi dubbi nell’interprete, che le misure cautelari
possono essere disposte dal giudice nel caso in cui lo richieda il Ministro di grazia e giustizia; al
riguardo parte autorevole della dottrina ha rilevato che il parere ministeriale sia in questo caso
assolutamente vincolante per l’attività dell’autorità giudiziaria (cfr. Siracusano, Diritto processuale
penale, Giuffrè editore) mentre altri orientamenti, di diverso avviso, in conformità con quanto
disposto dall’art. 13, II comma, della Costituzione, riconoscono al Ministro una mera propensione
all’iniziativa che si traduce in un presupposto processuale in mancanza del quale il potere cautelare
non sorgerebbe neanche in capo all’organo giurisdizionale (cfr. Conso – Grevi, Compendio di
procedura penale, Cedam).
La facoltà esclusiva attribuita al Ministro ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale con
riguardo agli artt. 3, 13 e 109 della Carta costituzionale trattandosi nel caso di specie di una
domanda formulata al giudice da un soggetto estraneo alla fase giurisdizionale del procedimento
estradativo; difatti l’esercizio dell’azione penale dovrebbe essere di esclusiva titolarità del
Procuratore Generale il quale, in violazione di quanto disposto all’art. 109 della Costituzione, risulta
privato anche di un potere di domanda minimamente concorrente con quello del Ministro.
In riferimento alle condizioni generali di applicabilità il legislatore si è soffermato
esclusivamente sull’osservanza, in quanto applicabili, delle disposizioni contenute nel titolo I del
libro IV, ad esclusione del dettato normativo degli artt. 273 e 280 c.p.p., dedicato alle misure
cautelari personali; invero la considerazione principale legittimante la restrizione della libertà della
persona
risiede nella necessità di scongiurarne il pericolo di fuga e proprio in previsione
dell’acuirsi del rischio che l’estradando, conosciuto l’esito del processo, si sottragga alla consegna,
sembra dettato l’incipit dell’art. 714 c.p.p. indicante che la persona della quale è domandata
l’estradizione può essere sottoposta a misura coercitiva “in ogni tempo”.
L’art. 714, IV comma, individua nella competenza funzionale della Corte d’appello il potere
di revoca di tutte le misure coercitive adottate quando non sia stata ancora emessa sentenza
favorevole all’estradizione trascorso un anno dalla loro disposizione o, nel corso del procedimento
di impugnazione, sia stato superato il termine perentorio di diciotto mesi essendo ancora pendente
il giudizio dinanzi all’autorità giudiziaria.
[2] L’applicazione provvisoria ex art. 715 c.p.p.
In caso di urgenza può sussistere l’esigenza dell’immediata riduzione in vinculis
dell’estradando ancor prima che lo stato richiedente formalizzi la domanda di rito; titolari del potere
di iniziativa per l’emanazione ad hoc del provvedimento sono il paese estero interessato e il
Ministro di grazia e giustizia il quale manifesta la propria volontà attraverso una richiesta motivata.
Tuttavia l’art. 715 c.p.p. sottolinea che la disposizione in via provvisoria di una misura
coercitiva
può essere disposta unicamente in presenza di determinate condizioni che ne
giustifichino l’applicazione.
In primis lo stato richiedente deve provvedere, mediante comunicazione formale presso il
dicastero competente, a dare notizia di aver precedentemente emesso un provvedimento restrittivo
della libertà personale o di una sentenza di condanna a pena detentiva nei confronti della persona
interessata dal procedimento manifestando contestualmente l’intenzione di estradarlo; di poi la
misura può essere stabilita nel caso in cui lo stato di appartenenza dell’estradando, con il proprio
contributo decisivo, abbia favorito la descrizione dei fatti e la specificazione del reato procurando di
conseguenza tutti gli elementi utili per l’identificazione della persona.
Anche in questo caso, seppur a mezzo di sistemi di competenza specifica, la prerogativa
all’emanazione delle misure cautelari investe i poteri della Corte d’appello.
In primo luogo opera il giudice d’appello del distretto in cui risultino essere la dimora, la
residenza o il domicilio della persona o del luogo dove effettivamente egli si trovi stabilmente;
qualora invece la competenza non possa essere circoscritta in base ai criteri sopraccitati sarà la
Corte di appello di Roma ad essere legittimata all’esercizio dell’azione.
Successivamente alla competenza amministrativa del Ministro sarà demandata l’attribuzione
di portare a conoscenza lo Stato estero riguardo l’avvenuta applicazione provvisoria dei
provvedimenti cautelari ordinati specificando, al tempo stesso, che questi dovranno essere
obbligatoriamente revocati nel caso in cui non abbia notizia di ricezione presso il proprio ministero,
entro quaranta giorni, della documentazione a sostegno della domanda di estradizione.
Il disposto dell’art. 716 c.p.p. prevede la possibilità per la polizia giudiziaria, in casi di
particolare gravità sussistendo le condizioni di cui all’art. 715, II comma, di poter procedere
provvisoriamente all’arresto della persona quando nei suoi riguardi sia stata in precedenza avanzata
tale richiesta.
Le funzioni di polizia si esauriscono con la trasmissione del rapporto al Ministro e con l’atto
di disposizione dell’arrestato in favore del Presidente della Corte d’appello; quest’ultimo, in caso di
convalida dell’arresto, dispone l’applicazione di una misura coercitiva che sarà revocata qualora il
Ministro non ne abbia chiesto il mantenimento entro il termine di dieci giorni.
GIURISPRUDENZA DI CASSAZIONE
La sospensione della procedura di estradizione ex art. 709 c.p.p. comporta la revoca delle
misure cautelari adottate?
Il Ministro di grazia e giustizia può sospendere l’esecuzione dell’estradizione qualora
l’estradando debba essere giudicato nel territorio dello Stato o sia chiamato a scontarvi una pena per
reati commessi precedentemente o successivamente a quello per il quale l’estradizione è stata
concessa; al riguardo la Suprema Corte è stata nel corso degli ultimi anni più volte chiamata a
pronunciarsi in merito ai riflessi della sospensione sulla durata delle misure cautelari eventualmente
adottate ai sensi dell’art. 714 c.p.p..
Un primo indirizzo (Cass. pen., sez. VI, 30 settembre 1998, n. 2832) ha ammesso, nel caso
in cui il Ministro, per sua insindacabile scelta politica, sospenda “sine die” il procedimento di
estradizione, il potere di revoca, proprio dell’autorità giudiziaria, di tutte le misure coercitive
adottate a carico dell’estradando poiché, finalizzate unicamente ad agevolare la consegna
dell’individuo allo Stato richiedente, non possono procrastinarsi oltre i termini entro i quali il
procedimento in oggetto deve avere esecuzione.
L’assunto del ricorrente sottolineava come il giudice dell’appello avesse disatteso
l’applicazione dell’art. 709 c.p.p. poiché qualora il procedimento estradizionale venga sospeso la
durata della custodia cautelare applicata all’estradando dovrà essere compatibile con il termine
massimo stabilito dagli artt. 303 e 304 c.p.p. così come presupposto all’art. 714, comma 2, in
riferimento al titolo I del libro IV del codice di rito.
Motivando il rigetto del ricorso, definito fuorviante e asistematico, la Cassazione ha stabilito
che “in sostanza i poteri cautelari rimangono circoscritti nei limiti risultanti dalla materia: il
riferimento ha riguardo espressamente al pericolo di fuga dell’estradando, esigenza che assume una
valenza centrale e assorbente, e al termine massimo di durata della misura coercitiva. A
quest’ultimo proposito va rilevato che il IV comma della norma fissa tale termine massimo in un
anno ovvero in un anno e sei mesi, a seconda che il procedimento estradizionale sia ancora
pendente dinanzi alla Corte d’Appello ovvero in Cassazione, termine prorogabile anche più volte
per un periodo complessivamente non superiore a tre mesi, ove necessario per la difficoltà degli
accertamenti. Decorsi tali termini, la misura va revocata.
Tale chiara previsione, specifica per la materia de qua, induce ad escludere che il richiamo
alle disposizioni del titolo I del libro IV del codice di rito, fatto dal comma 2 dell’art. 714,
ricomprenda anche la norma di cui agli art. 303 e 308, le quali attinendo ai termini di durata delle
misure per il procedimento ordinario, articolato secondo cadenze, fasi e gradi, che nulla hanno a che
vedere con il procedimento di estradizione, rivelano assoluta incompatibilità a operare in
quest’ultimo”.
Dunque il giudice di legittimità ha indicato la procedura di estradizione quale presupposto
stesso dell’adottata misura cautelare accogliendo gli orientamenti della Corte Costituzionale
laddove tali disposizioni assumevano la caratteristica di provvedimenti inflitti “rebus sic stantibus”
perché potendo permanere unicamente quando posti a garanzia dell’interesse principale al quale
accedono giustificando in tal modo il sacrificio della libertà personale (Corte Cost. n. 766 – 1988 e
Corte Cost. n. 1 – 1980).
In senso opposto un secondo orientamento (Cass. pen., sez. VI, 20 settembre 2000, n. 3374 e
Cass. pen. sez. VI, 11 luglio 1995, CED 202.835) accoglieva le richieste del ricorrente il quale
denunciava l’esistenza del pericolo di fuga per l’estradando in caso di liberazione anticipata o la
sottrazione alla consegna nel caso di concessione di una pena alternativa alla detenzione.
L’argomentazione muove in duplice direzione: preliminarmente osservando che il tempo
trascorso in regime di detenzione dall’estradando, eseguita la consegna allo Stato richiedente, sarà
oggetto di computo nella durata della custodia cautelare o della pena in funzione della motivazione
a fondamento della richiesta di estradizione; di seguito nel non ravvisare contrasti tra la brevità
pratica dei termini ex art. 708 e seguenti del codice di rito con quelli di più lunga durata previsti
dagli artt. 303, comma 4, e 308 per il semplice fatto che i “primi sono calibrati sui tempi necessari
per la progressione di un procedimento caratterizzato, nella generalità dei casi, da notevole
semplicità e rapidità, mentre i secondi sono correlati ai tempi, sicuramente più lunghi, normalmente
necessari per la definizione di un giudizio diretto ad accertare la commissione di un reato e la
relativa responsabilità”.
[Cristiano Brunelli]