“SAPIENZA” UNIVERSITÀ DI ROMA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL’ANTICHITÀ – MUSEO DELLE ORIGINI ORIGINI PREISTORIA E PROTOSTORIA DELLE CIVILTÀ ANTICHE XXXVII 2015-1 PREHISTORY AND PROTOHISTORY OF ANCIENT CIVILIZATIONS GESTIONE EDITORIALE E DISTRIBUZIONE GANGEMI EDITORE Spa In copertina / Cover illustration: Proto-Elamite tablet MPD 17, 171 (Dahl, fig. 2); seal design from Arslantepe, period VIA (D’Anna, fig. 2); bronze balance weight from Abini (Nu) (Ialongo et al., fig. 4B). ORIGINI Rivista di Preistoria e Protostoria delle Civiltà Antiche Review of Prehistory and Protohistory of Ancient Civilizations Fondata da / Review Founder S ALVATORE M. P UGLISI “SAPIENZA” UNIVERSITÀ DI ROMA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL’ANTICHITÀ – MUSEO DELLE ORIGINI © Proprietà letteraria riservata Gangemi Editore spa Piazza San Pantaleo 4, Roma www.gangemieditore.it Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni. Le nostre edizioni sono disponibili in Italia e all’estero anche in versione ebook. Our publications, both as books and ebooks, are available in Italy and abroad. ISBN 978-88-492-208-ä Thompson Reuters, Web of Science (WoS) Core Collection’s Book Citation Index, Social Sciences and Humanities edition. ORIGINI PREISTORIA E PROTOSTORIA DELLE CIVILTÀ ANTICHE PREHISTORY AND PROTOHISTORY OF ANCIENT CIVILIZATIONS XXXVII 2015-1 Gestione editoriale e distribuzione Origini è una rivista annuale soggetta a processo di peer-review ed è pubblicata da / Origini is subject to a peer-review process and is published yearly by: “SAPIENZA” UNIVERSITÀ DI ROMA Dipartimento di Scienze dell’Antichità Direttore Responsabile / Editor in chief: Marcella Frangipane Curatori Associati / Associate Editors: Francesca Balossi Restelli, Cecilia Conati Barbaro, Savino Di Lernia, Lucia Mori, Alessandro Vanzetti Comitato scientifico / Scientific Board: Peter M.M.G. 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Revisione grafica / Graphic editing: Giovanni Carboni Responsabile dei cambi / Appointee for review exchanges: Maurizio Moscoloni Rivista Origini, Museo delle Origini, Sapienza Università di Roma, P.le Aldo Moro 5 - 00185 Roma [email protected] I manoscritti da sottoporre per la pubblicazione vanno inviati a / Submission of papers to be considered for publication should be addressed to: Rivista Origini, Museo delle Origini, Dip. di Scienze dell’Antichità, Sapienza Università di Roma, P.le Aldo Moro 5 - 00185 Roma e-mail: [email protected] Ordinativi e Abbonamenti vanno indirizzati a / Orders and subscriptions should be addressed to: GANGEMI EDITORE SPA P.zza San Pantaleo, 4 – Roma www.gangemieditore.it Registrazione al Tribunale di Roma n. 35/2000 (già registrata al n. 11810/1967) La Rivista è stata stampata con il contributo dell’Ateneo Indice / Contents 7 FOOD AND URBANIZATION. MATERIAL AND TEXTUAL PERSPECTIVES ON ALIMENTARY PRACTICE IN EARLY MESOPOTAMIA Maria Bianca D’Anna, Carolin Jauß, J. Cale Johnson (eds.) 8 INTRODUCTION Maria Bianca D’Anna, Carolin Jauß, J. Cale Johnson 15 VESSELS AND OTHER CONTAINERS FOR THE STORAGE OF FOOD ACCORDING TO THE EARLY LEXICAL RECORD Klaus Wagensonner 28 POTTERY VESSELS AND FOOD PRACTICE. SOME REFLECTIONS ON VESSELS AND TEXTS Carolin Jauß 35 OVENS, FIREPLACES AND THE PREPARATION OF FOOD IN URUK MESOPOTAMIA Susan Pollock 38 THE PRICE OF URBANIZATION? BIOLOGICAL STANDARD OF LIVING IN THE NEAR EAST AROUND THE 4TH MILLENNIUM Eva Rosenstock 43 ANIMAL RESOURCES IN THE LATE URUK PERIOD FOOD PRACTICES Rémi Berthon 46 DECIPHERING THE LATE URUK BUTCHERING TEXTS J. Cale Johnson 56 A MATERIAL PERSPECTIVE ON FOOD POLITICS IN A NON-URBAN CENTER. THE CASE OF ARSLANTEPE PERIOD VI A (LC5) Maria Bianca D’Anna 67 THE PRODUCTION AND STORAGE OF FOOD IN EARLY IRAN Jacob L. Dahl 73 IMPORTANCE AND FOOD RANK: SOME EXAMPLES FROM UR III MESOPOTAMIA Hagan Brunke 78 89 BIBLIOGRAPHY 1-3 PERIODS IN THE ERBIL PLAIN. NEW INSIGHTS FROM RECENT RESEARCHES AT HELAWA, IRAQI KURDISTAN Luca Peyronel, Agnese Vacca NORTHERN UBAID AND LATE CHALCOLITHIC 129 NEW DOCUMENTATION ON DIGGING TECHNIQUES OF THE PREHISTORIC FUNERARY HYPOGEA OF THE WESTERN MEDITERRANEAN Maria Grazia Melis, Marie Elise Porqueddu 151 AN ANALYTICAL FRAMEWORK FOR THE RESEARCH ON PREHISTORIC WEIGHT SYSTEMS: A CASE STUDY FROM NURAGIC SARDINIA Nicola Ialongo, Andrea Di Renzoni, Michele Ortolani, Alessandro Vanzetti 175 EXPLORING TERRITORIES: BUBBLE MODEL AND MINIMUM NUMBER OF CONTEMPORARY SETTLEMENTS. A CASE STUDY FROM ETRURIA AND LATIUM VETUS FROM THE EARLY BRONZE AGE TO THE EARLY IRON AGE Luca Alessandri 201 Recensioni/Reviews ORIGINI XXXVII, 2015-1: 201-220 RECENSIONI / REVIEWS V. NIZZO, Archeologia e antropologia della morte. Storia di un’idea, Edipuglia, Bari 2015, pp. 720. ISBN 978-88-7228-761-3 Per comprendere la genesi di questo monumentale saggio, che nell’intenzione dell’autore non è altro che la premessa metodologica per un lavoro sistematico (già avviato e in alcuni casi in fase di avanzata lavorazione) sulla documentazione funeraria della protostoria dell’Italia centromeridionale, bisogna ricostruirne la genesi opportunamente descritta nella postfazione (pp. 551-560). Valentino Nizzo “nasce” nel 2000 come laureato di Etruscologia su alcune tombe ricche maschili di Castel di Decima e subito decide di approfondire il metodo di analisi andando a seguire lezioni e seminari di Renato Peroni. Il suo primo interesse è la ricostruzione dei “codici” interpretativi delle sepolture maschili datate tra l’avanzata prima età del ferro e la fase Orientalizzante, una tematica che presto si incrocia con il dibattito sulla cronologia assoluta di queste fasi che caratterizza il convegno del CNR del 2003 (Bartoloni, Delpino 2004), dove egli presenta una relazione sulla prima età del ferro laziale ed alcune anticipazioni sulle ricerche svolte sulla necropoli di Pithecusa pubblicata quattro anni dopo, in cui al criterio formale/tipologico si sovrappone in gran parte la complessa ricerca sulle correlazioni stratigrafiche tra le sepolture che portano alla compilazione di un vero e proprio matrix (Nizzo 2007). Nel 2004 Nizzo frequenta il corso di archeotanatologia tenuto all’Ècole Française di Roma da Henri Duday e si appassiona alla problematica dei processi tafonomici del cadavere; allo stesso tempo aumenta la sua curiosità per lo studio delle pratiche funerarie nell’antropologia culturale. In un primo tempo questi interessi confluiscono nella tesi di Dottorato sull’ideologia funeraria nel Latium vetus dove vengono trattati 3000 contesti funerari (in anni recenti Nizzo dichiara di averne analizzati per i suoi studi più di 30000!); dal 2009 grazie a una borsa di studio dell’Istituto di Scenze Umane di Firenze, approfondisce adeguatamente la storia degli studi sull’argomento (l’oggetto di questo libro) e, non contento, dal 2010 organizza un convegno con archeologi, storici, storici delle religioni e antropologi (Archeologia e Antropologia della morte), giunto quest’anno (2015) alla terza edizione e che è diventato un appuntamento importante, frequentato dai maggiori specialisti, italiani e stranieri. Se questo è dunque il “retroterra” del volume qui recensito non stupisce la sua mole, la sterminata bibliografia (più di 100 pagine) cui si rimanda per la maggior parte dei contributi qui citati e, soprattutto, la sua dichiarata ambizione nel primo capitolo (Introduzione alla semiologia della morte, pp. 19-28) di affrontare con ottica antropologica un dibattito che dura da più di due secoli; il punto di partenza per Nizzo è la definizione della sepoltura come “…un contesto che, come tale, può prestarsi ad essere interpretato alla stregua di un «testo» letterario” (p. 22). 201 Recensioni / Reviews Nel secondo capitolo (L’archeologia funeraria come strumento della “conquista del passato”, pp. 29-46), il cui titolo allude al famoso testo di storia dell’archeologia di Schnapp (1994), dedicato al panorama italiano del XIX e dei primi decenni del XX secolo, Nizzo chiarisce come, nonostante l’enorme quantità di tombe individuate in questo periodo, la qualità della documentazione (spesso si trattava, come nel famoso caso dell’Esquilino, di veri e propri sterri) e l’ottica limitata prevalente dell’interpretazione dei corredi come markers etnici delle popolazioni antiche siano fattori che spiegano bene la scarsa qualità dell’archeologia funeraria in Italia nell’Ottocento. Un salto di qualità, in questo campo, si ha solo nei primi due decenni del Novecento con l’opera di due grandi studiosi, Paolo Orsi, di cui Nizzo mette in rilievo l’interesse per l’analisi dei reperti scheletrici come parte integrante del rituale nelle tombe da lui scavate e, soprattutto, Giacomo Boni, un precursore nel campo delle documentazione, della stratigrafia e della ricerca interdisciplinare il cui nome purtroppo è quasi sempre assente nei libri di autori stranieri di storia dell’archeologia. Sorprende, nell’ambito di una trattazione così accurata, l’accusa a studiosi come Montelius di trascurare il dibattito sociologico e antropologico preferendo “…continuare a soffermare la loro attenzione su questioni specifiche dal carattere specificatamente crono-tipologico” (p. 46), dimenticando il contesto in cui il grande archeologo lavorava, caratterizzato da un generalizzato disinteresse, da parte dei paletnologi italiani, per la costruzione di quelle intelaiature cronologiche che costituiscono la base per qualsiasi interpretazione dei dati. Il terzo capitolo (La sociologia e l’antropologia della morte, pp. 47-72) ha come oggetto lo studio e l’analisi delle pratiche funerarie in antropologia fino all’emergere del funzionalismo. Nizzo mette giustamente in rilievo come l’antropologia evoluzionista considerasse la morte e i rituali ad essa collegati, che oltre ad elaborare il lutto postulano un’esistenza ultraterrena, un’occasione per lo studio delle religioni primitive, citando come eccezione alcune pagine di Lubbock che anticipano il concetto processualista della “spesa energetica” nella costruzione delle tombe. Bisogna aspettare gli inizi del Novecento perché Hertz e Van Gennep elaborino l’idea della morte come “rito di passaggio”, inaugurando un filone di studi destinato a grande fortuna; opportunamente viene citato come ultimo esponente del pensiero evoluzionista Frazer che nelle conferenze tenute a Cambridge tra il 1932 e il 1934 avrebbe parlato dei rituali legati alla morte come risposta all’angoscia collettiva. Contemporaneamente nella scuola storico-culturale, i cui massimi esponenti sono Graebner, Schmidt e Kossinna, si ha l’apoteosi dell’identificazione degli oggetti posti nelle tombe come correlati etnici di ben determinati popoli. Nell’antropologia statunitense Boas spicca come esponente della scuola storicoculturale che per sua storia e formazione personale rifuggiva da qualsiasi generalizzazione di tipo razzista; Nizzo ricorda l’attività di uno dei suoi migliori allievi, Kroeber, che in un suo articolo del 1927 collegava l’instabilità delle pratiche funerarie a diversi fattori, tra cui la moda o il costume, non riconducibili a leggi o tendenze codificabili. Fa eccezione, in questo panorama, Effie Brendan che smentendo lo stesso Kroeber in un saggio del 1930 analizzava diverse popolazioni riscontrando una sostanziale comparabilità 202 Recensioni / Reviews delle pratiche funerarie in base ad elementi come la parentela, l’appartenenza a clan o fratrìe e l’affiliazione tribale. Uno dei capitoli più corposi del libro è il quarto, dedicato al periodo compreso tra l’avvento del funzionalismo in antropologia e la parabola della New Archaeology a partire dagli anni Sessanta del Novecento (Le nuove frontiere della conoscenza: scienze naturali e scienze umane, pp. 73-146). Nizzo sottolinea le differenze tra Malinowski, che interpreta ancora in modo prevalentemente “religioso” i rituali della morte e Radcliffe-Brown, il primo a parlare esplicitamente, nel 1922, di corrispondenza tra tipo di seppellimento e valore sociale del defunto. In Italia la scarsa attenzione all’argomento è compensata dall’opera di storici della religione come Pettazzoni e soprattutto di De Martino cui si devono tanti importanti contributi sulle manifestazioni del lutto in Italia meridionale. Alcune righe vengono dedicate a Carlo Alberto Blanc, succeduto a Pettazzoni alla cattedra di Etnologia dell’Università di Roma; sebbene Nizzo consideri la sua teoria dell’etnolisi “scomparsa senza lasciare traccia con la morte del suo propugnatore” va invece sottolineato il fatto che a partire dagli anni Cinquanta Georges Laplace creò il suo ben noto metodo di “tipologia analitica” per lo studio degli strumenti del Paleolitico superiore (seguito soprattutto in Italia negli Atenei - Firenze, Pisa, Siena e Ferrara – dove la Preistoria si insegna nelle Facoltà di Scienze Naturali) dichiarando a più riprese apertamente il suo debito di riconoscenza verso le teorie di Blanc (Guidi 1988, pp. 81 e 131). In contrasto polemico tra loro su tanti argomenti due “mostri sacri” della paletnologia inglese come Childe e Clark appaiono in sintonia nel rifiutare spiegazioni di tipo “economicistico” della complessità del rito funerario; a Childe in particolare dobbiamo la critica dell’equazione ricchezza del corredo = status del defunto contraddetta in particolare da quei casi (noti anche dalle fonti storiche) in cui una società opulenta decide proprio per mantenere un certo livello di benessere di non “sprecare” beni di alcun tipo nel corredo tombale. Stupisce un po’ in questo contesto l’assoluta mancanza di riferimenti a uno studioso della ex Germania orientale, Karl-Heinz Otto, che in un suo fondamentale lavoro del 1955 tentava di assegnare un ruolo sociale ai defunti deposti nelle ricche sepolture della cultura di Aunjetitz (Otto 1955). Diverse pagine (117-139) sono impiegate per spiegare in modo esaustivo e accurato le tappe della riflessione processuale sull’archeologia funeraria, che vede nel concetto di social persona di Binford, in quello di energy expenditure di Tainter e nelle “ipotesi” originariamente formulate da Saxe (la cui Tesi di Dottorato costituisce senza dubbio l’“inedito” più letto e citato della storia dell’archeologia!) i capisaldi teorici, cui forse sarebbe stato corretto aggiungere la riflessione sui gruppi corporati cui spetta il seppellimento in aree separate dal resto della necropoli, al centro dell’attenzione di Brown. Prima ancora dell’ampia e motivata critica postprocessuale a queste concezioni della New Archaeology Nizzo mette giustamente in rilievo le posizioni assunte fin dagli anni Sessanta da Peter Ucko, che sulla base dei dati etnologici smonta molte delle ipotesi processualiste, sottolinea per primo l’importanza della rappresentatività delle necropoli (a quanti era veramente riservato il seppellimento formale?) e rileva come la variabilità 203 Recensioni / Reviews del rito funebre (in particolare dell’inumazione rispetto all’incinerazione) in uno stesso contesto geografico sia, sempre in base a paralleli etnografici, la regola e non l’eccezione. Visto lo scarsissimo interesse per la preistoria in generale e in particolare per l’archeologia funeraria durante gli anni del Fascismo (le uniche sintesi sull’argomento sono di studiosi stranieri!), il quinto capitolo (L’archeologia funeraria in ambito italiano nel secondo dopoguerra, pp. 147-194) si incentra soprattutto sugli sviluppi della riflessione teorica in ambito italiano tra il 1945 e gli anni Settanta, Il panorama che ne deriva è un “mix” tra lenta affermazione di un approccio cronotipologico di ispirazione centroeuropea, stato pessimo dei metodi di scavo (con eccezioni luminose come lo scavo della necropoli dei Quattro Fontanili a Veio o quello di Pithecusa, non a caso comunque diretti da stranieri come Ward-Perkins e la coppia Buchner-Ridgway!), ruolo dell’espansione edilizia nella scoperta di molti sepolcreti e di un numero enorme di tombe (si pensi all’esempio di Pontecagnano, con le circa 10000 tombe scoperte, molte delle quali purtroppo ancora inedite). A questo proposito appare un po’ ingenua l’esaltazione del metodo di scavo delle necropoli dell’età del ferro dell’Italia centrale; si pensi ad esempio alle numerose tombe di Castel di Decima o di Alfedena scavate “in negativo” perdendo così irrimediabilmente i rapporti stratigrafici tra la fossa, il corredo e gli inumati! Dal punto di vista teorico Nizzo ripercorre le tappe di un dibattito incentrato soprattutto sui corredi della fase recente della prima età del ferro e dell’inizio dell’Orientalizzante e sul rapporto tra élites indigene e coloni greci che passa attraverso tre fondamentali incontri di studio a Ischia nel 1968, nel 1972-73 e soprattutto nell’incontro di Napoli e Ischia del 1977, organizzato da Gherardo Gnoli e Jean-Paul Vernant ma ispirato da Bruno D’Agostino (che pochi anni dopo avrebbe fondato a Napoli il Centro di Studi sull’ideologia funeraria del mondo antico) e Alain Schnapp, cui si deve anche l’edizione (purtroppo solo nel 1982!) degli atti che costituiscono la prima vera opera organica dedicata all’archeologia funeraria (La mort, les morts dans les sociètés anciennes). La critica di D’Agostino della pretesa di rintracciare meccanicisticamente nella documentazione funeraria concetti marxisti come “comunismo primitivo” o “democrazia militare” (il bersaglio sono gli scritti di Renato Peroni) e la definizione dell’opposizione tra società “in equilibrio” e “società in crisi” che spiegherebbe la maggiore o minore facilità di riconoscere il ruolo sociale del defunto nella documentazione funeraria sono altrettanti esempi degli sviluppi indipendenti della riflessione italiana su questi temi rispetto a quelli della scuola postprocessaule, fatto comprovato anche dall’articolo che in quello stesso 1977 Giovanni Colonna dedicava alle sepolture apparentemente “povere” del Lazio spiegandone l’anomalia con le leggi suntuarie (Colonna 1977). Nizzo rileva giustamente anche la netta contrapposizione tra l’approccio all’archeologia funeraria di Renato Peroni e della sua scuola, di tipo statistico-combinatorio, concretizzatosi soprattutto dopo la creazione del Centro Studi di Protostoria (1978) e di Anna Maria Bietti Sestieri, di tipo processuale, con uso anche di raffinate analisi matematico-statistiche, evidente nella prima grande mostra romana su Osteria dell’Osa del 1979. La “rivoluzione postprocessuale” costituisce l’argomento del capitolo sesto (“Oltre il processo”: l’archeologia funeraria alle soglie del nuovo millennio, pp. 195-288). 204 Recensioni / Reviews Introdotto dalle importanti riflessioni di antropologi come Leach e Geertz, il capitolo prende le mosse dalla prima uscita pubblica di Hodder nel seminari organizzata a Cambridge da Spriggs nel 1977, in cui appare già chiaro come nonostante i suoi primi studi di tipo processuale egli andasse riflettendo su una diversa interpretazione delle culture preistoriche, soprattutto in base alle sue esperienze di etnoarcheologia. Sarebbe troppo complicato commentare criticamente in poche pagine gli sviluppi della scuola post.processuale (anche per la ricchezza e la molteplicità delle teorie archeologiche, filosofiche e sociologiche cui si ispira); mi limiterò ad evidenziare alcuni spunti importanti contenuti nel capitolo. Innanzitutto è condivisibile il giudizio complessivo sul postprocessualismo inteso più come reazione, a volte viscerale, alla New Archaeology che come vero e proprio metodo alternativo (si vedano gli innumerevoli “rivoli” che in parte discendono da questa scuola come la gender archaeology, la childhood archaeology, l’archeologia delle minoranze e tutte le riflessioni sul problema dell’etnicità [per un panorama complessivo di queste tendenze v. Cuozzo, Guidi 2013]. È giustamente messa in rilievo poi l’opera di studiosi come Mike Parker Pearson con le sue ricerche sui cimiteri vittoriani “egualitari” o sullo sfarzo di alcune tombe di zingari, sul trattamento del cadavere o sul “paesaggio rituale” del Madagascar come ispirazione a una reinterpretazione di quello di Stonehenge, tutti temi che dimostrano come per questa scuola la documentazione funeraria lungi dal rispecchiare la struttura sociale sveli momenti di crisi e riorganizzazione del tessuto comunitario e come le stesse cerimonie funebri possano essere momenti di ridefinizione e discussione collettiva delle strutture di potere. Il rovescio della medaglia di un approccio così ambizioso è però un eccessivo relativismo che Nizzo non manca di mettere in luce; a questo proposito egli cita giustamente come esempio di conciliazione tra diverse tradizioni (quella classica, quella processuale e quella postprocessuale) l’opera di Ian Morris, che analizzando la documentazione funeraria ateniese tra la fine del secondo e gli inizi del primo millennio a.C. mette al centro della trattazione la concessione della sepoltura formale agli infanti come “segno” della conclusione definitiva del processo di formazione della pòlis. Se un appunto può essere fatto è certamente quello di non aver commentato adeguatamente (anche se citata correttamente) l’opera di uno studioso come Richard Bradley, le cui riflessioni sull’ “archeologia dei luoghi naturali” (ad esempio sulla simbologia delle raffigurazioni rupestri di navi poste sulla costa svedese in vista di isole su cui sorgevano tumuli funerari) avrebbero forse meritato maggiore attenzione. Il settimo capitolo, dedicato agli sviluppi del dibattito in Italia tra gli anni Ottanta e gli inizi del XXI secolo è certamente il più corposo (Il dibattito sull’ideologia funeraria in ambito italiano nell’“era post-processuale”, pp. 289-442) e allo stesso tempo quello in cui la vicinanza agli argomenti trattati dell’autore (egli stesso partecipe di alcune delle esperienze citate) si sente di più. Il punto di partenza è costituito da alcuni fascicoli di Dialoghi di Archeologi della metà degli anni Ottanta dedicati in particolar modo al rapporto tra antropologia e archeologia, in uno dei quali sono pubblicati gli atti di un importante congresso tenutosi a Roma nel 1986, con la partecipazione di Renfrew e di Hodder. 205 Recensioni / Reviews Nizzo giustamente nota due aspetti peculiari della tradizione italiana: la pochezza del dibattito antropologico (a suo parere una delle cause del maggiore interesse per i metodi processuali) e soprattutto l’incredibile qualità e complessità della documentazione funeraria (solo in anni recenti affrontata adeguatamente sul piano dell’interdisciplinarietà e delle tecniche di scavo), sconosciuta ai “teorici” delle scuole anglosassoni, soprattutto per il periodo che costituisce il miglior punto d’incontro tra diverse tradizioni di studio (archeologia classica, etruscologia e protostoria), la prima età del ferro. A questo proposito egli cita diversi autori che hanno scritto contro il “colonialismo culturale” anglofono (p. 302, nota 46), tralasciando però quello che a tutt’oggi costituisce l’esempio più interessante, la polemica del ceco Evzen Neustupný (1998) sul rapporto tra la corrente mainstream dell’archeologia europea e le “minoranze” non anglofone” dell’Europa centrosettentrionale. Nel lungo (e forse ridondante) excursus sul dibattito protourbano Nizzo contrappone correttamente l’interpretazione della documentazione funeraria “egualitaria” della prima età del ferro nell’area centrotirrenica di Peroni come rispecchiamento fedele della struttura sociale e quella di D’Agostino, secondo il quale invece costituisce un “mascheramento” ideologico della situazione reale. Più avanti (p. 306, nota 65) Nizzo parlando del lavoro di Anna Maria Bietti Sestieri scrive che “...l’analisi della documentazione relativa alle necropoli e agli insediamenti (il corsivo è mio) di Osteria dell’Osa e di Castiglione sembra smentire l’idea di un assetto unitario protourbano”, un’affermazione risibile, visto che tutte le più recenti indagini di archeologia insediamentale dimostrano come ambedue le necropoli appartenessero, fin dal IX secolo a.C., al grande abitato protourbano di Gabii. Nonostante l’analisi critica puntuale dei contributi di Renato Peroni e della sua scuola alla ricostruzione dell’evoluzione della struttura sociale delle comunità protostoriche italiane si deve riscontrare un analogo fraintendimento della documentazione archeologica laddove Nizzo (p. 327) critica Peroni per aver postulato la diffusione del modello protourbano in tutta Europa prima della conquista romana, scordando che proprio in base alla macroscopica evidenza dei grandi oppida quasi tutti gli studiosi sono concordi nel riscontrare la diffusione di tale tipo di insediamento (e del carattere protostatale delle società in cui è documentato, cui fanno riferimento anche le fonti storico-letterarie), almeno dal II secolo a.C. Nella parte sui tentativi di quantificare, spesso in modo ingenuo, con curve di ricchezza o metodi analoghi la complessità della documentazione funeraria delle necropoli avrebbe forse meritato spazio l’articolo di Giampaolo Graziadio sulle tombe del Circolo B di Micene, caratterizzato da un originale sistema di calcolo del valore degli oggetti in base a variabili come la rarità della materia prima o la complessità del processo di lavorazione (Graziadio 1991). Diverse pagine sono giustamente dedicate all’approccio “tanatosemiologico” (le necropoli come sistema di segni) della più brillante allieva di Bruno D’Agostino, Mariassunta Cuozzo, che all’analisi dei linguaggi scelti dalla comunità di Pontecagnano per autorappresentarsi ha dedicato pagine importanti, utilizzando anche in modo innovativo diversi metodi statistici. 206 Recensioni / Reviews Vengono poi esaminate nel dettaglio alcune importanti necropoli italiane, in particolare Veio, Pitecusa, Pontecagnano e Sala Consilina. In quest’ultimo caso Nizzo accetta l’impostazione di Pascal Ruby che considera il sito un esempio mancato di organizzazione protourbana; in realtà che scrive ha potuto effettuare una ricognizione in diversi campi posti tra i due nuclei sepolcrali di Sant’Antonio e San Rocco raccogliendo ovunque frammenti di impasto, analogamente a quanto avviene nei grandi pianori sedi delle future città etrusche. Sembra dunque probabile l’identificazione dei tre grandi centri villanoviani campani come abitati unitari di tipo protourbano, un processo che chi scrive ha “letto” come creazione di veri e propri avamposti (gli outposts, concetto introdotto in Algaze 1993) da parte degli Early States dell’Italia centrotirrenica (Guidi 2009). Nel capitolo va inoltre notato il diverso trattamento che Nizzo riserva ai lavori di Iaia e Pacciarelli, analizzati criticamente, e al lavoro di Anna Maria Sestieri e di Anna De Santis, di cui si accettano quasi senza discussione diversi postulati teorici come la già citata appartenenza dell’Osa a un abitato diverso da Gabii o il metodo di identificazione dei 14 raggruppamenti (fa eccezione, su quest’ultimo argomento la “pudica” nota 576 a p. 402). L’ottavo e ultimo capitolo costituisce un’affascinante viaggio nelle tendenze degli ultimi anni in antropologia e in archeologia (Le ultime “frontiere” dell’archeologia funeraria, pp. 443-548). Tra le tematiche trattate vanno citate lo studio delle modalità di deposizione di più individui nelle incinerazioni, un campo indagato fin dagli anni Ottanta da Leonardi e da altri esponenti della scuola padovana, la ricostruzione degli aspetti “performativi” o meglio del “paesaggio rituale funerario”, anche questi desumibili dall’applicazione rigorosa (tutt’altro che comune) del metodo stratigrafico allo scavo delle necropoli (esempio assai importante è ora la pubblicazione da parte di Andrea Cardarelli e dei suoi collaboratori della necropoli di Casinalbo con individuazione di aree destinate a particolari rituali), le recenti applicazioni delle analisi del DNA mitocondriale per stabilire l’eventuale consanguineità di defunti sepolti nella stessa tomba o in tombe vicine. Analogamente promettenti sono la teoria della “frammentazione” intenzionale di resti scheletrici e/o manufatti (enchainment theory) elaborata da John Chapman o l’applicazione allo studio delle tombe di una necropoli della network analysis. Nel nostro paese purtroppo perdura l’incomunicabilità del lavoro degli antropologi con quello degli archeologi; a questo proposito Nizzo si sofferma sulle teorie di Remotti e del suo allievo Adriano Favole sulla manipolazione dei cadaveri (o “tanato-morfosi”) per suggerire un punto d’incontro tra diverse discipline, quella che chiama “archeologia dei cadaveri” (p. 499), di cui un esempio assai importante è l’approccio archeotanatologico di Duday, un’antropologo che postula la piena appartenenza della tafonomia del cadavere al contesto stratigrafico della sepoltura. In conclusione non poteva mancare un accenno alla questione dei deviant burials, i morti “atipici” come quelli in posizione prona, o più in generale in contesti di abitato (anche l’uomo del Similaun viene da Nizzo associato a questa categoria, anche se perdura la polemica se si tratti o no dei resti sconvolti di una sepoltura), materia questa oggetto di diversi convegni e pubblicazioni in Italia negli ultimi 10 anni. 207 Recensioni / Reviews A questo punto, poiché Valentino Nizzo ha utilizzato ampiamente la mia bibliografia vorrei brevemente rispondere ad alcune delle sue osservazioni, che nel suo libro, spesso nelle note, come una sorta di “ipertesto”: a) a p. 153, nota 22, si dice che riguardo al ben noto concorso del 1960 all’Università di Roma avrei scritto che Puglisi ottenne la cattedra di Paletnologia grazie all’appoggio di Pallottino, cosa impossibile visto che si sa che il candidato di Pallottino era la Laviosa Zambotti; b) a p. 205 si cita la mia Storia della Paletnologia del 1988 per affermare che avrei definito Renfrew come esponente “moderato” della New Archaeology. La mia posizione è invece che Renfrew debba essere considerato a tutti gli effetti un esponente della scuola processuale, con l’unica differenza che egli (come molti altri studiosi europei) ritiene di dover applicare i nuovi metodi anche a vecchi dati, spezzando così quel legame tra lavoro sul campo, osservazione e interpretazione ritenuto imprescindibile da Binford e dai suoi seguaci. c) appare singolare che Nizzo (p. 306, nota 65; p. 316, nota 113) spesso faccia passare l’idea che negli ultimi due decenni Anna Maria Bietti Sestieri e Alessandro Vanzetti abbiano tentato un’applicazione del modello dell’Early State Module alla realtà centrotirrenica, visto che chi scrive lo ha proposto fin dalla metà degli anni Ottanta. Più in generale trovo riduttivo definire i contributi miei e di Alessandro Vanzetti “traduzione del pensiero del Maestro in termini processuali” (p. 325), visto che personalmente in alcuni articoli che Nizzo non cita (Guidi 2008, 2010 con bibliografia precedente) credo di aver tentato di ricostruire un quadro di sviluppo legato alla nascita dei primi centri protourbani e delle prime entità protostatali della nostra penisola non solo spesso distante dalle concezioni di altri allievi di Renato Peroni (si veda ad esempio il problema dei centri villanoviani dell’Emilia e della Campania), ma con la rivalutazione di problematiche, come quella dell’etnicità, ben presenti nel libro che qui si recensisce. d) riguardo a ciò che ho scritto sulla limitata diffusione degli approcci postprocessuali in Italia (pp. 354-355, nota 296) – che comunque anche Nizzo rileva – ribadisco che a mio parere, sia per la contemporaneità di certe acquisizioni teoriche di Colonna e D’Agostino, sia per la lunga tradizione idealistica della nostra cultura (Collingwood, che Nizzo cita, è conosciuto da noi come traduttore inglese di Croce!), la scuola postprocessuale appare assai meno “eversiva” e quindi interessante per i nostri archeologi, laddove al contrario l’“esplosione” teorica dei metodi processuali che postulano una per noi inconcepibile unione di metodi umanistici e scientifici aveva almeno il pregio della novità assoluta. e) un’ultima precisazione riguarda due contributi citati da Nizzo: la parte sui corredi villanoviani nel libro dedicato agli scavi Bendinelli (note 5, p. 150 e 618, p. 410) è opera dello scrivente; quello citato come opera di Bernabei e Bondioli in cui per la prima volta viene utilizzato l’“indice di rarità” (p. 333) nella bibliografia è correttamente riportato come lavoro di tre autori (Bernabei, Bondioli e Guidi). Aggiungo che la parte che in quel caso mi toccava, la formalizzazione dei dati funerari pubblicati in modo assai approssimativo sui tumuli sauromati, era comunque imprescindibile per le successive analisi matematico-statistiche. Per un bilancio conclusivo dell’opera (che costituisce, non va dimenticato, un’ulteriore 208 Recensioni / Reviews “perla” della collana diretta da Giuliano Volpe) va anche tenuto conto che il libro di Valentino Nizzo è corredato da tre utilissimi indici analitici (nomi di persona; toponimi, etnici e facies culturali; nomi propri e concetti); stupisce, come unico “neo”, la mancanza di un riassunto in inglese, viste le dimensioni e le ambizioni dell’opera. Forse un’eccessiva lunghezza della trattazione di alcune scuole e/o studiosi o di tematiche diverse da quella dell’archeologia funeraria può essere un difetto del libro, ma anche così impressiona la vastità dell’affresco ricostruttivo; come ha giustamente commentato nella sua presentazione Michel Gras “Non c’è dubbio che tale pubblicazione sarà a lungo un punto di riferimento, aprendo tante discussioni e rilanciando così un dibattito che, da più di vent’anni, aveva difficoltà a mantenersi vivo” (p. 7). Bibliografia ALGAZE G. 1993 - Expansionary Dynamics of Some Pristine Early States, American Anthropologist 95: 304333. BARTOLONI G., DELPINO F. (a cura di) 2004 - Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronologia dell’età del ferro in Italia, Atti dell’Incontro di studi, Mediterranea I, PisaRoma. COLONNA G. 1977 - Un aspetto oscuro del Lazio antico. Le tombe del VI-V secolo a.C., La Parola del Passato 32: 131-165. CUOZZO A., GUIDI A. 2013 - Archeologia delle identità e delle differenze, Roma. GRAZIADIO G. 1991 - The Process of Social Stratification at Mycenae in the Shaft Grave Period: A omparative Examination of the Evidence, American Journal of Archaeology 95, 3: 403-440. GUIDI A. 1988 - Storia della Paletnologia, Laterza: Roma-Bari. – 2008 - Archeologia dell’Early State: il caso di studio italiano, Ocnus 16:175-192. – 2010 - The Archaeology of Early State in Italy: New Data and Acquisitions, in Urbanization, Regional Diversity and the Problem of State Formation in Europe, Special Section (guest editor Alessandro Guidi), Social Evolution&History 9, 2: 12-27. NEUSTUPNÝ E. 1998 - Mainstream and Minorities in Archaeology, Archeologia Polona 35-6: 13-23. NIZZO V. 2007 - Ritorno a Ischia. Dalla stratigrafia della necropoli di Pithekoussai alla tipologia dei materiali, Collection du Centre Jean Bérard: Napoli. 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BIOLOGICAL STANDARD OF LIVING IN THE NEAR EAST AROUND THE 4TH MILLENNIUM Eva Rosenstock – ANIMAL RESOURCES IN THE LATE URUK PERIOD FOOD PRACTICES Rémi Berthon – DECIPHERING THE LATE URUK BUTCHERING TEXTS J. Cale Johnson – A MATERIAL PERSPECTIVE ON FOOD POLITICS IN A NON-URBAN CENTER. THE CASE OF ARSLANTEPE PERIOD VI A (LC5) Maria Bianca D’Anna – THE PRODUCTION AND STORAGE OF FOOD IN EARLY IRAN Jacob L. Dahl – IMPORTANCE AND FOOD RANK: SOME EXAMPLES FROM UR III MESOPOTAMIA Hagan Brunke – BIBLIOGRAPHY NORTHERN UBAID AND LATE CHALCOLITHIC 1-3 PERIODS IN THE ERBIL PLAIN. NEW INSIGHTS FROM RECENT RESEARCHES AT HELAWA, IRAQI KURDISTAN Luca Peyronel, Agnese Vacca NEW DOCUMENTATION ON DIGGING TECHNIQUES OF THE PREHISTORIC FUNERARY HYPOGEA OF THE WESTERN MEDITERRANEAN Maria Grazia Melis, Marie Elise Porqueddu AN ANALYTICAL FRAMEWORK FOR THE RESEARCH ON PREHISTORIC WEIGHT SYSTEMS: A CASE STUDY FROM NURAGIC SARDINIA Nicola Ialongo, Andrea Di Renzoni, Michele Ortolani, Alessandro Vanzetti EXPLORING TERRITORIES: BUBBLE MODEL AND MINIMUM NUMBER OF CONTEMPORARY SETTLEMENTS. A CASE STUDY FROM ETRURIA AND LATIUM VETUS FROM THE EARLY BRONZE AGE TO THE EARLY IRON AGE Luca Alessandri