La religione degli europei - Fondazione Giovanni Agnelli

Studi e ricerche
Danièle Hervieu-Léger Franco Garelli, Salvador Giner e Sebasticín Sarasa,
James A. Beckford, Karl-Fritz Daiber, Miklós Tomka
La religione degli europei
Fede, cultura religiosa e modernità in Francia, Italia,
Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria
Edizioni della
Fondazione Giovanni Agnelli
La religione degli europei. Fede, cultura religiosa e modernità
in Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e
Ungheria / scritti di Danièle Hervieu-Léger, Franco Garelli,
Salvador Giner... [et al.] - XV, 502 p.: 21 cm.; grafici.
1. Europa - Etica e religione contemporanea 2. Europa - Religione e cultura contemporanea
I. Hervieu-Léger, Danièle
Copyright C) 1992 by Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli
Via Giacosa 38, 10125 Torino
tel. (011) 6500500, fax: (011) 6502777
e-mail: [email protected], Internet: http://www.fga.it
La traduzione dei saggi di Hervieu-Léger è di Cristina Ascoli, la traduzione
dei saggi di Giner-Sarasa e di Beckford è di Davide Panzieri, la traduzione
del saggio di Daiber è di Enrico Pasini, la traduzione del saggio di Tomka è
di Gabriella Piazza.
ISBN 88-7860-062-8
Indice
Introduzione
Marcello Pacini
p. XI
Tendenza e contraddizioni della modernità europea
Danièle Hervieu-Léger
Premessa
1
1. Quali sono, secondo i casi studiati, le contraddizioni principali della modernità
nelle quali si rilevano le ricomposizioni attuali del religioso
3
Religione e modernità: il «caso italiano»
Franco Garelli
1. La religione al singolare
2. Quattro stagioni sociali e religiose: la società italiana negli ultimi
decenni (e una rivisitazione storica)
3. Il mutamento del costume: dinamiche demografiche e strategie
individuali e familiari
4. Religiosità di maggioranza e religiosità di minoranza
5. Struttura e organizzazione del campo religioso
6. Religione e mass media
7. Il fenomeno della militanza religiosa
Riferimenti bibliografici
11
17
46
56
68
79
86
95
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
Salvador Giner e Sebastidn Sarasa
1. Una storia plasmata dalla religione
2. Il franchismo e il fascismo clericale (1939-75)
3. Democrazia liberale e pluralismo religioso (1976-90)
101
104
111
VIII
Indice
4. Il nuovo orientamento della Chiesa (1978-92)
5. La ridefinizione culturale del cattolicesimo e della religione
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
Appendice
p. 114
123
129
136
141
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
Danièle Hervieu-Léger
I. Il paesaggio religioso francese: considerazioni storiche e demografiche
1. Il paradosso di una doppia filiazione
2. Le due «soglie di laicizzazione»
3. La pluralità religiosa della Francia
II. «Parrocchiani» e «militanti»: un mondo cattolico passato
1. La fine di un mondo di osservanza
2. La crisi del reclutamento sacerdotale e religioso
3. La civiltà parrocchiale scomparsa
4. Modernizzazione e trasformazioni dell’«immaginario parrocchiale»
della Francia cattolica
5. La scomparsa dei militanti
III. Alcune tendenze della modernità religiosa in Francia
1. «Rivoluzione silenziosa» e acculturazione alla modernità: alcune
evoluzioni recenti della sociabilità cattolica
2. Verso una religione di comunità «emozionali»?
3. Dal «cristianesimo culturale» alla «nuova laicità»
Riferimenti bibliografici
155
155
158
160
170
170
173
177
180
189
193
193
201
205
211
Religione e società nel Regno Unito
James A. Beckford
Premessa
1. Le strutture della società britannica moderna
2. La religione non istituzionale nel Regno Unito
3. Le organizzazioni religiose e le comunità di fedeli
4. Interpretazioni sociologiche
Riferimenti bibliografici
217
222
229
250
275
282
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
Karl-Fritz Daiber
1. Riflessioni teoriche preliminari su religione e modernità
2. Situazione della ricerca empirica sulla religione
291
301
Indice
3. Il contesto sociale: popolazione, economia, Stato
4. Orientamenti religiosi nel mondo-della-vita
5. Religione organizzata e sfera pubblica
6. La situazione delle due grandi chiese cristiane
7. Le comunità religiose cristiane accanto alle due chiese maggiori
8. Altre religioni universali nella Repubblica federale tedesca
9. La rinuncia all’appartenenza a una comunità religiosa
10. Religione organizzata e mutamento sociale in Germania:
osservazioni esemplari
11. Religione e modernità in Germania: sistemazione teorica
degli esiti dell’indagine
Riferimenti bibliografici
IX
p. 302
309
323
353
364
370
376
378
389
402
Modernizzazione e Chiesa: l’esperienza dell’Ungheria comunista e
postcomunista
Miklós Tomka
Premessa
1. Modernizzazione e modernità: i concetti nel contesto dell’Ungheria
comunista
2. Prassi socioeconomica e prassi politica della modernizzazione
in Ungheria nel dopoguerra
3. Contributo sociale della religione e della Chiesa
4. Mutamento del sistema sociale della religione
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
409
411
415
441
451
476
478
Tendenze e prospettive
James A. Beckford
Premessa
1. Credenze ed esperienze religiose
2. La partecipazione alle collettività religiose
3. Le organizzazioni religiose
4. Politica e religione
Conclusioni
Nota sugli autori
485
485
490
494
498
500
503
Introduzione
La presenza della religione nella società europea contemporanea è
stata oggetto di un complesso di ricerche che la Fondazione Agnelli ha
condotto in Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Ungheria.
Le ricerche, delle quali il presente volume raccoglie i principali risultati,
sono nate per approfondire il rapporto fra religione e modernità
soprattutto nell’Europa economicamente, tecnologicamente e politicamente più matura e avanzata. In questa prospettiva il caso dell’Ungheria, significativamente diverso, se ben testimonia il ruolo anche «politico» della religione nei paesi dell’Europa centrale e orientale, serve
soprattutto come utile termine di raffronto per misurare la distanza che
su questo terreno separa le società «congelate» dall’esperienza comunista
dall’Europa occidentale.
Il rapporto fra religione e società nell’Europa contemporanea si
colloca, nel quadro delle attività della Fondazione Agnelli, in una
posizione di assoluto rilievo, trovandosi alla confluenza di alcune nostre
importanti, consolidate, vorrei dire tradizionali, aree di interesse.
La prima area di interesse riguarda il futuro dell’Europa e dell’identità
europea. La lunga e faticosa marcia d’avvicinamento dell’Europa verso
l’unità economica e politica, da un lato, e i grandi sconvolgimenti che
hanno trasformato in questi anni la fisionomia politica dello spazio
europeo, dall’altro, sollevano interrogativi ai quali la cultura deve cercare
risposte. La Fondazione Agnelli partecipa a questo sforzo con gli
strumenti dell’analisi sociale, studiando come la società europea cambia
sia nelle sue strutture demografiche ed economiche, sia nella sua identità
culturale. Non crediamo perciò sia forzato reinterpretare il crociano «non
possiamo non dirci cristiani» per affermare che i percorsi dell’identità
europea contemporanea, che certo traggono alimento da una pluralità di
esperienze storiche e culturali, continuano a trovare nel Cristianesimo
uno dei principali riferimenti.
In secondo luogo, vi è il nostro interesse per i percorsi della fede e
della pratica religiosa nella società contemporanea, studiati nella loro spe-
XII
Introduzione
cificità e autonomia. Abbiamo condotto in passato ricerche per capire
quale impatto la religione conservasse nelle manifestazioni più avanzate e
secolarizzate della cultura occidentale. E nata così, ad esempio, l’indagine
Valori, scienza e trascendenza che negli anni ottanta approfondiva il rapporto
di alcune comunità scientifiche con la dimensione religiosa.
Vi è, infine, il nostro generale interesse per la riflessione sull’etica e sui
sistemi di valori nelle società avanzate, che la Fondazione Agnelli ha
perseguito nel tempo con numerose iniziative, fra le quali il Premio
Internazionale Senatore Giovanni Agnelli.
Siamo convinti che vi siano oggi molti motivi per occuparsi di etica,
per dare voce a quel diffuso bisogno di ripensamento dei valori che
sembra farsi strada in tutta la società. Da un lato, si deve prendere atto
che la crescente complessità delle nostre società, insieme alla capacità
della scienza e della tecnologia di intervenire e modificare il corso degli
eventi naturali, suggerisce la revisione e l’ampliamento tanto dei problemi
da sottoporre al vaglio del giudizio etico (si pensi, ad esempio, ai temi che
si propone di affrontare la bioetica) quanto dell’orizzonte temporale
entro cui valutare gli effetti delle nostre scelte di natura pratica. Dall’altro,
si osservi in quale singolare posizione si trovi oggi il sistema sociale e di
valori dell’Occidente, che, proprio nel momento del suo successo storico,
è obbligato a interrogarsi sulla solidità del proprio edificio e sull’ampiezza,
oggi ancora più grande, delle proprie responsabilità. Se infatti il crollo dei
sistemi e delle ideologie totalitarie conferma la validità e forse l’unicità del
modello occidentale, certo non se ne può nascondere i nodi irrisolti:
all’interno (si pensi alla sopravvivenza, anche nei paesi più ricchi, di vaste
aree di povertà e di malessere sociale), come pure nel rapporto con il
resto dell’umanità (la frattura fra il Nord sviluppato e il Sud
sottosviluppato); e neppure si possono tacere quei problemi nuovi, che
soltanto possono sorgere nel clima culturale delle società avanzate, come
i timori per il degrado dell’ambiente a causa dell’uomo, di cui si alimenta
la nuova sensibilità ecologica fortemente venata di motivazioni etiche.
Non deve dunque sorprendere che l’etica sia al centro degli interessi di
un’istituzione di ricerca come la Fondazione Agnelli. Per chi ha la finalità
istituzionale di studiare il divenire della società contemporanea, a partire
dal rapporto fra stato, mercato e società civile e dagli effetti sociali del
progresso scientifico e tecnologico, la riflessione sull’etica è, oggi,
inevitabile e fondamentale. In assenza di quadri etici adeguati ai tempi,
infatti, le indagini nel campo delle scienze sociali ed economiche si
collocherebbero nel vuoto e perderebbero gran parte del loro significato
e della loro utilità scientifica e pratica.
Introduzione
XIII
Questo interrogarsi della modernità occidentale intorno alla complessità e ai rischi del suo proprio sviluppo non può ovviamente eludere il
discorso religioso. Sia perché la dimensione religiosa è di per sé portatrice
di istanze e di risposte etiche, sia perché dappertutto chiese e movimenti
religiosi continuano di fatto a essere attivi protagonisti della vita sociale e
della discussione sui valori, sia, infine, perché, in quanto categoria
concettuale e fenomeno storico, la religione stabilisce necessariamente
con la modernità un rapporto complesso e in continuo divenire, che si
declina nella società occidentale secondo specifiche modalità, ben diverse
da quelle di altre religioni e altre società.
Avviando il programma, il nostro intento era di fare il punto sul presente e sulle prospettive prevedibili della religione degli europei, riferendoci alla religione come fenomeno complesso: non soltanto la religiosità, il sentimento religioso, ma altresì quell’insieme di strutture, organizzazioni e pratiche ecclesiali o comunque collettive che rappresentano l’aspetto visibile della religione nella società europea. Di conseguenza, le domande dalle quali sono partiti i ricercatori in ciascun paese sono
di natura squisitamente sociologica: quanto grande sia oggi l’area della
popolazione europea che esprime un’opzione religiosa, quali siano i modi
concreti nei quali gli europei vivono oggi la religione, come le chiese e le
comunità di fede trovino spazi dentro le società avanzate, come si
configurino oggi i rapporti tra la religione e le altre sfere della vita sociale.
La ricerca si concentra sostanzialmente sulla tradizione giudaicocristiana. Naturalmente gli autori non ignorano affatto l’esistenza e il
diffondersi di nuove fenomenologie religiose estranee o marginali rispetto
a questa tradizione né soprattutto ignorano che in Europa sono oggi
insediati nuclei anche consistenti di credenti in altre religioni tradizionali,
specie musulmani. Tuttavia, sebbene vi si possano talvolta trovare
riferimenti episodici, le ricerche non si spingono su questo terreno, nella
convinzione che, primo, è la matrice giudaico-cristiana quella storicamente radicata in Europa e davvero determinante per l’identità degli
europei, e, secondo, che è opportuno trattare separatamente il peculiare
rapporto che ciascuna religione oggi intrattiene con la modernità. Difficile, ad esempio, adottare gli stessi strumenti metodologici e interpretativi che le ricerche impiegano per il rapporto Cristianesimo I modernità
nel caso radicalmente diverso del rapporto Islam / modernità. Quest’ultimo è, come si sa, assai più conflittuale, al punto che Io si può icasticamente ridurre all’alternativa «islamizzare la modernità o modernizzare l’Islam», attraverso un processo di lungo periodo che, per il momento, non sembra prevedere significative mediazioni. Peraltro, pro-
XIV
Introduzione
prio sull’importante e interessante tema dell’Islam in Europa la Fondazione Agnelli ha già avviato un diverso e specifico programma di ricerca.
Una conclusione generale che abbiamo tratto dalle ricerche è la seguente: il rapporto tra religione e società nell’Europa contemporanea è
molto più complesso e richiede visioni più articolate di quanto non si
poteva credere in passato: la religione continua infatti a essere, seppure in
forme alquanto diverse dal passato, un cruciale fattore di produzione di
identità individuali e collettive dentro la modernità. In questo senso, le
ricerche mettono in discussione le chiavi interpretative che in questi
decenni le scienze sociali hanno utilizzato per definire il destino della
religione nelle società avanzate. Secolarizzazione, privatizzazione, eclissi:
nessuna di queste categorie appare, alla luce delle ricerche, soddisfacente.
Infatti, per quanto indubbiamente ciascuna di esse sottolinei aspetti reali,
tuttavia è proprio la tesi generale ad esse sottesa, quella che diagnosticava
la inevitabile ritirata della religione e del suo ruolo sociale di fronte
all’inarrestabile marcia di una modernità europea areligiosa e indifferente,
a non risultare confermata.
Molti indizi concorrono a far pensare che sia avvenuto un fatto in
parte inaspettato: lungi dall’opporsi come una dimensione spirituale, pratica ed esistenziale sostanzialmente estranea alla modernità, la religione
cristiana è diventata, dopo la stagione storica del conflitto, una componente importante del processo di modernizzazione e a questo processo
partecipa in Europa da protagonista. Con ciò naturalmente non si intende
che il pensiero religioso si identifichi totalmente e passivamente con la
modernità, così come è intesa nella società europea. Sappiamo, al
contrario, che sovente le Chiese europee si pongono assai criticamente
nei confronti di alcuni caposaldi del vivere moderno e qui pensiamo
soprattutto agli esiti della scienza e la tecnologia, al rapporto fra stato,
mercato e società civile, alla distanza fra nazioni ricche e nazioni povere,
al valore della persona e così via. Ma questa critica si afferma, lo ripeto,
all’interno di un rapporto con la modernità che non è mutuai-mente
esclusivo, ma anzi ha finalità costruttive e orientate a meglio definire e
correggere le caratteristiche stesse della modernità. A questo proposito,
basta citare la Centesimus Annus come esemplare testimonianza del
raccordo, critico ma positivo, che la religione cattolica ha saputo trovare
con i processi dell’economia di mercato e, quindi, con una parte
essenziale della modernità.
Se la religione in Europa non è assediata dalla modernità, a sua volta la
modernità, senza portare agli esiti ultimi previsti dai teorici della secolarizzazione, ha comportato certo variazioni importanti nei modi di
vivere la fede del credente europeo. Le ricerche ampiamente si soffer-
Introduzione
XV
mano su questi cambiamenti, analizzando l’impatto che l’interazione con
i tempi ha avuto non soltanto sui modi dell’espressione religiosa (ad
esempio, la sostanziale riduzione della pratica cristiana e dell’adesione ai
dogmi più tecnici e alle specifiche prescrizioni morali delle Chiese, nel
contesto di una permanenza dei fondamentali valori della fede), ma anche
sulla vita e l’organizzazione delle Chiese, sulla composizione anagrafica,
sociale e culturale delle comunità di credenti.
E tuttavia come espressione della società civile e quindi
particolarmente sul terreno della vita pubblica che le Chiese europee
mantengono la propria presenza e rinnovano i propri consensi: le
ricerche dimostrano come le organizzazioni religiose abbiano acquisito
nuovi spazi nella vita politica e istituzionale. Importanti riflessioni sulla
riforma dei sistemi di «welfare» europei trovano essenziali punti di
riferimento nel pluralismo delle organizzazioni e del volontariato di
matrice religiosa. Allo stesso modo la cultura religiosa non abbandona,
ma anzi rafforza il suo ruolo di referente obbligatorio nei dibattiti sui
nuovi quadri legislativi che coinvolgono i sistemi di valore, in particolare
per effetto degli interrogativi di natura etica che tutte le società avanzate si
pongono intorno alle innovazioni scientifiche e tecnologiche, come pure
intorno ai temi della tutela ambientale. In sostanza, si può concludere che
in tutti i paesi europei il ruolo pubblico delle Chiese non solo è
riconosciuto e accettato, ma è richiesto.
È dunque sullo sfondo di questo rapporto di natura positivamente
dialogica fra esigenze di modernizzazione e valori religiosi che si muovono le comunità dei credenti nelle diverse nazioni europee prese in esame. Poiché ciascuna di esse stabilisce un peculiare rapporto con la società
civile e le istituzioni del proprio paese, anche a questo livello più squisitamente analitico le ricerche riservano interessanti novità e qualche
sorpresa.
Marcello Pacini
Tendenze e contraddizioni della modernità europea
Danièle Hervieu-Léger
Premessa
Qualsiasi tentativo di sintesi delle evoluzioni e delle tendenze presentate nei diversi contributi raccolti in questo volume si scontra con una
grossa difficoltà, la diversità stessa del paesaggio europeo. Modellato da
una storia poliedrica, il «processo di modernizzazione» riveste, in ogni
paese, un aspetto specifico: esso non inizia nello stesso momento, non si
sviluppa con lo stesso ritmo, è costituito da fasi di durata disuguale, non
produce gli stessi effetti economici, politici, sociali e culturali. Non è forse
illusorio, in queste condizioni, cercare di munirsi di un quadro di pensiero
omogeneo per cogliere quello che avviene del religioso in questa diversità
di situazioni e di evoluzioni così poco sovrapponibili? Tanto più che
questo «religioso» presenta esso stesso caratteri profondamente diversi
secondo i paesi considerati. C’è un grosso divario, ad esempio, tra l’Italia
o la Spagna, dove prevale il monopolio cattolico romano, e la Germania,
in cui il protestantesimo e il cattolicesimo si equilibrano. Anche là dove si
crede di cogliere la convergenza, è ancora la diversità che si impone: la
Gran Bretagna e la Francia scoprono entrambe l’importanza dell’Islam.
Ma l’Islam magrebino che domina in Francia è molto diverso
dall’Islam dei pakistani immigrati in Inghilterra. Si aggiunga infine che
i paesi dei quali qui si presenta il percorso religioso nella modernità,
non costituiscono soltanto elementi, tutti particolari, di un’Europa la
cui identità comune è un orizzonte e un progetto quanto e più che il
punto di arrivo di vicende sovrapposte. Essi sono anche parti di reti
storico-culturali la cui influenza accentua ulteriormente alcuni dei tratti
che li caratterizzano e li contrappongono gli uni agli altri. L’universo
culturale anglosassone, di cui la Gran Bretagna è intimamente
beneficiaria, si differenzia profondamente dal complesso mediterraneo
al quale partecipano, in misura diversa, l’Italia, la Spagna e la Francia.
L’Europa non è solo un mosaico di nazioni: essa è un accavallarsi
di diversità locali, regionali, nazionali e transnazionali di cui
2
Danièle Hervieu-Léger
il religioso costituisce, a ogni livello, una dimensione di grande importanza.
D’altra parte il problema posto dalla descrizione di queste diversità
concatenate potrebbe venir superato più facilmente se si potesse trovare
un accordo particolarmente chiaro sul contenuto del concetto di modernità. Ma è giocoforza riconoscere che tale consenso teorico è lungi
dall’essere acquisito, e questo per due ragioni principali.
La prima è che gli studiosi coinvolti in un tale progetto comparativo
appartengono tutti a comunità scientifiche che hanno una propria tradizione teorica e un proprio arsenale concettuale, per quanto riguarda in
particolare il trattamento sociologico della modernità. La concezione
luhmanniana della complessità, avanzata da un dato autore, non sarà
necessariamente condivisa da un altro che ponga al centro della definizione della modernità la questione dell’emergenza del soggetto. Il modo
di considerare la «modernizzazione» sarà completamente diverso a seconda che implichi o no la critica della «modernità» comunista: la specificità del caso ungherese, rispetto agli altri casi studiati in questa raccolta,
è evidente a questo riguardo. Da un punto di vista generale, si pone il
problema dell’articolazione tra la definizione della «modernità», come
categoria inglobante che permette di trattare la massa e la diversità delle
informazioni raccolte e le teorie della «modernizzazione», che riguardano
lo sviluppo storico delle società contemporanee. Su tutte le questioni
teoriche, le prospettive differiscono secondo l’universo di pensiero nel
quale si collocano gli studiosi. È facile rendersi conto che queste
differenziazioni intellettuali non sono minori quando si tratta di elaborare
una prospettiva ampia delle evoluzioni dell’oggetto religioso nell’area
europea. Il presente lavoro reca l’impronta delle differenze di accento
teorico: è nello stesso tempo un momento di arrichimento e di difficoltà
il cercare, dopo aver sottolineato le specificità sociologiche delle diverse
traiettorie nazionali, di farle confluire in un’interpretazione unificata della
modernità religiosa in Europa.
Una seconda ragione riguarda la difficoltà di articolare i diversi livelli
di analisi possibile della modernità religiosa: questa può essere colta a
livello degli individui, attraverso la trasformazione delle credenze e dei
valori, attraverso il cambiamento delle modalità di espressione dell’esperienza religiosa, che pure muta di contenuto a contatto con la cultura moderna dell’individuo. Può essere colta anche a livello dei processi
di cambiamento ― riguardanti le strutture della società sul piano politico,
economico, sociale, culturale ― che dirigono l’evoluzione dello statuto
sociale del religioso, e il tipo di relazioni che il campo religioso ha con gli
altri campi sociali. Può, ancora, venir esaminata dal punto di vi-
Tendenze e contraddizioni della modernità europea
3
sta delle trasformazioni ideologiche che toccano le società impegnate in
quei processi di cambiamento globale: la questione dei rapporti tra politica e religione potrà, in questa prospettiva, occupare un posto centrale
nell’analisi (come è il caso, ad esempio, del saggio spagnolo). Può infine
venire considerata come una logica interna al campo religioso stesso, che
si tenterà di identificare seguendo da vicino i rimpasti all’opera nel paesaggio delle istituzioni e delle organizzazioni religiose. Non c’è dubbio
che questi diversi punti di vista si combinano in ognuno dei contributi qui
presentati, ma il modo di ordinarli gli uni rispetto agli altri differisce di
molto e rende tanto inutili quanto vani gli sforzi che potrebbero venire
intrapresi per reintegrarli in un quadro d’analisi generalizzante. Si dirà, ad
esempio, che la religione contribuisce al processo di modernizzazione o al
contrario che essa vi si oppone? Il caso spagnolo e il caso ungherese, per
non citarne che due, mostrano chiaramente che è impossibile dare una
risposta categorica in un senso o nell’altro. I rapporti tra religione e
modernità rientrano, in tutti i casi considerati, sotto il segno
dell’ambivalenza e dell’ambiguità: questa è, a quanto pare, l’unica
conclusione semplice che è possibile avanzare seguendo questa traiettoria
comparativa.
L’osservazione sarebbe soltanto banale se non aprisse la via a una
riflessione più ampia sulla dinamica della modernità in quanto tale: le
ambiguità e le ambivalenze dei rapporti della religione con la modernità
sono anche lo specchio nel quale si manifestano le contraddizioni della
modernità stessa, e l’individuazione di queste contraddizioni deve permettere, a sua volta, una problematizzazione arricchita delle tendenze del
campo religioso. Se si può trarre una conclusione, essa non consiste nel
formulare quel verdetto definitivo (e spesso nostalgico) sul presente e il
divenire della religione nella modernità che hanno troppo spesso espresso
le diverse teorie della secolarizzazione: si può invece, riconsiderando la
posizione prospettica dei due termini, invitare a prolungare la riflessione
al di là del percorso comparativo già effettuato.
1. Quali sono, secondo i casi studiati, le contraddizioni principali della modernità
nelle quali si rilevano le ricomposizioni attuali del religioso?
Una prima contraddizione riguarda il pluralismo, considerato come un
tratto caratteristico delle società moderne. I casi presentati in questa
raccolta illustrano tutti questa peculiarità: la democrazia, che costituisce la
forma per eccellenza di una modernità politica che pone il soggetto al
centro del dispositivo sociale del potere facendo di lui un citta-
4
Daniele Hervieu-Léger
dino, si realizza in modo privilegiato in regimi poliarchici1 che implicano il
riconoscimento esplicito dell’esistenza di gruppi di statuti socioeconomici
molteplici, il pluralismo dei partiti politici e la garanzia efficace delle
libertà pubbliche. Nel campo religioso, il pluralismo rientra nella libertà
riconosciuta formalmente a tutti i credenti di esprimere e di trasmettere la
propria fede e di celebrare il proprio culto, in conformità alle regole
dell’ordine pubblico. Attraverso dispositivi giuridici diversi secondo i
paesi, si suppone che lo Stato debba garantire la protezione dell’esercizio
pacifico della libertà religiosa, regolamentando, in particolare, le
manifestazioni della concorrenza interreligiosa generata inevitabilmente
dal pluralismo. Nella realtà, le cose sono meno semplici: il pluralismo
formale in materia religiosa può nascondere situazioni disuguali di fatto,
secondo il peso demografico delle comunità, secondo il posto che esse
hanno occupato nella storia nazionale, secondo le tracce lasciate nella
coscienza collettiva da tradizioni culturali antiche, secondo, inoltre, il tipo
di controllo che gli stati intendono esercitare sui gruppi religiosi. Da parte
degli stessi gruppi religiosi si osservano forti resistenze al pluralismo,
dirette nello stesso tempo contro le comunità religiose concorrenti e
contro il diritto di ogni cittadino di rifiutare la tutela di una qualunque
istituzione religiosa. L’osservazione fatta da James Beckford secondo la
quale la Gran Bretagna, paese di religiosità molteplice, non potrebbe
ciononostante essere considerata pluralista, dal punto di vista del
trattamento concreto delle diverse religioni (nella vita pubblica, nelle
scuole, nei mezzi di comunicazione e così via) può, in misure diverse,
applicarsi a tutte le situazioni europee studiate.
La contraddizione tra pluralismo e resistenze al pluralismo che caratterizza l’esercizio concreto della libertà religiosa in Europa si inserisce
essa stessa in una tensione che riguarda non solo l’ordine giuridicopolitico, ma anche la vita sociale delle società europee considerate.
Queste si presentano tutte come società istituzionalmente differenziate (e
a questo titolo «moderne»), nelle quali l’autonomia delle diverse sfere
dell’attività sociale (economica, politica, culturale, domestica, religiosa e
così via) è teoricamente e praticamente garantita. L’iniziativa individuale e
collettiva degli attori sociali è valorizzata e si ammette che essa possa
esprimersi, in ognuna di queste sfere, attraverso forme diverse di asso1 Si fa riferimento qui al termine usato da Robert Dahl per designare la forma particolare che
assume la democrazia nelle società industriali occidentali. Questo regime poliarchico costituisce il
riferimento esplicito dei processi di democratizzazione avviati nei paesi dell’Est europeo. R. Dahl, A
Preface to Democratic Theory, Chicago, The University of Chicago Press, 1956; Id., Who
Governs?, New Haven, Yale University Press, 1961; Id., Polyarchy, Participation and Opposition,
New Haven, Yale University Press, 1971.
Tendenze e contraddizioni della modernità europea
5
ciazionismo. Nello stesso tempo, però, queste società sono tutte soggette a
un processo di centralizzazione burocratica che risponde a una triplice
logica amministrativa, politica ed economica. Le esigenze dell’efficacia
organizzativa, la propensione dello Stato a intervenire in tutti i campi
dell’attività sociale, l’avanzata della spersonalizzazione democratica del
potere e gli imperativi legati all’ampliamento degli scambi internazionali
accentuano in modo notevole una tendenza classicamente riconosciuta
come tipica delle società occidentali dalla sociologia, a partire da Max
Weber. E chiaro che il «rischio di dispotismo immenso e tutelare» che
evocava Tocqueville a proposito delle società democratiche è più o meno
pregnante secondo i paesi. Esso si impone certamente più in Francia, dove
la tradizione giacobina resta molto potente nonostante gli sforzi di
decentramento, che in Germania. Esso è però presente ovunque, e la
dinamica della costruzione europea comunitaria non può che contribuire
ad accentuarlo. Ora si osserva che le istituzioni religiose portano, in tutti i
paesi, il segno di questa tensione. Da un lato, le chiese, con i loro uffici, i
loro esperti, le loro commissioni e le loro assemblee deliberative, tendono
ad allinearsi sempre più nettamente con il funzionamento delle grandi
organizzazioni burocratiche. Il modo in cui esse applicano le decisioni
centrali e le riforme non ha nulla da invidiare alle procedure amministrative
adottate nell’ordine profano. In questo senso, si può dire che la riforma
liturgica decisa nel Concilio vaticano II è stata, nei suoi orientamenti
nonché nell’applicazione pratica, l’espressione di una vera e propria
«rivoluzione amministrativa» in seno al cattolicesimo romano; nello stesso
tempo, però, si afferma in modo potente l’aspirazione all’autonomia locale
e all’autodeterminazione delle comunità. Questo «localismo» comunitario
ben corrisponde alla tendenza dei gruppi religiosi, in un universo
secolarizzato in modo massiccio, a funzionare come gruppi volontari.
Questo orientamento nuovo della socialità religiosa, che David Martiri, tra
gli altri, ha ben descritto2, appare in tutti i casi presentati. La vitalità
associazionista rompe l’omogeneità di un universo parrocchiale che ha
costituito, per secoli, la modalità principale della socialità religiosa. Essa si
pone anche in rottura paradossale con il centralismo organizzativo che
caratterizza, in modo generale, le grandi chiese.
La proliferazione di gruppi, comunità, associazioni religiose che si
sovrappongono al dispositivo parrocchiale di amministrazione ecclesiastica corrisponde a un’esigenza di diversificazione delle forme dell’espressione religiosa. Essa rientra in una tendenza più generale della moderni2 D. Martin, A
General Theory of Secularization, Oxford, Basil Blackwell, 1978.
6
Danièle Hervieu-Léger
tà occidentale più avanzata a richiedere in tutti i settori, per gli individui, la
possibilità di accedere ai mezzi della loro autorealizzazione. Questo ideale
di compimento personale e di realizzazione del sé, caratteristico della
cultura moderna dell’individuo, penetra oggi la sfera religiosa. Una
religiosità fondata sulla spontaneità dell’espressione religiosa individuale e
collettiva e sull’intensificazione affettiva dei legami comunitari tende, un po’
ovunque, a sostituirsi, o almeno a sovrapporsi, a una religiosità fondata
sull’osservanza stretta delle prescrizioni ecclesiastiche. La diminuzione
generale dei tassi della pratica regolare risulta in modo massiccio
nell’aumento dell’indifferenza religiosa nei paesi avanzati, ma è anche la
conseguenza di un cambiamento delle forme della sensibilità religiosa
individuale e collettiva, che a sua volta induce una trasformazione delle
modalità della socialità religiosa.
Questa evoluzione non corrisponde però solo a un processo di integrazione della religione rispetto a questa «modernità psicologica», che è un
modo per l’uomo contemporaneo di cogliere la propria individualità e di
operare per conquistare la propria identità, in una società complessa in cui
regna l’astrazione delle relazioni sociali. Essa rivela la trasformazione culturale
fondamentale che si gioca, per la stessa complessità astratta della società
moderna, nella modalità di produzione degli universi di significati attraverso i
quali gli individui e i gruppi sociali si rendono conto da soli del mondo nel
quale vivono e della loro azione storica. Società dominate dall’«imperativo del
cambiamento »3, le società moderne sono società aperte, ma anche società di
incertezza, nelle quali nessuna tradizione funziona più come un «codice di
senso» che si impone agli individui e ai gruppi. Questa dissoluzione
generalizzata dei sistemi di significato si trova oggi aggravata, all’Est come
all’Ovest, dal crollo delle grandi ideologie che pretendevano di fornire il
senso globale delle evoluzioni storiche. Il conflitto, nelle religioni, tra
l’affermazione moderna dell’autonomia dell’individuo e della società, e
l’eteronomia di una verità fondata su una rivelazione soprannaturale di
cui l’istituzione si rende garante non è nuovo: esso segna da parte a
parte la traiettoria della modernità. L’atomizzazione individualista dei
sistemi di significato che risulta oggi dalla perdita generalizzata dei punti
di riferimento del senso produce un nuovo aspetto di questo conflitto:
le chiese hanno ampiamente perso la loro capacità di imporre non solo
alla società tutta intera, ma anche ai propri fedeli, un sistema ortodosso
di significati organizzati, associati a un dispositivo di pratiche obbligato3 Si
1985.
veda M. Gauchet, Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Paris, Gallimftrd,
Tendenze e contraddizioni della modernità europea
7
rie. Le tradizioni delle grandi religioni si presentano oggi come un capitale
simbolico fluttuante, al quale gli individui e i gruppi di interessi attingono
liberamente (senza la mediazione delle istituzioni religiose) gli elementi
che permettono loro di costruire il loro universo religioso di riferimento.
Molti dei contributi presentati in questo volume sottolineano tale dispersione individualista delle credenze e la crisi dell’autorità istituzionale che la
rende possibile. Essi indicano nello stesso tempo che questa crisi dell’autorità istituzionale favorisce il proliferare delle forme carismatiche dell’autorità, sulla linea di quelle comunità di volontari che tendono a prendere il
posto delle forme antiche della socialità religiosa regolamentata in modo
istituzionale.
Il fenomeno di «deregolamentazione» del campo religioso non può
evidentemente essere colto negli stessi termini nelle società dell’Ovest,
dove esso partecipa della liberalizzazione generale delle istituzioni deputate alla trasmissione delle norme e dei valori (famiglia, scuola, università, partiti e così via) e nelle società dell’Est europeo, dove la disgregazione istituzionale ha assunto forme più drammatiche, ma dove la
religione, per il fatto stesso della sua esclusione dal campo della trasmissione istituzionale legittima, ha potuto svolgere un ruolo essenziale
nella (ri)costituzione del tessuto sociale. E assai probabile però che esso
emerga, sotto una forma o l’altra, nella logica stessa del processo di democratizzazione all’Est e nel movimento di sviluppo degli scambi e delle
comunicazioni fra tutte le componenti dell’Europa. Qui si inserisce del
resto un’altra contraddizione caratteristica della modernità europea
contemporanea, con conseguenze importanti per il campo religioso.
Da un lato ― lo si è già detto ― la frammentazione dei sistemi di significati collettivi e la perdita dei riferimenti di senso esprimono e rafforzano nello stesso tempo la situazione di incertezza che deriva, per gli
individui e per i gruppi, dalla rapidità del cambiamento sociale, dalla
reversibilità permanente delle situazioni economiche, dall’accentuazione
dei fenomeni di mobilità e di delocalizzazione, dalla contrazione dello
spazio e del tempo indotta dallo sviluppo delle comunicazioni e degli
scambi. Le comunità tradizionali ― villaggi, famiglie allargate, parrocchie
e così via ― si sono ovunque dissolte, e con esse le modalità di costituzione delle identità individuali e collettive fondate sulla continuità dei
simboli e la ripetizione dei riti. Le società moderne sono società strutturalmente instabili, ed è questa stessa instabilità che tende a suscitare, per
reazione, l’affermazione volontaristica dei particolarismi etnici, culturali o
religiosi. All’atomizzazione della società risponde un movimento di
«gruppuscolizzazione identitaria» che pone, in tutti i paesi europei,
la questione del contenuto della cittadinanza e quella del carattere
8
Daniele Hervieu-Léger
universale dell’ideale democratico. Ora, in tale ondata di (ri)costituzione
comunitaria delle identità, si fa ampio ricorso al patrimonio simbolico e
culturale delle religioni. Ciò vale in modo particolare per gli immigrati dai
paesi musulmani, che cercano nell’affermazione comunitaria del loro
particolarismo religioso il mezzo per reagire simbolicamente all’esclusione
economica, sociale, politica e culturale che subiscono nei paesi di
accoglienza. Tale tendenza riguarda però anche, in modo più generale, gli
strati sociali che subiscono più direttamente (soggettivamente e/o
oggettivamente) gli effetti di destabilizzazione indotti dal cambiamento
rapido: il successo dei nuovi movimenti religiosi, l’ondata carismatica, il
rafforzamento delle correnti religiose integraliste o integriate possono
essere analizzati sotto questa luce.
Da un lato, però, queste società moderne frammentate si presentano
anche come società in via di omogeneizzazione: omogeneizzazione dei
modi di vivere e dei tipi di consumo, sotto il segno della tecnica e del
regno dell’oggetto; omogeneizzazione delle aspirazioni individuali e collettive, per l’intensificarsi degli scambi che avvicinano universi sociali
finora separati; omogeneizzazione dei riferimenti e dei valori in seno alla
cultura moderna dell’individuo. L’esistenza di una «cultura giovane» su
scala europea è probabilmente l’espressione più caratteristica di questa
uniformazione dei comportamenti di consumo, dei gusti e dei riferimenti
simbolici. Si sa però che questo processo di comunicazione omogeneizzante si estende al di là di una fascia d’età particolare, e che ha
avuto la sua parte, contemporaneamente alle aspirazioni attive alla libertà,
nel crollo dei regimi di tipo sovietico all’Est. Questa omogeneizzazione
individualistica dei modi di vivere e delle aspirazioni alimenta lo sviluppo
di una cultura edonista che le chiese, e specialmente la chiesa cattolica,
percepiscono e combattono come una minaccia diretta per la propria
autorità in materia etica. Essa favorisce però anche l’affermarsi non
conflittuale di un consenso allargato su valori ― libertà di coscienza,
libertà di circolazione, libertà di associazione e così via ―, sul quale le
stesse chiese si appoggiano per riconquistare la plausibilità culturale del
loro discorso etico. Questo paradosso della «modernità etica» fin de siècle
è certamente, dal punto di vista della ricomposizione contemporanea
del religioso, uno dei luoghi in cui si evidenzia, in modo più chiaro,
l’imperativo contraddittorio al quale sono oggi soggette le chiese: quello
di dover manifestare nello stesso tempo la specificità irriducibile del
loro messaggio (chiamando in causa, se necessario, le rivendicazioni
d’identità che proliferano in una società instabile) e la loro capacità di
far assumere un senso a questo messaggio, adattandolo a un
Tendenze e contraddizioni della modernità europea
9
universo culturale in cui non può più essere ricevuto direttamente
come «corpo di senso »4.
Attanagliato dalle contraddizioni della modernità stessa, il religioso si
ricompone ricorrendo nello stesso tempo alla sua estraneità alla modernità e alla sua capacità di integrarsi all’universo moderno che esso ha
contribuito a far emergere. La traiettoria di questa ricomposizione riveste
però aspetti diversi, secondo i contesti sociali, politici e culturali nei quali
essa ha luogo. È della diversità di questi aspetti che si vorrebbe rendere
conto, in modo più preciso, a partire dai dati raccolti dai diversi
contributi.
4 Si veda M. de Certeau, Un cbristianisme
éciaté, Paris, Seuil, 1974.
Religione e modernità: il «caso italiano»
Franco Garelli
1. La religione al singolare
1.1. Segni di secolarizzazione e di presenza della religione
Parlando del rapporto fra religione e modernità i temi ricorrenti sono
quelli della secolarizzazione, del calo della pratica religiosa, del venir
meno del senso religioso della popolazione, della perdita di influenza
della religione sulla società. Questo scenario di problemi viene per lo più
evocato per illustrare la situazione della religione nelle società avanzate,
nei contesti più industrializzati dell’Occidente. Esso quindi non sembra
sottolineare una situazione particolare del nostro paese, quanto il fatto
che ― per quanto riguarda le dinamiche della religione nella società ―
anche l’Italia partecipa dei processi che più in generale caratterizzano le
nazioni in cui da più tempo si è insediato e sviluppato il cristianesimo.
Eppure, guardando alla realtà italiana alla fine del XX secolo, non
mancano i segni di una certa qual vitalità di gruppi e movimenti religiosi;
della persistenza della pratica religiosa tra la popolazione (che non sembra
scendere al di sotto di una certa soglia); del perdurare nel tempo
dell’azione della Chiesa nella società, in settori che possono essere considerati vitali per gli equilibri nazionali. Gli indicatori di tenuta dei riferimenti religiosi tra la popolazione e di una presenza sociale dinamica
dell’istituzione religiosa sono molteplici e ricorrenti nel nostro paese,
rilevati da tutte le indagini che ― pur a titolo diverso ― si sono applicate
al fenomeno.
Di fronte a questi segni si possono avanzare due ipotesi. La prima è
che la situazione italiana sia per vari aspetti diversa da quella che mediamente caratterizza gli altri paesi europei; che anche nelle dinamiche
religiose abbia a emergere un «caso italiano », che andrebbe ad affiancarsi alla posizione particolare assunta dall’Italia in molti altri settori
sociali (come quelli relativi alla produzione e all’economia, ai rapporti
12
Franco Garelli
politici, alla riproduzione del consenso sociale e così via) rispetto a quanto
avviene negli altri paesi più industrializzati. La seconda è che i teorici della
secolarizzazione abbiano troppo presto celebrato la fine o la marginalità a
cui sarebbe destinata la religione in un contesto di modernità, prestando
poca attenzione alle dinamiche in atto o alle condizioni che possono
rendere plausibile il ruolo della religione anche nella società contemporanea. Al riguardo sarebbe prevalsa un’idea convenzionale della
modernità, una visione troppo lineare e semplificata dell’evoluzione sociale e culturale e delle dinamiche della storia. Entrambe queste ipotesi
sembrano parzialmente valide per il «caso italiano».
1.2. La particolarità religiosa del «caso italiano»
La situazione del nostro paese è anzitutto peculiare nel panorama delle
nazioni europee, per varie ragioni.
In primo luogo l’Italia è un paese a tradizione cattolica, al punto che si
può individuare a questo livello un vero e proprio carattere nazionale,
termine con cui si fa riferimento a una
disposizione relativamente costante ad agire in un modo determinato e
riconoscibile nelle diverse circostanze, che la maggioranza dei membri adulti
di una collettività nazionale, non necessariamente coincidente con una
società o uno Stato, ma partecipe di una medesima cultura, appaiono
possedere in comune1.
È questo il tratto culturale a cui fa riferimento R. Bellah quando rileva
la persistenza in Italia di un «basso continuo religioso»: tale sottofondo
sembra rappresentare per tradizione la religione reale, mentre il
cattolicesimo sembra costituire quella legale; si tratterebbe di una religiosità di tipo naturale, in grado di informare i vari gruppi e le diverse
culture, di rappresentare un elemento di continuità e di stabilità culturale2.
Sempre in questa linea, un’altra particolarità deI caso italiano è individuabile nella presenza in Italia del papato, fatto questo che ha costituito
«un’arma a doppio taglio» per le vicende religiose del paese. Da un lato,
essa spiega la grande influenza della chiesa cattolica sulla storia e sulla
società italiana e il prodursi di una situazione di monopolio religioso.
Dall’altro, essa ha ostacolato «lo sviluppo di una chiesa nazionale», troppo prossima al centro del potere religioso per dar corso a una
1 L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino, Utet, 1978, p. 94.
2 R. Bellah, «Le cinque religioni dell’Italia moderna» in F. L.
di), Il caso italiano, Milano, Garzanti, 1974, p. 446.
Cavazza e S. R. Graubard (a cura
Religione e modernità: il «caso italiano»
13
presenza sociale e religiosa autonoma. In questo quadro, una storia delle
dinamiche sociopolitiche e religiose del paese non può prescindere
dall’analisi del ruolo preminente esercitato dal centro della cattolicità.
In Italia inoltre ― e questo sarebbe il terzo elemento distintivo del
nostro paese ― «il divario tra intellettuali e masse, tra coscienza ideologica
e sentimento popolare, è forse più profondo che nella maggior parte dei
paesi occidentali»3. Si tratta di una frattura culturale che si articola anche
in un diverso atteggiamento nei confronti della religione. Storicamente
tale divario è emerso nella stessa formazione dello stato nazionale, tra
un’élite di orientamento liberale e informata da istanze positivistiche e la
gran massa della popolazione non particolarmente coinvolta nell’indirizzo
politico prevalente e per lo più ancorata a una visione tradizionale e
religiosa della realtà. Proprio la persistenza di questi orientamenti nelle
classi subalterne ― particolarmente esposte all’inflenza della Chiesa ― è
stata chiamata in causa per spiegare il ritardo con cui si è storicamente
realizzato nel nostro paese il processo di modernizzazione4. Comunque
tale divario sembra per certi versi riscontrabile anche nella società
contemporanea. Ancora in anni recenti si delineerebbe in Italia ― più che
altrove ― una frattura tra una classe dirigente e un’élite intellettuale a
prevalente formazione laica e un’ampia quota di popolazione ancora
esposta agli influssi di una formazione religiosa tradizionale.
1.3. Confessioni e movimenti religiosi non cattolici
Nel delineare questi elementi di particolarità religiosa e culturale della
situazione italiana non si intende ovviamente trascurare la presenza nel
nostro paese di confessioni religiose storiche non cattoliche e di movimenti religiosi emergenti (rappresentati dai vari culti, dalle nuove sette e
così via) che non si riconoscono nella tradizione del cristianesimo. Soprattutto nei confronti delle dinamiche religiose emergenti si registra nel
nostro paese un grande interesse da parte sia dei mass media e degli
osservatori sia del vertice della chiesa cattolica. Si tratta di un’attenzione
orientata per lo più a scrutare gli eventuali sviluppi della situazione
religiosa nazionale, i segni di novità che si delineano all’orizzonte, anche
in relazione alla possibilità che i recenti flussi di immigrazione stra3 Ibid.
4 Si veda
N. Bobbio, Profilo ideologico del novecento italiano, Torino, Clut, 1972, p. 37. Riprendo qui
un’interessante idea di E. Roggero sviluppata nel suo volume Secolarizzazione controversa, Milano,
Angeli, 1981, p. 104.
14
Franco Garelli
fiera abbiano a incrementare e a consolidare ― in un prossimo futuro ― le
espressioni religiose estranee alla nostra tradizione culturale.
Nel tempo presente, comunque, le confessioni e i movimenti religiosi
non cattolici non sembrano ancora rappresentare ― nel complesso ― un
fenomeno rilevante, sia dal punto di vista quantitativo sia relativamente
all’influsso sulle dinamiche nazionali (soprattutto se confrontati col peso
dell’area cattolica). Ciò in quanto le espressioni religiose altre da quella
cattolica non sembrano ― globalmente considerate ― interessare più di
800.000 soggetti (comprendendo nel computo di alcune realtà religiose
anche i «simpatizzanti»), evidenziando quindi un carattere decisamente
minoritario rispetto alla grande maggioranza di italiani che
pur a diverso titolo e con differente grado di intensità ― dichiarano di
riconoscersi nella religione cattolica.
A grandi linee, l’area evangelica (valdesi-metodisti, battisti, avventisti,
Chiesa dei fratelli, Assemblee di Dio e altri) conta dai 200.000 ai 300.000
membri.
Parallelamente gli Ebrei ammontano a poco più di 30.000 unità, mentre
sarebbero poche migliaia gli italiani che si riconoscono nella religione
musulmana.
Gli appartenenti ai nuovi movimenti storici ammonterebbero poi a circa 350.000
unità, la gran parte dei quali è costituita dai Testimoni di Geova (150.000 aderenti
e 150.000 circa simpatizzanti).
Infine, il fenomeno dei nuovi culti e dei movimenti emergenti interesserebbe nel
nostro paese poco più di 200.000 persone (comprendendo in questo numero i
membri attivi, gli aderenti e i simpatizzanti)5.
Qualcuno può osservare che si tratta comunque di riferimenti religiosi
diversi, in quanto una parte del mondo cattolico evidenzia un’adesione
religiosa assai allentata rispetto a quanto si registra nelle minoranze non
cattoliche. L’osservazione è indubbiamente pertinente, ma in tutti i casi
indica che una quota allargata di popolazione preferisce mantenere
identificazioni tradizionali, anche labili, piuttosto che aderire ad altre
espressioni religiose. In ultima istanza, si osserva ― e questa può essere
un’altra particolarità della situazione italiana ― una certa difficoltà delle
confessioni religiose non cattoliche o dei movimenti religiosi emergenti a fare
opera di proselitismo nel nostro paese, in relazione al fatto che il processo di
secolarizzazione non interessa soltanto le religioni più consolidate.
Contrariamente dunque a quanto emerge in altri contesti nazionali europei, la
religione cattolica in Italia sembra ancora caratterizzarsi ― pur in termini
controversi e ambivalenti ― per una situazione di monopolio religioso.
5 F. Garelli, Religione
e chiesa in Italia, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 15.
Religione e modernità: il «caso italiano»
15
1.4. Pluralismo dell’espressione religiosa più che molteplicità delle fedi
L’ipotesi pertanto è che ― anche in un contesto di modernità ― l’Italia
non sia attraversata da quel pluralismo delle fedi, da quella varietà delle
espressioni religiose, propri di molti paesi occidentali. Ciò non significa
però che il nostro paese abbia a risultare ― a livello religioso ― una realtà
monolitica, carente di dialettica interna, privo di quei tratti di
differenziazione presenti in molti altri settori sociali. La varietà dei
riferimenti e delle espressioni sembra infatti interessare Io stesso campo
religioso cattolico, che riflette quindi al proprio interno le dinamiche di
differenziazione che caratterizzano il sistema sociale nel suo complesso.
Pertanto, più che per un pluralismo delle fedi, il nostro paese sembra
caratterizzarsi per un modo assai diversificato di interpretare un comune
senso religioso.
Entrando nell’analisi della religiosità, un altro elemento singolare della
situazione italiana è rappresentato dal mantenimento di livelli di pratica
religiosa o di partecipazione attiva alla religione di Chiesa sensibilmente
più elevati di quelli che si riscontrano in altre nazioni europee. In altri
termini, la soglia di distacco tra quanti aderiscono teoricamente alla
religione cattolica e quanti «praticano», appare in Italia assai meno
accentuata (pur essendo ― considerata in sé ― assai consistente) di quanto osservabile in altre nazioni dell’Occidente.
1.5. Secolarizzazione controversa
In rapporto a queste indicazioni generali sul «caso italiano» occorre
osservare che i mutamenti in termini di religiosità nell’insieme della popolazione o nel rapporto tra religione e società sembrano assai più lenti e
complessi o controversi di quanto alcuni osservatori e studiosi siano
disposti a riconoscere. L’eccesso di previsione negativa circa i fenomeni
religiosi espressa da vari studiosi sembra imputabile al fatto che essi hanno come riferimento per Io più i gruppi sociali emergenti, la cui condizione può non rispecchiare la realtà nel suo complesso; oppure al fatto
che si tratti di previsioni informate da una visione esaltata o semplificata
della modernità come di un processo inarrestabile, in grado di contagiare i
vari sottosistemi sociali, che appare dirompente rispetto ai modelli
organizzativi e cognitivi tradizionali.
La complessità dipende non soltanto
dall’affermarsi della modernizzazione, dal prevalere di forme sociali e organizzative da società avanzate. Essa è individuabile anche nell’intrecciarsi nell’attuale
società di formazioni sociali differenti, nella compresenza di forme socia-
16
Franco Garelli
li, di orientamenti culturali, di modi di produzione, di strategie e comportamenti
economici, che fanno riferimento a modelli di società e a stadi di sviluppo tra di loro
assai differenti6.
Oltre a ciò, la complessità si manifesta anche nei molteplici fattori sociali e culturali che interagiscono attualmente nel rapporto tra religione e
società, che condizionano o ripropongono anche nell’epoca contemporanea la presenza della religione nella società7. Va da sé che una siffatta considerazione dei processi sociali non significa che nulla sia mutato negli ultimi decenni nel nostro paese, relativamente sia alla religiosità sia alla presenza della religione nella società; ma soltanto che questi mutamenti sembrano aver assunto un carattere più controverso e articolato ― e anche
socialmente più interessante ― rispetto alle previsioni ricorrenti.
1.6. Piano di lavoro
Il carattere controverso e dinamico della presenza della religione in un contesto
di modernità ― relativamente al caso italiano ― è l’oggetto del presente lavoro,
particolarmente orientato a prestare attenzione ai rapporti reali, alle complesse
dinamiche che attraversano il contesto sociale. Tale obiettivo verrà perseguito sulla
base di diverse prospettive di analisi e in rapporto a varie aree tematiche così
sintetizzabili:
― una ricostruzione del rapporto fra religione e società come è venuto delineandosi negli ultimi quarant’anni della nostra storia nazionale (e,
sullo sfondo di quest’analisi, una rivisitazione della posizione della
Chiesa e delle vicende del mondo cattolico negli ultimi cent’anni); ciò
per evidenziare il peso rilevante esercitato dalla Chiesa e dal mondo
cattolico sulle dinamiche del paese e in relazione alla tendenza del
cattolicesimo a esprimersi in particolari forme sociali e politiche;
― le trasformazioni della religiosità, dell’espressione religiosa della
popolazione, analisi questa che porterà a rilevare la persistenza di una
religione di maggioranza e il consolidarsi di una religione di minoranza;
― la struttura e l’organizzazione dell’istituzione religiosa, del campo religioso istituzionalizzato, per rilevare quanto esso abbia ad assolvere ― nel tempo
presente ― una funzione di equilibrio e di integrazione delle dinamiche sociali;
― le dinamiche dell’associazionismo religioso, per delineare i caratteri della militanza religiosa nel tempo presente e i diversi processi di ridefinizione dell’identità cui dà adito attualmente un riferimento di fede.
6 F. Garelli, La religione
.
7 Ibid., p. 23
dello scenario, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 18.
Religione e modernità: il «caso italiano»
17
2. Quattro stagioni sociali e religiose: la società italiana negli ultimi decenni (e una
rivisitazione storica)
2.1. Il mito della cristianità
A detta di molti osservatori si è delineata negli ultimi decenni della
nostra storia nazionale una parabola che ― a riprese e intensità diverse ―
ha caratterizzato il rapporto fra religione e società nei paesi occidentali.
Ciò che sembra essersi consumato o perso ― nelle recenti vicende
del nostro paese ― è l’era della cristianità, il modello della cristianità
costituita. Con tali termini si intende descrivere una situazione in cui
la quasi totalità dei cittadini si dichiara ufficialmente «cattolica»; l’istituzione
ecclesiastica, grazie anche ad una convergenza «concordata» col potere
politico, mantiene in molte aree del paese una posizione di predominio; il
controllo deI processo di socializzazione nelle sue sedi più importanti,
famiglia e scuola, garantisce una trasmissione generalizzata dei «valori
cristiani»8.
Pur nel limite delle generalizzazioni, questo quadro di monopolio religioso
sembra adeguato a descrivere la situazione nazionale che ha caratterizzato il
periodo successivo alla seconda guerra mondiale e l’inizio dello sviluppo
economico, periodo storico che a livello ecclesiale corrisponde alla frase
precedente il Concilio vaticano II (indetto da papa Giovanni XXIII nel 1958).
Il carattere della cristianità emerge qui nel largo consenso attribuito dalla
popolazione ai valori religiosi e nella stretta alleanza tra potere politico e potere
spirituale. Si tratta di un’epoca in cui la fede costituisce la base della convivenza
civile e della socialità e in cui la Chiesa si presenta sulla scena sociale come il
soggetto etico di riferimento.
Sono gli anni in cui i cattolici assumono ― per la prima volta nell’età
contemporanea ― un ruolo guida nel governo della società, operando il
passaggio da una situazione di opposizione o di azione parallela allo Stato
all’accettazione della democrazia politica con assunzione diretta di
responsabilità; in cui si osserva un continuo e dinamico travaso di cattolici dai movimenti religiosi nelle file deI partito della Democrazia cristiana (che raggiunge in quel periodo il massimo dei consensi elettorali);
in cui la Chiesa rinsalda la sua influenza sulla società civile in rapporto sia
al potere ad essa accordato dallo Stato sia alla legittimazione pubblica
attribuita ― in un tempo di ricostruzione nazionale ― ai «valori» cattolici
(famiglia, educazione dei giovani, socializzazione religiosa); in cui,
8 A. Parisi, «La matrice socio-religiosa del dissenso cattolico in Italia» in 11 Mulino, 216, 1971,
pp. 639
18
Franco Garelli
ancora, la chiesa cattolica mette in campo tutta la sua forza istituzionale
per orientare e condizionare la fase di transizione sociale e politica che
caratterizza il paese. In questa linea, la Chiesa non manca di candidarsi
come un punto di riferimento sicuro «per risollevare la società italiana dal
baratro in cui era precipitata»9 con l’esperienza fascista e con la guerra, e
per evitare quelli che essa considera i rischi di sovversione o di
involuzione (e parallelamente di secolarizzazione) presenti nella fase della
ricostruzione nazionale (i pericoli, da un lato, del comunismo e, dall’altro,
di una ripresa del liberalismo).
Ovviamente, il delinearsi di un’epoca di cristianità sembra essere in
relazione a una situazione di tendenziale omogeneità culturale, col prevalere di un clima largamente informato ai valori tradizionali e carente di
riferimenti extranazionali (che rispecchia l’uscita del paese da una situazione sociale e politica drammatica e che richiede una pronta riabilitazione collettiva)10.
In quegli anni, dunque, l’idea di ricostruire la cristianità ― che ha
rappresentato il proposito costante dell’azione della chiesa cattolica nella
società italiana negli ultimi cent’anni ― sembra perdere il suo carattere di
mito irraggiungibile, di istanza utopica, per assumere i contorni di un
processo storico realizzabile. Per più di un secolo, infatti, in Italia la chiesa
cattolica si è mossa all’insegna della cristianità da ricostruire, fatto che ha
trovato di volta in volta ― a seconda dei diversi passaggi storici ― nuovi
motivi di riproposizione. Ne è emersa una storia della presenza della
religione nella società segnata a un tempo da atteggiamenti ricorrenti (per
Io più oppositivi e conflittuali), da profondi travagli, da sensibili
mutamenti di rotta (e persino dall’assunzione di posizioni strumentali).
Una rivisitazione di queste linee di tendenza, di questi complessi e
controversi processi storici, permette di meglio comprendere le stesse
dinamiche in cui si articola il rapporto fra religione e società nel tempo
presente, nella società contemporanea.
2.2. Tra intransigentismo e conciliazione: la chiesa italiana negli ultimi cent’anni
Una rivisitazione storica offre anzitutto l’occasione di cogliere le radici
storiche di alcune tendenze che attraversano la cattolicità italiana
9 G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato, Marietti, 1985, p. 90.
10 Su queste tematiche (come su molte altre trattate in questo mio contributo) si sofferma anche
B. Sorge nel suo interessante lavoro La ricomposizione dell’area cattolica in Italia, Roma, Città Nuova,
1979.
Religione e modernità: il «caso italiano»
19
sul finire del XX secolo. Il riferimento, in particolare, è a correnti ideali e
a movimenti in cui sembrano riemergere i caratteri dell’intransigentismo
cattolico dell’Ottocento, a forme di espressione religiosa (segnate da un
attivismo capillare, da un confronto globale con la modernità, dall’identificazione tra scelta religiosa e opzione politica) che reinterpretano
la fede in termini di mobilitazione e di opposizione alla società. Ma più in
generale, una versione meno radicale e dirompente di queste istanze si
riscontra anche in larghi strati di credenti. Anche nell’area cattolica più
moderata non mancano infatti individui e gruppi che avvertono l’esigenza
di dare maggior risalto all’espressione religiosa. In questa linea si tende a
porre confini tra sé e il mondo, ad accentuare le differenze, a recuperare
le appartenenze; tutti aspetti che indicano la situazione di disagio, di
sofferenza o di estraneità culturale che caratterizza l’espressione religiosa
in un contesto di modernità.
2.2.1. La Chiesa di fronte alla secolarizzazione delle strutture politiche
Ieri come oggi, l’intransigente è un cristiano che individua nel processo di secolarizzazione e di laicizzazione della società un grande rischio
per la fede. La storia della chiesa italiana (e dei cattolici ad essa più vicini)
nell’ultimo secolo può essere letta nei termini di una continua
mobilitazione nei confronti delle diverse espressioni assunte nel tempo
dalla secolarizzazione.
Nell’Ottocento il rischio per la fede è stato individuato soprattutto
«nel processo di secolarizzazione delle strutture politiche cominciato con
le rivoluzioni liberali». Gli ordinamenti sociali e politici emergenti sembravano togliere ogni «legittimità ad una religione positiva, fondata su una
rivelazione pubblica, di origine divina, custodita e garantita dall’autorità
della chiesa»11. La marginalità o l’insignificanza sociale della religione
erano considerate conseguenze del cambiamento radicale del modello di
organizzazione sociale e politica che faceva perno sulla religione
istituzionalizzata. Infatti,
non si trattava solo delle persecuzioni e delle spoliazioni che la chiesa aveva
subito, dell’avversione profonda di cui si era sentita inaspettatamente circondata: un intero sistema di valori e di rapporti, che per essere divenuto
costume e pratica corrente sembrava connaturale ormai alla vita religiosa
come all’organizzazione sociale, appariva improvvisamente spezzato e
distrutto 12.
11 A. Acerbi, «Chiesa italiana: le correnti neo-intransigenti. Risposta polemica alla laicizzazione
del paese» in Il Regno, 2, 1987, p. 43.
12 G. Miccoli, Fra mito della cristianità cit., pp. 23 sg.
20
Franco Garelli
Di qui l’assunzione da parte della Chiesa di una mentalità di opposizione che la porterà (sotto il pontificato di Pio IX) a una difesa intransigente dei valori religiosi e degli ordinamenti sociali del passato in un’epoca segnata da trasformazioni impetuose legate
all’espandersi dell’industrializzazione, all’affermarsi del liberalismo e alla comparsa di un movimento operaio indipendente e alle teorie più radicali del
socialismo e dell’anarchismo, e infine il trionfo di quei movimenti di
unificazione nazionale come quello italiano che doveva portare alla fine del
potere temporale dei papi13.
L’esito di una siffatta dinamica è dunque individuabile nella netta
separazione della Chiesa e del mondo cattolico dalla realtà politica e sociale dell’epoca, fenomeno questo che ha conosciuto nel nostro paese
accentuazioni assai più rilevanti che in altri contesti nazionali.
2.2.2. Il progetto di riconquista cattolica della società. L’uscita del mondo cattolico
dall’isolamento
È stato detto che un forte gruppo sociale non può essere sequestrato a
lungo dai rapporti con la società: così il mondo cattolico non poteva
essere tenuto ― a lungo andare ― in una situazione di estraneità rispetto
ai dinamismi che andavano trasformando la società italiana di quell’epoca.
Si spiega allora l’emergere di una nuova stagione dell’intransigentismo
religioso, di cui si rende protagonista Leone XIII, nel tentativo ― già per
certi versi anticipato in altre realtà nazionali ― di evitare il divorzio della
Chiesa dalla società e di reinserire i cattolici nella vita pubblica. In questa
linea si opera per offrire una risposta cattolica alla questione operaia e per
porre su nuove basi i rapporti tra la Chiesa e gli stati, in modo da facilitare
l’inserimento del mondo cattolico nella società civile.
Nonostante alcuni segnali di compromesso o di accettazione del
mondo moderno, si tratta pur sempre di un disegno intransigente, ín
quanto l’inserimento sociale della Chiesa viene perseguito sulla base di un
progetto di riconquista cattolica della società. Anche questo progetto
lascia trasparire l’atteggiamento di difesa e di contrapposizione della
Chiesa nei confronti dei processi sociali emergenti: l’assunzione della
questione sociale e di quella operaia può essere funzionale a contrastare
l’espansione del socialismo tra le masse lavoratrici, così come i movimenti
cattolici erano chiamati ― nella loro azione sociale e nell’inserimento nella
13
M. Salvadori, Storia dell’età contemporanea, Torino, Loescher, 1976, vol. 1, p. 316.
Religione e modernità: il «caso italiano»
21
vita politica nazionale ― a contrastare gli eccessi del capitalismo (evitando,
in tal modo, di offrire spazio al socialismo).
Comunque, questa nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e società ha
favorito l’uscita del mondo cattolico dall’isolamento e la ricerca di «punti di
intersezione nei processi sociali e culturali in atto nella società italiana»14. E
proprio tale inserimento nelle dinamiche sociali e politiche farà emergere
nel mondo cattolico quelle divisioni che fino a quel tempo erano state
compresse dalla fedeltà all’azione promossa dal centro della cattolicità.
L’area della militanza cattolica appare così divisa in due ali fondamentali: tra
quanti sulla base di una visione moderata della realtà mirano a una
composizione paternalistica dei conflitti tra le classi sociali e quanti ―
attraverso la propria azione ― cercano di integrare l’intervento sociale con
quello politico, facendosi promotori di un progetto di democrazia adeguato
a far fronte alle tensioni sociali emergenti nel paese. Quest’ultima area,
contrapponendosi al moderatismo e al conservatorismo cattolico, è
favorevole «ad accrescere il peso politico dei lavoratori», ad attaccare «le
oligarchie borghesi liberali», a «una organizzazione politica fondata sulla
rappresentanza nazionale degli interessi professionali, sul decentramento
amministrativo, sulla rappresentanza economica »15.
2.2.3. Fermenti nel mondo cattolico e riproposta normativa della Chiesa
Le forti tensioni che si producono nel mondo cattolico negli anni di
passaggio tra l’Ottocento e il Novecento rappresentano i prodromi di
una nuova e travagliata stagione che caratterizza la chiesa italiana all’inizio di questo secolo. L’impegno sociale dei cattolici appare ormai inarrestabile e svolge una parte di rilievo negli equilibri politici generali, al
punto che le forze di governo (la borghesia liberale) cercano di servirsene in chiave antisocialista e per accrescere il proprio disegno egemonico
sulla società. All’interno del mondo cattolico si fa strada la tendenza
modernista, un movimento che accentua gli orientamenti liberali e progressisti del cattolicesimo nel tentativo di giungere a un’interpretazione
moderna — e libera da influssi clericali — dell’identità religiosa. Aprendosi ai princìpi della cultura moderna, tale movimento tende a «intrecciare il problema della riforma della società con quello della riforma
della chiesa», elaborando una «miscela esplosiva che avrebbe portato a
una dura reazione»16. Oltre a ciò, la tendenza a un’azione autonoma nel
14 Ibid., p. 423.
15 Ibid., p. 425.
16 A. Acerbi, «Chiesa italiana» cit., p. 43.
22
Franco Garelli
campo sociale e politico sembra accentuarsi anche tra i cattolici democratici (che si riconoscono nella corrente della democrazia cristiana), i
quali impegnandosi nella promozione di un’organizzazione di
rappresentanza degli interessi dei lavoratori si discostano sempre più sia
dai cattolici intransigenti (fedeli all’impostazione del Vaticano e quindi
ostili allo Stato e a qualsiasi forma di organizzazione dei lavoratori) sia
dai cattolici liberali (sempre più inclini all’azione promossa dallo stato
liberale).
Rispetto alle tensioni che attraversano il mondo cattolico (e ai connessi pericoli di lacerazioni, di interpretazioni eccessivamente autonome o
liberaleggianti dell’impegno sociale e politico e della stessa identità
religiosa, di conciliazione tra cristianesimo e pensiero moderno, di
strumentalizzazione dell’azione dei cattolici da parte dello Stato) toccherà
a Pio X operare quelle decisioni volte a porre fine ai conflitti interni e a
ribadire il ruolo guida della gerarchia nelle dinamiche sociali: tra queste, la
condanna del modernismo, lo scioglimento dell’Opera dei Congressi
(movimento cattolico che sotto la direzione della gerarchia tendeva a
promuovere nel paese strutture di solidarietà sociale ed economica),
l’imposizione ai cattolici democratici di limitare la loro azione sociale. Si
tratta di orientamenti e di decisioni che ben rendono ragione del carattere
drammatico che ha assunto per la Chiesa l’inizio del XX secolo.
Alcune delle tensioni descritte (e le organizzazioni sociali cui davano
adito) potevano essere temperate o sconfessate, ma in tutti i casi manifestavano il grande fermento che ormai permeava il mondo cattolico
in relazione al tipo di presenza da attuare nella società e alla ridefinizione dell’identità religiosa nel tempo moderno. L’orientamento a inserirsi
nelle dinamiche sociali e politiche significava infatti irrimediabilmente la
fine di quella «costruzione ideologica, che aveva caratterizzato l’età di
Leone XIII, e per la quale il rapporto tra la chiesa e la società moderna
era calato nello schema di una contrapposizione fra principi radicalmente opposti e alternativi»17. La rottura di questo schema ideologico
aveva portato ― come s’è visto ― a un pluralismo di posizioni sociali e
politiche tra i cattolici e a un’opera di continuo intervento della gerarchia ecclesiastica per evitare le eventuali distorsioni di linea e per adattare il modello intransigente al mutamento delle condizioni sociali e religiose.
In questo quadro, i cattolici socialmente più aperti e orientati a una
posizione di fedeltà nei confronti della Chiesa avvertivano l’esigenza di
17 Ibid., p. 43.
Religione e modernità: il «caso italiano»
23
trovare nuovi equilibri ideali e culturali grazie ai quali fosse possibile operare
l’assunzione di responsabilità sociali e politiche senza stemperare l’identità
religiosa o il senso di appartenenza ecclesiale. Da un lato, essi intendevano
evitare i rischi connessi alla posizione dei cattolici moderati, il cui favorevole
avvicinamento allo stato liberale li relegava in una posizione politica subordinata e comportava uno scarso riconoscimento dei valori cattolici; dall’altro, intendevano discostarsi anche dalle impostazioni cattoliche più radicali,
per le quali le possibilità di partecipazione al rinnovamento della società
erano connesse alla riforma della Chiesa e al superamento delle posizioni da
essa espresse. Sturzo (che nel 1919 fonderà il Partito popolare) si presenta
come un punto di equilibrio in questa situazione, in quanto egli riesce a dar
forma politica autonoma alle istanze pluriformi della cattolicità italiana. Il suo
progetto garantiva l’identità del cattolicesimo politico contro il rischio (...) della
perdita di identità nel gran mare del liberalismo trasformistico (...) ma offriva
anche la prospettiva di un’integrazione politica all’interno della società nazionale,
[aspirazione questa assai diffusa] rappresentata a lungo dal conciliatorismo;
assumeva la riforma dello stato come programma del nuovo partito (...) ma
separava l’idea della riforma dello stato da quello della riforma della chiesa ― e
questo teneva a freno i sospetti degli antimodernisti. Si trattava di un equilibrio
geniale ma fragile, [che rappresentava] l’esempio di una distinzione tra ragioni
politiche e ragioni ecclesiastiche, che garantiva l’autonomia politica dei cattolici,
ma che, nello stesso tempo, poneva alla base di essa il riferimento ai princìpi etici
e ai valori evangelici18.
Nelle prospettive della Chiesa, la formazione del partito dei cattolici italiani
sembrava rispondere alle esigenze di sopperire al declino dei liberali, di garantire
la stabilità dell’ordine sociale, di contrastare il richiamo dei socialisti sulle masse, di
vedere riconosciuti i valori e le organizzazioni dei cattolici. Ma la nascita di tale
partito assunse un significato che andava al di là di un carattere meramente
difensivo degli interessi della cristianità, per segnare di fatto l’accettazione formale
delle istituzioni vigenti da parte dei cattolici e per delineare un’istanza riformatrice
che tendeva a creare nuovi equilibri nei rapporti del paese.
Nel processo di ricostruzione storica qui delineato sembrano sempre
più ricorrenti ― nelle vicende dei movimenti cattolici, più che nella posizione ufficiale della Chiesa ― i segni del passaggio da una posizione
difensiva a un atteggiamento di accettazione della contemporaneità e di
presenza sociale propositiva. Questa novità di presenza è stata considerata
da alcuni studiosi come un’effettiva svolta culturale che si fa strada nel
mondo cattolico dopo la prima guerra mondiale. L’ipotesi è che l’im18 Ibid., p. 44.
24
Franco Garelli
pegno nella società civile e politica, la nascita del partito cattolico, l’ingresso nelle strutture pubbliche, l’assunzione di responsabilità politica,
contribuiscano a stemperare tra larghi strati di cattolici quella mentalità di
opposizione che aveva rappresentato per vari decenni una costante della
loro presenza sociale. Più che un referente ostile, il mondo contemporaneo sembra presentarsi ai cattolici come uno spazio in cui misurare la propria progettualità sociale e religiosa, come un luogo in cui poter
costruire una storia che supera i confini del proprio movimento. In altri
termini, l’azione dei cattolici sembra essere rivalutata dalle possibilità loro
offerte dai complessi processi sociali che caratterizzano la contemporaneità. Una siffatta svolta culturale sembra essere alla base di quel
lento processo di maturazione che porterà il mondo cattolico a mutare il
punto di riferimento della propria azione sociale e politica: da una visione
« tradizionalista-autoritaria» all’assunzione di una prospettiva democratica.
2.2.4. La conciliazione tra la Chiesa e lo stato fascista
Tutte queste istanze che attraversano il mondo cattolico sembrano
comunque destinate a essere archiviate e a rimanere latenti negli anni del
regime totalitario in Italia, in cui si accentuerà il ruolo della gerarchia
cattolica nel paese. Sono molteplici i fattori che portarono all’avvento di
un partito fascista in Italia nel ventennio successivo alla prima guerra
mondiale, una formazione politica assai abile a interpretare le istanze
nazionalistiche (deluse dagli esiti della guerra che pur aveva largamente
contribuito a innescare), a sfruttare la debolezza e l’incertezza
dell’indirizzo politico dei governi liberali, a farsi carico dei timori delle
classi dirigenti nei confronti del crescente peso delle masse e dei socialisti,
a individuare le favorevoli condizioni per una svolta autoritaria nel paese
(proposta quale unica soluzione alla crisi dello Stato e della società).
L’atteggiamento della Chiesa (e di ampi strati di cattolici) nei confronti
del fascismo fu ― in un primo tempo ― improntato all’ottimismo,
presentandosi esso come uno strumento di difesa di un’ordine sociale per
realizzare il quale intendeva ripristinare una salda unione fra trono e
altare. Del resto, l’ossequio al cattolicesimo da parte del fascismo rientrava nella strategia di una formazione politica che mirava a coinvolgere
le masse ed era particolarmente attenta a non alienarsi una forza ―
come la Chiesa ― caratterizzata da grande influenza sociale. Si trattava,
quindi, di un’attenzione informata più da criteri di opportunità politica
che da convinzioni religiose. Al di là delle diverse intenzionalità dei protagonisti, sembrava profilarsi la possibilità di «quella conciliazione tra
Religione e modernità: il «caso italiano»
25
stato e chiesa già raggiunta nelle coscienze e sul piano politico e ancora
irrealizzata sul piano giuridico »19. L’accordo di conciliazione ― siglato nel
1929 e articolato in un trattato, in un concordato e in una convenzione
finanziaria ― prevedeva da parte dello stato italiano il riconoscimento
dello stato della Città del Vaticano e della religione cattolica come la sola
religione di Stato, e l’accettazione da parte del Vaticano del Regno d’Italia
e di Roma capitale. Pertanto, dopo mezzo secolo di tensioni e conflitti la
chiesa italiana poteva considerare chiusa la «questione romana» e vedeva
formalizzate le condizioni della sua influenza sulla società italiana
(riconoscimento del matrimonio religioso, insegnamento della religione
nelle scuole, maggior libertà nella scelta dei vescovi e nell’amministrazione dei beni ecclesiastici, riconoscimento delle organizzazioni dell’Azione
cattolica, autonomia giuridica degli enti ecclesiastici e così via). Da parte
della Chiesa sembravano gettate le condizioni che permettevano «il libero
esercizio della religione» e la «pacifica convivenza tra i due poteri»,
assicurando «finalmente la vera unità spirituale del popolo italiano »20. Per
il governo fascista, invece, l’obiettivo dell’accordo era di legare sempre
più il cattolicesimo al nuovo ordine politico. L’avvenimento venne
giudicato positivamente dalla grande maggioranza degli italiani, mentre
attirò le critiche di alcuni gruppi di liberali, di socialisti e di cattolici
progressisti. A detta dei primi lo Stato vedeva — attraverso questo
accordo ― compromessa la sua laicità e tradita la sua sovranità. I cattolici
di sinistra, invece, paventavano la collusione di interessi tra Chiesa e
regime fascista e criticavano una chiesa che faceva leva sulle strutture e
sugli accordi di potere (sul riconoscimento giuridico) per svolgere la sua
missione religiosa nella società. Questi giudizi critici indicano che la
stipula del concordato del 1929 «non tiene sufficientemente conto di
alcuni postulati ormai acquisiti dalla coscienza moderna, tendendo a dare
alla chiesa in Italia una posizione di privilegio »21. Ma questo atteggiamento
sembra situarsi in continuità con quel disegno intransigente con cui la
Chiesa si è volta, negli ultimi cent’anni, alla riconquista della società.
Anche Pio XI infatti «appare favorevole alla “tesi” dello stato cattolico, e
pronto a servirsi del fascismo per questo scopo»22.
I rapporti della Chiesa col fascismo ― già fragili in quanto improntati a
una reciproca strumentalità ― sono comunque destinati a mutare
19 G. Martina, La chiesa nell’età del totalitarismo, Brescia, Morcelliana, 1984, p. 105.
20 Ibid., p. 109.
21 Ibid., p. 112.
.
22 Ibid., p. 112
26
Franco Garelli
nel tempo, sino a caratterizzarsi per una netta opposizione. Ciò emerge
anzitutto in seguito al contrasto col governo sulla libertà di movimento
dell’Azione cattolica e sulla possibilità per la Chiesa di svolgere la sua
funzione educativa nella società («in rapporto alle pretese monopolistiche
del regime in fatto educativo»23); ma il conflitto esploderà soprattutto
quando il fascismo seguirà il nazismo sulla dottrina razzista. A partire da
quel momento la Chiesa assume una posizione autonoma, tesa dapprima
a evitare la guerra e poi a salvare le vittime della tragedia, a richiamare i
grandi principi calpestati dal conflitto bellico, a impedire l’aggravarsi degli
avvenimenti. In tal modo «si andava manifestando una nuova dimensione
della chiesa: la chiesa che acquista una coscienza più netta della sua
missione, di difendere i poveri e gli oppressi, fidando non tanto in
strumenti giuridici o nella diplomazia, quanto nella sua povertà ed
impotenza»24.
2.2.5. Una breve conclusione: caratteri dello schema intransigente e differenze nel
mondo cattolico
L’atteggiamento della chiesa cattolica verso la società e lo Stato —
negli ultimi cent’anni ― sembra essere improntato a una ricorrente riproposizione del modello intransigente, pur con i relativi aggiustamenti
richiesti dai diversi momenti storici e pur nel quadro di una progressiva
attenuazione delle posizioni. A seconda dei punti di vista, questo modello
di opposizione sociale può essere interpretato nella linea di una
irriducibilità della Chiesa alle circostanze storiche e politiche che negavano i valori del cristianesimo; oppure dell’incapacità della stessa a decodificare il senso della storia (col rischio di chiamarsi al di fuori di essa),
«a muoversi nella nuova situazione se non sulla base di schemi, giudizi,
modelli elaborati nel passato, senza riuscire perciò a cogliere i caratteri
nuovi e complessi di una situazione in profondo movimento »25.
Comunque, l’analisi degli elementi costitutivi del modello intransigente
permette di meglio individuare le costanti dell’atteggiamento della Chiesa
nei confronti della società moderna (le quali possono riemergere anche
nel contesto contemporaneo).
Il modello intransigente nasce anzitutto in rapporto a una minaccia per
la fede che la Chiesa e i cristiani avvertono nell’avvento di un ordine
sociale che metta in discussione il precedente (sia già prodottosi, co23 Ibid., p. 112.
24 Ibid., p. 128.
25 G. Miccoli, Frammento
della cristianità cit., p. 91.
Religione e modernità: il «caso italiano»
27
me il caso delle società liberali, sia presente all’orizzonte). In questa linea
l’atteggiamento di difesa religiosa tende ad allargarsi nella difesa o nella
ricerca di un ordinamento sociale nel quale la fede abbia piena legittimazione e la Chiesa possa svolgere una funzione di garanzia degli
equilibri sociali. In particolare, i rischi per la fede vengono individuati non
tanto all’interno del campo religioso, quanto nella secolarizzazione delle
strutture politiche ed economiche che si va realizzando nella società
moderna; secondo, quindi, una prospettiva che riconosce la grande
influenza sulla religione esercitata dalle condizioni strutturali e ordinative
della società. La ricorrenza di questo atteggiamento nel corso della storia
ha portato la Chiesa a individuare pericoli per la fede nell’affermarsi del
liberalismo, nell’espandersi del capitalismo e della società industriale, nel
timore di un avvento del socialismo e del comunismo e ― dopo un
primo momento ― nella radicalizzazione delle posizioni del regime
fascista.
Il secondo tratto caratteristico del modello intransigente è individuabile in quella mentalità di opposizione e di rifiuto della modernità (o della
contemporaneità) destinata ― a seconda dei casi e delle dinamiche storiche ― a dar luogo a diverse manifestazioni: difesa a oltranza dei valori
religiosi, opposizione allo Stato e ai nuovi rapporti sociali, creazione di
una società o di strutture parallele ai nuovi ordinamenti, strumentalità
dell’azione sociale e politica. L’assunzione di un atteggiamento di opposizione non comporta comunque per la Chiesa la rinuncia ad agire, a
cercare di influenzare le dinamiche sociali, senza per questo sentirsi parte
della società o realmente coinvolta e corresponsabile delle crisi o delle
situazioni problematiche.
La negazione della contemporaneità viene effettuata sulla base di una
speranza, del disegno di una possibile riconquista o rinascita religiosa
della società. Un altro elemento caratterizzante lo schema intransigente è
quindi individuabile nel tema del ritorno a una situazione di cristianità.
L’elemento caratterizzante e largamente comune della rinascita religiosa quale
venne configurata, proposta, sollecitata e in parte anche realizzata dalla
chiesa, a partire dai primi decenni dell’Ottocento e poi per tutto il corso del.
secolo sino alla metà del nostro, è costituito, pur nella varietà delle situazioni
e degli strumenti messi in campo, dal tema del «ritorno »: ritorno della società
alla fede, e perciò alla disciplina proposta dalla chiesa, ritorno a quei principi
di ordine, di gerarchia, di armonica disposizione delle diverse classi e delle
diverse funzioni, che solo nella dottrina e nel magistero della chiesa potevano
trovare la loro garanzia e la loro ragione d’essere26.
26 Ibid., p. 23.
28
Franco Garelli.
Sullo sfondo quindi dell’idea della cristianità vi è la convinzione della
«capacità del cattolicesimo di dare risposte più valide ai problemi sociali»27
che si presentano via via nella storia del paese. Si tratta di una
convinzione ricorrente nella storia della Chiesa, in quanto essa a più riprese e nelle varie epoche storiche (e anche in anni a noi vicini) rivendica
a sé «l’esclusiva capacità di fondare e legittimare l’ordine politico, in
quanto essa conserva una universalità nella concezione dell’uomo e della
società che le ideologie» hanno ormai perso28.
A fronte di queste tendenze prevalenti, occorre comunque osservare il
prodursi nel tempo di una certa diversificazione di posizioni all’interno
del mondo cattolico, che porterà la parte più progressista a maturare
quella prospettiva democratica che le permetterà di prendere in mano le
sorti del paese neI difficile periodo successivo alla seconda guerra mondiale.
2.3. Il venir meno della cristianità (dal dopoguerra agli anni sessanta)
«La fine dell’era costantiniana» è il suggestivo titolo di una relazione
tenuta dal teologo M.-D. Chenu neI 1961 a seminari di studio promossi
dalla rivista Informations catholiques internationales per offrire contributi
in vista dell’inizio dei lavori del Concilio vaticano II29. Le dinamiche del
tempo rendevano ragione dello stemperarsi delle ultime forme di stato
cristiano, dello scioglimento di quell’alleanza tra potere politico e potere
spirituale ― definita da Chenu in termini di «sistema di cristianità» ― «che
aveva subìto diverse metamorfosi» nel corso della storia.
Tale sistema ― e qui ci si ricollega all’inizio di questa analisi ― aveva
assunto in Italia una nuova configurazione negli anni del secondo dopoguerra, un periodo che ha rappresentato per la Chiesa e per il mondo
cattolico il coronamento degli sforzi di ripristino della cristianità, di reciproco sostegno tra religione e Stato, di ripresa di una posizione di centralità nei rapporti sociali.
Questa nuova e particolare espressione di un sistema di cristianità
negli anni considerati appare adeguatamente descritta nella pagina di
Jemolo, storico dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia non sospetto di
27 A. Acerbi, «Chiesa italiana» cit., p. 43.
28 D. Menozzi, «Tra vecchio e nuovo costantinismo.
Il dibattito interno al mondo cattolico» in
G. Ruggeri (a cura di), Una nuova pace costantiniana? Religione e politica negli anni ‘80, Casale Monferrato,
Marietti, 1985, p. 38.
29 M.-D. Chenu, «La fin de l’ère constantinienne» in Aa.Vv., Un concile pour notre temps, Paris,
1961, pp. 59-87.
Religione e modernità: il «caso italiano»
29
parzialità. Così, infatti, lo studioso descrive il nostro paese nel periodo dal
1944 al 1960:
L’Italia retta da un partito confessionale, che accetta sinceramente il principio della
democrazia parlamentare con il suffragio accordato a tutti i cittadini, che s’ispira nella
sua prima fase alle concezioni del cattolicesimo sociale, e non può dirsi conservatore,
ma piuttosto con un programma di socialismo moderato nei rapporti tra capitale e
lavoro, tra iniziativa pubblica e privata; peraltro molto sensibile a suggestioni
costantiniane, ad un reciproco appoggio di Chiesa e Stato, all’idea di uno Stato
moralizzatore secondo i princìpi cattolici, nell’ambito della censura, dei mezzi di
comunicazione sociale, nelle disposizioni delle sue leggi, civili e penali; uno Stato che
realizza, più che non si sia fatto nel periodo fascista, che Ia scuola statale deve anche
far convergere ― non costringere ― i giovani verso Ia cattolicità. Una concezione
inconciliabile con liberalismo e liberismo economico, una socialdemocrazia cattolica,
con la naturale diffidenza verso grintellettuali non inquadrati, più pericolosi degli stessi
avversari. E c’è poi una Chiesa che può apparire trionfalista (i Paesi dove sí è
instaurato il comunismo, se pur sia tra essi una cattolicissima Polonia, non sono tra
quelli da cui negli ultimi due secoli la Chiesa avesse tratto maggiori ragioni di
compiacimento), che apprezza il beneficio di essersi liberata del potere temporale, che
ha a suo sostegno giovani entusiasti bene inquadrati nell’Azione cattolica, che si vede
fatta in Italia la migliore posizione che mai avesse avuto da secoli; e che ha del resto
un rialzo di prestigio, con condizioni più favorevoli per operare, in tutto il mondo
non comunista30.
La situazione qui descritta, caratterizzata dalla fondazione religiosa della
socialità, non è comunque destinata a protrarsi nel tempo. Col passare degli
anni, infatti, si sono venute diversificando le basi della società civile e lo stesso
ruolo svolto dalla religione all’interno della dialettica sociale31. Il bisogno di
fondazione religiosa, l’attesa che la religione svolga una funzione di richiamo
etico, possono essere presenti anche nelle società tecnologicamente avanzate;
ma le risposte a tali domande non prefigurano più situazioni di monopolio
religioso o il predominio della religione nelle dinamiche sociali. Col passare del
tempo, dunque, lo scenario è mutato. Infatti,
il sistema di cristianità era entrato alla vigilia del Concilio in una crisi irrimediabile:
sotto il duplice attacco della secolarizzazione all’esterno e all’interno della chiesa di
una ritrovata vitalità religiosa da parte del popolo di Dio, che tendeva a liberarsi dai
condizionamenti culturali e istituzionali32.
La secolarizzazione all’esterno è un processo che si afferma man mano che la società italiana viene interessata dallo sviluppo industriale e
30 C. A. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, Torino, Einaudi, 1952, p. 559.
31 G. Ruggeri (a cura di), Una nuova pace costantiniana? cit., p. 13.
32 D. Menozzi «Tra vecchio e nuovo costantinismo» cit., p. 30.
30
Franco Garelli
dal benessere economico. I fenomeni connessi allo sviluppo industriale
(immigrazione, urbanizzazione, spopolamento delle campagne) producono un profondo mutamento delle condizioni di vita e dei riferimenti
collettivi della popolazione. Parallelamente la società italiana è chiamata
sempre più a confrontarsi con altre culture, a uscire da una situazione di
relativa omogeneità culturale. Uno degli esiti di questi processi è la
riduzione delle basi della presenza religiosa nel paese, Io stemperarsi della
cristianità come «realtà sociale, come mondo di valori vissuti, come modo
di vita di una comunità nel suo insieme»33. La cristianità è perduta in
ragione di un processo di laicizzazione del paese che investe sia l’ambito
dei rapporti sociali sia quello del costume e degli orientamenti di vita.
Sul versante delle dinamiche ecclesiali il passaggio dagli anni cinquanta
agli anni sessanta segna l’avvento di una nuova concezione della Chiesa,
in relazione al mutamento dei rapporti e degli equilibri sociali. Alla figura
di Pio XII, che riflette un’epoca caratterizzata da una forte tensione
ideologica e nella quale la Chiesa era chiamata ― attraverso un movimento civile e spirituale ― a contrastare il totalitarismo, succede quella
di Giovanni XXIII, che esprime una concezione di Chiesa «postideologica» e che manifesta un atteggiamento positivo o per lo meno possibilista nei confronti della contemporaneità. Operando un discernimento
della modernità, si tende a distinguere tra movimenti storici e ideologie
(considerando i primi come il risultato di un processo storico per certi
versi accettabile e che può essere interpretato in termini cristiani), a
individuare in alcuni processi o movimenti sociali possibili luoghi di
valenza etico-religiosa per la coscienza cristiana, a riconoscere che Io sviluppo economico può essere guidato e governato verso le finalità umane
sostenute dalla Chiesa34.
In questa linea, l’avvento del Concilio sembra indicare la presa di coscienza della Chiesa di operare in un mondo non veicolato soltanto da
elementi negativi, ormai interessato dal pluralismo religioso e culturale.
Attraverso di esso la Chiesa cerca di giungere a una nuova comprensione di se stessa e di presentarsi come una nuova proposta per la cultura e
la storia del tempo35: ciò comporta ― tra l’altro ― una revisione dell’atteggiamento nei confronti del mondo, una modifica del linguaggio,
l’inizio del confronto e del dialogo verso la cultura contemporanea e
le altre espressioni religiose. Si tratta, come si vede, di obiettivi assai
33 P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Roma, Studium, 1985, p. 141.
34 A. Acerbi, «Chiesa italiana» cit., p. 45.
35 G. Baget Bozzo, I tempi e l’eterno, Genova, Marietti, 1988, p. 25.
Religione e modernità: il «caso italiano»
31
impegnativi, rispetto ai quali si è determinata una certa qual resistenza
degli ambienti religiosi tradizionalisti e la cui attuazione farà emergere
il ritardo e le contraddizioni che attraversano il cattolicesimo italiano
di base.
In questo clima ideale, comunque, anche la chiesa italiana sembra
rendersi conto della fine della cristianità e abbandonare l’idea di «costituire un’alternativa globale alla società “borghese”» o di prefigurare un
nuovo stato cristiano36. La Chiesa si orienta così a un’azione religiosa non
più sostenuta dai poteri terreni, a riconoscere la presenza di altri soggetti
sociali ed etici, a ricercare occasioni di dialogo e di convergenza con altre
culture e con «gli uomini di buona volontà». Queste trasformazioni
interne al campo ecclesiale alimentano il processo di differenziazione tra
gruppi e movimenti religiosi, i quali sembrano legittimati a ricercare
espressioni religiose autonome o particolari dal venir meno di un modello
di riferimento univoco. Si delinea così per la chiesa italiana un periodo di
forte ridefinizione della presenza nella società e di profonda
trasformazione interna, dal cui esito dipende la possibilità per tale
istituzione di svolgere un ruolo significativo in un contesto di modernità.
Nel periodo considerato (dal dopoguerra sino agli anni sessanta) la
massima responsabilità nel governo del paese è detenuta ― come s’è detto
― dalla Democrazia cristiana, un partito il cui elevato consenso si fonda, da
un lato, sulla pressoché totale unità politica dei cattolici e, dall’altro,
sull’adesione ― in chiave antisocialista e anticomunista ― dei voti moderati
e conservatori. All’inizio si ha che fare con un partito composto da istanze
culturali assai diversificate, che ritrova una propria unità su una politica di
moderato riformismo. Col tempo, col perdurare del ruolo di governo, si
producono in tale partito importanti modifiche destinate a mutare
sensibilmente la sua collocazione sociale e il progetto politico a cui si ispira.
L’orientamento a rafforzare l’organizzazione del partito (prima debole
rispetto alle strutture del mondo cattolico) e l’identificazione col
processo politico ed economico in atto nel paese porteranno la
Democrazia cristiana ad attenuare l’ispirazione ideale di base e a un uso
pragmatico del potere economico dello Stato ai fini dell’acquisizione del
consenso elettorale (clientelismo e assistenzialismo)37. Ciò anche in
rapporto a quel male endemico della società italiana rappresentato
dall’assenza della possibilità di ricambio nel governo del paese, in parte
compensata ― negli anni sessanta ― con l’esperienza del centro-sinistra
36 Parisi, «La matrice socio-religiosa» cit., p. 642.
37 P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta cit., p. 265.
32
Franco Garelli
(presenza dei socialisti nella maggioranza di governo). L’azione politica
del partito cattolico sembra pertanto attraversata da varie istanze problematiche, destinate a esplodere col tempo, in rapporto sia alle dinamiche innescate nel mondo cattolico dall’avvento del Concilio sia all’uscita dalla fase di espansione economica conosciuta dal nostro paese, che
coinciderà con il dilagare della protesta studentesca e operaia alla fine del
periodo qui considerato.
2.4. Crisi delle istituzioni e domanda di cambiamento (il passaggio dagli anni
sessanta agli anni settanta)
Alla fine degli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta si delinea
dunque una nuova stagione per il nostro paese, segnata dalle istanze e
delle rivendicazioni di cui si sono rese protagoniste la contestazione studentesca e le lotte operaie.
Si tratta di una stagione caratterizzata da una forte crisi delle istituzioni
tradizionali e, parallelamente, da una marcata vitalità di nuove forme
associative, di movimenti emergenti. A un’analisi retrospettiva, quegli
anni possono essere considerati come una sorta di passaggio obbligato, di
tappa forzata, da una società tendenzialmente unitaria nei suoi presupposti culturali, prevalentemente statica nelle sue strutture portanti, a
un contesto più favorevole alle dinamiche della differenziazione sociale.
L’obbligo della tappa, la necessità del «guado», è individuabile nel
processo cui deve sottostare un sistema sociale che sta uscendo da una
situazione premoderna e sta per essere investito dalle tensioni e dinamiche tipiche di un contesto avanzato; un sistema messo in crisi dal
suo stesso processo di crescita, caratterizzato da strutture non più rispondenti alle dinamiche del mutamento. L’ipotesi, pertanto, è di aver
registrato in quegli anni una crisi di sistema, a determinare la quale hanno
contribuito molteplici fattori sia di tipo strutturale sia culturale, sia interni
sia esterni al nostro contesto sociale, riportabili sia allo specifico modello
di sviluppo del nostro paese che ad aspetti comuni a tutte le società
occidentali. In questo quadro, la società italiana è stata attraversata da
grandi tensioni sociali e politiche, dalla messa in discussione degli equilibri
esistenti, da rilevanti pressioni di ridefinizione dei rapporti sociali,
manifestatesi in tutti i più importanti settori sociali. Secondo questa
ipotesi interpretativa gli anni e le dinamiche del «movimento» hanno
rappresentato soltanto la punta più appariscente di un processo di
cambiamento strutturale e culturale che stava ormai interessando il
sistema sociale. E come sovente accade nelle dinamiche di passaggio da
un periodo storico a un altro, da una modalità organizzativa e culturale
Religione e modernità: il «caso italiano»
33
a un’altra, la presenza dei «movimenti» che si fanno interpreti delle istanze
del mutamento ha avuto la funzione di accelerare i processi sociali, di
radicalizzare le posizioni e il conflitto, di « semplificare» i rapporti sociali. Di
fronte alle contraddizioni del modello di sviluppo e alla difficoltà delle
istituzioni tradizionali ad adeguarsi ai nuovi rapporti sociali, i movimenti
sociali emergenti individuano ― operando una semplificazione della realtà
funzionale a un mutamento radicale degli equilibri esistenti ― modelli di
sviluppo e punti di riferimento «ideali» cui ancorare la loro tensione sociale
e gli sforzi di cambiamento.
Le dinamiche di crisi che investono la chiesa cattolica nella stagione della
contestazione e delle lotte operaie sono facilmente intuibili e assumono due
diverse manifestazioni: da un lato, la crisi di legittimazione sociale che
interessa la Chiesa come tutte le altre istituzioni tradizionali; dall’altro, il
fenomeno del disSenso religioso, il prodursi all’interno del campo religioso
di fratture e tensioni che spingono alcune realtà associative a una posizione
critica o antagonista nei confronti dell’istituzione ecclesiale. Comunque, le
ragioni di queste tensioni sembrano individuabili più all’esterno che
all’interno delle dinamiche ecclesiali. La «causa fondamentale della crisi
cattolica (...) è da ricercare nelle trasformazioni sociali che hanno sconvolto
l’intera struttura della società italiana e così modificato la collocazione
sociale dei vari “gruppi cattolici” »38.
Il processo di secolarizzazione assume, quindi, nuove forme ed
espressioni. Lo scenario risultava già problematico per la Chiesa in
rapporto allo stemperarsi di un sistema sociale informato a valori
tradizionali e congruente con una definizione religiosa della realtà,
in rapporto alla perdita di centralità sociale della religione, all’estendersi del soggettivismo e dell’indifferenza religiosa. Oltre a ciò ― in
anni più recenti ― emergono soggetti sociali caratterizzati da atteggiamenti autonomi o antagonisti nei confronti della realtà religiosa
ed ecclesiale, e si delinea un clima culturale non favorevole alla presenza della Chiesa nella società. Anche la Chiesa infatti ― come tutte le strutture tradizionali ― risente in negativo del clima anticostituzionale predominante negli anni della contestazione e delle lotte
operaie, che si esprime nella messa in discussione della sua presenza
nella società, nella crisi di legittimazione sociale, nella critica al
modello ufficiale di religiosità. L’atteggiamento critico nei confronti
dell’istituzione ecclesiale sembra estendersi anche ai valori religiosi
di cui essa è portatrice, quasi che la matrice culturale dei gruppi
emergenti tenda a non operare una distinzione tra il contenuto di un
38 A. Parisi, «La matrice socio-religiosa» cit., pp. 646 sg.
34
Franco Garelli
valore e il modo in cui esso viene storicamente realizzato. Sono gli anni in
cui si parla della religione nei termini ricorrenti della morte di Dio, di
oppio dei popoli e di alienazione, di un processo di secolarizzazione
irreversibile. Quanto alla Chiesa, essa viene considerata per lo più come
un apparato ideologico di Stato, come una forza compromessa col potere
e funzionale alla restaurazione, come una realtà che si muove in termini
astorici e astratti.
Messa in discussione dagli avvenimenti sociali, dal corso della storia, la
Chiesa ― come s’è detto ― si scopre fragile e differenziata anche al
proprio interno. Il disagio della Chiesa tra la fine degli anni sessanta e
l’inizio degli anni settanta sembra imputabile anche a fattori interni, e in
particolare al processo di ridefinizione sociale e religiosa innescato dal
Concilio. Prima di questo avvenimento, «del rapporto Chiesa ― Mondo
era stato soprattutto il “Mondo” ad essere messo in discussione, mentre
la “Chiesa” era fondamentalmente rimasta la stessa” »39. Con il Concilio si
delinea il profilo di una chiesa in cammino, che si apre al mondo, che
cerca di ridefinire la propria identità e presenza sociale, che accetta una
dinamica pluralistica. Ma ― come s’è accennato ― tale obiettivo si rivela col passare del tempo ― troppo ideale e impegnativo per le condizioni
della Chiesa in Italia, rispetto alle dinamiche reali che attraversano il
campo religioso nel nostro paese. A lungo andare, la spinta innovatrice
del Concilio si scontra con le contraddizioni di una chiesa di base
impreparata al nuovo corso, che non ha ancora maturato riferimenti
culturali adeguati a operare in una società differenziata. Oltre a ciò, le
difficoltà incontrate dalla Chiesa vengono fatte risalire ― da alcuni
ambienti religiosi particolarmente resistenti a ogni forma di innovazione
religiosa ― al Concilio stesso. In questo caso si paventa l’indebita apertura
della Chiesa a un mondo secolarizzato, gli effetti disgreganti per la comunità ecclesiale connessi a interpretazioni liberaleggianti dei testi conciliari, il prodursi di spinte centrifughe sulla base di un’ingenua enfasi sulla
modernità (come si esprimerà, successivamente, Ratzinger) 40.
La stagione della contestazione e delle lotte operaie coglie pertanto
la Chiesa in una delicata fase di ridefinizione, in un momento di profonda trasformazione interna. Da questo punto di vista è fin troppo evidente che i fenomeni di crisi interna conosciuti dalla Chiesa in quegli
armi sono da mettere in relazione con la difficoltà della stessa a collo39 Ibid., p. 649.
40 J. Ratzinger,
1985, p. 28.
Rapporto sulla fede (intervista di V. Messori), Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline,
Religione e modernità: il «caso italiano»
35
carsi nella società e a trovare una composizione tra le varie istanze che
l’attraversano.
Questa situazione problematica per la Chiesa e il mondo cattolico è
destinata ad ampliarsi nella prima metà degli anni settanta. I segni più
evidenti di difficoltà interna sono individuabili nell’indebolimento della
struttura organizzativa e associativa della Chiesa e nello scompaginamento religioso e politico del mondo cattolico. Sono gli anni in cui si
moltiplicano le defezioni tra il clero giovane (soprattutto tra quello più
sensibile all’impegno sociale e politico); in cui si consuma un forte ridimensionamento dei gruppi e delle associazioni religiose, come esito del
dissenso religioso e dell’esposizione dei credenti alle istanze della politica;
in cui molti credenti vivono un’esperienza di diaspora, un’interpretazione
della fede senza il sussidio di strutture culturali e organizzative di
riferimento; in cui la Chiesa appare incerta nel proprio quadro normativo
e nell’indirizzo religioso. Sull’insieme della popolazione, poi, sembrano
moltiplicarsi i segnali di autonomia delle coscienze dal modello religioso,
sia nel campo della vita privata (ad esempio, aumento delle convivenze e
dei matrimoni civili o refrattarietà dei giovani ad aderire alla morale di
ispirazione religiosa) sia in quello delle scelte politiche. Sul versante
esterno, ancora, si infrange il modello dell’unità politica dei cattolici, fatto
questo che produrrà il distacco dalla Democrazia cristiana di quote
rilevanti del suo retroterra tradizionale e che le orienterà verso altre
appartenenze politiche. Un esempio della divisione politica e «morale» del
mondo cattolico è individuabile ― come vedremo più avanti ― nella
vicenda del referendum abrogativo della legge sul divorzio (1974), che ―
secondo alcuni proponenti ― doveva rappresentare un’occasione di
ricompattamento dell’area cattolica attorno alla Democrazia cristiana. In
luogo di ciò, esso si è trasformato ― a detta di alcuni osservatori ― in un
indicatore del processo già avanzato di secolarizzazione della società
italiana.
L’incrinarsi della funzione di rappresentanza del voto cattolico è soltanto uno dei problemi che ― in quegli anni ― travagliano la Democrazia cristiana. In quanto partito di maggioranza relativa, essa costituisce il
bersaglio più evidente dell’ondata di protesta politica ormai allargata nel
paese: così, da un lato, viene ritenuta responsabile dei problemi connessi al modello di sviluppo predominante e, dall’altro, viene accusata di eccessiva debolezza o incoerenza di fronte ai rivolgimenti sociali e politici
in atto. La profonda crisi istituzionale e politica di quegli anni è attestata dall’emergere di una strategia della tensione che intende spingere il
paese verso scelte autoritarie. Sullo sfondo di questo scenario, all’interno di queste contraddizioni ed esasperazioni sociali, si svilupperà
36
Franco Garelli
qualche anno più tardi il fenomeno del terrorismo politico, orientato a
far nascere nella popolazione ― attraverso un uso simbolico della violenza ― l’urgenza e la necessità della rivoluzione. A metà degli anni
settanta il consenso elettorale alla Democrazia cristiana risulta sensibilmente ridimensionato, mentre aumenta notevolmente quello al Partito
comunista e si afferma la presenza di «giunte rosse» in molte regioni.
Con la fase del «compromesso storico» si delinea una certa assunzione
di responsabilità del Partito comunista nel governo del paese.
2.5. Venir meno della tensione sociale e politica, affermarsi della complessità,
riproposizione delle istituzioni tradizionali (verso gli anni ottanta)
Le vicende che hanno seguito gli anni del movimento sono poi risultate
assai più controverse e problematiche di quanto i protagonisti della
stagione delle lotte studentesche e operaie potevano supporre. Il carattere
contraddittorio del periodo successivo alla prima metà degli anni settanta è
adeguatamente testimoniato da un termine ormai utilizzato a vari livelli per
descrivere le tendenze proprie della società italiana contemporanea, quello
di complessità. Con esso si intende indicare un contesto sociale
caratterizzato dall’assenza di prospettive, dal venir meno della risoluzione
delle contraddizioni, dal prevalere di una situazione di indeterminatezza
sociale a fronte dei molti problemi che attraversano il sistema. Si tratta
quindi di un concetto direttamente collegato a quello di crisi, dal momento
che la società complessa sembra avere nella crisi il suo punto di equilibrio,
senza una prospettiva di sbocchi e di soluzioni41.
Nell’insieme, le condizioni del paese reale, l’articolazione degli interessi
in gioco, i processi innescati da una dinamica di conflitto e di cambiamento, risultano più complessi e controversi della possibilità di modificare il sistema sociale, di tendere a una soluzione dei problemi. Parallelamente, la difficoltà ad attuare nel breve periodo le istanze del mutamento, a far fronte alle contraddizioni sociali, si accompagna allo stemperarsi dei punti di riferimento, alla progressiva consapevolezza del carattere eccessivamente astratto o velleitario delle visioni del mondo e
degli obiettivi politici che ispirano determinate istanze di mutamento. In
sintesi, i problemi concreti, le contraddizioni che attraversano il sistema
sociale, risultano più forti e dirompenti della stessa tensione al
41 Si veda G. E. Rusconi, «Il concetto di società complessa» in Quaderni di sociologia, 2-3, XXVIII,
1979, p. 266.
Religione e modernità: il «caso italiano»
37
mutamento o alla razionalizzazione del modello di sviluppo. Di qui l’affievolirsi dell’azione dei movimenti, lo stemperarsi della tensione a modificare gli equilibri esistenti e a realizzare obiettivi politici nella società;
scenario questo a cui cercano di opporsi gli ultimi fuochi di un terrorismo
alla continua ricerca di nuovi fattori di conflitto sociale.
La caduta della tensione sociale e politica negli anni settanta sembra
poi da mettere in relazione col più generale processo di modernizzazione
che investe tutte le società occidentali in una determinata fase del loro
sviluppo. Il progresso tecnologico, l’esposizione a influssi culturali
diversificati, l’espansione consumistica, sono tutti fattori che contribuiscono a modificare in quegli anni il clima sociale e culturale predominante
nel nostro paese. Ne deriva una situazione di profondo rivolgimento delle
condizioni di vita e degli orientamenti culturali della popolazione42. Con
l’affermarsi della «consapevolezza moderna» ― di un orientamento
culturale congruente a un contesto sociale pluralistico e differenziato ― si
stemperano sia i valori e i costumi tradizionali sia le tensioni etiche
alternative (i modelli etici caratterizzati da forte progettualità e
oggettività). L’uomo contemporaneo è chiamato a vivere in una realtà
sempre meno prevedibile, in cui gli aspetti condivisi si vanno sempre più
riducendo, in cui aumenta l’area delle convinzioni e dei valori opinabili. È
l’affermarsi di una società fortemente pluralistica negli stili di vita, nei
modelli di comportamento, nelle credenze, nelle visioni del mondo,
nell’immagine della realtà; marcatamente differenziata nel modo di
rispondere al problema del senso ultimo e penultimo. Uno degli esiti di
questa situazione è la forte accentuazione del lato soggettivo dell’esperienza umana: ciò non soltanto perché aumentano per i soggetti le occasioni di riflessività e le possibilità di scelta e di esperienza, ma anche
perché si afferma una risposta al problema del senso che non supera i
confini individuali e soggettivi, che mette in evidenza la centralità dell’autorealizzazione.
Saremmo così di fronte a quell’istanza «radical-libertaria» particolarmente accentuatasi nel nostro paese negli anni settanta, come riverbero
dei mutamenti culturali innescati dai movimenti sociali emergenti e in
conseguenza dell’esposizione dei soggetti al clima di accentuata differenziazione sociale. A questo proposito è stato osservato che a partire
dagli anni settanta è andata espandendosi a livello nazionale un’istanza
radicale che «non riconosce più un valore proprio né all’etica, né all’u42 Riprendo qui alcune considerazioni già esposte in F. Garelli, «L’associazionismo: movimenti
e istituzioni» in Aa.Vv., «Il Sessantotto nella storia e nella coscienza della Scuola e dell’Università» in
Annali della Pubblica Istruzione, 4-5, 1988, pp. 496-507.
38
Franco Garelli
niversalità, né alla natura. La riscoperta dell’individuo e della sua soddisfazione quale criterio ultimo di giudizio, la fissazione dell’esperienza,
anzi delle esperienze, quale parametro decisivo» sono le linee di fondo di
tale orientamento culturale43.
Un’ulteriore tendenza che ha caratterizzato gli anni settanta a livello
nazionale sembra individuabile in quel fenomeno di riproposizione (pur
condizionata e particolare) delle istituzioni che si registra in genere nei
periodi in cui si stempera l’azione dei movimenti sociali e politici. In un
contesto di complessità sociale e culturale, di caduta della tensione
politica, di affermazione di istanze individualistiche, l’emergere delle
istituzioni sembra il prodotto di una logica di sopravvivenza del sistema
sociale e di adattamento dei soggetti (individui e gruppi) ai processi in
atto. Nel momento in cui la tensione al mutamento si attenua, in cui la
complessità ha il sopravvento, le istituzioni tradizionali sembrano garantire quella stabilità di rapporti funzionale al raggiungimento di un
qualche equilibrio sociale. Si tratta in tutti i casi di una riproposizione
particolare, che non si fonda su un elevato consenso, che risponde più a
criteri di strumentalità e di adattamento che di identificazione sociale.
Le vicende degli anni settanta hanno ovviamente molteplici ripercussioni sulle dinamiche ecclesiali e sulla presenza della Chiesa nella società italiana. Il rapporto Chiesa-mondo risulta in quegli anni particolarmente controverso. Da un lato, sembrano delinearsi a poco a poco le
condizioni per una rivalutazione della Chiesa nella società italiana;
dall’altro, emergono nuovi fattori di tensione tra Chiesa e mondo che
sostituiscono i precedenti, in conseguenza del mutato clima socioculturale. Col passare del tempo si attenuano ― nei confronti della Chiesa e
del modello ufficiale di religiosità ― le sfide e le tensioni provocate dai
movimenti politici emergenti, mentre aumentano quelle relative all’affermarsi nella società della cultura radical-libertaria. Da un lato, gli
atteggiamenti conflittuali e oppositivi nei confronti della religione sembrano ridursi, in relazione a un clima sociale fortemente pluralistico e
incline alla tolleranza. Dall’altro, si affermano tratti culturali che sembrano
in larga parte prescindere dai riferimenti religiosi, in grado di attenuare la
capacità di richiamo delle proposte religiose e dei modelli etici
caratterizzati da elevata progettualità o che alimentano orientamenti
religiosi a forte accentuazione soggettiva, che non si riconoscono nel modello ufficiale di religiosità.
43 Si veda G. Baget Bozzo, La chiesa e la cultura radicale, Brescia, Queriniana, 1978, e
antecedentemente, Id., Il partito cristiano, il comunismo e la società radicale, Firenze, Vallecchi, 1976.
Religione e modernità: il «caso italiano»
39
In una siffatta situazione la Chiesa e i credenti impegnati hanno la
coscienza di essere una «minoranza» nella società; e ciò in particolare in
rapporto al fatto che la maggioranza della popolazione continua a definirsi «cattolica», secondo un’accezione non «esente da ambiguità, da
contraddizioni, da processi di stemperamento e da perdita di significatività»44. La persistenza di una religione di maggioranza nell’attuale società
sembra determinarsi a
scapito dell’identità religiosa stessa. I riferimenti religiosi manifestano tenuta,
ma essi hanno perso il loro carattere di vincolo, di capacità di ridefinizione,
non rappresentano più modelli costringenti per le varie situazioni di vita. La
labilità, la perdita di efficacia e di significatività, la riduzione del riferimento
alle attese umane, sono tutti effetti della persistenza d’una religione di
maggioranza nella società contemporanea45.
In questa linea ― è stato osservato ― emerge una divaricazione progressiva fra convinzioni e giudizi di valore e comportamenti. Il fatto
nuovo è che questa divaricazione non è più sentita come incoerenza, non
suscita sentimenti di colpa, non è legata a un giudizio di valore, ma si presenta semplicemente come un dato dell’esperienza. Il processo di secolarizzazione sembrerebbe quindi evidenziare di fatto il «germe del secolarismo », di una concezione del mondo immanente, rispetto alla quale
la figura di Dio risulta ingombrante e superflua.
Un esempio della presenza di una maggioranza dai riferimenti religiosi
labili viene individuato da alcuni osservatori nell’esito dei referendum sul
divorzio (già richiamato) e sull’aborto ― sui quali vi era stato un impegno
attivo della Chiesa ― registratosi tra la metà degli anni settanta e l’inizio
degli anni ottanta. Nel primo referendum (1974) l’abolizione della legge
divorzista viene richiesta dal 35 per cento degli italiani (a fronte del 51 per
cento che opta per il suo mantenimento e del 14 per cento che non si
esprime), mentre, nel secondo (1981) si pronuncia per l’abolizione della
legge cosiddetta abortista il 23,6 per cento della popolazione, rispetto al
51 per cento che si schiera per il mantenimento e al 26,5 per cento che
non esprime alcun voto. Al di là della difficoltà di interpretare quelle votazioni
in termini univoci, esse sembrano indicare il prevalere tra la popolazione di una
mentalità flessibile e pragmatica, incline a non interpretare le questioni in gioco
soltanto in termini di princìpi e valori, tollerante nei confronti di situazioni
problematiche e di altre concezioni di vita. Soprattutto l’esito del referendum
sull’aborto ha indotto qualche commentatore a notare il prevalere ― su ogni
44
45
Si veda F. Garelli, La religione dello scenario cit., p. 41.
Ibid., p. 41.
40
Franco Garelli
altro motivo ― di una «domanda di sicurezza e di benessere, una estensione
edonistica della logica del welfare state, non più disposta a misurarsi con
nessun limite morale»46. I referendum erano stati concepiti e voluti «dai
promotori come strumenti di appello ad una società cristiana»47. Di fatto essi
sembrano aver posto in evidenza «la debolezza della presenza cattolica» nella
società italiana; essa, in altri termini, «si manifestava assai più laicizzata»48 di
quanto si potesse immaginare. E in rapporto a questa situazione che La
civiltà cattolica ― all’inizio degli anni ottanta ― osservava in un suo editoriale
che «la crisi religiosa ha assunto tali proporzioni che se guardiamo alla caduta
della pratica religiosa e dell’adesione vissuta ai valori cristiani, l’Italia oggi non
si può più definire una nazione “cattolica” »49.
Sul versante intraecclesiale si delineano negli anni settanta tre diverse
situazioni. La prima di queste è rappresentata da una semplificazione dei
rapporti, a seguito dell’attenuarsi della tensione sociale e politica e dello
stemperarsi della stagione dei movimenti. La contestazione ecclesiale,
dirompente a cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta, viene a poco a
poco spegnendosi, in relazione alla presa di distacco dalla Chiesa di
numerosi individui e gruppi.
L’abbandono della Chiesa da parte di molti soggetti (alcuni dei quali ―
a lungo andare ― perdono anche il riferimento religioso) determina una
caduta della tensione dialettica e offre la possibilità agli ambienti ecclesiali
di ricompattare le proprie forze e di ricercare nuove forme di
aggregazione e nuove modalità di presenza religiosa nella società. Da
queste dinamiche l’area dell’associazionismo ecclesiale risulta scompaginata, anche se il mutato quadro offre ad esso la possibilità di ridefinire i
rapporti, le strutture organizzative e il modello di aggregazione.
La seconda situazione è individuabile nel clima di incertezza di indirizzo e di scelta che investe i vertici ecclesiali a seguito della crisi sociale, politica e religiosa che ha interessato la società italiana negli anni settanta.
L’esplosione del dissenso religioso e ― più in generale ― l’affermazione delle istanze radical-libertarie rendono evidente la crisi di legittimazione sociale e religiosa che ha interessato la Chiesa e la difficoltà di
questa istituzione di mediare la proposta religiosa alla luce delle istanze
emergenti. Oltre a ciò, la Chiesa appare ancora profondamente scossa dal clima di violenza e di conflittualità sociale che ha investito
46
P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta cit., p. 137.
47.Ibid p 134.
45 Ibid., p. 134.
49 «Le attese della Chiesa cristiana» (editoriale) in La civiltà cattolica, 1 ottobre 1983,
pp. 4 sg.
Religione e modernità: il «caso italiano»
41
nel passato recente il paese e i cui ultimi e tragici segnali di persistenza sono
rappresentati dal perdurare del terrorismo. Frastornata dalle dinamiche
esterne e lacerata al proprio interno, la Chiesa appare incerta sia sul tipo di
presenza da realizzare nella società sia sul processo di ridefinizione
dell’identità religiosa nel tempo presente. L’immagine prevalente che ne
deriva è di una realtà non in grado di riproporsi come punto di riferimento
positivo per il mutamento sociale e religioso in atto. Del resto, la chiesa
italiana di quegli anni ha largamente risentito dell’incertezza e «dell’inerzia
dominante nella fase terminale del pontificato »50 di Paolo VI, una figura che
vedeva sconfessato dagli avvenimenti un progetto che potremmo definire di
intelligenza illuminata della fede: (...) un desiderio sincero di convincere, di
spiegarsi, di ragionare, di dialogare (...) una fiducia nell’intelligenza dell’uomo e
nella sua intima aspirazione al bene. La risposta della violenza e della
sopraffazione arbitraria e fanatica che sembrava venire dal «mondo», da quel
«mondo» cui Paolo VI si sforzava di guardare con trepido rispetto, la ricerca
spasmodica del proprio benessere e del proprio tornaconto, così come, su un
altro versante, l’arroccamento nel passato con atteggiamenti di aperta sfida e di
rigetto del Concilio, giudicato «eretico», parevano non solo rifiutare, ma quasi
irridere al progetto «montiniano», considerato ormai velleitario e ingenuo51.
Ciononostante, la Chiesa ha cercato di operare una ricomposizione
delle tensioni e delle lacerazioni interne al campo religioso (e questa è la
terza situazione intraecclesiale che si delinea negli anni settanta, in
particolare nella seconda metà). A metà degli anni settanta, il mondo
cattolico si presenta assai differenziato al proprio interno, anche se l’esodo di una parte dei militanti più sensibili alle istanze politiche aveva
già operato ― come s’è detto ― una semplificazione della situazione. Il
fatto è che negli anni settanta vengono alla luce, e per certi versi si radicalizzano, divisioni da tempo presenti nel mondo cattolico, relative al
modo di interpretare il Concilio, alle scelte politiche «compatibili» con
un orientamento di fede, al modo di ridefinire l’identità religiosa nella
società contemporanea, al livello di adesione ai dettami della Chiesa nel
campo dell’etica sessuale e familiare e così via. E sufficiente, a questo
proposito, ricordare le contrapposizioni tra contestatori e non, tra
«progressisti» e «conservatori» nell’interpretazione del Concilio, tra chi
vota per il partito cattolico e chi opera altre scelte politiche, tra chi inter50 G. Alberigo, «Una chiesa in cammino» in Aa.Vv., Chiesa in Italia. 1975-1978, Brescia,
Queriniana, 1978, p. 53.
51 F. Bolgiani, «Lo “ieri” e il “domani” del cristianesimo nella realtà dell’“oggi”», post scriptum
all’edizione italiana di J. Delumeau, Storia vissuta del popolo cristiano, Torino, Sei, 1985, p. 1059.
42
Franco Garelli
preta la fede in termini di «presenza» o in termini di «mediazione», e ―
nella stagione del referendum sul divorzio ― tra i cattolici del no e quelli
del sì. Non è chiaro quale sia stato l’esito ― per le dinamiche ecclesiali ―
delle varie iniziative di ricomposizione, dal momento che si è in un tempo
in cui prevalgono (anche a livello religioso) identificazioni deboli o parziali che facilitano convergenze non costringenti. In tutti i casi esse sembrano aver favorito una maggior coscienza ecclesiale tra i gruppi di credenti
più impegnati, fatto questo che segnala indirettamente una ripresa di leadership della Chiesa sulla vasta realtà dei movimenti in essa presenti.
2.6. Richiamo sull’identità, forte propositività, sottolineatura delle differenze: il
mutamento del rapporto Chiesa-mondo (dinamiche degli anni ottanta)
Anche a un osservatore superficiale non sarà sfuggita la diversa posizione che caratterizza la Chiesa ufficiale negli anni ottanta ― e che perdura nel tempo presente ― rispetto a quanto registrato nei decenni precedenti. Ciò che si è delineato è il tentativo di una maggiore affermazione
dell’identità religiosa (e del modello della religione di Chiesa) nel mondo
contemporaneo. Ciò in quanto è sul terreno della forte affermazione dei
valori della fede, della ripresa di funzione delle istituzioni religiose, di una
presenza sociale marcatamente propositiva e non esente da aggressività,
che la Chiesa tenta di contrapporsi al processo di secolarizzazione tipico
di una società fortemente differenziata e pluralistica. Così, a una chiesa
che privilegiava il dialogo con le varie confessioni religiose e che ricercava
un’allargata convergenza con le diverse aree culturali ne è subentrata
un’altra radicata sulla propria identità confessionale e particolarmente
attenta alle «differenze»; a una chiesa che tendeva a uscire dalle proprie
strutture nell’annunciare il Vangelo o nell’azione di promozione umana
ha fatto seguito un’altra espressione di chiesa attenta alla ripresa di
funzione e di credibilità sociale delle proprie istituzioni; ancora, a una
chiesa che sentiva come propri i dubbi religiosi e le tensioni etiche e
sociali dell’uomo contemporaneo o che era condizionata da una
situazione di incertezza, è succeduta una chiesa nuovamente radicata nelle
proprie certezze e sicurezze.
Che cosa rappresentano questo richiamo all’identità, l’affermazione
della propositività in un contesto di complessità, la sottolineatura delle
differenze in una realtà marcatamente differenziata? Sembra essere questo, indubbiamente, uno dei modi per salvaguardare l’identità religiosa
nella realtà contemporanea, per non disperdere una specificità di riferi-
Religione e modernità: il «caso italiano»
43
mento in un contesto sempre più pluralistico e differenziato. Nell’attuale
società la Chiesa sembra contrapporsi al mondo, sottolinea confini e
diversità, richiama alla particolarità di un riferimento di fede. Ciò in
quanto il mondo viene percepito come estraneo a una logica di fede,
come antagonista di una prospettiva religiosa. La preoccupazione è di
non disperdere la propria identità, di non attenuare la forza del proprio
messaggio, a fronte di un relativismo culturale dominante, del moltiplicarsi dei mercati di significato, dell’affermarsi di definizioni non religiose
della realtà, del prevalere di una considerazione della religione a un tempo
benevola e stemperante.
Tutto ciò ― paradossalmente ― spinge la Chiesa a svolgere un ruolo
sociale e politico di rilievo, ad assumere visibilità sociale, a esporsi all’utilizzazione dei mass media quali canali privilegiati di comunicazione con le
coscienze; tutti aspetti che possono dare adito a una nuova forma di secolarizzazione: la Chiesa e le figure religiose possono essere considerate
più per la funzione umana che garantiscono nella società, più per la visibilità pubblica, che per il richiamo a prospettive specificamente religiose.
Al di là di queste conseguenze paradossali, ciò che occorre sottolineare è l’affermarsi di una chiesa caratterizzata da una visione del mondo e
da un atteggiamento nei confronti della realtà diversi da quelli che informavano detta istituzione negli anni del Concilio o nei momenti in cui più
acuta si manifestava la crisi di legittimazione sociale e religiosa.
Quali i fattori sociali alla base di una tale trasformazione? Gli elementi
che hanno orientato la Chiesa a modificare il suo rapporto col mondo
sono da ricercare sia all’interno sia all’esterno del campo religioso. Sul
versante interno un aspetto favorevole è individuabile in quella
semplificazione dei rapporti che consegue sia al distacco dalla Chiesa di
una parte dei soggetti che più si sono fatti carico delle istanze della
contestazione religiosa sia alle iniziative di ricomposizione delle divisioni
che attraversano il mondo cattolico. Si ha, comunque, una soluzione delle
tensioni non esente da ambivalenza. Il prezzo dell’equilibrio che si va
determinando è infatti rappresentato, da un lato, dal ridursi della capacità
di coinvolgimento della Chiesa (da una riduzione di confine e di ambito
di influenza) e, dall’altro, dall’attenuarsi della dialettica interna al campo
religioso o dalla messa in atto di una mediazione tra le varie istanze più
attenta a trovare convergenze che ad affrontare i motivi della tensione.
Alla metà degli anni ottanta l’area cattolica pare attraversata dalla
tendenza a un ricompattamento prevalentemente di tipo culturale e solo
indirettamente di tipo politico.
Un altro aspetto favorevole sembra individuabile nella reazione che
44
Franco Garelli
col tempo si è prodotta nella Chiesa in relazione all’eccesso di problematicità, di tensione e di incertezza che l’aveva investita negli anni settanta. Come sovente accade in molti campi dell’esperienza umana, il superamento di alcuni livelli di guardia produce forti reazioni e contrapposizioni, tese a ripristinare gli equilibri preesistenti o a salvaguardare la
sopravvivenza. Analogamente, nella Chiesa degli anni settanta è venuta
crescendo l’esigenza di recuperare la dimensione propositiva, di superare
lo stato di incertezza e di sconcerto conseguente alla crisi di legittimazione sociale e religiosa e all’affermarsi di un clima culturale estraneo a una prospettiva di fede. Ovviamente una siffatta reazione può non
essere sufficiente per una soluzione dei problemi, qualora non sia in
grado di operare una ridefinizione dei rapporti e delle proposte. In tutti i
casi essa ha alimentato un nuovo modo di essere e di rapportarsi della
Chiesa al mondo, teso a sottolineare le differenze e a evitare possibili
atteggiamenti di adeguamento allo spirito mondano.
L’elezione a papa di Karol Wojtyla, sul finire degli anni settanta, rappresenta un segno del nuovo indirizzo della Chiesa, dell’esigenza di superare una fase di incertezza e di ritrovare nuova capacità propositiva.
Proprio questo pontefice, espressione di una cultura non occidentale all’interno della quale la religione ha assunto una funzione di istanza critica
dei rapporti sociali predominanti, si è fatto interprete sia del recupero
della dimensione normativa all’interno della Chiesa sia della ripresa di
centralità dell’istituzione ecclesiale negli equilibri sociali e politici esistenti.
Tuttavia, «l’accresciuto dinamismo della chiesa cattolica sul piano
socio-politico, in questi ultimi anni, non può essere semplicisticamente
letto come il miracolo operato da un aggressivo papa polacco o da
qualche rigurgito integralista nostrano». L’ipotesi è di essere di fronte a un
mutamento dei rapporti tra religione, società e politica, «a una nuova
domanda che dalle società stesse viene rivolta alle chiese, alle istituzioni
del bisogno religioso »52.
In questa linea l’azione della Chiesa nella società italiana sembra essere
rivalutata ― nel decennio ottanta e sino ai nostri giorni ― da quella
situazione di vuoto etico e di carenza di punti di riferimento sociali e
politici riscontrabile in tutte le società industriali avanzate. Le religioni
istituzionali sembrano essere ai margini di una società tecnologica, sono
portatrici di una definizione della realtà e di un orientamento sui valori
del tutto estranei a una mentalità razionale. Tuttavia, è stato notato, «la
sola razionalità non fornisce, oltre la sopravvivenza sia per la società
52 G. Ruggeri (a cura di), Una nuova pace costantiniana? cit., p. 14.
Religione e modernità: il «caso italiano»
45
sia per gli individui, specifici valori sostantivi»53. La società non sembrerebbe pertanto in grado di rispondere autonomamente alle domande
di rassicurazione e di identità che la struttura stessa del sistema pone ai
soggetti. Di qui la necessità di una fonte dei valori, individuabile anche o
soprattutto nella religione.
Negli anni ottanta la Chiesa (e in particolare papa Wojtyla) è stata assai
abile a proporsi come una fonte dei valori religiosi e di socialità che si
stanno stemperando nella società, come un punto di riferimento per i
problemi emergenti e per le tensioni sociali ed etiche che caratterizzano le
attuali condizioni di vita. In tal modo essa si è fatta interprete di istanze
latenti e diffuse nella popolazione, ha polarizzato l’attenzione di molti
gruppi sociali, si è fatta portavoce di situazioni problematiche e di bisogni
emergenti. E sufficiente, a questo proposito, ricordare l’attenzione della
Chiesa alle tematiche della pace e dell’ambiente; ai diritti delle minoranze
a un’autonoma espressione e dignità sociale; alle condizioni di vita più
indigenti e problematiche; all’emergere delle neopovertà (delle povertà
prodotte da una società «avanzata»); alla difesa della vita; alla caduta delle
discriminazioni razziali, culturali, di classe sociale, religiose; alla possibilità
dei soggetti di tendere all’autorealizzazione nella solidarietà e così via.
Oltre a ciò, proprio il papa polacco ha avuto un ruolo politico di rilievo
nel favorire il superamento di alcuni blocchi storico-politici e nel
richiamo dei governanti dei vari paesi alle responsabilità connesse al loro
ruolo istituzionale. Al riguardo si potrebbe dire che la Chiesa ha saputo
farsi interprete della domanda di valori «post- materialistici» che si vuole
assai allargata nelle società industriali avanzate, proponendosi come un
punto di riferimento positivo in un contesto carente di legittimazione
etica e di identificazione sociale.
Sembrano pertanto delinearsi le condizioni per riattualizzare l’ideaprogetto di una «nuova cattolicità», che si manifesta nell’opporsi della
Chiesa non tanto al processo di modernizzazione, quanto alle distorsioni
e alle contraddizioni insite in un contesto di modernità54. Pertanto, ciò
che poteva essere considerato un po’ riduttivatnente e sbrigativamente
come una riedizione occidentale del modello polacco, appare dunque
qualcosa di più complesso, rispondente a un ideale di neo-eurocentrismo di
segno cristiano, anzi cattolico (...) Questo modello va incontro alle attese di
quanti ― nei decenni precedenti ― avevano vissuto in condizioni di
marginalità rispetto al modello conciliare55.
53 B. Wilson, La religione nel mondo contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 63.
54 Si veda D. Hervieu-Léger, Verso un nuovo cristianesimo?, Brescia, Queriniana, 1989, pp. 281 sg.
55
F. Bolgiani, «Lo “ieri” e il “domni” del cristianesimo» cit., p. 1061.
46
Franco Garelli
Trattando della ripresa di visibilità pubblica dell’istituzione ecclesiale, si
fa riferimento a un altro elemento che rende possibile la nuova stagione
della Chiesa. Già s’è detto che negli anni settanta l’attenuarsi della
tensione sociale e politica ha lasciato spazio a una riproposizione ― pur
particolare e condizionata ― delle istituzioni. Questa situazione appare
favorevole anche per la Chiesa, in relazione all’impegno delle strutture
ecclesiali in molti settori della società civile (assistenziale, sanitario,
educativo eccetera). Nel passato anche l’azione in questi settori delle
strutture e del personale religiosi ha risentito del clima di delegittimazione
sociale che ha interessato più in generale l’istituzione ecclesiale. A lungo
andare, però, l’azione sociale della Chiesa sembra rivalutarsi in rapporto
alla situazione di complessità sociale determinatasi nel paese e alle
difficoltà di intervento evidenziate dallo Stato in molti settori. Ciò anche
in relazione al fatto che nel nostro paese si registra da tempo una sorta di
delega alle strutture religiose dell’intervento nei campi sanitario e socioassistenziale. In tutti i casi si ha che fare con strutture e risorse percepite
come affidabili, capaci di rispondere alle necessità della popolazione, in
grado di farsi carico anche delle situazioni di povertà e di indigenza
tipiche di una società avanzata.
La rivalutazione e riproposizione sociale della Chiesa non riguarda
comunque tutti i campi in cui detta istituzione è impegnata con la sua
azione e il suo magistero. In particolare nei settori dell’etica personale e
familiare e della dottrina religiosa sembra via via prodursi un sempre
maggior scollamento tra le direttive della Chiesa e gli orientamenti della
maggioranza della popolazione, anche di quella che pur dichiara un’appartenenza religiosa. Ma anche questo sembra un prodotto della modernità. L’atteggiamento nei confronti della realtà (delle istituzioni, della
religione, delle proposte culturali e così via) è oggi tollerante e selettivo,
orientato ad assumere ciò che può essere funzionale all’espletamento dei
propri bisogni o ciò che è in linea con la propria sensibilità e a tralasciare
quanto non rientra nel proprio quadro di riferimento. Così anche la
Chiesa può venire rivalutata per particolari funzioni che svolge nella società, senza per questo far prefigurare identificazioni totalizzanti o appartenenze costringenti.
3. Il mutamento del costume: dinamiche demografiche e strategie individuali e
familiari
La società italiana ― s’è detto ― è stata interessata negli ultimi decenni da rilevanti mutamenti nel sistema organizzativo e nelle condizioni di
vita della popolazione, in rapporto a un assai rapido e per vari aspetti
Religione e modernità: il «caso italiano»
47
contraddittorio processo di modernizzazione. Un campo in cui è possibile rilevare gli effetti del mutamento intercorso è quello relativo alla vita
privata e alle dinamiche familiari della popolazione56. Si tratterà di
verificare se anche in questo particolare settore sociale abbia a delinearsi
un caso italiano; oppure se anche il nostro paese sia stato investito da
quella rivoluzione silenziosa, ma non pacifica, che ha investito negli ultimi
vent’anni la vita domestica nella maggior parte delle nazioni dell’Occidente sviluppato57. Si potrà così valutare quanto la popolazione sia
interessata da un effettivo processo di secolarizzazione dei comportamenti e delle scelte di vita, al di là di una ideale adesione al modello della
religione di Chiesa, il quale si distingue per una particolare rigidità e
riproposta normativa nel campo dell’etica sessuale e familiare.
3.1. Un primato italiano: la riduzione della natalità
Dal punto di vista demografico si assiste negli anni ottanta, in Italia, a
una forte contrazione del tasso di crescita della popolazione, la cui causa
principale è rappresentata dal precipitoso declino delle nascite. Tale declino era comunque già iniziato ― in Italia come negli altri paesi dell’Europa occidentale ― nella seconda metà degli anni settanta, periodo in
cui si è invertita la tendenza al boom della natalità registratasi nel periodo
postbellico. Da quel momento però il processo ha avuto in Europa una
doppia velocità.
«Fino alla metà degli anni Settanta il declino della fecondità è stato più
rapido nei paesi dell’Europa settentrionale; (...) dopo la metà degli anni
Settanta la velocità di caduta della fecondità è diminuita in alcuni paesi,
mentre è aumentata in altri»58, segnatamente quelli dell’Europa
meridionale. Negli anni settanta la popolazione italiana è aumentata al
ritmo soltanto di 4,4 unità l’anno ogni 1.000 abitanti, rispetto all’incremento di 6/7 unità l’anno del periodo precedente. Negli anni ottanta tale
aumento risulta annualmente di 2,5 unità ogni 1.000 abitanti.
56 Tra i vari studi sulle dinamiche familiari in Italia si segnalano in particolare, per la loro
completezza e sistematicità, quelli promossi dal Cisf (Centro internazionale studi famiglia) e
coordinati e curati da P. P. Donati, che si applicano a tematiche relative alla qualità familiare, al
contributo delle generazioni ai cambiamenti nei comportamenti e nelle forme familiari, al problema
della denatalità, alla condizione dell’infanzia, all’emergere di nuove forme di famiglia, alle politiche
familiari e sociali e così via. Si vedano P. P. Donati (a cura di), Primo rapporto sulla famiglia in Italia,
Cisf, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1989; Id. (a cura di), Secondo rapporto sulla famiglia in Italia,
Cisf, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1991.
57 Si veda M. Barbagli, Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia e in altri paesi
occidentali, Bologna, II Mulino, 1990.
58 Ibid., pp. 11 sg.
48
Franco Garelli
Sempre negli anni ottanta il nostro paese detiene il primato del
declino delle nascite. In questo periodo, infatti, l’Italia si presenta
come la nazione occidentale caratterizzata dal quoziente di natalità più
basso del mondo. Il valore più basso nel decennio si è registrato nel
1987, con 9,6 nati vivi ogni 1.000 abitanti. In quell’anno il tasso delle
nascite era (sempre ogni 1.000 abitanti) del 13,8 in Francia, del 13,6
nel Regno Unito, del 10,5 nella Repubblica federale tedesca, dell’11,2
in Spagna. Nel 1989 il quoziente di natalità in Italia è leggermente
aumentato (9,7 nati vivi su 1.000 abitanti), pur rimanendo sempre il
più basso a livello mondiale59.
Questo primato negativo dell’Italia ha un corrispettivo nella
marcata riduzione del livello di fecondità. Nell’ultimo decennio si
registra nel nostro paese il più basso numero di figli per donna mai
riscontrato (1,3); e ciò proprio mentre il declino delle nascite sembra
stabilizzarsi nei paesi dell’Ovest europeo, sia centrale sia
settentrionale, «attorno a livelli di 1,5 figli per donna (Germania
Federale, Austria, Svizzera, Belgio, Olanda, Danimarca) o di 1,8 figli
per donna (Francia, Inghilterra, Norvegia, Svezia) »60. In tal modo il
processo di riduzione della fecondità ha sfondato la soglia (meno 1,5
figli per donna) che i demografi ritenevano sino a qualche tempo fa
invalicabile, assai distante da quel livello di sostituzione delle
generazioni rappresentato da 2,1 figli per donna.
Occorre ancora osservare che i dati medi nazionali della riduzione
della fecondità e delle nascite si determinano in rapporto a rilevanti
differenze regionali, che indicano la presenza nel nostro paese di un
dualismo accentuato, fonte di forti squilibri. Il livello di fecondità che
nel 1987 è di 1,3 figli per donna, è inferiore all’1,1 in quasi tutte le
regioni deI Nord (con punte minime dello 0,9 in Liguria ed Emilio.
Romagna) e risulta superiore all’1,6 nelle regioni meridionali (con il
livello massimo dell’1,82 in Campania). Ciò significa che il tasso di
fecondità nella regione più feconda d’Italia è inferiore a quello medio
della Svezia. Analizzando poi il saldo naturale della popolazione si
osserva (con riferimento al 1988) che nelle regioni settentrionali e in
parte anche in quelle centrali dell’Italia le morti risultano più elevate
delle nascite (― 1,9 ogni 1.000 abitanti), mentre il Mezzogiorno
presenta un saldo naturale positivo (4,9 ogni 1.000 abitanti).
59 Si veda «Le grandi tendenze del mutamento demografico» in Aa.Vv., Il futuro degli italiani.
Demografia, economia e società verso il nuovo secolo, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli,
1990, pp. 15-50.
60 P. De Sanate, «Contributo delle generazioni ai cambiamenti recenti nei comportamenti e
nelle forme familiari» in P. P. Donati (a cura di), Secondo rapporto sulla famiglia cit., p. 111.
Religione e modernità: il «caso italiano»
49
3.2. Un paese profondamente mutato negli ultimi vent’anni
Negli ultimi vent’anni, dunque, si è registrata in Italia una profonda e «rapida evoluzione delle strategie individuali e familiari che
guidano gran parte dei comportamenti demografici»61, aspetto questo direttamente collegabile alle trasformazioni economico-sociali,
culturali e giuridiche che si sono prodotte nel paese.
I principali mutamenti legislativi sono consistiti nella liberalizzazione della propaganda anticoncezionale (1971), nell’introduzione
dell’istituto dello scioglimento dei matrimoni (1970) e nella sconfitta
del referendum abrogativo del divorzio (1974), nella riforma del diritto di famiglia e nell’istituzione dei consultori familiari (1975), nell’introduzione dell’aborto (1978) e nella sconfitta del referendum che
intendeva abrogare tale istituto (1981), nella riduzione da cinque a tre
anni del periodo di attesa tra separazione e divorzio (1987).
Relativamente ai mutamenti sociali, gli ultimi vent’anni si segnalano per una prima fase dominata dalla presenza di movimenti a
forte accentuazione antistituzionale (operaio, studentesco, femminista) che contribuiscono a delineare un’alternativa culturale negli
stili di vita e nei costumi; e per un progressivo aumento delle opportunità occupazionali per le donne, soprattutto nelle regioni centrosettentrionali del paese, anche in seguito a un più ampio accesso
all’istruzione della popolazione femminile.
A livello delle dinamiche demografiche e dei comportamenti familiari e riproduttivi, si assiste negli ultimi decenni alla diffusione di
nuove tecniche contraccettive, alla caduta delle nascite (soprattutto
tra la metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta), all’aumento degli aborti indotti, a un sensibile incremento del matrimonio civile, alla forte riduzione della nuzialità, alla semplificazione e
moltiplicazione delle forme familiari (soprattutto negli anni ottanta); relativamente alle crisi matrimoniali, crescono in questo periodo prima le separazioni legali e successivamente i divorzi. Alcuni
dei fenomeni elencati presentano poi nella seconda metà degli anni
ottanta un andamento più composto rispetto a quanto registrato
nel recente passato: ciò soprattutto per il declino delle nascite, degli
aborti provocati, del numero dei matrimoni.
61 A. Nobile, «Caratteri, trasformazioni e prospettive della popolazione» in Istat-Ais, Immagini
della società italiana, Roma, 1988, p. 26.
50
Franco Garelli
3.3. Minor frequenza e minor stabilità delle unioni coniugali
La drastica caduta della fecondità e della natalità ― cui s’è fatto riferimento ― trova dunque spiegazione all’interno di una serie di trasformazioni che, in un arco di tempo assai ristretto, hanno interessato i comportamenti familiari e riproduttivi degli italiani. Al riguardo il richiamo, in
particolare, è alla crisi dell’istituzione familiare, alla disaffezione nei
confronti dell’unione coniugale ufficiale, che si articola nella diminuzione
dei matrimoni, nell’aumento delle separazioni e dei divorzi e nell’incremento delle unioni libere e delle convivenze.
Pur in aumento negli ultimi vent’anni, la situazione dell’instabilità
coniugale non sembra però aver toccato in Italia livelli analoghi a quelli
degli altri paesi europei. In Italia, pertanto, il processo di denatalità risulta
assai più accentuato del declino della nuzialità.
Fino alla metà degli anni settanta in Italia si registravano ― in media,
ogni anno ― più di 7,5 matrimoni ogni 1.000 abitanti. Tale media è
andata progressivamente riducendosi, sino a risultare del 5,4 ogni 1.000
abitanti nel 1989. In termini assoluti si è passati dagli oltre 418.000 matrimoni del 1972 ai 311.600 matrimoni del 1989. Nell’arco degli ultimi
dodici anni vi è stata la diminuzione di circa 900.000 matrimoni, senza
che questo fenomeno sia imputabile alla minor consistenza delle generazioni che raggiungevano l’età media del matrimonio. Alle condizioni di
nuzialità alla fine degli anni ottanta si calcola che ― in presenza di una
tendenza stabile ― circa il 30 per cento degli italiani rimarrebbe celibe o
nubile; e ciò mentre la situazione del 1975 prevedeva che circa il 93 per
cento dei soggetti si sarebbe sposato. A metà degli anni ottanta tale
condizione interessava circa il 45 per cento dei soggetti in diversi paesi
europei.
Quest’ultimo dato attesta come il declino della nuzialità si accompagni
all’aumento delle persone che vivono sole e al prolungamento della
permanenza dei figli in famiglia. Pur caratterizzandosi per un elevato
incremento negli anni ottanta, il fenomeno dei giovani che vivono da soli
appare in Italia assai meno accentuato che in altri paesi europei. Parallelamente in Italia è assai elevato il numero dei giovani maschi dai 20 ai
24 anni che vivono ancora nella famiglia d’origine: il 90 per cento,
rispetto al 50 per cento in Francia, Gran Bretagna, Olanda, al 40 per
cento nella Repubblica federale tedesca, al 26 per cento in Danimarca.
Pur se a livelli più bassi, analoghe differenze tra i diversi paesi si riscontrano per quanto riguarda le femmine della stessa età.
Il declino della nuzialità si accompagna poi alla diffusione delle convivenze more uxorio, intese sia come convivenza prematrimoniale sia
Religione e modernità: il «caso italiano»
51
come effettiva alternativa al matrimonio. Ma anche questi fenomeni risultano
in Italia meno diffusi di quanto si registri in altri paesi dell’Europa occidentale.
L’entità dei matrimoni preceduti da convivenze è passata ― nel nostro paese ―
«dal 2 per cento negli anni Sessanta all’8 per cento per quelli celebrati all’inizio
degli anni Ottanta»62. Per contro, nella maggior parte dei paesi europei una
percentuale tra il 40 e il 60 per cento delle persone che hanno contratto
matrimoni negli ultimi anni ha avuto alle spalle un periodo più o meno lungo
di convivenza. Più in generale, comunque, il fenomeno delle convivenze more
uxorio o famiglie di fatto sembra essere assai limitato nel nostro paese, anche
se per vari aspetti sottostimato. Secondo un’indagine Istat si contavano in
Italia, nel 1983, 192.000 famiglie di fatto, pari all’1,3 per cento delle coppie. Le
coppie non sposate erano invece oltre 1.000.000 nella Repubblica federale
tedesca nel 1982, e 1.400.000 in Francia nel 1985. Anche se vi sono molte
ragioni per ritenere che siano diffuse nel nostro paese le convivenze more
uxorio «mascherate», si deve comunque concludere che in Italia il fenomeno
ha un’espansione minore che altrove.
Un altro segno di disaffezione nei confronti del matrimonio può essere
individuato nel fenomeno delle nascite naturali, la cui quota è passata in Italia
dal 2,6 per cento del 1975 al 5 per cento del 1984 e al 6,1 per cento del 1989.
Anche in questo caso si tratta di cifre ancora distanti dal 17 per cento circa
dell’Inghilterra e dal 45 per cento della Svezia registrate a metà degli anni
ottanta.
Anche relativamente al fenomeno dell’instabilità coniugale si
osservano situazioni assai differenziate tra i paesi dell’Europa occidentale.
Nei paesi dell’Europa centrosettentrionale oscilla tra il 25 e il 40 per cento
l’entità dei matrimoni che terminano con una sentenza del tribunale. Nei
paesi mediterranei la situazione è invece ancora sensibilmente diversa. A
metà degli anni ottanta si contavano in Italia 5 divorzi e 11,8 separazioni
legali ogni 100 nuovi matrimoni. In seguito però il numero dei divorzi è
aumentato, in rapporto alla riduzione da cinque a tre anni del periodo di
separazione legale necessario per ottenere il divorzio. Su 100 matrimoni
celebrati si sono avuti, nel 1989, 9,7 divorzi e 13,7 separazioni. Per la
particolare situazione giuridica del nostro paese l’indicatore più corretto
per misurare l’instabilità coniugale sembra essere il dato delle separazioni.
Con riferimento al 1988, si sono registrate in Italia oltre 37.200
separazioni legali, mentre i divorzi sono risultati 104.000 in Francia,
128.000 nella Repubblica federale tedesca, 175.000 in Gran Bretagna. Tuttavia, il fenomeno dell’instabilità coniugale interessa in
62
M. Barbagli, Provando e riprovando cit., p. 19.
52
Franco Garelli
modo assai diverso le varie realtà territoriali del paese, essendo assai più
elevato al Nord (e in parte al Centro) che al Sud. In alcune regioni settentrionali si contano da 20 a 25 separazioni legali su 100 nuovi matrimoni.
Oltre a ciò, come ovvio, tale fenomeno è assai più esteso nelle grandi città
che nei piccoli centri.
Dal quadro sin qui delineato emerge una certa qual tenuta nel tempo
dell’istituzione familiare nel nostro paese. Pur in aumento, i casi di instabilità coniugale e le unioni libere sono infatti su livelli ancora distanti da
quelli riscontrabili in molti paesi dell’Europa centrosettentrionale.
All’interno di questa situazione sembra poi registrarsi una certa «stabilità
rispetto al regime istituzionale pubblico, e di mutamento rispetto al
referente religioso; (...) dal 1970 cresce con velocità superiore ad altri
indicatori la frazione di matrimoni celebrati col solo rito civile»63. Questi
ultimi ― che costituivano il 2,3 per cento dei matrimoni nel 1970 —
risultano dell’8,4 per cento nel 1975, del 12,4 per cento nel 1980, del 14,2
per cento nel 1983 e del 16,3 per cento nel 1988. Anche in questo caso il
fenomeno è assai vario, toccando i valori massimi nelle zone urbane
dell’Italia settentrionale. Di fronte a questo trend è stata avanzata l’ipotesi
che la situazione italiana abbia a caratterizzarsi più che per un processo di
«de-istituzionalizzazione» del matrimonio, per una sua «de-sacralizzazione»
nell’esperienza delle generazioni più giovani64. L’ipotesi pare indubbiamente
plausibile, anche se a fronte del processo di secolarizzazione che investe le
attuali condizioni di vita risulta ancora rilevante ― negli ultimi anni ―
l’orientamento al matrimonio religioso tra gli italiani.
3.4. Contraccezione e aborti
La drastica riduzione della fecondità e della natalità nel nostro paese è
comunque solo in parte imputabile all’aumento dell’instabilità familiare e
dell’entità di popolazione che intende vivere da sola. Oltre a ciò occorre
ricordare l’affermarsi di un modello di famiglia ― tra le generazioni più
giovani orientate al matrimonio ― basato su due figli e caratterizzato dalla
tendenza a ritardare la nascita del primogenito.
In un’indagine condotta nel 1988 sugli orientamenti riproduttivi di un
campione di popolazione in età dai 18 ai 49 anni, si osserva che l’intenzione di avere figli viene espressa dal 75 per cento di quanti non
sono sposati; ma essa viene esclusa ― tra gli sposati ― dall’80 per cento
63 P. De Sandre, «Contributo delle generazioni» cit., p. 140.
.
64 Ibid
Religione e modernità: il «caso italiano»
53
di quanti hanno già due figli, dal 42 per cento di chi ha già un figlio e dal
17 per cento circa dei soggetti senza prole65. Questa indagine di
opinione, pertanto, rappresenta un interessante ― anche se parziale ―
indicatore del modello riproduttivo prevalente nelle generazioni più giovani, le quali sembrano sempre più orientate a mettere in atto strategie
di pianificazione familiare.
L’attuazione di queste strategie è connessa ovviamente alla disponibilità di mezzi contraccettivi. Come è stato rilevato, però, la situazione
contraccettiva dell’Italia è «tra le più arretrate. Secondo un’indagine
nazionale sulla fecondità realizzata nel 1979 (...) le donne italiane impiegano con maggior frequenza metodi tradizionali ad alto rischio di
insuccesso»66. Questa indicazione sembra trovare conferma anche in
una ricerca condotta, a metà degli anni ottanta, su un campione di
donne dai 21 ai 40 anni residenti in una regione italiana ritenuta
particolarmente libertaria nel campo dei comportamenti sessuali
(l’Emilia-Romagna). Al riguardo la cultura contraccettiva tradizionale
sembra ancora prevalere su quella moderno-scientifica ad alto indice di
sicurezza, mentre i metodi moderno-naturali (accettati dalla chiesa
cattolica) vengono messi in atto da circa il 16 per cento dei casi67.
Ovviamente poi i metodi contraccettivi più moderni e a minor rischio
sarebbero più diffusi al Nord che al Sud, e nelle grandi realtà urbane che
nelle zone di provincia.
Secondo vari studiosi il prevalere di metodi contraccettivi tradizionali e ad alto rischio sembra uno dei fattori che spiegano l’elevata frequenza di aborti volontari in Italia, i cui tassi sono tra i più rilevanti nell’Europa occidentale. Negli ultimi anni il fenomeno risulta in diminuzione.
Ciononostante nel 1989 si sono registrati 298 aborti ogni 1.000 nati vivi,
con punte massime di 450 casi in alcune regioni settentrionali e con una
media di 231 casi in quelle meridionali. A detta di alcuni osservatori i
dati del Sud sarebbero comunque sottostimati, per la maggior diffusione dell’aborto clandestino a cui in genere si ricorre in contesti caratterizzati da particolari condizionamenti socioculturali. Occorre ancora notare che nel nostro paese è bassa l’entità degli aborti delle donne nubili sul
totale degli aborti: nel 1985 essa era del 27 per cento, rispetto al 44 per
cento in Francia e al 60 per cento in Inghilterra68.
65Ibid., p. 133.
66 A. Nobile, «Caratteri,
trasformazioni e prospettive» cit., p. 33,
Si veda Aa.Vv., I percorsi del cambiamento. Ricerca sui comportamenti contraccettivi in Emilia
Romagna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989.
68 P. De Sandre, «Contributo delle generazioni» cit., p. 138.
67
54
Franco Garelli
3.5. Indicazioni ambivalenti e contraddittorie
L’analisi dei comportamenti coniugali e familiari e del modello riproduttivo prevalenti in Italia lascia intravvedere una situazione che
per alcuni aspetti si allinea agli standard delle nazioni dell’Europa
centrosettentrionale e per altri appare sensibilmente diversificata.
Oltre a ciò, un altro elemento di contradditorietà della situazione
nazionale è individuabile in un sensibile scarto tra i comportamenti e
gli orientamenti «ideali» o «teorici» di quote allargate di popolazione. A
titolo esemplificativo faremo qui riferimento a due particolari ambiti
in cui si delinea questa distanza tra pratiche di vita e orientamenti
culturali.
A fronte del 70 per cento circa di italiani che alle condizioni di nuzialità della fine degli anni ottanta rimarrebbe celibe o nubile, la quasi
totalità delle giovani generazioni dichiara la propria fiducia nei confronti della famiglia. Quella familiare infatti è l’istituzione maggiormente rivalutata in anni recenti, essendo oggetto di un livello di identificazione assai più elevato di quello riscontrabile nei confronti di altre
realtà istituzionali. In parte tale scarto è imputabile al fatto che una
quota di giovani può rivalutare la propria famiglia d’origine ed essere
nel contempo refrattaria all’idea di costituire una famiglia legale. Ma
anche in questo caso l’impressione di una certa qual contradditorietà
negli atteggiamenti e nei comportamenti non scompare.
Dalle indagini di opinione si rileva che l’intenzione di avere figli interessa la quasi totalità della popolazione in età feconda; più in generale poi appare allargato il riconoscimento dell’importanza dei figli in
una vita di coppia e di famiglia (e per certi versi anche in termini di autorealizzazione). A fronte di ciò appare di una certa consistenza la
quota di coppie sposate senza figli che non intendono averne, e risulta
rilevante l’entità di coppie sposate con un figlio che non hanno intenzione di averne altri. Al riguardo si può ipotizzare che l’idea di avere
figli sia oggetto nel tempo presente di contrastanti valutazioni da parte
delle coppie o dei singoli soggetti, per gli alti costi personali e sociali a
cui sembrano andare incontro ― nel nostro paese ― quanti assumono
tale decisione. Oltre a ciò, sembra affermarsi una concezione della vita
cosi densa di significato e carica di pienezza da scoraggiare un orientamento riproduttivo quando si avverte l’assenza di determinate condizioni sociali ed economiche. L’analisi in termini di costi-benefici può
far sì che l’orientamento a limitare il numero dei figli (o a non averne)
prevalga rispetto al desiderio di averne.
Religione e modernità: il «caso italiano»
55
3.6. Controllo sociale e strategia adattiva
In sintesi, da un lato, l’Italia detiene il primato della riduzione del tasso
di fecondità e di natalità e presenta un alto tasso di aborti; dall’altro, il
processo di instabilità coniugale ― pur in aumento ― non appare
particolarmente accentuato nel nostro paese, fatto questo che delinea un
declino morbido della nuzialità (e anche dei matrimoni religiosi), una
diffusione relativa delle convivenze more uxorio e delle nascite al di fuori
del matrimonio, una presenza ancora contenuta di separazioni e divorzi.
Un altro aspetto singolare è poi individuabile nella persistenza di metodi
contraccettivi tradizionali a fianco di tecniche più moderne e sicure.
Il quadro che emerge è quindi fortemente improntato alla contradditorietà degli orientamenti e dei comportamenti; a una sorta di scompenso, nel campo delle tendenze demografiche e delle strategie individuali e familiari, di difficile decifrazione.
Per spiegare l’ambivalenza e la contradditorietà della situazione alcuni
osservatori chiamano in causa l’elevato controllo sociale e familiare
ancora presente in varie aree del paese, in larghi strati della popolazione.
La persistenza di tali pressioni può indubbiamente costituire un ostacolo
alla messa in atto di rapporti di coppia o di forme di famiglia non
legittimate dalla tradizione; ma all’interno di questa condizione sembra
esservi spazio per comportamenti libertari o per scelte non aperte alla
fecondità. Il processo di secolarizzazione dei comportamenti familiari e
sessuali sarebbe così assai più accentuato di quanto espresso dalle
statistiche.
Secondo altri studiosi la contradditorietà della situazione italiana sarebbe imputabile ai tempi assai ristretti in cui si è delineato il processo di
modernizzazione del paese. Nell’arco di vent’anni si sono prodotti in
Italia mutamenti così radicali nei rapporti familiari, negli stili di vita e nei
costumi, nella condizione delle donne, nell’accesso al mercato del lavoro
e nella secolarizzazione, da far emergere una difficoltà di sedimentazione
delle esperienze in quote assai allargate di popolazione. In questa linea
sembrerebbero prevalere nella popolazione strategie atte a semplificare la
situazione, a ridurre i fattori di difficoltà, ancorandosi ai rapporti sociali
più stabili e collaudati. Si spiegherebbe così, da un lato, l’elevata tenuta
della famiglia in Italia e, dall’altro, l’orientamento delle coppie a ridurre il numero dei figli, in rapporto sia all’aumento di responsabilità
e dei costi personali connessi al fatto di avere una prole numerosa sia
ai molteplici oneri socio-assistenziali che gravano sulla struttura
familiare nel nostro paese (a differenza di altri). Quest’ultimo punto
ci ricorda l’assenza in Italia (diversamente da altre nazioni) di po-
56
Franco Garelli
litiche sociali che incentivano la natalità. Tra i vari indicatori di difficoltà
di sedimentazione delle esperienze e di semplificazione della realtà si
possono poi annoverare sia la persistenza di tecniche contraccettive tradizionali sia un elevato ricorso all’aborto quale tecnica di pianificazione
familiare.
Comunque, tra i fattori che nel nostro paese «non favoriscono cambiamenti più rapidi delle forme coniugali-parentali vi sono sicuramente
la forte tradizione familiare e i riferimenti alla religione cattolica, che da
sempre cura con grande forza l’etica sessuale, coniugale e familiare»69.
Proprio l’influenza della Chiesa e delle organizzazioni cattoliche ha fatto
sì che in Italia il divorzio e l’aborto venissero introdotti molto più tardi
che in altri paesi; che si sia prodotta una maggior resistenza alla
liberalizzazione della propaganda anticoncezionale e alla diffusione delle
nuove tecniche contraccettive; che si abbia a registrare un minor tasso
di instabilità coniugale e una minor presenza di nuove forme di famiglia.
Ciononostante, non sono pochi í segni di secolarizzazione dei comportamenti sessuali e familiari nella popolazione italiana che sembrerebbero indicare il debole influsso della Chiesa nel campo della morale sessuale e familiare: a cominciare da quella drastica riduzione delle nascite e
della fecondità e dall’elevato numero di aborti, a cui fa costantemente
riferimento la gerarchia cattolica per indicare il processo di allentamento
dei riferimenti religiosi e morali della popolazione. Ma anche questo
sembra essere un segno dell’ambivalenza e della contradditorietà delle
attuali condizioni di vita. Nel processo di adattamento alla realtà possono persistere in quote allargate di popolazione orientamenti tradizionali
e scelte radicali; così come l’influsso della Chiesa nel campo dei costumi
può essere ancora rilevante per alcuni aspetti e debole per altri.
4. Religiosità di maggioranza e religiosità di minoranza
Nell’ultimo decennio in Italia ― è stato rilevato ― la chiesa cattolica si
è caratterizzata per un atteggiamento assai dinamico e propositivo, offrendosi come un punto di riferimento etico e culturale, richiamando i
credenti a una maggior consapevolezza della loro fede e appartenenza
religiosa. Occorre chiedersi, a questo punto, quale sia stata la risposta
della popolazione a tali messaggi: quanto cioè il cattolicesimo dal basso (la
religiosità quotidianamente vissuta dagli italiani) abbia a raccordarsi
69 Ibid., p. 140.
Religione e modernità: il «caso italiano»
57
alle proposte e alle sollecitazioni provenienti dal cattolicesimo dall’alto (i
vertici della Chiesa); «fino a che punto il vissuto religioso abbia a corrispondere o tenda ad adeguarsi ai nuovi modelli di vita e di spiritualità
proposti dall’alto»70.
L’analisi dei caratteri della religiosità nel tempo presente, delle attuali
configurazioni dell’espressione religiosa della popolazione, permette di
rispondere ― almeno in parte ― ai suddetti interrogativi. Si tratta a
questo proposito di rilevare ― per la società contemporanea ― il livello
di tenuta del modello religioso che è prevalso nella tradizione del nostro
paese o l’eventuale incremento nella popolazione sia degli atteggiamenti
di autonomia da una prospettiva di fede sia dell’adesione a modelli
religiosi altri da quelli cattolici. Il problema di fondo, pertanto, è di
valutare se gli italiani siano ancora un popolo religioso e, in particolare,
se l’Italia possa ancora essere considerata un paese cattolico.
Una risposta adeguata a questi interrogativi appare oltremodo
difficile per i problemi connessi alla rilevazione su larga scala di un
fenomeno come quello religioso. L’utilizzo di indagini quantitative
permette indubbiamente di individuare le tendenze di fondo della
religiosità nel nostro paese, ma a scapito dell’approfondimento della
qualità dell’espressione religiosa. In questo caso, poi, tale difficoltà
risulta ancora più accentuata per la carenza di indagini empiriche
nazionali che assumano la religiosità come oggetto specifico di studio.
All’interno di questi limiti di analisi, è possibile ricavare da alcune
indagini nazionali recenti la posizione della popolazione su alcuni
indicatori convenzionali di religiosità: credenza, pratica religiosa, grado
di interesse e di coinvolgimento religioso, senso di appartenenza
religiosa e così via (si vedano le tabb. 1 e 2). Si tratta di ricerche svolte
da istituti demoscopici che operano a livello nazionale, effettuate su
campioni rappresentativi di popolazione adulta (di età compresa tra i 18
e i 65 anni) residente nel nostro paese71.
70 F. Bolgiani, «Lo “ieri”
e il “domani” del cristianesimo» cit., p. 1065.
Sono quattro le indagini cui qui si fa riferimento. Anzitutto quella realizzata nel 1987 dalla
Fondazione Giovanni Agnelli su un insieme di 4.500 interviste, relative a due diversi campioni:
l’uno di 2.400 persone (di età compresa tra i 18 e i 64 anni) distribuite su tutto il territorio nazionale;
l’altro di poco più di 2.000 soggetti, rappresentativo della popolazione residente in cinque grandi
città italiane (Torino, Milano, Firenze, Napoli e Bari). L’intento della ricerca era di rilevare la
posizione della popolazione nel campo dell’innovazione tecnologica; ora in V. Cesareo (a cura di),
L’icona tecnologica, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1989. La seconda indagine che verteva sui consumi culturali degli italiani - è stata promossa nel 1985 dall’Università di Trento e
ha interessato un campione di 2.400 soggetti rappresentativo della popolazione nazionale.
Si fa poi riferimento all’Indagine sociale italiana promossa nel 1985 dall’Istituto demoscopico
Eurisko, che ha coinvolto un campione di popolazione nazionale di oltre 1.600 soggetti.
71
58
Franco Garelli
Tabella 1. La rilevazione della pratica religiosa in Italia effettuata dalle più recenti indagini
(valori in percentuale).
Con quale frequenza assiste ai riti religiosi?
Mai o quasi mai
Alcune volte all’anno
Alcune volte al mese
Tutte le settimane o più
23,2
29,3
17,8
29,8
Casi: 2.409. Casi mancanti: 21.
Fonte: indagine Fondazione Giovanni Agnelli, 1987, ora in V. Cesareo (a cura di), 1989.
Negli ultimi tre mesi quante volte è entrato in una chiesa anche per pochi
minuti?
Mai
22,4
Meno di una volta al mese
17,3
Una volta al mese
11,7
2-3 volte al mese
16,0
Tutte le settimane
32,5
Casi: 2.370. Casi mancanti: 6.
Fonte: Università di Trento, I consumi culturali degli italiani, 1985.
Con quale frequenza assiste ai riti religiosi?
Mai
Alcune volte all’anno
1-3 volte al mese
Una volta alla settimana
Più volte alla settimana
19,4
32,4
12,6
27,8
7,9
Casi: 1.580.
Fonte: Eurisko, 1985.
A parte alcuni riti come i matrimoni, i funerali e i battesimi, ogni quanto tempo
va in chiesa (per le funzioni religiose)? (valori percentuali arrotondati)
Mai o quasi mai
21
A Natale, Pasqua o grandi festività
28
Una volta al mese
16
Una volta alla settimana o più
36
Casi: 1.398.
Fonte: European Value System-Study Group, 1981.
60
Franco Garelli
4.1. Le tendenze prevalenti
Il confronto tra queste ricerche segnala una sostanziale coincidenza
delle principali indicazioni relative alla religiosità degli italiani. Così, affiancando i dati delle varie indagini, si osserva che:
― la credenza in Dio, in un essere superiore, appare generalizzata,
essendo condivisa da circa il 90 per cento della popolazione;
― circa l’80-85 per cento degli italiani reputa che avere una fede religiosa sia una grande forza nella vita e che l’esistenza non possa essere
compresa con la sola ragione umana;
― circa 1’80 per cento degli italiani si ritiene religioso, si considera
orientato religiosamente; per oltre il 60 per cento dei casi la figura di Dio
appare molto importante nella vita e per un altro 32 per cento essa
assume un’importanza media;
― l’identificazione culturale nella fede cattolica appare più estesa (85
per cento circa) dell’adesione al modello ufficiale della religione di Chiesa
(più dei 2/3 della popolazione); in quest’ultimo caso si tratta di soggetti
che nel definire il proprio atteggiamento nei confronti della religione
dichiarano di «credere in Dio e nella chiesa cattolica», di riconoscersi nella
proposta religiosa avanzata dalla Chiesa, di far parte di essa;
― il fenomeno dei riti di passaggio, il ricorso cioè ai sacramenti nei
momenti principali della vita, interessa quote assai elevate di popola..
zione: oltre il 90 per cento nel caso del battesimo dei figli e più dell’85 per
cento nel caso del matrimonio; indicazioni analoghe si riscontrano a
proposito dei funerali religiosi, mentre di poco inferiore appare l’introduzione dei bambini ai primi sacramenti (prima comunione e cresima);
― la fiducia nella chiesa cattolica (in un quadro generale di fiducia
accordata a una serie di organizzazioni e istituzioni sociali) viene espressa
dal 60 per cento circa della popolazione;
― poco meno della metà degli italiani reputa che «non esista una sola
vera religione, ma delle verità e delle idee giuste in tutte le religioni più
L’ultima indagine è rappresentata dall’edizione italiana dell’inchiesta sui valori in Europa
realizzata nel 1981 su un campione di 1.000 italiani.
Nel 1991 sono stati effettuati nel nostro paese due sondaggi interamente dedicati alla religiosità,
il primo promosso da «Famiglia Cristiana»-«Jesus» e realizzato dall’Ispes (su due campioni di
popolazione, l’uno nazionale - di 2.000 casi - e l’altro di «cattolici praticanti» - di 1.000 soggetti) e il
secondo realizzato dall’Eurisko nell’ambito di un’iniziativa di ricerca comparata tra vari paesi del
mondo. In quest’ultimo caso il campione nazionale era composto da 1.000 soggetti. I risultati di
questi ultimi due sondaggi confermano sostanzialmente le tendenze evidenziate dalle indagini
precedenti - anche se permettono un significativo approfondimento della situazione -, fatto questo
che sembra attestare una certa qual stabilità del fenomeno in anni recenti.
Religione e modernità: il «caso italiano»
61
diffuse del mondo»; parallelamente sembrano prevalere definizioni assai
allargate di religione, che delineano un certo qual stemperamento del
concetto di religione, mentre vengono per lo più rifiutate le definizioni più
negative o riduttive della religione;
― la maggioranza della popolazione condivide le credenze religiose
principali del cattolicesimo; tale condivisione è però destinata a diminuire
sensibilmente nel caso delle credenze che sembrano avere maggiori
ripercussioni sugli orientamenti e sulle scelte di vita; oltre a ciò, soltanto una
ristretta minoranza di italiani si riconosce nelle indicazioni della Chiesa nel
campo della morale sessuale e familiare;
― l’area dei praticanti regolari sembra interessare il 40-45 per cento della
popolazione, realtà in cui confluisce il 30 per cento circa dei soggetti
caratterizzati da una frequenza continuativa (settimanale) dei riti religiosi e il
15-17 per cento dei soggetti che partecipano ai rituali una o più volte al
mese; una partecipazione più diradata nel tempo o legata alle festività
religiose più importanti coinvolge invece il 30 per cento della popolazione;
― poco meno del 10 per cento della popolazione dichiara di far parte di
un gruppo-movimento-associazione di matrice religiosa.
4.2. Identificazioni religiose generali e adesioni specifiche
A una prima analisi i dati qui esposti permettono di delineare, da un
lato, i tratti della religiosità prevalente nel nostro paese e, dall’altro, la
marcata diversificazione di posizioni religiose che caratterizza comunque la
situazione italiana. Le stesse tendenze prevalenti possono infatti essere lette
per difetto, in rapporto all’entità di popolazione che in esse non si
riconosce e che evidenzia pertanto, al riguardo, un diverso atteggiamento.
Oltre a ciò, l’accostamento delle varie tendenze permette di rilevare le
dimensioni di religiosità in cui si delinea un maggior coinvolgimento della
popolazione e quelle dotate di un maggior potere di discriminazione. Ne
emerge un quadro di analisi interessante e articolato, caratterizzato da
tendenze prevalenti assai variegate, vivacizzato dalla presenza di alcune
posizioni minoritarie.
Le principali tendenze sono così sintetizzabili:
a) La quasi totalità degli italiani sembra riconoscersi in una visione
religiosa della realtà, attribuisce valore a una prospettiva di fede, palesa una
generale identificazione con i valori religiosi. L’assunzione di un riferimento
religioso ― ancorché molto ampio o generico ― sembra pertanto un tratto
culturale ricorrente anche nell’attuale momento storico.
Detto atteggiamento assume per lo più il carattere di una generale iden-
62
Franco Garelli
tificazione nella religione cattolica, di una adesione culturale al cattolicesimo. Da questo punto di vista si registra a livello nazionale una certa
qual coincidenza tra il riconoscersi persone orientate religiosamente e il
definirsi «cattolici». Ciò conferma che nel contesto italiano la cultura
religiosa di riferimento rimane quella cattolica.
b) Un esempio dell’allargata persistenza di un orientamento culturale
cattolico è individuabile nel ricorso alla religione nei momenti di solennizzazione delle tappe principali dell’esistenza umana. La tenuta dei
riti di passaggio nella società italiana sembra indicare, da un lato, il radicamento di una tradizione religiosa e, dall’altro, la difficoltà della popolazione di trovare a livello laico, nella realtà profana, un’adeguata risposta (simbolica, rituale) all’esigenza di celebrazione delle tappe più importanti del ciclo di vita.
c) Oltre a questo generale scenario di identificazione religiosa, si delinea una costante: man mano che gli indicatori di religiosità assumono
una connotazione più precisa e definita diminuisce il numero di soggetti
che esprimono l’atteggiamento in questione. Così, a fronte della quasi
totalità degli italiani che attribuiscono valore alla dimensione religiosa e
si definiscono «cattolici» (che esprimono cioè un’identificazione
culturale nella religione cattolica), si osserva che il modello della
religione di Chiesa ottiene l’adesione «soltanto» dei 2/3 della
popolazione. Circa il 20 per cento della popolazione sembra quindi
avere difficoltà a far coincidere il proprio orientamento religioso e
cattolico nelle forme espressive del modello ufficiale di religiosità.
Sembra essere questa un’area di soggetti particolarmente esposta a
un’interpretazione soggettiva del riferimento di fede.
d) Da quanto detto si osserva che è ancora allargata nel nostro paese
l’adesione al modello della religione di Chiesa, anche se ― almeno per
una parte dei casi ― essa può risultare più ideale o teorica che orientata
a tradursi in comportamenti conseguenti. Circa il 60-65 per cento degli
italiani si riconosce nelle modalità espressive della religione cattolica,
condivide le credenze a più alto contenuto teologico (e che sembrano
avere meno ripercussioni sulle condizioni di vita), dichiara di appartenere alla Chiesa, esprime fiducia sull’azione sociale svolta da questa istituzione.
All’interno di questo quadro risulta ovviamente più limitata (intorno
al 30-40 per cento dei casi) la quota di italiani maggiormente identificati
nel modello della religione di Chiesa, caratterizzati da una pratica religiosa continuativa, orientati a vivere la fede in una prospettiva rituale
e comunitaria, caratterizzati da un alto senso di appartenenza alla
Chiesa, informati a una concezione specifica e non generica della reli-
Religione e modernità: il «caso italiano»
63
gione, maggiormente esposti agli influssi dell’istituzione ecclesiale,
meno portati a interpretare in termini soggettivi la proposta religiosa
o il quadro normativo della religione cattolica. Un’ampia e consolidata minoranza sembra quindi caratterizzarsi per un minor scarto tra la
plausibilità attribuita alla religione di Chiesa e gli orientamenti e i
comportamenti della vita quotidiana.
Tale congruenza non sembra invece rilevarsi per una quota analoga
di soggetti, rappresentati da quanti si caratterizzano per un’adesione ideale alla religiosità cattolica non accompagnata da atteggiamenti conseguenti. In questo caso saremmo di fronte a un atteggiamento che dà
largo spazio a un’interpretazione soggettiva del riferimento di fede,
fortemente selettiva circa i criteri di appartenenza e le forme di espressione religiosa.
e) Il quadro della religiosità in Italia non si esaurisce ovviamente
con l’analisi delle tendenze prevalenti. Oltre a ciò occorre rilevare la
presenza nella popolazione di espressioni religiose altre da quella cattolica e l’entità di quel complesso fenomeno a cui sono riconducibili le
posizioni di autonomia da una prospettiva religiosa o di rifiuto dei riferimenti religiosi.
Il fenomeno delle confessioni religiose « altre» da quella cattolica
interessa non più di 1-2 soggetti su 100. Nonostante le opinioni correnti, le indicazioni delle ricerche confermano il carattere decisamente
minoritario nel nostro paese delle confessioni storiche e dei movimenti religiosi non cattolici. Da questo punto di vista quindi ― come s’è
detto ― il contesto italiano sembra essere stato interessato in minor
misura da quel fenomeno di differenziazione sociale e religiosa che
viene descritto come tipico di tutti i paesi occidentali.
Non risultano poi particolarmente allargate nella società italiana le
posizioni caratterizzate dal rifiuto o dall’assenza di un riferimento religioso. Esse sembrano interessare complessivamente circa il 10 per
cento degli italiani, realtà questa composta dal 5 per cento della popolazione che evidenzia una posizione ateo-agnostica o di indifferenza e
da una quota analoga di soggetti caratterizzati al riguardo da un atteggiamento di incertezza. Il processo di secolarizzazione nella società italiana non sembra quindi produrre una particolare estensione delle
posizioni di rifiuto o di assenza di una prospettiva di fede. I suoi effetti piuttosto, come s’è detto, sembrano maggiormente rintracciabili nell’estendersi di una religiosità dai confini labili e incerti, caratterizzata
da scarsa ridefinizione del riferimento di fede.
64
Franco Garelli
4.3. Religiosità di minoranza
L’analisi dell’espressione religiosa della popolazione ha fatto emergere la presenza di due modelli religiosi prevalenti che potremmo
definire di «maggioranza» e di «minoranza».
Quella di «minoranza» è una religiosità espressa da individui e gruppi che interpretano il riferimento di fede in termini tendenzialmente
impegnati e continuativi. Più di 1/3 degli italiani si caratterizza per una
pratica religiosa costante, è informato a un’idea specifica di religione,
evidenzia un elevato senso di identificazione nella Chiesa, è orientato a
interpretare la fede in termini comunitari e così via. Una parte di essi
avverte l’esigenza di condividere la fede all’interno di un gruppo-movimento religioso, esponendosi a un impegno associativo che occupa un
posto di rilievo nell’esistenza. Sono queste le quote di popolazione che
non presentano un particolare scarto tra l’adesione teorica al modello
religioso e il livello della pratica.
Anche se minoritario, si tratta comunque di un fenomeno di rilievo, tenendo presente che esso si manifesta in una società in cui si stemperano le varie militanze e appartenenze, in cui è difficile maturare riferimenti «costringenti». Oltre a ciò, appare ancora rilevante ― nell’attuale società ― la quota di persone che avvertono l’esigenza di dare un
carattere più continuativo all’espressione religiosa e che ― in questa linea ― risultano esposte all’influenza della religione di Chiesa.
Da ultimo occorre osservare che la religione di minoranza si caratterizza per vari aspetti come una reazione a un clima socioculturale
che non attribuisce rilevanza ai valori religiosi. In altri termini, è sempre più frequente incontrare militanti cattolici, credenti impegnati, caratterizzati dalla consapevolezza di rappresentare una «minoranza» culturale e religiosa; ciò, quindi, sia verso la società che si presenta sempre più secolarizzata, sia verso un contesto religioso giudicato non autentico.
Questo significa che ― contrariamente a molte previsioni ―
sembrano darsi nella società contemporanea condizioni favorevoli per
una militanza religiosa, ovviamente di tipo minoritario. Tali condizioni
sono da mettere in relazione al prodursi ― nell’attuale periodo storico
― di alcune polarizzazioni socioculturali che possono indirettamente
rafforzare una religione di minoranza.
Quanto più aumenta il pluralismo culturale, quanto più la società è investita da processi di differenziazione sociale, tanto più alcuni gruppi sociali avvertono l’esigenza di ridefinire e specificare la propria identità culturale. E, parai-
Religione e modernità: il «caso italiano»
65
lelamente, quanto più si estende nella società una considerazione generica e
allentata dei valori religiosi, tanto più alcuni gruppi sociali si orientano a
riaffermare in modo significativo la propria identità e appartenenza religiosa.72
4.4. La religione diffusa o la religione dello «scenario» della maggioranza degli italiani
La grande maggioranza della popolazione ― s’è detto ― si riconosce
ancora nella religione cattolica, dichiara di credere nel Dio della tradizione
cristiana, ricorre ai sacramenti nei momenti principali della vita (nelle tappe
di passaggio da un’età all’altra dell’esistenza), frequenta i riti religiosi in
termini occasionali (nelle principali festività e alcune volte durante l’anno),
attribuisce credibilità alla chiesa cattolica, a cui nel complesso ritiene di
appartenere, si riconosce nei valori religiosi, considera assai importante
l’azione educativa e sociale svolta dalla religione. In questo caso l’adesione
religiosa pare più ideale o teorica che esperienziale, risulta segnata da
discontinuità espressiva, non presenta una forte congruenza tra le varie
dimensioni (credenza, rituale, etica, senso di appartenenza) in cui si articola
un riferimento religioso.
La maggioranza della popolazione si caratterizza, pertanto, per un
riferimento religioso allentato, che persiste sull’onda della tradizione o in
quanto risponde ad alcune esigenze dell’uomo contemporaneo, senza però
produrre una particolare mobilitazione delle coscienze.
Sono quindi evidenti i segni di ambivalenza presenti nell’adesione di una
larga quota di popolazione al modello della religione di Chiesa. Tuttavia,
occorre interrogarsi sul significato di questa persistenza in una società che
― rispetto al passato ― risulta segnata da minor conformismo religioso, da
un’eccedenza di riferimenti culturali e di proposte di significato, da una
maggior libertà di autodeterminazione delle condizioni di esistenza.
L’ipotesi è che i soggetti ricerchino a livello religioso una risposta a esigenze
che non vengono altrimenti soddisfatte, a livello laico, nelle molteplici
proposte presenti sul mercato dei significati della società contemporanea.
Per descrivere questa situazione sono state via via utilizzate le immagini
di religione diffusa, di religione implicita73, di religione dello «scenario». Si
tratta di chiavi interpretative accomunate dall’idea di una presenza
ambivalente e controversa della religione nella società, e dell’impossibilità di
analizzare i fatti sociali e religiosi utilizzando categorie univoche o chiavi di
lettura globali e onnicomprensive.
72 F. Garelli, Religione e chiesa cit., p. 21.
73 Si vedano R. Cipriani, La religione
implicito, Roma, Ianua, 1985.
diffusa, Roma, Boria, 1988; A. Nesti, 11 religioso
66
Franco Garelli
Contrariamente a molte previsioni, a molti luoghi comuni, gli orientamenti religiosi persistono nell’attuale società, manifestano una singolare
tenuta, evidenziano segni di vitalità. Ciò appare singolare in una società
che si vuole avanzata e secolarizzata, fortemente pluralistica nei
riferimenti culturali, che si reputa maggiorenne ed emancipata rispetto a
visioni del mondo tradizionali, che appare refrattaria a identificazioni
culturali che hanno poco che fare con la razionalità moderna. Ma detta
persistenza sembra determinarsi in una dinamica di depotenziamento
degli stessi valori religiosi, della stessa esperienza di fede. La religione
persiste in quanto si è adattata alle attuali condizioni di vita, in quanto
partecipa del processo di stemperamento cui vanno incontro nel tempo
presente i grandi riferimenti ideali e le ideologie. I riferimenti religiosi
informano ancora quote assai allargate di popolazione proprio in quanto
sembrano aver perso il carattere di vincolo, il potere di ridefinizione, la
forza costringente nelle varie situazioni di vita. La labilità, la perdita di
efficacia e di significatività, la riduzione dei riferimenti alle attese umane,
sono tutti effetti della persistenza di una religione di maggioranza nella
società contemporanea.
L’esito di questa tensione irrisolta, di questa incongruenza di orientamenti, è adeguatamente illustrata nell’immagine della religione dello
scenario. Sul palcoscenico della vita l’uomo contemporaneo recita un copione profano, scandisce la sua esistenza per Io più sulla base di valori e
orientamenti contingenti. Ma nello stesso tempo egli avverte l’esigenza di
avere alle spalle un riferimento religioso ultimo, che trascenda l’esperienza
e sia in grado di costituire un richiamo originario della propria identità. In
questa linea la religione permette, da un lato, di far fronte ai problemi
posti dai punti di «rottura» dell’esistenza (problemi del male, della
sofferenza, dell’identità esistenziale e così via) e, dall’altro, garantisce quei
valori di integrazione sociale e comunitaria che sembrano particolarmente
scoperti nel tempo presente. Si tratta però di un riferimento così ultimo,
così originario e fondante, da risultare per molti aspetti scollegato rispetto
alle ordinarie condizioni di vita, rispetto alle scelte e agli orientamenti che
presiedono alla vita quotidiana. La religione viene così confinata sullo
sfondo della vita, dietro le quinte dell’esistenza, come un faro ultimo di
significato la cui certezza di presenza ha già una funzione rassicurante.
Proprio in questo scollamento tra riferimenti ultimi e scelte contingenti,
tra identità originaria e orientamenti quotidiani, si annida il paradosso
della persistenza della religione nella società contemporanea74.
74Si veda F. Garelli, La religione dello scenario cit., p. 25.
Religione e modernità: il «caso italiano»
67
4.5. Principali differenze di religiosità presenti in Italia
L’analisi degli orientamenti e dei comportamenti religiosi della popolazione italiana suddivisa in base alle variabili socioanagrafiche, occupazionali, ambientali e così via, pur non smentendo ovviamente le tendenze di religiosità sinora rilevate, rende ragione della differenziazione di
posizioni religiose presente nella società italiana.
Al riguardo le principali differenze (riscontrabili in tutte le indagini che
si sono applicate al fenomeno) possono così essere sintetizzate:
a) In rapporto al sesso e all’età, l’essere donna e l’essere adulti-anziani
rappresentano due condizioni maggiormente associate all’adesione al modello ufficiale di religiosità, a una generalizzata accettazione del ruolo
sociale della Chiesa, a una pratica religiosa continuativa. Per contro, gli
atteggiamenti di disaffezione dalla religione di Chiesa o di estraneità da un
qualsiasi riferimento di fede, risultano pii allargati nelle giovani
generazioni e in particolare tra i maschi. Infine, l’adesione a fedi religiose
diverse da quella cattolica risulta prevalente tra la popolazione maschile e
tra i soggetti appartenenti alle classi di età più giovani.
b) Suddividendo la popolazione a seconda dell’occupazione, si osserva
che l’adesione attiva al modello della religione di Chiesa risulta prevalente
in due categorie sociali ― le casalinghe e i pensionati ― che risultano ai
margini del sistema produttivo, le cui condizioni di vita sono meno
esposte alle tensioni degli ambienti sociali più avanzati.
Gli studenti rappresentano il gruppo sociale dalle posizioni religiose
più diversificate. A fianco di una quota consistente di soggetti meno
esposti agli influssi della religione di Chiesa, in questo raggruppamento si
trovano infatti sufficientemente rappresentate sia le posizioni di dubbio o
di incertezza, sia gli atteggiamenti che delineano un impegno attivo
secondo il modello ufficiale di religiosità.
I gruppi sociali impegnati nelle professioni più dinamiche e più cariche
di responsabilità (imprenditori, dirigenti, liberi professionisti) sono quelli
che più hanno difficoltà a riconoscersi in una visione religiosa della vita, a
identificarsi in un orientamento religioso.
Tendenze di religiosità per lo più in linea con i dati medi si riscontrano
poi tra quanti svolgono un lavoro operaio, tra gli impiegati e tra i lavoratori autonomi.
Infine, tra le professioni di ceto medio si distingue in particolare il
gruppo degli insegnanti, che si caratterizza mediamente per un modello
culturale più favorevole alla religione di Chiesa e per una religiosità più
impegnata di quanto riscontrabile in altri gruppi occupazionali.
68
Franco Gareili
c) L’espressione religiosa nel nostro paese varia poi sensibilmente a
seconda delle diverse aree geografiche. Mentre l’area del Nord si caratterizza per tendenze per lo più allineate ai dati medi nazionali, la maggior diversità di posizioni religiose si riscontra tra le regioni del Sud e
delle Isole, da un lato, e quelle del Centro, dall’altro. Il Mezzogiorno si
presenta come l’area del paese in cui è più diffusa l’adesione al modello della religione di Chesa, in cui la popolazione maggiormente accetta
la mediazione religiosa della Chiesa, in cui si riscontra il minor livello
di posizioni ateo-agnostiche o di indifferenza o di incertezza sulla questione religiosa. Per contro, le regioni del Centro costituiscono l’area
geografica caratterizzata dalla minor adesione al modello della religione di Chiesa, in cui appare più allargata la tendenza dell’autonomia
espressiva.
Oltre a ciò, la religione di Chiesa e più in generale i valori religiosi
sembrano maggiormente radicati nei centri o nei comuni di più ridotta
dimensione, in quella provincia italiana meno interessata dai processi
di differenziazione socioculturale. Per contro, per la popolazione dei
centri più grandi aumenta la probabilità di maturare un atteggiamento
negativo o problematico nei confronti della religione o di identificarsi
in un riferimento aconfessionale o che valorizzi confessioni diverse da
quella cattolica. Tra le varie aree geografiche, poi, quella del Nord
evidenzia nel complesso il minor divario ― in termini di religiosità ―
tra piccoli e grandi centri, a testimonianza di una tendenziale minor
eterogeneità culturale di questa parte del paese rispetto al resto
dell’Italia.
d) Infine, il maggior livello di secolarizzazione presente nelle realtà
metropolitane (rispetto al resto del paese) assume la forma sia di una
minor adesione ai valori religiosi tout court sia della disaffezione dal
modello religioso prevalente in Italia. Rientrano nel primo caso
l’aumento delle posizioni di rifiuto o di indifferenza o di incertezza
circa la questione religiosa; e nel secondo una minor adesione alla
religione di Chiesa (minor accettazione ideale della religione cattolica,
aumento dei non praticanti, scarsa fiducia nei confronti della Chiesa) e
un incremento delle posizioni religiose a forte accentuazione
soggettiva o dell’adesione a confessioni altre da quella cattolica.
5. Struttura e organizzazione del campo religioso
La persistenza della religione cattolica nella società italiana, il perdurare
in essa di una situazione di tendenziale monopolio religioso, non sono
spiegabili soltanto in rapporto al ruolo predominante avuto dalla
Religione e modernità: il «caso italiano»
69
chiesa cattolica (e dal modello della religione di Chiesa) nella storia e
nella cultura del paese e, in particolare, in rapporto all’influenza culturale, alla capacità di richiamo simbolico sulle masse, all’abilità nell’interpretare le esigenze culturali e religiose degli italiani dimostrate da
questa istituzione nelle varie epoche storiche.
Il protagonismo sociale e religioso della Chiesa in Italia non
sarebbe stato possibile nel passato ― e sarebbe improponibile nel
tempo presente ― senza il grande apparato strutturale e organizzativo
e di personale con cui l’istituzione religiosa dispiega la sua azione nella
società. Qualsiasi sottovalutazione della presenza strutturale della
Chiesa in Italia impedisce di cogliere sia il profondo coinvolgimento di
questa istituzione nelle dinamiche del paese reale, sia i fattori sociali
che continuano a legittimare l’azione della religione nella società
italiana.
L’analisi della presenza istituzionale della Chiesa è pertanto l’obiettivo di questo paragrafo, la cui articolazione tende a rispecchiare i vari
settori sociali in cui la Chiesa è impegnata nel nostro paese. Il riferimento in questo caso è anzitutto alle strutture e al personale con cui
detta istituzione opera per trasmettere il suo messaggio e proporre i
valori della fede. Oltre a ciò, la Chiesa risulta impegnata anche in molti
altri settori della società italiana, in un’articolata azione di supporto
della proposta specificamente religiosa: in quelli dell’animazione e dell’educazione dei giovani, della cultura e dell’università, dell’assistenza e
della salute pubblica, dell’editoria e dei mass media, del turismo e dello
sport e così via.
5.1. Parrocchie e diocesi: una presenza differenziata e capillare sul territorio
Al di là delle ricorrenti immagini di diminuzione o di crisi di
personale, di obsolescenza di istituzioni e di strutture, la Chiesa può
ancora oggi contare ― nella sua azione sociale ― su molte risorse
umane e su molteplici realtà organizzative che la rendono unica nel
panorama delle forze che operano nella società civile. Ciò vale
anzitutto per l’impegno della Chiesa nel far fronte alla domanda
religiosa di base, nell’annuncio del messaggio religioso. Non vi è infatti
nel nostro paese nessuna altra realtà della società civile che abbia ad
articolarsi in una rete così capillare di strutture religiose e sociali di
base (come le diocesi e le parrocchie, o i vari centri di spiritualità) o
composta da un così elevato numero di personale (clero diocesano,
religiosi, religiose) impegnato nella pastorale ordinaria.
70
Franco Gareili
Il territorio religioso nazionale risulta suddiviso in 224 diocesi e in
più di 26.000 parrocchie. Ogni diocesi ― in media ― si sviluppa su
una superficie di 1.300 kmq e ha una popolazione di riferimento di
oltre 250.000 abitanti. Ogni parrocchia risulta poi composta da circa
2.200 abitanti.
Ovviamente questi dati medi nascondono una profonda diversificazione di situazioni tra le varie unità religiose di base. Così, relativamente alle diocesi, si osserva che circa la metà della popolazione nazionale risulta concentrata in meno di 1/6 delle diocesi, che rappresentano quindi i territori religiosi di grandi dimensioni, relativi per lo
più ad aree metropolitane. Parallelamente, poco meno della metà delle
diocesi ha una popolazione di riferimento di modeste dimensioni, pari
alla somma dei residenti di 2-3 quartieri di una realtà metropolitana.
Ciò significa che a fianco di poche diocesi di grandi dimensioni si riscontra una grande maggioranza di strutture diocesane di piccola o
piccolissima dimensione, che riflettono realtà territoriali e ambientali
ristrette e ― per alcuni aspetti ― particolari.
Sono sufficienti questi dati per rendere ragione dei caratteri della
presenza territoriale della Chiesa nel nostro paese. Da un lato, l’Italia
religiosa si compone di realtà territoriali assai diversificate tra di loro e
riflette una grande eterogeneità di situazioni strutturali, organizzative e
religiose. Dall’altro, sembra prevalere in Italia una presenza territoriale
della Chiesa assai frammentata e polverizzata. Nonostante la tendenza
― attualmente in atto ― alla centralizzazione e alla razionalizzazione
degli apparati ecclesiastici, la Chiesa pare orientata anche nel tempo
presente «a modellarsi a seconda dei molteplici ambienti in cui si
articola il tessuto sociale e associativo dell’Italia, a rispecchiare anche a
livello religioso (...) il carattere di estrema differenziazione storica e
culturale del nostro paese»75.
Tendenze analoghe si riscontrano a proposito delle parrocchie, delle
unità organizzative di più piccola dimensione attraverso le quali la Chiesa
opera sul territorio nazionale. Anche in questo caso l’Italia religiosa risulta
composta da una piccola quota di grandi parrocchie (per lo più quelle
delle aree metropolitane o delle grandi città) e da un grande numero di
strutture parrocchiali di ridotta o ridottissima dimensione. Le prime,
relative ad ambienti caratterizzati da alta densità di popolazione, attestano
la presenza della Chiesa nelle aree del paese attraversate in questi ultimi
anni da grandi processi e rivolgimenti sociali. Per contro, la pre75 F. Garelli, Religione e chiesa cit., p. 01.
Religione e modernità: il «caso italiano»
71
senza di parrocchie nelle aree meno popolate (oggetto nel recente
passato di processi di spopolamento) sembra da mettere in relazione
sia a una certa ricchezza ― anche nel tempo presente ― di personale
religioso, sia a un orientamento che tende a salvaguardare le comunità
sociali più limitate. Anche in questo caso si ha che fare con una grande
eterogeneità di realtà religiose, organizzative e ambientali.
5.2. Presenza ancora rilevante e distribuzione diseguale del personale religioso
in Italia
La presenza della Chiesa in Italia appare consistente anche relativamente alle varie figure religiose impegnate nelle realtà religiose di base
o nei vari settori in cui la Chiesa esplica la sua azione nella società
civile (si veda la tab. 3).
Alla fine degli anni ottanta la Chiesa poteva contare nel nostro paese su oltre 37.000 sacerdoti diocesani, su 20.000 sacerdoti appartenenti
a ordini e congregazioni religiose, su 8.000 religiosi non sacerdoti, e su
oltre 134.000 membri di istituti religiosi femminili. Nell’insieme, dunque, l’azione religiosa e sociale della Chiesa viene svolta da circa
200.000 persone, per la presenza in Italia di una figura religiosa ogni
290 abitanti. In termini più analitici, si rileva la presenza di un prete
diocesano ogni 1.500 abitanti, di una figura sacerdotale (considerando
sia i preti diocesani sia quelli appartenenti agli ordini e alle congregazioni religiose) ogni 1.000 italiani, di una suora ogni 450 individui, di
un membro di istituti religiosi ogni 350 soggetti.
Ovviamente tali rapporti tra le varie figure religiose e la popolazione italiana rispecchiano più una situazione teorica che le condizioni
reali. Ciò in quanto le suddette proporzioni si ottengono considerando
il personale religioso nel suo insieme, e non soltanto quello caratterizzato da una condizione attiva, in grado di prestare la propria azione
con una certa continuità ed «efficienza». Questa osservazione sembra
particolarmente pertinente nel caso del personale religioso per i noti
processi di invecchiamento del clero e dei religiosi, di difficoltà di ricambio vocazionale, di spopolamento dei seminari, di crisi delle vocazioni, di abbandoni e così via.
Ciononostante, anche togliendo dall’insieme del personale religioso i
soggetti in età pensionabile (oltre i 60 anni) si rileva a livello nazionale
una presenza ancora assai densa di figure religiose. A questo proposito
si può prendere a riferimento l’entità del clero diocesano ― oltre il 43
per cento dei casi ― che alla fine degli anni ottanta ha un’età superiore
72
Franco Garelli
ai 60 anni. Ipotizzando che questo fenomeno sia riscontrabile anche
nelle altre «categorie» religiose considerate, si avrebbe a livello nazionale la presenza di un prete diocesano ogni 2.700 abitanti, un sacerdote (sia diocesano sia «religioso») ogni 1.700 persone, una suora ogni
800 individui, una figura religiosa ogni 550 abitanti. In questo caso si
avrebbe che fare con un personale religioso « attivo», che interagisce
nelle dinamiche sociali «nel pieno della maturità psicofisica».
Questi dati si prestano a una diversa valutazione a seconda delle prospettive di analisi. Se la prospettiva è di lungo periodo, essi possono
indubbiamente attestare una sensibile diminuzione delle figure religiose nel paese, una riduzione della densità di personale religioso a livello
nazionale. Rapportando però i dati all’attuale contesto storico, a un
tempo comunque interessato dalla secolarizzazione, sembra delinearsi
una situazione ancora positiva per la religione istituzionale.
Come già nel caso delle strutture religiose di base, anche la distribuzione del personale religioso sembra delineare una situazione nazionale
assai squilibrata (si veda la tab. 4). È infatti nelle regioni del Nord, e in
subordine in quelle del Centro ― rispetto a quanto si registra nelle regioni del Sud e delle Isole ―, che emerge una maggior densità di preti
diocesani e di membri di istituti religiosi rispetto all’entità della popolazione residente. La tendenza descritta è così generalizzata da interessare anche il confronto tra le aree metropolitane del Nord e quelle del
Sud. Mentre nelle diocesi di Milano, Torino, Genova, si rileva la presenza di un prete diocesano ogni 2.000-2.500 abitanti, in quelle di Napoli e di Palermo si osserva la presenza di una tale figura religiosa rispettivamente ogni 3.000 e 3.800 abitanti.
Contrariamente quindi a molte opinioni correnti, la Chiesa risulta più
ricca di vocazioni e di personale nelle aree del paese più dinamiche.
Appare così sconfessata l’ipotesi della difficoltà dell’istituzione religiosa a riattualizzare la propria presenza nelle aree del paese più interessate dal processo di differenziazione sociale, che più di altre riflettono
un contesto di modernità; e, per opposto, della maggior tenuta di questa istituzione nelle aree del paese più tradizionali, nelle quali la religione può contare su un elevato livello di legittimazione sociale. In questo quadro anche il campo religioso sembra contribuire con le proprie
risorse e strutture ― seppure in modo indiretto e inconsapevole ― a
consolidare o ad aumentare gli squilibri che caratterizzano la società
italiana.
74
Franco Garelli
5.3. Il clero diocesano e il clero religioso nell’ultimo secolo
Sulla base dei dati forniti dall’Ufficio centrale di statistica della Chiesa
è possibile delineare il trend di diminuzione del clero diocesano per un
periodo che va dalla fine del secolo scorso sino ai giorni nostri.
Nel 1881 si contavano in Italia quasi 84.000 sacerdoti incardinati
nelle diocesi, a fronte di una popolazione di circa 29 milioni di abitanti,
per la presenza di un prete ogni 345 italiani. Detto rapporto era destinato a salire vent’anni dopo (nel 1901) a 1 sacerdote diocesano ogni 480
abitanti e negli anni venti e trenta esso si incrementava ulteriormente: 1
sacerdote ogni 700-800 individui. Nel 1951 si contava nel nostro paese
una figura sacerdotale ogni 1.000 abitanti circa. Nella prima metà del
secolo XX, quindi, il rapporto tra preti diocesani e popolazione si è
dimezzato, per l’effetto congiunto dell’incremento della popolazione
italiana del 44 per cento e della diminuzione del clero del 31,6 per cento.
Negli ultimi quarant’anni i due fenomeni analizzati (aumento della
popolazione e decremento del clero) hanno conosciuto un trend assai
più contenuto di quello registrato nella prima metà del secolo. In questo
ultimo periodo l’entità della popolazione è aumentata nel nostro paese
del 21 per cento, mentre la quota del clero diocesano è diminuita del
17,5 per cento.
Di conseguenza, si è attenuata anche la diminuzione della densità di
clero diocesano sul totale della popolazione rispetto a quanto riscontrato nei primi cinquant’anni del secolo. La presenza di clero diocesano
rispetto all’insieme della popolazione è diminuita del 100 per cento nella
prima metà del secolo (da 1 prete ogni 500 abitanti al suo inizio a 1 ogni
1.000 all’inizio degli anni cinquanta) e del 50 per cento negli ultimi
quarant’anni (dal momento che alla fine degli anni quaranta si conta 1
prete diocesano ogni 1.500 italiani circa). In base poi al trend di questi
ultimi anni la situazione sembra sostanzialmente stabilizzata su questi
valori anche per gli anni novanta o destinata a un leggero miglioramento.
Il processo di secolarizzazione nel nostro paese ― relativamente
alladiminuzione del clero diocesano o alla crisi delle vocazioni - sembra
quindiessere stato più rilevante nella prima metà che nella seconda metà
delsecolo, anche in rapporto a una quota di clero assai elevata in quel periodo
storico. Nell’arco degli ultimi quarant’anni, poi, il trend di diminuzione del
clero diocesano risulta più accentuato nel primo ventennioche nel
secondo. Infine, il trend in questione sembra essersi sensibilmente
attenuato negli ultimi anni (nella seconda metà degli anni ottanta).
Nell’arco di tempo considerato si presenta assai diversa la situazione
Religione e modernità: il «caso italiano»
75
del clero appartenente a ordini e congregazioni religiosi. La quota di queste figure religiose a livello nazionale risulta assai modesta e sostanzialmente stabile fino agli anni trenta (6500-7.000 soggetti rispetto agli oltre
80.000 preti diocesani presenti in Italia nel 1881 e ai 51.000 che operano
nel nostro paese all’inizio degli anni trenta). Nel 1951 i sacerdoti
«religiosi» ammontano a circa 11.000 unità, quota questa destinata a salire
a oltre 20.000 all’inizio degli anni settanta. Da quella data sino ai nostri
giorni si osserva una sostanziale stabilità ― con alcuni andamenti alterni e
con una punta massima di 23.000 unità nel passaggio tra gli anni settanta
e ottanta ― del numero dei religiosi che si caratterizzano per una
condizione sacerdotale.
In sintesi, l’andamento dei sacerdoti appartenenti a ordini e congregazioni religiosi evidenzia la seguente configurazione nel tempo: una presenza assai ridotta alla fine del secolo scorso e all’inizio dell’attuale (periodo in cui essi rappresentavano non più del 10 per cento del clero diocesano); un forte incremento dopo la metà del secolo attuale, periodo in
cui si osserva che questa quota di figure religiose risulta pari alla metà del
clero diocesano; una sostanziale stabilità negli ultimi anni dell’entità del
clero religioso (con una diminuzione negli anni ottanta).
Ciò significa che la crisi del clero diocesano registrata nel secolo XX
risulta in parte compensata dall’incremento del clero «religioso», una
realtà che sembra estendersi soprattutto negli anni in cui diminuisce la
capacità di presenza del personale direttamente dipendente dalle diocesi.
In anni recenti i sacerdoti «religiosi» ammontano nel nostro paese a oltre
la metà del clero diocesano.
5.4. L’andamento delle varie figure religiose negli ultimi decenni
La diminuzione del clero diocesano è dovuta ovviamente a vari fattori
(alcuni dei quali interconnessi), tra cui l’elevato tasso di mortalità cui è
soggetta una popolazione caratterizzata da un forte processo di invecchiamento, la riduzione del numero delle nuove ordinazioni e il fenomeno delle defezioni.
L’andamento delle nuove ordinazioni ha conosciuto ― tra il 1970 e
il 1989 ― tre diverse fasi. Nel periodo centrale degli anni settanta si sono registrate in media ogni anno a livello nazionale circa 450-500 nuove ordinazioni; tale quota è poi scesa a circa 350 ordinazioni l’anno sul
finire degli anni settanta e nei primi anni ottanta; dalla metà degli anni
ottanta le nuove ordinazioni hanno conosciuto una fase di espansione
(circa 400-500 all’anno). In anni più recenti, quindi, si registra un certo
incremento di nuove leve tra il clero diocesano, che dovrebbe almeno
76
Franco Garelli
in parte attenuare gli effetti negativi del processo di invecchiamento di
questo personale religioso.
Un’altra indicazione del relativo miglioramento della situazione è individuabile nel ridursi ― negli ultimi vent’anni ― del numero delle defezioni sacerdotali, passate dalle 100-130 l’anno nel decennio settanta alle
40-50 l’anno nel decennio ottanta. Rimane invece costante negli ultimi
due decenni il numero annuale dei decessi di sacerdoti diocesani (circa
600-700).
Per effetto della combinazione di questi diversi fattori si registra negli
ultimi vent’anni una diminuzione del 10 per cento della quota dei
sacerdoti diocesani presenti in Italia.
Assai più marcata invece è la riduzione ― sempre in questo arco di
tempo ― dei candidati al sacerdozio diocesano che frequentano i corsi di
filosofia e di teologia (meno 45 per cento) e di quelli impegnati negli studi
medi (meno 55 per cento).
L’andamento delle vocazioni dei membri di istituti religiosi risulta nel
complesso meno negativo di quello evidenziato per il clero diocesano.
Negli ultimi vent’anni infatti il clero «religioso» ha rivelato ― come s’è
detto ― una sostanziale stabilità ( + 1,2 per cento); l’esercito delle
religiose ha conosciuto una riduzione del 10 per cento circa; i candidati al
sacerdozio impegnati negli studi di filosofia e di teologia hanno subìto un
decremento del 35 per cento.
5 .5 . La scuola cattolica e i servizi socio-assistenziali collegati alla Chiesa
La presenza della Chiesa nella società italiana appare poi imponente
se si considera l’azione da essa svolta in molti settori della società italiana, a supporto delle iniziative specificamente religiose o a testimonianza dei valori della fede. Così la Chiesa ― è stato osservato ― impiega molte strutture e una parte del suo personale (riuscendo anche a
coinvolgere un gran numero di volontari) negli interventi che essa
promuove in importanti settori sociali, come quello della scuola e dell’educazione dei giovani, dell’assistenza e della sanità, della cultura e
dei mass media e così via.
A titolo emblematico si farà qui riferimento soltanto a due particolari
campi di intervento: quello dell’istruzione e quello socio-assistenziale.
Nell’anno scolastico 1987-88 gli alunni della scuola cattolica ammontavano nel nostro paese a oltre 400.000 unità, pari a più del 7 per cento
del totale dei soggetti scolarizzati in Italia. Si tratta di una presenza che
tende a privilegiare più le scuole materne che gli altri ordini di istruzione. Infatti, le scuole materne cattoliche assorbono più del 20 per cento
Religione e modernità: il «caso italiano»
77
del totale dei soggetti che frequentano a livello nazionale questo tipo di
scuola, mentre gli utenti degli altri tipi di scuola cattolica rappresentano
soltanto circa il 5 per cento del totale degli studenti presenti a livello nazionale negli altri gradi di istruzione. Sono poi oltre 31.000 i docenti della scuola cattolica, il 68 per cento dei quali è rappresentato da laici. Nel
complesso si contano più di 1.600 istituti. Nonostante i problemi connessi all’impegno della Chiesa nel campo dell’istruzione (diminuzione
del personale religioso, questione dell’autofinanziamento, problema
delle rette, aumento dei costi) si osserva nel corso degli ultimi anni una
situazione di relativa stabilità delle presenze di allievi e di un modesto
incremento del numero di scuole, di istituti e di docenti.
Assai più rilevante risulta l’impegno della Chiesa nel campo socio- assistenziale (con esclusione di quello sanitario). In base a un recente censimento, operano sul territorio nazionale oltre 4500 centri-enti caritativoassistenziali collegati alla Chiesa, i quali danno vita a quasi 7.000 strutture
di intervento.
In queste «opere» della religione sono coinvolti - pur a titolo diverso - 85.000
operatori, una parte rilevante dei quali è costituita da volontari. Gli utenti annuali
degli interventi più continuativi messi in atto dai vari settori di servizio ammontano
a circa mezzo milione. A questa quota già rilevante di utenti occorre aggiungere un
gran numero di soggetti che usufruiscono di prestazioni meno continuative76.
Dall’analisi di queste varie realtà di intervento si osserva che non vi è campo socio-assistenziale in cui la Chiesa non sia impegnata con proprio personale e proprie strutture; ciò anche in relazione a una sorta di delega da sempre fornita dallo Stato alla Chiesa in questo settore. Così, la Chiesa è impegnata con molteplici strutture di intervento nei settori dei minori e dei giovani a rischio, delle varie forme dell’handicap, della tossicodipendenza, dell’alcolismo, dei malati di Aids, dei senza fissa dimora, degli immigrati stranieri,
dei nomadi, delle famiglie in stato di necessità, degli anziani (si veda la tab. 5).
In tutti questi campi si riscontrarono interventi tradizionali o innovativi, interventi che rispondono ai principi del decentramento e della partecipazione
o che rispecchiano ancora una prospettiva di istituzionalizzazione, informati
all’attenzione alla prevenzione o ancora orientati alla cura e al contenimento
delle situazioni. Comunque, si tratta di interventi dettati dall’urgenza dei casi,
rivolti a sanare situazioni altamente problematiche, che prefigurano condizioni di emergenza, attraverso la promozione dei quali la Chiesa cerca di rispondere alle necessità della popolazione più marginale che rappresenta il costo
sociale di uno sviluppo squilibrato.
76 Ibid., p. 16.
78
Franco Garelli
Tabella 5. Le strutture di intervento socio-assistenziale della Chiesa in Italia,
suddivise per settori di impegno e per aree geografiche.
Destinatari attuali
Minori, giovani a rischio
Vari tipi di handicap
Tossicodipendenti, alcolisti, malati
di Aids
Detenuti ed ex detenuti
Stranieri, senza fissa dimora
Famiglie a rischio,
madri nubili
Anziani
Nomadi
Ammalati assistiti
Nessuna risposta
Totale
Percentuale popolazione
residente
Aree geografiche
Nordovest
Nordest
Centro
453
28,4
17,6
357
36,2
13,9
282
17,7
19,2
278
28,1
18,9
227
14,2
20,8
143
14,5
13,1
299 333
18,8 20,9
34,9 42,3
115 94
11,7 9,5
13,4 11,9
1.594
100,0
23,5
987
100,0
14,6
231
44,0
9,0
113
40,9
4,4
180
43,0
7,0
134
25,5
9,1
73
26,5
5,0
95
22,6
6,5
73
13,9
6,7
56
20,3
5,1
83
19,8
7,6
50
9,5
5,8
24
8,7
2,8
38
9,1
4,4
37
7,0
4,7
10
3,6
1,3
23
5,5
2,9
525
100,0
7,7
276
100,0
4,1
419
100,0
6,2
252
41,0
9,8
728
42,0
28,3
41
28,9
1,6
159
44,9
6,2
56
42,4
2,2
2.570
37,9
145
23,5
9,9
323
18,6
21,9
51
35,9
3,5
67
18,9
4,6
24
18,3
1,6
1.472
21,7
90
14,6
8,3
306
17,7
28,1
28
19,7
2,6
59
16,7
5,4
25
18,9
2,3
1.090
16,1
68
11,1
7,9
194
11,2
22,7
15
10,6
1,8
40
11,3
4,7
13
9,8
1,5
856
12,7
60
9,8
7,6
181
10,5
23,0
7
4,9
0,9
29
8,2
3,7
14
10,6
1,8
788
11,6
615
100,0
9,1
1.732
100,0
25,6
142
100,0
2,1
354
100,0
5,2
132
100,0
1,9
6.776
100,0
26,4
19,7
19,1
23,0 11,8
Fonte: elaborazione Indagine Caritas Italiana, 1988
Sud
Isole Totale
Religione e modernità: il «caso italiano»
79
Grazie all’impegno in questo importante-settore sociale la Chiesa
può usufruire nel nostro paese di una allargata credibilità, come di
un’istituzione affidabile, che opera positivamente per far fronte alle
necessità dei cittadini, degli strati sociali più indigenti. Può essere questo
un fattore che contribuisce a far maturare nella popolazione un
atteggiamento complessivamente favorevole anche nei confronti della
proposta religiosa.
6. Religione e mass media
Il peso della religione nel settore dei mass media verrà rilevato da tre
diversi punti di vista: la diffusione della stampa cattolica nazionale; i dati
di ascolto delle rubriche religiose trasmesse dalle grandi reti televisive e
radiofoniche nazionali; la presenza delle radio e delle televisioni di
ispirazione cattolica. Attraverso il secondo punto sarà possibile rilevare
anche l’audience di trasmissioni televisive promosse da alcune minoranze religiose presenti in Italia.
Da uno sguardo d’insieme si osserva una rilevante diffusione della
stampa cattolica a livello nazionale, molto più nel campo dei settimanali
e dei mensili che in quello dei quotidiani; un ascolto non molto elevato
― soprattutto se confrontato con quanto avviene in altri paesi europei
― delle rubriche religiose messe in onda dalle grandi reti della radio e
della televisione; una elevata presenza di eminenti televisive e radiofoniche di matrice cattolica, distribuite però in modo non omogeneo sul
territorio e caratterizzate da forte discontinuità nella qualità dei programmi.
6.1. La stampa cattolica
Nel settore della stampa (si vedano le tabb. 6 e 7) si contano due
quotidiani di ispirazione cattolica (l’« Avvenire » e l’«Eco di Bergamo»),
la cui diffusione media (1990) è nel primo caso di 90.000 e nel secondo
di 61.000 copie. Nel panorama della stampa quotidiana italiana tali testate presentano un livello di diffusione medio-basso, assai distante dalla
quota di 600-650 mila copie vendute ogni giorno dai due maggiori
quotidiani italiani («Corriere della Sera» e «Repubblica»).
Assai diversa è la situazione dei settimanali e dei mensili. In questo
caso il mondo cattolico si affida a poche testate, alcune delle quali però
si caratterizzano per una tiratura assai elevata, intorno al milione di copie vendute.
80
Franco Garelli
Tabella 6. Diffusione della stampa cattolica nazionale (copie per numero).
Quotidiani:
Settimanali:
Quindicinale:
Mensili:
Anno di
riferimento
Copie per
numero
1989-90
1989-90
1989
1989
1989
1989
1989
1989
1989
89.979
61516
1.044.074
78.744
70.000*
70.000 *
62123
922.947
89.199
.«Avvenire»
«Eco di Bergamo».
Famiglia cristiana
Il sabato
Alba
Città nuova
Jesus
Il messaggero di S. Antonio
Madre
* Stime dell’autore
Fonte: Prima Comunicazione tranne che per le stime.
Tabella 7. Settimanali cattolici diocesani suddivisi per aree geografiche.
Testate
1973-74
Testate
1989
Media copie vendute
alla settimana
1988-89
Italia nordoccidentale
Italia nordorientale
Italia centrale
Italia meridionale
Italia insulare
38
27
30
11
11
44
31
33
10
13
467.810
409.700
162.203
72.350
88.570
Totale
117
131
1.200.633
Area geografica
Fonte: elaborazione Ispes su dati della Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc).
Nell’ambito dei settimanali spicca in particolare la rivista Famiglia
cristiana, la cui diffusione media è stata nel 1989 di 1.044.000 copie. E
questo il settimanale più venduto in Italia, dopo TV Sorrisi e Canzoni,
testata che riporta i programmi settimanali delle televisioni nazionali. La
diffusione di Famiglia cristiana, da sola, è pari a quella complessiva dei
3/4 di settimanali di politica-cultura-economia (di ispirazione laica)
più venduti in Italia. Il confronto tra queste testate appare particolarmente significativo, in quanto si tratta di riviste tra di loro concorrenti,
Religione e modernità: il «caso italiano»
81
appartenenti per lo più alla, stessa categoria di settimanali, pur caratterizzandosi per differenti circuiti di diffusione. Oltre a ciò, Famiglia cristiana
diffonde un numero di copie pari a quello complessivo delle tre- quattro
riviste più vendute che si rivolgono a un pubblico femminile. Ancora,
Famiglia cristiana è assai più venduta di un rotocalco (caratterizzato quindi da
un’informazione più popolare e da grande attenzione a fatti e personaggi
del costume nazionale) come Gente (777.000 copie nel 1989). Altri
settimanali di ispirazione cattolica presentano tirature decisamente più
contenute: ad esempio, il Sabato (rivista che esprime le posizioni di
Comunione e liberazione) diffonde in media circa 80.000 copie.
Tra i mensili di ispirazione cattolica troviamo una situazione analoga a
quella riscontrata per i settimanali. In questo caso la grande diffusione
interessa Il Messaggero di S. Antonio (in media 923.000 copie vendute nel
1989), mentre assai inferiore risulta la diffusione di altri mensili più
specialistici o che si rivolgono a un pubblico particolare (come il caso di
Jesus, che privilegia l’informazione religiosa e che vende in media oltre
60.000 copie, o di Madre ― circa 90.000 copie ―, che si rivolge a un
pubblico femminile).
La stampa cattolica nazionale fa quindi leva su alcune riviste di grande
tiratura e con un elevato numero di lettori, le quali si presentano come un
prodotto adatto per un’ampia base popolare. Si tratta di testate la cui
diffusione avviene ― come s’è detto ― attraverso circuiti particolari (le
strutture religiose di base, come le parrocchie) e che fa per lo più leva sugli
abbonamenti. Ancora, si tratta di riviste che danno grande rilievo
all’informazione religiosa, caratterizzate da una buona fattura tecnica, e
orientate a «dialogare con i settori più secolarizzati del vasto target dei
credenti, (...) praticando un’informazione non settorializzata»77.
Nel mondo cattolico si danno poi molte altre riviste e pubblicazioni
periodiche, di orientamento culturale e religioso assai diverso, ma caratterizzate da un livello di diffusione inferiore a quanto sin qui riscontrato.
Sulla base di una recente indagine (1990) condotta su un campione
rappresentativo di 1.000 «cattolici impegnati» (considerando come tali
le persone militanti in organizzazioni cattoliche di vario tipo o comunque di dichiarata fede cattolica) è possibile delineare le fonti di
informazione religiosa di questa particolare quota di popolazione. Sul
totale del campione, il 40,6 per cento legge Famiglia cristiana, il 10,4 per
cento Il Messaggero di S. Antonio, il 7,4 per cento il Sabato, il 5,7 per cento
Jesus, il 4,6 per cento Segno sette (settimanale dell’Azione cattolica); ol77 Ispes, Rapporto Italia ‘90, Roma, Vallecchi, 1990, p. 685.
82
Franco Garelli
tre a ciò, quote inferiori di popolazione dichiarano di avere altre fonti di
informazione religiosa78.
Sempre a proposito della stampa occorre ancora rilevare l’elevato
numero di settimanali cattolici espressione di molte diocesi italiane. Nel
nostro paese più della metà delle diocesi vanta un giornale settimanale
che contiene le principali notizie di quel territorio ecclesiale e una valutazione dei più importanti avvenimenti che si registrano in esso e ― in
molti casi ― anche a livello nazionale. Ogni settimana vengono in media
venduti in Italia più di 1.200.000 copie di giornali diocesani.
6.2. Le rubriche religiose della televisione
In Italia non disponiamo di uno studio sul modo in cui viene trattata
la tematica religiosa e sul peso ad essa attribuito nei programmi radiotelevisivi, se si eccettuano alcune indagini troppo particolari per poter essere qui prese in considerazione. Sono invece disponibili i dati relativi
all’ascolto delle rubriche religiose trasmesse da diversi canali della radio
e della televisione. Si tratta di programmi messi in onda «a cadenza periodica, a orario costante e che affrontano tematiche dichiaratamente
religiose »79. Detti programmi sono presenti sia nelle reti radiotelevisive
pubbliche sia in quelle private, anche se sono soltanto le prime a dare ad
essi rilievo.
Per quanto riguarda la televisione, la Rai ha stabilito convenzioni
particolari con la Conferenza dei Vescovi italiani (Cei), e con gli ebrei e
le chiese evangeliche in Italia. Per questi ultimi (ebrei e protestanti), la
Rai prevede un programma quindicinale di circa trenta minuti, che viene
trasmesso nella tarda serata della domenica e dei cui contenuti sono
responsabili le stesse organizzazioni religiose. L’accordo tra la Rai e la
Cei prevede invece un certo numero di programmi religiosi: la presentazione del Vangelo della domenica, trasmessa il sabato sera; la trasmissione della messa la domenica mattina (accompagnata da un breve
notiziario religioso); un programma su tematiche religiose il lunedì pomeriggio; la messa in onda di alcune trasmissioni durante l’anno, legate
a particolari momenti della vita sociale e religiosa del paese. Per tutte
queste trasmissioni la Rai garantisce il servizio tecnico, mentre la Cei
offre la consulenza ai vari programmi, designando quanti intervengono
in essi e ― in alcuni casi ― partecipando anche alla regia televisiva.
78 Aa.Vv., Italia cattolica: fede e pratica religiosa negli anni Novanta, Firenze, Vallecchi, 1991, p. 89.
79 F. Lever, I programmi religiosi alla radio e in televisione, Torino, Ldc, 1991, p. 89.
Religione e modernità: il «caso italiano»
83
Lo spazio quindi assegnato alle trasmissioni gestite dalla chiesa cattolica è assai più esteso di quello a disposizione di alcune minoranze religiose presenti in Italia. A ciò corrisponde il fatto (si veda la tab. 8) che
l’ascolto dei programmi religiosi cattolici interessa una quota di popolazione assai più rilevante di quella riscontrabile nelle trasmissioni curate dagli evangelici e dagli ebrei, anche se queste ultime risultano seguite da un numero di soggetti (soprattutto nel caso degli ebrei) superiore a quello degli italiani che aderiscono a tali confessioni religiose.
Occorre ancora osservare che il dato medio di ascolto di tutte le trasmissioni televisive promosse dalla Cei si determina in rapporto a rilevanti differenze a seconda dei vari mesi. In generale si rileva una caduta
di ascolto nei mesi estivi, che appare meno accentuata nel caso della
trasmissione della messa domenicale e del notiziario religioso che l’accompagna. Per contro, le rubriche promosse dagli evangelici e dagli
ebrei presentano «variazioni minime rispetto all’andamento stagionale o
al protrarsi del programma oltre la mezzanotte»80. Questi ultimi
programmi si caratterizzano per una elevata qualità televisiva.
Una valutazione globale dell’ascolto delle rubriche religiose televisive
è assai difficile, trattandosi di programmi in cui gli interessi religiosi
possono comporsi con quelli culturali e sociali. Per quanto riguarda le
trasmissioni cattoliche, l’ascolto televisivo sembra interessare una quota
di popolazione assai più contenuta di quella che dichiara la frequenza ai
rituali religiosi. La frequenza diretta alla messa domenicale infatti viene
espressa ― mediamente ― da una quota di italiani di gran lunga più rilevante (28-30 per cento) di quanti seguono tale rito alla televisione (3,5
per cento circa). La situazione risulta invece diversa ― come s’è detto ―
per le trasmissioni televisive promosse dalle due minoranze religiose (gli
evangelici e gli ebrei) che utilizzano il mezzo televisivo, che sembrano in
grado di destare l’interesse culturale e/o religioso anche di quote
rilevanti di soggetti che pur non aderiscono esplicitamente a dette confessioni.
Il dato italiano dell’ascolto della messa alla televisione appare assai
contenuto rispetto sia alla quota di italiani che prendono parte direttamente ai rituali religiosi domenicali, sia alla quota di popolazione che in
altri paesi europei (come l’Inghilterra) seguono i programmi religiosi la
domenica. L’ascolto televisivo della messa non sembra pertanto rappresentare ― nel nostro paese ― un’alternativa alla partecipazione diretta al rituale religioso.
.
80 Ibid., p. 106
84
Franco Garelli
Tabella 8. Rubriche religiose televisive trasmesse dalla Rai (anno 1989).
Rai Uno
Trasmissioni cattoliche:
Parole e Vita (presentazione
del Vangelo della domenica)
Trasmissione della messa1
Notiziario dopo la
trasmissione della messa
Parola e vita: le radici
giorno
orario durata
(circa) media
ascolto
medio
sabato
domenica
18.30
11
12’
55’
912.854 10,61
1.584.177 35,95
domenica
lunedì.
11.55
17.30
15’
26’
2.009.020 31,64
559.666 8,29
domenica
23.30
31’
298.347
5,53
domenica
23.30
31’
341.000
7,26
share
Rai Due
Protestantesimo (quindicinale)
Sorgente di vita (ebrei)
(quindicinale)
Il dato si riferisce alla messe ordinarie. Nelle messe celebrate in particolari occasioni dal Papa l’ascolto
medio aumenta di circa 115.000 unità.
1
Fonte: Auditel.
Con riferimento alle trasmissioni promosse dalla Cei è possibile operare un confronto tra la programmazione del 1989 e quella di quindici
anni prima (1972), in rapporto a un sostanziale mantenimento dei programmi in questo arco di tempo81. Ovviamente si tratta di un confronto
tra dati non omogenei, in quanto è cambiato il contesto dell’ascolto
televisivo (aumento dei numeri dei televisori e dell’audience televisiva,
invecchiamento della popolazione, maggior disponibilità di canali televisivi e quindi maggior scelta tra programmi). Pur tenendo presenti
queste differenze, occorre rilevare che negli ultimi diciassette anni è più
che raddoppiata la quota di popolazione che ascolta la messa domenicale
e il notiziario religioso successivo, mentre si è più che dimezzata l’entità di
italiani che seguono gli altri programmi religiosi. Col passare degli anni,
pertanto, l’interesse per le rubriche religiose sembra focalizzarsi su quelle
ritenute essenziali o più importanti.
Tra le grandi reti televisive private si ha notizia soltanto di una trasmissione televisiva mandata in onda regolarmente, tutto l’anno, la domenica mattina: Le frontiere dello spirito di Canale 5. La durata del pro-
81 Ibid., pp. 100-5.
Religione e modernità: il «caso italiano»
85
gramma è di oltre quaranta minuti. L’ascolto medio di questa trasmissione (1989) è comunque basso, se confrontato con quello delle rubriche
televisive della Rai: 69.605 persone, mentre la media annuale dello share è
pari a 2,67.
6.3. Le rubriche religiose alla radio
E veniamo ora alle rubriche religiose trasmesse dalla radio. Il maggior
ascolto interessa le trasmissioni messe in onda dalla prima rete della Rai, e
in particolare i due programmi religiosi della domenica mattina: Mondo
cattolico: settimanale di fede e vita cristiana, che dura venti minuti e che vanta
un ascolto medio annuale (1988) di oltre 1.200.000 soggetti; e la
trasmissione della messa alla radio (che segue immediatamente Mondo
cattolico) la cui durata è di quaranta minuti e che ottiene un ascolto medio
(1988) di circa 1 milione di persone. «Il che significa che circa un 20 per
cento del pubblico che segue il programma precedente cambia canale
quando inizia la trasmissione della messa»82. La terza trasmissione
radiofonica prevista sulla prima rete è un breve monologo quotidiano (di
cinque minuti), che va in onda alla sera: per cinque sere su sette si ha
l’intervento di un sacerdote cattolico, mentre il martedì e il sabato sono
riservati rispettivamente a un pastore protestante e a un rabbino. La
media dell’ascolto (1988) è pari a 304.000 persone.
Per le trasmissioni di contenuto religioso condotte dalle altre reti della
radio non si hanno dati relativi all’ascolto, anche se si può osservare che
la loro audience è assai inferiore a quella registrata dai programmi della
prima rete.
6.4. Televisioni e radio cattoliche
Nel censimento delle televisioni e della radio di orientamento cattolico
sono state rilevate a metà del 1990 54 televisioni e 422 radio a carattere
locale. Si tratta di emittenti distribuite su tutto il territorio nazionale,
anche se in modo non uniforme: si osserva infatti ― sia per le radio sia
per le televisioni ― una maggior concentrazione al Nord, rispetto al
Centro e al Sud. Ragguardevole è il dato delle radio nelle Isole (si veda la
tab. 9).
Non si dispone di altri dati relativi alle televisioni. Per il settore radiofonico, invece, sono disponibili i dati dell’ascolto di 23 emittenti cat82 Ibid., p. 110.
86
Franco Garelli
Tabella 9. Censimento delle televisioni e delle radio cattoliche per il 1990.
Italia settentrionale
Italia centrale
Italia meridionale
Italia insulare
Totale
Televisioni
21
13
16
4
Radio
197
63
86
76
54
422
Fonte: Cei-Corallo.
toliche (su 422) che l’hanno richiesto e hanno fatto fronte al relativo
onere finanziario. Nel complesso queste 23 radio raggiungono «un pubblico di circa 4 milioni alla settimana»83.
Pur rappresentando una capillare rete di emittenza radiofonica sul
territorio nazionale, il ruolo sociale e religioso di queste radio non è comunque da sopravvalutare. Ciò in quanto in molti casi hanno «un bacino
di ascolto molto ristretto», non si basano su una struttura economica
solida, presentano una «notevole discontinuità sia riferita al tempo di
emittenza che alla qualità». In alcuni casi si tratta di radio che prevedono
«un numero notevolissimo di ore di preghiera (...) accanto a tempi
dedicati a riflessioni e al dialogo spirituale col pubblico»; in altri, si intrecciano interessi commerciali con la trasmissione di rituali o riflessioni
religiose; a fianco di questi casi si trovano poi «radio il cui palinsesto
copre una gamma aperta di interessi, accomunati però da una forte sensibilità religiosa e umana »84.
7. Il fenomeno della militanza religiosa
I profondi processi di mutamento che negli ultimi decenni hanno interessato la società italiana (e all’interno di essa il campo religioso) hanno
avuto rilevanti ripercussioni sulle dinamiche dell’associazionismo
religioso-ecclesiale. Tale associazionismo ha conosciuto così momenti di
forte scompaginamento e ridimensionamento, periodi di grande tensione
interna, momenti di crisi d’identità e di difficoltà di collocazione sociale.
Oltre a ciò, esso è stato oggetto di vari tentativi di ricomposizio83 Ibid., p. 112.
84
Ibid., p. 113.
Religione e modernità: il «caso italiano»
87
ne e, in anni più recenti, delle pressioni da parte dei vertici della Chiesa per
una ripresa di azione nella società contemporanea, in relazione a un
atteggiamento ecclesiale più aggressivo nei confronti della realtà.
Pur profondamente mutato rispetto al recente passato, l’associazionismo religioso-ecclesiale sembra presentarsi nell’attuale società come un
fenomeno ancora assai rilevante, in rapporto sia all’entità di popolazione in
esso coinvolta (si veda la tab. 10) sia al ruolo che svolge e al significato che
assume nelle dinamiche sociali e religiose.
7.1. La rilevanza del fenomeno
Le indagini empiriche più recenti concordano nello stimare a circa il 9,510 per cento la quota di popolazione nazionale che fa parte attualmente di
gruppi, movimenti, associazioni di ispirazione religiosa. Il riferimento in
questo caso è alla popolazione adulta (dai 18 ai 65 anni circa) e a soggetti
che nella quasi totalità dei casi dichiara un’appartenenza a realtà associative
di area cattolica (in relazione all’esiguo numero di soggetti che nel nostro
paese si riconoscono in confessioni o movimenti religiosi non cattolici).
Ciò significa che il fenomeno dell’ associazionismo religioso-ecclesiale
interessa in Italia attualmente poco meno di 4 milioni di italiani.
Inoltre, le indagini segnalano che circa il 25 per cento della popolazione
italiana ha militato nel passato in gruppi-movimenti-associazioni di matrice
religiosa. Pertanto, un quarto degli italiani sembra caratterizzarsi per una
storia personale segnata da un’esperienza di socializzazione religiosa
intensiva, da una formazione di base orientata religiosamente.
A seconda dei punti di vista, l’entità del fenomeno può apparire consistente o modesta. Se si considerano i dati a sé stanti, non si può fare a
meno di rilevare il carattere marcatamente minoritario dell’appartenenza ai
gruppi-movimenti religiosi, che esprime un modo impegnato (anche se
non l’unico) di vivere il riferimento religioso nella società contemporanea.
Da questo punto di vista si ha la conferma ― anche a livello religioso ― del
carattere fortemente selettivo della militanza. Come s’è detto, poi, circa 1
persona su 4 ― sull’insieme della popolazione ― proviene da un’esperienza
religiosa impegnata, in quanto ha fatto parte nel passato di gruppimovimenti religiosi. Anche questo dato sembra attestare il carattere
minoritario della socializzazione religiosa di base nella società contemporanea.
Le valutazioni però cambiano se si confronta la situazione dei gruppimovimenti religiosi con quella degli altri tipi di associazionismo presenti a
livello nazionale e se si considerano le condizioni in cui il fenomeno
88
Franco Garelli
Tabella 10. Dimensioni dei principali gruppi-movimenti-associazioni di area cattolica.
Azione cattolica italiana
(1987)
Agesci/Associazione guide
e scouts
cattolici italiani (1987)
Acli/Associazione cristiana
lavoratori italiana*
Comunione e liberazione e
Movimento popolare
Movimenti spiritualisti
(neocatecumenali,
carismatici, movimento dei
focolari e così via)*
Numero gruppi
Adulti
Giovani
Ragazzi
Totale
8.830
271.025
120.995
168.323 560.343
1.487
22.863
26.210
111.130 160.203
5.600
500.000
50.000
550.000
80.000-100.000
500.000
* Stime dell’autore.
Fonte: dati raccolti dall’autore.
associativo religioso si manifesta nella società contemporanea. Per il
primo aspetto si osserva che l’associazionismo religioso evidenzia ― nel
tempo presente ― una capacità di attrazione inferiore soltanto a quella
esercitata dai gruppi e dalle associazioni di carattere sportivo; mentre si
distingue sensibilmente da tutte le altre realtà associative (sempre a esclusione di quella sportiva) per la quota di popolazione che è stato in grado
di coinvolgere nel passato. Oltre a ciò, il 10 per cento circa di soggetti
appartenenti attualmente a
gruppi-movimenti religiosi indica certamente un fenomeno di minoranza, ma
rappresenta comunque una realtà associativa rilevante in un tempo caratterizzato dal pluralismo culturale, dalla crisi delle ideologie, dal venir meno dei
gruppi di riferimento e di molte forme di militanza, dalla difficoltà a maturare
appartenenze significative e costringenti85.
7.2. Caratteri dell’associazionismo religioso-ecclesiale
Gli studi che si sono applicati al fenomeno non hanno mancato di
rilevare alcuni caratteri dell’associazionismo religioso-ecclesiale che lo
rendono particolare nel panorama associativo nazionale e che costituiscono altrettante ragioni dell’interesse che esso è in grado di suscitare.
85 F. Garelli, Religione e chiesa cit., p. 232.
Religione e modernità: il «caso italiano»
89
Vitalità e dinamismo di lungo periodo. L’associazionismo religiosoecclesiale si presenta nell’attuale momento storico anzitutto come una
realtà caratterizzata da una certa qual vitalità, che riflette un trend di dinamicità di lungo periodo. Si è infatti di fronte a una realtà capace di persistere e di modificarsi nel tempo, riattualizzando la propria presenza sociale nel confronto con i profondi processi di mutamento che negli ultimi
decenni hanno interessato il nostro paese. Con ciò ovviamente non si
intende negare il ridimensionamento numerico conosciuto dall’associazionismo religioso nel passaggio tra gli anni sessanta e gli anni settanta. A
questo proposito è stato notato come «anche l’area del laicato militante
sia partecipe del più complessivo processo di lunga durata che va riducendo nel nostro paese il peso della chiesa»86. Pur in una situazione mutata, l’associazionismo religioso è stato in grado ― in anni recenti ― di ridefinire la propria presenza sociale e di esprimere nuovi dinamismi. Nel
tempo attuale ― come s’è detto ― il carattere dinamico di questa realtà emerge in particolare in rapporto alle difficoltà che incontrano altri tipi di
associazionismo. L’associazionismo religioso sembra persistere ed evidenziare una certa vitalità nonostante la crisi di altri tipi di associazionismo assai dinamici o particolarmente emergenti nel recente passato. Sembrano esservi pertanto particolari fattori o condizioni di flessibilità che
permettono ai gruppi e ai movimenti religiosi di modificare le proprie
strutture e proposte in rapporto al processo di mutamento che si registra
nel tempo.
Un fenomeno di militanza religiosa in un tempo di crisi delle militanze. Nel tempo presente la maggior parte di quanti aderiscono all’associazionismo religioso sembrano accentuare il carattere della militanza, l’orientamento a
vivere il riferimento di fede in termini espliciti (pubblici) e in una dinamica di appartenenza.
L’orientamento alla militanza sociale e religiosa è in genere espressione
di una minoranza, di una quota ristretta di popolazione che si mobilita ―
in questo caso ― in rapporto a particolari interessi religiosi e di azione
sociale. Il carattere della militanza religiosa può indubbiamente
rappresentare un elemento singolare nel tempo presente, un aspetto per
certi versi controcorrente rispetto alla cultura prevalente e al modo in cui
la maggioranza della popolazione interpreta l’identità religiosa. In un
contesto di elevato pluralismo culturale, di marcata differenziazione
sociale, sembra infatti assai allargata la tendenza ― anche a livello reli86 A. Parisi, «Tra ripresa ecclesiastica ed eclissi della secolarizzazione» in Città e Regione, 7,
1978, p. 42.
90
Franco Garelli
gioso ― a vivere senza particolari identificazioni e appartenenze, in conseguenza dell’allentamento dei riferimenti culturali e della refrattarietà a
maturare appartenenze costringenti. In una società caratterizzata per lo
più dallo stemperamento delle ideologie e dei riferimenti fondanti, si
guarda con particolare interesse ai gruppi che mantengono le identità
originarie, radicati su orientamenti particolari, che segnalano in modo
attivo la propria presenza all’interno della collettività. I gruppi della militanza religiosa sembrano rientrare in questo tipo di categoria sociale.
Da questo punto di vista occorre interrogarsi sul significato sotteso al
persistere della militanza religiosa in un contesto pluralistico e differenziato come quello attuale, non particolarmente favorevole ad appartenenze forti e a riferimenti costringenti.
L’identità religiosa in un contesto di modernità. Le vicende dell’associazionismo religioso-ecclesiale si possono anche analizzare sotto un’altra interessante prospettiva: i diversi modi in cui i soggetti religiosamente impegnati cercano di interpretare l’identità religiosa in un contesto di modernità.
L’analisi in questo caso non riguarda i «cristiani anonimi», quanto i
soggetti che vivono un riferimento di fede all’interno di gruppi- movimenti o associazioni di matrice religiosa. Si tratta, in altri termini, del cosiddetto «laicato militante», la maggior parte del quale si riconosce ― anche se in modo non omogeneo ― nella chiesa cattolica. Proprio l’adesione alle organizzazioni religiose sembra rispondere all’esigenza di approfondimento e condivisione dei valori religiosi e di far fronte comunitariamente al rischio di stemperamento dell’identità religiosa nella società contemporanea.
L’obiettivo primario dei vari gruppi e movimenti ecclesiali è pertanto
di delineare un modello di religiosità significativo per il tempo presente,
di proporre un modello di spiritualità che attribuisca cittadinanza alla fede nelle attuali condizioni di vita. In tal modo essi accettano la sfida della modernità e cercano di contrapporsi al processo di secolarizzazione
in atto. Ovviamente, l’esito di questi sforzi e di queste proposte non è
univoco. L’associazionismo religioso ed ecclesiale si presenta infatti come una realtà assai variegata al proprio interno, caratterizzata da differenti visioni della realtà e sensibilità religiose. Ne emerge pertanto un
modo pluralistico e differenziato di far fronte al processo di secolarizzazione e di affermare i valori religiosi nella società contemporanea.
In sintesi, le dinamiche dell’associazionismo religioso rispecchiano i
diversi modi in cui i laici più impegnati ridefiniscono la loro identità
Religione e modernità: il «caso italiano»
91
religiosa in un contesto di modernità, riattualizzano nel tempo presente la
continua dinamica tra adattamento e rifiuto del mondo. Si possono così
individuare le diverse configurazioni dell’espressione religiosa nella società
contemporanea, le varie possibilità di riproposizione di un modello religioso
in un contesto di elevata secolarizzazione.
Un fenomeno assai differenziato. Il mondo associativo religioso risulta assai
differenziato al proprio interno non soltanto in rapporto al modello religioso
di riferimento, al modo di interpretare la fede nella società contemporanea.
Oltre a ciò, i vari gruppi-movimenti appartenenti all’area ecclesiale risultano
assai diversificati ― come ovvio ― anche relativamente al grado di
strutturazione e di organizzazione interna, alle finalità prevalenti, ai settori di
impegno, alle modalità di reclutamento degli aderenti, agli ambienti sociali di
riferimento e cosi via. Ne emerge un quadro associativo molto articolato e
complesso, formato da
manifestazioni diversissime tra loro e talora in antitesi l’una rispetto all’altra: si va
dallo spontaneismo carismatico più pieno al modello massimamente strutturato
e gerarchizzato; dallo stile pubblicitario e festoso a quello riservato e quasi segreto
e severamente introverso; dalla tendenza a reclutare adesioni in tutti gli ambiti
professionali e sociali a quella di privilegiare un ceto piuttosto di un altro; dalla
prescrizione di forme di vita povera all’attenzione per il potere e la ricchezza come strumenti da porre al servizio della «causa». Si tratta però, nel complesso, di
espressioni religiose autentiche, portatrici di messaggi magari parziali, ma indubbiamente forti, impegnativi per il singolo e capaci di suscitare entusiasmi e emozioni, a cui seguono, al di là di talora troppo facili e momentanee aggregazioni,
generosi esempi di adesioni incondizionate da parte di gruppi anche più vasti.
Ciò che è più singolare è che in essi si danno nuove forme, anche inedite, di
«esperienza dei sacro»87.
7.3. Quattro modelli associativi prevalenti
La descrizione dei principali modelli associativi permette di rendere
ulteriormente ragione del processo di differenziazione che ha investito
nel tempo il campo ecclesiale e delle diverse sensibilità sociali e religiose
che si sono venute consolidando. A questo proposito si possono individuare quattro diversi modi di interpretare la fede religiosa nella società
contemporanea. Ognuna di queste «anime» della Chiesa si fonda su un’interpretazione e una coniugazione diverse di una serie di dimensioni: il
giudizio sulla contemporaneità, la valutazione del mondo e l’atteggiamento nei confronti di esso; il ruolo attribuito all’istanza religiosa nel
87 F. Bolgiani, «Lo “ieri”
e il “domani” del cristianesimo» cit., p. 1063.
92
Franco Garelli
contesto sociale (privato-pubblico, personale-sociale); il rapporto tra fede
e cultura, tra la fede e la traduzione di essa nelle dinamiche storiche; la
concezione della Chiesa in termini di separazione o di compartecipazione
alle vicende del mondo; l’atteggiamento nei confronti di altre espressioni
e tradizioni culturali; l’idea della rilevanza che ha o deve avere il cristianesimo nella nostra società e così via.
Il modello della «mediazione» o della scelta religiosa. Tale modello si caratterizza anzitutto per un atteggiamento positivo o possibilista nei confronti del
mondo e per una presenza dei cattolici nella società orientata alla condivisione delle vicende umane e di richiamo a prospettive religiose. Rispetto
al passato il mondo non viene più considerato come antagonista e concorrenziale alla Chiesa, né la Chiesa sembra più coltivare tentazioni di egemonia sulla società o l’idea di ridisegnare una situazione di cristianità.
Ovviamente i credenti sono inseriti in un mondo secolarizzato, attraversato da tensioni e problematiche che attendono risposta, carico di domande e di situazioni da interpretare, bisognoso di un richiamo etico e religioso. Di qui la rivendicazione alla Chiesa di essere testimone di un orizzonte più ampio, aperto alla trascendenza, carico di appello ai valori. L’orizzonte di significato a cui richiamare il mondo è quello della promezione della vita, della libertà e dignità dell’uomo, della spiritualità, del rigore
della cosa pubblica, di una volontà di condivisione, collaborazione, solidarietà e così via.
La scelta della mediazione culturale appare delineata. Essa indica l’esigenza di « tradurre in termini non confessionali, ma di una sana laicità,
quindi condivisibili da tutti, la risposta evangelica agli interrogativi di fondo che il nostro tempo» pone «sul piano della razionalità, della cultura e
della vita sociale e politica»88. Così si partecipa ― insieme agli uomini di
buona volontà ― «alla ricomposizione morale del paese», realizzando
«un’opera di pre-evangelizzazione in un’Italia in parte scristianizzata, favorendo il passaggio da un bisogno naturale di moralità (...) all’interrogativo religioso esplicito »89. Un ulteriore impegno di questo modello è pertanto quello di recuperare il senso religioso della vita, di operare una scelta religiosa esplicita, di rendere da «implicito a esplicito» l’interrogativo religioso. In questo orizzonte appare pertanto indispensabile la scelta religiosa, un nuovo impegno di evangelizzazione, una proclamazione evangelica pubblica e coraggiosa.
88 B. Sorge, La ricomposizione dell’area cattolica cit., p. 54.
89 Ibid., pp. 55 sg.
Religione e modernità: il «caso italiano»
93
Il modello intransigente. Una linea opposta a quella della mediazione e della
scelta religiosa è rappresentata dal modello intransigente, per il quale la società risulta permeata dal processo di laicizzazione e da una radicale negazione
delle ragioni della fede. Questo giudizio negativo del mondo, comporta il
rifiuto del dialogo e l’assunzione di un atteggiamento attivo, teso a costruire
«uno spazio sociale in cui la fede sia significativa e visibile», che renda possibile «la vivibilità e la significatività della fede in un contesto di “laicizzazione”»90.
Tutto ciò depone per dare evidenza sociale alla fede, per rendere visibile
l’identità religiosa nella società contemporanea, per affermare socialmente i
valori della fede. In tal modo si intende contrastare il modello del cristianesimo implicito, di una fede confinata nel nascondimento, di un’identità che si
manifesta soltanto o prevalentemente a livello di coscienza.
L’orientamento pertanto è di tradurre la fede in cultura, di proporre una
forma di chiesa che dia adito a una nuova cristianità. La tensione a operare in
modo significativo, la coscienza dell’irriducibilità della propria identità, l’esigenza di dare alla fede una trasparenza immediata, spinge i cattolici a costruire un mondo particolare entrando in concorrenza con la società «laicista» o
con quanti non condividono il progetto.
In questa linea, l’intervento dei cristiani nella storia tende a privilegiare le
occasioni in cui è possibile affermare in termini originari, significanti e trasparenti l’identità religiosa.
Il neo-intransigentismo tende, perciò, a collocare l’intervento cristiano nei punti ideologicamente critici della vita sociale. Ciò che attira l’interesse non sono
tanto le operazioni che sono condivise, almeno in teoria, da tutti e che non distinguono i cristiani dai non cristiani (...) ma gli interventi che sono ideologicamente qualificanti e che costruiscono un’immagine simbolica: ad esempio il
problema della scuola. In parallelo si pone l’interesse per la comunicazione sociale e, quindi, per «mass-media», che veicolano informazioni e modelli di comportamento. Tutto questo diventa una nuova forma di apologetica sociale, non
più legata alla soluzione alternativa dei processi sociali (...) ma legata, in primo
luogo, all’idea di uno spazio vitale per la fede91.
Il modello fondamentalista e intimista. Un atteggiamento oppositivo nei
confronti del mondo viene espresso anche da un altro modello di religiosità, i cui caratteri prevalenti possono essere invididuati nel fondamentalismo e nell’intimismo.
In questo caso il mondo viene considerato come un polo di riferi90 A. Acerbi, «Chiesa italiana» cit., p. 26.
91 Ibid., pp. 27 sg.
94
Franco Garelli
mento negativo, per quanto concerne sia i rapporti sociali sia la dimensione
religiosa. A fronte di tale valutazione negativa appare inefficace e anacronistico sia un impegno storico orientato a modificare gli equilibri esistenti, sia
un’azione tendente a riaffermare il primato dei valori religiosi. Questo
mondo non potrà mai essere convertito, caratterizzato com’è da strutture e
da mentalità troppo chiuse a una prospettiva trascendente.
L’alternativa che si propone è l’interpretazione del cristianesimo in chiave marcatamente escatologica, che «si traduce nell’invito ai cristiani a vivere
intensamente la loro realtà spirituale, all’interno di un mondo che non li
può comprendere, in attesa che si compia il disegno escatologico di Dio »92.
Chiusura nella dimensione religiosa, indifferenza per la fede del rapporto col mondo, irrilevanza della mediazione tra la fede e le istanze
culturali contemporanee, forte polarizzazione sull’esperienza personale
e sull’annuncio immediato: sono questi gli aspetti che caratterizzano in
chiave fondamentalista e intimista il modello di religiosità qui analizzato.
Si tratta di un modello espresso per lo più da gruppi-movimenti religiosi
fortemente coinvolti e identificati nelle dinamiche ecclesiali, come reazione al processo di laicizzazione del paese. L’estensione di questo modello all’interno della cattolicità italiana sembra essere a un tempo rilevante e sottovalutata. Il coinvolgimento in esso di «quote non trascurabili della cattolicità italiana » è da mettere in relazione con il grande peso
che le dimensioni della testimonianza e del rifiuto del mondo hanno avuto nella formazione religiosa di base del cattolicesimo popolare.
L’estensione di questo modello appare poi sottovalutata in quanto esso
si esprime secondo modalità non appariscenti che non attraggono i
mass media.
Il modello della diaspora. L’ultimo modello rappresenta un prolungamento nell’epoca attuale di quella tensione alla diaspora particolarmente estesa
negli anni del dissenso religioso. Esso è ancora presente in alcune realtà
fortemente radicate nell’impegno sociale o di volontariato e in individui la
cui formazione religiosa di base è avvenuta in quegli anni di forte rivolgimento sociale e religioso.
Secondo questo orientamento il processo di secolarizzazione ha avuto
esiti positivi per i valori religiosi, dal momento che la Chiesa vede
diminuiti il potere e la capacità di influenza che esercitava nella società. La
Chiesa ha così la possibilità di modificare il proprio ruolo nella socie92 B. Sorge, La ricomposizione dell’area cattolica cit., pp. 72 sg.
Religione e modernità: il «caso italiano»
95
tà, spogliandosi di quelle istituzioni e strutture che la costringono a continui compromessi col potere sociale e politico e che tradiscono il senso
della sua missione nella società. Abbandonate le certezze e le sicurezze
che le derivano da una posizione di potere, la Chiesa deve aprirsi alle
istanze del nostro tempo, facendosi carico in particolare di quelle degli
ultimi e degli oppressi.
La Chiesa dunque «è chiamata ad autodissolversi nel mondo, per fermentarlo dall’interno». In questa linea «va rivalutato il cristianesimo
anonimo di chiunque combatte per la liberazione degli oppressi; la causa
della chiesa si identifica semplicemente con la causa dell’uomo senza
aggettivi, senza messaggi specifici dall’alto, ma reinterpretando la parola di
Dio a partire dalla storia e dalle lotte dei poveri»93.
93 Ibid., p. 71.
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Sviluppo politico e Chiesa in Spagna*
Salvador Giner e Sebastidn Sarasa
1. Una storia plasmata dalla religione
Ciascun paese perviene alla modernizzazione in modo strettamente
conforme al suo passato religioso; il fattore religioso può accelerare il
processo oppure rallentarlo. Per essere più precisi, la componente religiosa della vita sociale fa sì che taluni aspetti del processo di modernizzazione prendano forma, e può contribuire a suscitarli. Per contro, la
religione può escludere alcune soluzioni possibili alle richieste incalzanti di modernità, frappone ostacoli e detta condizioni. Quindi, la
religione determina in sostanza la forma, il ritmo e l’intensità dell’intero processo. La Spagna è, nel contesto europeo, uno dei pochi paesi in
cui, storicamente, il rapporto tra religione e modernizzazione sembra
essersi svolto a senso unico. Dalle guerre napoleoniche sino alla fine del
regime franchista, più di un secolo e mezzo dopo, una Chiesa decisamente reazionaria e di vedute ristrette si è opposta in ogni modo alla
modernizzazione. Per lo meno, così afferma la tesi corrente.
La semplificazione eccessiva che la tesi comporta è facilmente confutabile, in quanto rivela, tra coloro che interpretano la storia spagnola,
lo stesso manicheismo manifestato senza dubbio da molti suoi protagonisti. Nondimeno, sebbene fino alla pace di Vestfalia del 1648 l’intolleranza, la politicizzazione della religione e il fondamentalismo non fossero nella penisola iberica maggiori che nel resto d’Europa, è vero che in
seguito il processo costante dell’Europa in direzione della secolarizzazione, del pluralismo, del capitalismo, dell’industrialismo e della scien* Ringraziamo sinceramente diversi colleghi spagnoli che hanno messo a nostra disposizione i risultati della propria ricerca, anche prima che fossero oggetto di pubblicazione: non
possiamo non menzionare Salvador Carrasco e José Maria Mardones. Un ringraziamento particolare va a Rafael Díaz Salazar, che è stato generoso di aiuti e suggerimenti, e a José A.
Prades per i suoi dettagliati commenti teorici ed elementi critici. Juan Díez Nicolai ci ha
gentilmente messo a disposizione tutti i dati raccolti con l’indagine Creencias y preictica religiosa condotta dall’istituto presso cui lavora, il Cires, nel 1990.
102
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
za, in Spagna divenne assai difficile, anche se non si arrestò completamente. Durante l’Illuminismo si verificarono numerosi sviluppi di notevole portata in direzione della «modernizzazione», di cui la scomparsa
definitiva dell’Inquisizione (che fu forse la prima burocrazia «totalitaria
» moderna) non fu certo il meno rilevante1. Ma per una serie di ragioni
il paese entrò nel secolo XIX lacerato da varie, profonde divisioni interne che si esprimevano quasi sempre in termini di fedeltà religiosa. Il fatto che gran parte dei gravi problemi economici, politici e culturali trovasse espressione in termini religiosi, o che la Chiesa fosse presente o
coinvolta pressoché in tutti gli ambiti della vita nazionale, contribuì ad
allontanare nettamente il paese dal centro della società europea: per un
lungo periodo la Spagna fu relegata in una posizione «semiperiferica»
nella storia mondiale, da cui sarebbe emersa definitivamente soltanto
con la transizione pacifica alla democrazia liberale dopo il 19752.
È molto probabile che i dirigenti della repubblica che si affermò in
Spagna nel 1931 non fossero pienamente consapevoli della funzione politica decisiva svolta dalla religione e dalla Chiesa nella struttura sociale e
culturale del paese. Pertanto, quantunque la netta separazione tra Chiesa
e Stato introdotta dalla nuova costituzione fosse una misura necessaria e
ragionevole, le provocatorie politiche anticlericali del governo non potevano condurre alla pace interna in un paese tormentato dal confronto
insoluto tra due Spagne affatto diverse e assolutamente incompatibili,
ciascuna definita chiaramente dal proprio rapporto politico con la religione. Così, in nessun altro paese dell’Europa occidentale un movimento cattolico populistico e apertamente reazionario era riuscito a opporsi
con la forza delle armi all’avanzata della modernizzazione entro enclavi
di vaste dimensioni, come avvenne in Spagna. Laddove in Francia la
Vandea fu schiacciata con la forza dal nuovo stato giacobino, che commise freddamente il primo vero genocidio moderno, le successive rivolte
carliste in Spagna (e le conseguenti guerre civili) minacciarono seriamente uno stato liberale borghese (spesso conservatore), che si dimostrò
incapace di imporre la propria autorità nei territori controllati dai carlisti.
Pertanto, í repubblicani avrebbero dovuto capire, dopo varie sconfitte
storiche traumatiche, alcune delle quali piuttosto recenti, che ben
difficilmente il cattolicesimo ultramontano e le sue diverse espresSi veda B. Bennassar, espagnole, XVI`-XIX siècle. Paris, Hachette, 1979.
Si vedano G. Hermet, Les catholiques dans l’Espagne franquiste, Paris, Fondation Nadonai des Sciences Politiques, 1980-81, vol. I, 1980, pp. 11-20; S. Giner, «Political Econotny, Legitimation and the State in Southern Europe» in G. O’Donne1.1 et al. (a cura di),
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1
2
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
103
sioni politiche come il carlismo sarebbero svaniti per decreto, e tanto
meno mediante politiche anticlericali. Dunque, alle tre guerre carliste del
1820 22, del 1833 37 e del 1872 76 si deve aggiungere il conflitto del 1936 39,
l’ultima guerra carlista, sia pure soltanto in parte. Se anche non si può
definire la guerra civile spagnola (come è stato fatto di recente) una
«guerra di religione», in essa era sicuramente presente una componente
che ricordava gli scontri armati religiosi. Essa fu preceduta (si potrebbe
dire annunciata) dalla violenta guerra ideologica tra le «due Spagne» tradizionali, i dirigenti delle quali spesso non sembravano consapevoli delle
conseguenze pericolose che le loro invettive avrebbero avuto. Così le
celebri parole del primo ministro Azatia, «La Spagna ha cessato di essere
cattolica», pronunciate quando fu dichiarata la repubblica, volevano
forse esprimere il fatto che il paese era diventato finalmente uno stato
moderno, non confessionale, ma in quella situazione furono interpretate
come un atto di aperta ostilità e di sfida. Conseguenze ancora peggiori
ebbe l’ordine per tutte le scuole statali di rimuovere i crocifissi dalle aule.
I parroci, in particolare nelle zone rurali, erano esasperati e vedevano
avverarsi le loro paure peggiori. In seguito, come reazione alla sollevazione di destra, il clero fu vittima di un vero e proprio bagno di sangue.
Nelle zone controllate dalla repubblica furono uccisi numerosi preti ed
ecclesiastici, in parte a causa dello scarso controllo del governo legittimo
sul proprio territorio, in parte a causa dell’ira e della disperazione che
colsero molti settori della popolazione, la quale, considerando la sollevazione come un tradimento, era decisa a replicare agli atroci delitti
commessi «dall’altra parte». Si trattò, nondimeno, di un evento terribile e
non giustificabile, destinato a lasciare profonde ferite nella memoria sia
del clero sia dei laici. Nei territori repubblicani furono uccisi durante le
prime fasi della guerra circa settemila fra preti, suore e frati3. Non sorprende perciò che di lì a poco la Chiesa dichiarasse che la guerra fratricida era una crociata contro le forze del male e i nemici della patria:
benedisse perciò coloro che combattevano in sua difesa (frattanto,
però, non fece pressoché nulla per i preti — soprattutto nelle Province Basche — o per i dirigenti politici cattolici arbitrariamente giustiziati o incarcerati dalle forze franchiste). La legittimazione religiosa
della sollevazione e della guerra toccò il culmine nel luglio del 1937
con la pastorale collettiva dell’episcopato. Da parte sua, l’anno seguente, il Vaticano riconobbe ufficialmente il governo ribelle, ben prima che l’esito della guerra fosse deciso4 e, con Pio XII, non indugiò a
-
3
4
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Si veda S. Payne, El catolicismo espaiiol, Barcelona, Pianeta, 1984.
Si veda G. Hermet, Les catholiques dans l’Espagne cit., pp. 33-126.
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Salvador Giner e Sebastian Sarasa
offrire il suo sostegno morale e dottrinale al nuovo regime. Proprio
da un fondamentalismo cattolico militante o meglio guerriero, da
crociata, il franchismo avrebbe tratto la sua forza e legittimato il suo
duraturo, tetro ordine politico.
2. Il franchismo e il fascismo clericale (1939-75)
Al momento dello scoppio della guerra civile nel luglio 1936, la
chiesa spagnola aveva già cominciato a trarre alcuni insegnamenti
fondamentali circa la natura del secolarismo nel mondo moderno e le
esigenze di giustizia sociale, sviluppo economico e diritti civili.
L’affermazione di quello che è stato definito «catolicismo social»,
espressione riferita sia ai tentativi di numerosi cattolici di dare una
risposta adeguata alla «questione sociale » sia alle varie politiche delle
organizzazioni cattoliche o dei partiti volte a soddisfare i nuovi bisogni
sociali e a far fronte alla crescente sfida ideologica della sinistra sul suo
stesso terreno, fu la manifestazione principale di questa nuova
consapevolezza. Tuttavia, molti riformatori sociali cattolici, stretti tra le
forze del liberalismo anticlericale e quelle di un anarchismo e di un
socialismo non meno anticlericali, furono spinti tra le braccia
dell’elemento più oltramontano e reazionario della Chiesa. La violenza
diffusa e arbitraria contro il clero e le proprietà ecclesiastiche nei primi
mesi della guerra sfociò in una polarizzazione politica radicale, che
praticamente annientò la tradizione moderata e riformista che si era
andata sviluppando nella chiesa spagnola. La pastorale collettiva
dell’episcopato spagnolo del 1937, che definì la guerra fratricida una
«crociata» contro gli infedeli e gli altri nemici della patria e della
civiltà occidentale (massoni, comunisti, socialisti, anarchici, liberali),
preparò il terreno a quanto si sarebbe verificato dopo la vittoria del
franchismo nel 1939. Il terrore e la repressione politica del dopoguerra furono legittimati in larga parte da altre dichiarazioni ecclesiastiche dello stesso tenore e da provvedimenti legali, molti dei quali
con valore retroattivo, come la legge per la repressione della massoneria e del comunismo, applicata spietatamente dalla dittatura almeno
sino alla fine degli anni sessanta, quando cominciò a perdere forza5.
Il regime di Franco non può essere definito un sistema politico totalmente «antimoderno», nonostante il suo carattere ultraconservatore. Nel
momento in cui esso consolidò la propria posizione, nessun governo (tanto
Si veda R. Dfaz Salazar, El capital sinsbólico. Estructura social, politica y religión en
Espaiia, Madrid, Hoac, 1988, pp. 41-50.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
105
meno europeo, per quanto «arretrato») avrebbe potuto permettersi di
combattere frontalmente la modernizzazione. Il regime franchista fu in
larga misura il risultato di una coalizione reazionaria classica di forze
conservatrici decise a controllare e a guidare la modernizzazione propugnando i propri interessi, non a impedirla. La coalizione prese forma e si resse nel quadro di una dittatura militare nazionalista e semifascista, alleandosi strettamente e identificandosi con la chiesa cattolica; per tali ragioni il regime seguì una politica di industrializzazione e di
accumulazione capitalistica sotto l’egida del protezionismo, della nazionalizzazione delle imprese e di un orientamento autarchico «fascista»,
che nella sua forma iniziale durò almeno fino al 19596. Il franchismo,
in virtù di questo profondo legame con la Chiesa nella sua componente
più conservatrice, ne avrebbe condiviso gran parte degli indirizzi sociali
ed educativi. Così, pur mantenendo uno stretto controllo sui propri
sindacati «verticali» di tipo fascista, il regime concesse nondimeno alla
Chiesa una certa autonomia rispetto allo Stato (non sorprende pertanto che le Hermandades Obreras de Accion C atolica (Hoac) una sorta di
sindacato di ispirazione ecclesiastica, abbia avuto successivamente un
ruolo di rilievo nello sviluppo del pluralismo e di un sindacalismo libero). Allo stesso modo il franchismo, in quanto regime impegnato nella
«modernizzazione dall’alto», era pronto a salvaguardare o a integrare
nel proprio sistema politico organizzazioni cattoliche come l’Opus Dei,
che avevano una visione palesemente «tecnocratica», non democratica e
chiusa della modernità ed erano disposte ad accettarla come forma di sviluppo economico. Quando venne il momento di disfarsi degli aspetti
esteriori più compromessi del regime, molti dirigenti collaborazionisti
dell’Opus Dei si mostrarono disposti a lasciarsi cooptare ai massimi livelli pubblici del potere. La loro formula politica (sviluppo senza democratizzazione, ovvero desarrollismo) si confaceva perfettamente a un regime che cercava disperatamente di adattarsi alla nuova atmosfera internazionale dell’Europa postfascista e della guerra fredda.
In questo processo (modernizzazione senza secolarizzazione e senza
democrazia), l’Opus Dei merita un’attenzione specifica. Dato il suo sistema di valori (etica del lavoro, elitarismo, tecnocrazia, moderazione,
riserbo, lealtà al Vaticano, ricerca del successo mondano e internazionalismo), la sua importanza va certamente al di là dei confini del fran6 Si vedano S. Giner ed E. Sevilla, «From Despotism to Parliamentarianism. Class Domination and Political Order in the Spanish State» in R. Scase (a cura di), The State in Western
Europe, London, Croom Helm, 1980, pp. 197-229; L. Flaquer, S. Giner e L. Moreno,
«España en la Encruciiada» in S. Giner (a cura di), Esparia: sociedad y politica, Madrid, Espasa
Calpe, 1990, pp. 17-74.
106
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
chismo. Non è possibile però in questa sede fornire un resoconto esauriente della sua natura e delle sue implicazioni. Basterà dire che l’Opus
Dei, pur essendo stato fondato prima dello scoppio della guerra civile e avendo minor influenza di altre associazioni cattoliche come quella
dei «propagandisti» o Acnp7 nei primi governi del regime, aveva caratteristiche tali da renderlo assai interessante per un regime che si faceva
sempre più pragmatico. Il suo vivo pietismo, combinato al culto del lavoro e dell’efficienza e a un’apparente neutralità ideologica, finì per conquistare all’organizzazione le simpatie del dittatore e di alcuni suoi stretti
collaboratori. A partire dal 1959 i «tecnocrati» dell’Opus Dei ottennero ministeri chiave. Anche se l’ordine di ispirazione confessionale occupava da tempo un numero considerevole di cattedre universitarie e
cariche importanti nel Consiglio superiore della ricerca scientifica, esso aveva cominciato a creare una propria università e si faceva strada nel mondo delle banche e della finanza nonché nella scuola privata. La Spagna
aveva già dato alla Chiesa due tra gli ordini più forti e controversi, i domenicani e i gesuiti, entrambi in periodi cruciali della sua storia. Ad alcuni parve che il paese stesse per dare vita, per la terza volta, a un ordine che si adattava perfettamente allo Zeitgeist [spirito del tempo] e alle
esigenze della Chiesa nel mondo moderno. Altri invece (non solamente i
democratici e i rivali naturali dell’Opus Dei, i gesuiti) espressero seri
dubbi circa la reale statura del nuovo organismo. A ogni modo, l’Opus
Dei, mondano eppure pio, capitalista ma tecnocratico, elitarista ma populista e sempre discreto, efficiente e aperto, apparve un fenomeno caratteristico del sistema franchista maturo. Molti cattolici considerarono l’Opus Dei un movimento misurato e riservato (ma ambiguo e reticente),
certo una scelta migliore rispetto al falangismo, con le buffonate fasciste
e i clamori pseudoradicali. Tutto questo aiutò il movimento ad affermarsi nel mondo influente del potere negli anni del desarrollismo, ovvero del decollo definitivo dell’economia spagnola e del conseguimento di
una certa rispettabilità internazionale del regime di Franco in Occidente durante gli anni della guerra fredda8. Ma il destino dell’Opus Dei
non era legato a quello del franchismo: l’ordine era destinato a sopravvivere con successo al regime9.
7 Si veda A. Saez Alba, La Asociación Cat6lica Nacional de Propagandistas, Paris, Ruedo
Ibérico, 1974.
8 Si vedano G. Hermet, Les catholiques dans l’Espagne cit., pp. 231-46; D. Le
Tourneau, L’Opus Dei, Paris, Puf, 1984; J. Perez Vilarifio e R. A. Schoenherr, «La
religión organizada en Espafia» in S. Giner (a cura di), Espana: societad y politica cit., pp.
449-70; W. J. West, Opus Dei. Exploding a Myth, Sidney, Little Hills Press, 1987; J.
Ynfante, La prodigiosa aventura del Opus Dei, Paris, Ruedo Ibérico, 1970.
9 Si veda A. Moncada, Historia oral del Opus Dei, Barcelona, Piazza Janés, 1987.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
107
Tuttavia, si può dire che almeno per un aspetto importante il
franchismo, in quanto regime non unilateralmente totalitario,
«modernizzatore» e fortemente reazionario, abbia cercato di fermare la
storia (se si ammette per un momento che nella situazione della
modernità sia realmente concepibile un ritorno a un passato
immaginario): il regime di Franco costituisce uno dei rari casi in
Occidente di «desecolarizzazione» attiva ispirata dal governo (un altro
caso, di tipo diverso, può essere costituito dallo Stato di Israele durante
i suoi primi passi). Il forte sostegno dato alla Chiesa, il diritto di censura
sui mass media conferito ad agenti ecclesiastici, l’intensa educazione
religiosa nelle scuole e l’intolleranza istituzionalizzata nei riguardi di
tutte le religioni non cattoliche (compresi l’ateismo, l’agnosticismo o
le manifestazioni pubbliche di indifferenza) sono parte integrante del
regime di Franco. Di conseguenza, per lo meno per il periodo iniziale
e centrale, in cui la componente ideologica fascista era forte, la
definizione di «fascismo clericale» sarebbe appropriata, non fosse per il
fatto che nella coalizione reazionaria dominante erano presenti altri
elementi potenti che non rientravano affatto in tale definizione. Nella
stessa Spagna l’espressione «nacionalcatolicismo», in riferimento al
cattolicesimo che legittimava e si identificava con il franchismo,
incontrò particolare favore tra i cattolici liberali che coglievano affinità
inquietanti tra il regime nazista e quello franchista10.
I successi iniziali sulla via della «desecolarizzazione» o «ricristianizzazione» svanirono ben presto di fronte alle tendenze sociali più profonde dell’epoca, sicché sotto la superficie del regime si potevano cogliere
(già nel 1957, con le avvisaglie di un movimento democratico nelle
università) i segni evidenti del fatto che l’ideologia ufficiale sarebbe
stata sfidata dal basso11. Da parte sua, negli anni sessanta la presenza
sociale della Chiesa cominciò a diminuire, al pari delle vocazioni al sacerdozio. Tale tendenza, con alcune fluttuazioni, non poteva essere arrestata12, anche se, come in altri paesi europei, a partire dagli anni ottanta si osserva una modesta ripresa delle pratiche religiose tradizionali,
comprese quelle cattoliche. Nel caso della Spagna è evidente che la diminuzione continua del clero (che la minaccia oggi seriamente di «declericalizzazione») non può essere attribuita soltanto a tendenze secolarizzanti generali, e che sino a poco tempo fa l’aperta ostilità di molti
Si veda A. Alvarez Bolado, EI experimento del nacional-catolicismo, Madrid, Edicusa, 1976.
Si veda S. Giner, «Power, Freedom and Socia1 Change in the Spanish University,
1939-1975» in P. Preston (a cura di), Spain in Crisis, London, Harvester, 1976, pp. 183-211 e
313-18.
12 Si veda J. Perez Vilariiio e R. A. Schoenherr, «La religión organizada en España» cit.
10
11
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Salvador Giner e Sebastian Sarasa
(tra cui numerosi cattolici democratici o ex cattolici) al forte legame tra la
Chiesa nel suo complesso (soprattutto al di fuori della Catalogna e delle
Province Basche) e il regime franchista deve aver contribuito al rifiuto
della sua autorità e influenza. Da molto tempo alcuni esponenti di spicco della gerarchia ecclesiastica cattolica ne sono consapevoli e hanno
parlato a più riprese di «errori storici» e persino di «peccati» commessi
dalla Chiesa per spiegare questa continua disaffezione (tuttavia, come si
vedrà, la natura di questa disaffezione è profondamente mutata).
Nulla rivela l’impossibilità di un ritorno al passato più del fatto che
una delle fonti principali di dissenso e di opposizione democratica al regime sono stati gli stessi cattolici. I movimenti cristiani e cattolici che si
sono battuti per l’affermazione della democrazia sono cresciuti di numero e di forza con il passare del tempo. All’inizio erano per lo più movimenti intellettuali e culturali, ma ben presto fecero la loro comparsa
quelli più propriamente politici. Ad esempio, l’apporto dei cristiani è
stato decisivo per la nascita dei primi sindacati clandestini13, anche se tali sindacati non sarebbero diventati specificamente cristiani. Lo stesso
vale per i partiti e i movimenti politici fuorilegge sotto il franchismo:
nella maggior parte dei casi i cattolici tendevano a partecipare a movimenti di caratterizzazione più ampia o non religiosa, a titolo individuale,
come gruppi informali o anche costituendo gruppi con carattere più
formale, come i cristianos para el socialismo (spesso con legami in altri paesi
europei). I parroci e i preti operai progressisti o democratici spesso aiutavano o si univano a movimenti e a partiti vietati (tra questi vi era il
peggior nemico del regime, il partito comunista), evitando di proposito
di fondare o di partecipare a movimenti democratici cristiani anche là
dove esistevano, come in Catalogna. I sociologi della politica che a partire dai primi anni sessanta preconizzarono una Spagna postfranchista
dominata da due partiti, il comunista e il democratico cristiano, commisero un errore oggi palese ignorando quest’interessante fenomeno. La
polarizzazione ideologica non solo aveva annientato il centro dello
spettro politico durante e dopo la guerra civile, ma aveva anche minato,
e per un periodo molto lungo, la credibilità democratica di qualsivoglia
partito o movimento cattolico moderato. Il grande partito cattolico di
destra (ma repubblicano) dell’anteguerra, la Ceda, era parso schierarsi
totalmente dalla parte dei ribelli, diventando di colpo «franchista» e
rivelando così la vera natura del cattolicesimo politico 14. Il discredito dei
13 Si veda V. Perez Diaz, dglesia y religi6n en la Espatia contemporanea» in Id., El
retorno de la sociedad civil, Madrid, Instituto de Estudios Econótnicos, 1987, pp. 411-67.
14 Si veda J. R. Montero, La Ceda. El catolicismo social y politico en la II República, Madrid, Revista de Trabajo, 1977.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
109
partiti confessionali cattolici (sempre con l’eccezione della Catalogna e
delle Province Basche, i cui partiti democratici cristiani vantavano credenziali democratiche inattaccabili, avevano un legame etnico con le
proprie regioni e per giunta subirono persecuzioni in quanto
«separatisti») escluse fin dall’inizio una soluzione e una mappa politica
«italiane» per la Spagna del futuro.
La strada imboccata dalla dissidenza politica cattolica contro il regime e la sua integrazione nel movimento democratico vanno inserite non
solo nel contesto del confronto con la chiesa ufficiale e con i movimenti
cattolici quali l’Opus Dei e l’Acnp, che sostenevano a fondo la dittatura, ma anche nel contesto di un processo intensivo di modernizzazione della struttura sociale del paese". Più o meno a partite dal 1953 e
in modo palese dopo il 1959, in Spagna ebbe luogo un mutamento
sociale di particolare intensità in direzione della modernizzazione (senza
un processo parallelo di democratizzazione). Tutti i possibili indicatori,
dal tasso di urbanizzazione a quello di allargamento dell’istruzione, dal
ritmo dell’esodo dalle campagne alla crescita del ceto medio, dai cambiamenti degli atteggiamenti economici alla liberalizzazione dei costumi
sessuali, rivelano un processo spettacolare di convergenza della società
spagnola con il resto dell’Europa occidentale. Fatte le debite riserve, è
chiaro che tale «convergenza» è oggi in larga misura una realtà, e in
certe regioni si è perfino andati oltre. Per limitarci a un esempio illuminante, oggi la Spagna ha oramai concluso la sua transizione demografica: nel 1991 il tasso di crescita demografica è inferiore a
quello della Svezia. Non è possibile fare in questa sede una descrizione dettagliata della portata e della profondità della trasformazione
degli ultimi decenni16, tuttavia l’improvvisa «modernità» del paese (per
quanto incompleta e superficiale per certi versi) incide profondamente sui dibattiti odierni dedicati alla fede, alla mancanza di fede e alla
cultura laica in Spagna. Come si vedrà in seguito, le tensioni sorte di recente fra il governo e la Chiesa rimandano anche alla rispettiva concezione della modernità o, in altro campo, della società. A ogni modo, i
movimenti cattolici per l’aggiornamento, il rinnovamento e la democratizzazione durante il franchismo si fondavano anche sull’asserzione di uno
scarto tra la vecchia Chiesa (la «squallida vincitrice della guerra civile») e
una società che secondo loro non era più quella descritta nelle dichiarazioni ufficiali della gerarchia. A detta loro la Spagna, nonostante il
regime politico anacronistico, non era più un paese arretrato.
15 Si vedano A. Saez Alba, La Asociación Católica Nacional cit. e J. Ynfante, La prodigiosa aventura del Opus Dei cit.
16 Si veda tuttavia L. Flaquer, S. Giner e L. Moreno, «Espaiia en la Encrucijada» cit.
110
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
Tuttavia, nella prospettiva degli anni ottanta e novanta la modernità dei movimenti cattolici o cristiani democratici degli anni sessanta e
settanta appare in certo modo distante dagli atteggiamenti politico-religiosi progressisti prevalenti a nord dei Pirenei, per lo meno nella misura in cui questi ultimi hanno assunto una posizione rivoluzionaria (spesso marxista o comunista). E stata proprio l’intolleranza del franchismo ad alimentare questo atteggiamento, anche in tal caso parzialmente spiegabile
con la polarizzazione politica prodotta e nutrita dal regime. Spesso si
pose l’accento sul popolo di Dio, sulla fratellanza cristiana con gli operai, sulla liberazione, sul dialogo con il marxismo (e persino su un’aperta
integrazione con i movimenti comunisti o socialisti radicali). Furono
fondati piccoli partiti rivoluzionari o di radicalismo estremo nelle file
dei quali c’era una forte componente cristiana di sinistra. La «deradicalizzazione» di questi cattolici democratici è avvenuta molto più tardi, di
pari passo con quella di altri movimenti di sinistra, durante la transizione politica alla democrazia o durante il periodo del suo consolidamento.
È interessante notare che il retaggio radicale di quel periodo
non è scomparso del tutto con la transizione pacifica alla democrazia
dopo il 1975: nei decenni del franchismo i preti «ribelli» erano stati esiliati sovente in America Latina, dove, a loro volta, svolsero in molti
casi un ruolo di primo piano nello sviluppo dei movimenti di liberazione di
ispirazione religiosa contro le locali dittature o la situazione di estrema
ingiustizia sociale. I preti spagnoli esiliati in America Latina sono diventati spesso riformatori sociali radicali; il vescovo del Brasile Casaldàliga, un catalano, può essere considerato un esempio tipico di questa emigrazione per espulsione o allontanamento. Si trovano dirigenti religiosi
spagnoli radicali tra gli ispiratori della teologia della liberazione, e alcuni perfino tra i movimenti della guerriglia. Ma generalmente il loro contributo è stato pacificamente radicale, se non moderato. E noto che nel
1990 un gruppo di gesuiti spagnoli è stato assassinato dai militari in
Salvador per aver commesso il crimine di insegnare i valori di una vita
democratica, promuovendo lo sviluppo dell’istruzione superiore.
Quindi, il tentativo di confinare la chiesa spagnola entro le frontiere
del «nazional-cattolicesimo» o del «fascismo clericale» del regime, epurandola dai suoi elementi devianti o esiliandoli oltremare, ha avuto alcune
conseguenze internazionali non previste da coloro che ispirarono queste scelte.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
111
3. Democrazia liberale e pluralismo religioso (1976-90)
La transizione della Spagna dalla dittatura alla democrazia ha richiamato l’attenzione del mondo, non solo dei politologi e di altri studiosi,
ma anche di governi e di movimenti politici, dall’America Latina all’Europa orientale. Per ragioni ovvie, molti si sono rivelati estremamente interessati al fenomeno; sebbene si possa pensare che rientri nel contesto
del processo più generale di modernizzazione politica ed economica
che si è affermato in tutta l’Europa mediterranea nella storia recente17,
non c’è dubbio che questo evento pacifico è stato per molti versi eccezionale; ciò che si è verificato era dovuto in larga misura alla nuova
«maturità» (ovvero alla compiuta modernità) della società spagnola e
dunque rimanda all’argomento di queste considerazioni.
Un fattore decisivo per la buona riuscita della transizione è stato
quello religioso; se in passato aveva provocato tensioni e scontri, ora
era divenuto un elemento di stabilità. Il passaggio dei cattolici che
cessavano di sostenere attivamente o passivamente il regime all’opposizione democratica accrebbe costantemente il numero di coloro
che auspicavano una transizione effettuata mediante un negoziato
con le autorità, il solo modo per scongiurare un confronto violento.
Uno dei fattori che favorirono indirettamente il successo della soluzione pacifica del problema della transizione fu la presenza di una
consistente componente cattolica in campo democratico. Quindi, la
semplice presenza cattolica tra le file dei democratici eliminò del tutto lo spartiacque religioso che aveva diviso le «due Spagne» durante
la repubblica e la guerra civile e che era stato tenuto in vita dal regime franchista per ragioni ben precise. Pertanto, la mappa ideologica
e politica della Spagna era radicalmente cambiata alla fine degli anni
sessanta, e la gerarchia cattolica ne prese finalmente atto; nel 1971 la
maggioranza dei vescovi riuniti nella prima Assemblea episcopale
nazionale chiese pubblicamente il perdono per non aver saputo in
passato svolgere la funzione di «veri ministri della riconciliazione»
(non si conseguì la maggioranza di due terzi necessaria per approvare la mozione, in assenza dei vescovi baschi e catalani, ma la maggioranza favorevole fu netta e non c’erano dubbi sull’orientamento dei
vescovi assenti, che avrebbero accresciuto la maggioranza favorevole
a una rottura aperta con il regime)18. A seguito di questo mutamen17 Si veda S. Giner, «Political Economy, Legitimation and the State in Southern
Europe» cit., p. 11-44 e 187-92.
18 Si veda N. B. Cooper, Catholicism and the Franco Regime, London, Sage Research
Papers in the Social Sciences, 1975, pp. 39 sg.
112
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
to di posizione, nonché del suo nuovo orientamento, la Santa Sede cominciò a prendere le distanze dal settore più reazionario della gerarchia
spagnola e i rapporti con la dittatura si fecero tesi. Inoltre, i segni evidenti di simpatia per la sinistra spagnola e i suoi ideali, compresi
quelli dei suoi militanti cristiani, trasformarono l’atmosfera degli
ultimi anni del regime. Basti ricordare che grazie a questo la Chiesa
cominciò a riconquistare il rispetto della classe operaia, di cui non
aveva certo goduto nella storia recente19.
Il chiaro riavvicinamento della chiesa spagnola ai suoi fedeli democratici e alla popolazione nel complesso fu dunque uno dei fattori cruciali sia per la modernizzazione della cultura politica del paese sia, più
specificamente, per una transizione pacifica alla democrazia. Al tempo
stesso, esso rifletteva una delle trasformazioni più significative verificatesi in Spagna nei tempi moderni: la scomparsa definitiva del manicheismo ideologico. L’anticlericalismo violento e il suo opposto, un odio
non meno violento per l’« ateismo» (sotto forma di socialismo, anarchia,
comunismo e anche liberalismo), avevano oppresso la nazione per molto tempo, ma ben prima del 1975 le posizioni politiche si erano avvicinate al pragmatismo, al possibilismo e al realismo, mentre la grande
maggioranza della società rifiutava la necessità o l’inevitabilità della
violenza nella vita politica (fanno chiaramente eccezione il movimento
terrorista basco e alcuni altri piccoli gruppi che continuavano a ispirarsi alla violenza e politica: si può affermare che questi fossero gli eredi
delle tradizioni locali di opposizione, quantunque le chiare affinità
con movimenti simili di altri paesi occidentali indichino che non possono essere considerati puramente residui di un passato violento).
Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza della fine storica di un universo politico un tempo lacerato, in cui i moderati erano
immancabilmente perdenti, le chiese venivano date alle fiamme e i
preti e gli ecclesiastici fucilati, e in cui, d’altra parte, i sindacati erano
fuorilegge, gli intellettuali liberali erano perseguitati, i politici democratici uccisi o incarcerati. Tuttavia la cultura civica, religiosa e ideologica nata con la transizione alla democrazia liberale nel 1976 era diversa da quella del passato, non solo in quanto rifiutava la violenza politica, ma anche in quanto attenuava la veemenza delle prese di posizione
pubbliche. Inoltre; il nuovo nemico (ben più insidioso) della Chiesa non
era più l’anticlericalismo bensì l’indifferenza, per non parlare di un
nuovo, imprevisto ostacolo al cattolicesimo: la diffusione, circoscritta ma
visibile e preoccupante, di nuove fedi e culti in terra spagnola.
19
Ibid., p. 43.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
113
Parlare di diversificazione religiosa della società spagnola può apparire eccessivo se si considera il numero di fedeli delle «nuove» religioni, tuttavia, che gli adepti siano molto pochi o al contrario relativamente
numerosi in talune zone del paese, la loro presenza attiva (in qualche
caso militante) ha fatto sì che a partire dalla metà degli anni ottanta la
popolazione spagnola si sia convinta dell’affermazione nel paese del pluralismo religioso20. In molti casi la proliferazione di nuove sette, le conversioni all’Islam (soprattutto in Andalusia: Siviglia, Granada, Cordoba),
la costruzione di templi di diverse confessioni, di moschee e anche di
stupa buddisti, la celebrazione e il recupero pubblico della cultura gloriosa
degli ebrei sefarditi come parte del retaggio spagnolo, nonché di altre
espressioni di fede non cattolica, sono considerate per lo più componenti
pittoresche del nuovo pluralismo, anziché parte integrante della vita
spagnola. Nondimeno, quando le nuove religioni si fanno strada in
misura rilevante in settori ben definiti della società, sorgono forme concrete di differenziazione religiosa. Così è stato con la diffusione dei testimoni di Geova in alcuni quartieri operai (abitati sovente da meridionali
immigrati in città come Barcellona), che ebbe inizio già negli anni cinquanta, o con la conversione di gruppi di gitani al revivalismo battesimale
alla fine degli anni ottanta.
Tuttavia, per la natura dei processi politici in Spagna dopo l’avvento della democrazia, più dell’incipiente affermazione del pluralismo
ha contato il livello considerevole di « aclassismo» del cattolicesimo contemporaneo nella politica di partito (si vedrà però in seguito che oggi la gerarchia, nei conflitti con il governo socialista, tende a schierarsi
su alcuni problemi con le forze più conservatrici, mentre è alquanto «di
sinistra» o radicale nei confronti di altri). La consistente «migrazione»
cattolica verso sinistra cui si è accennato si è rivelata un fenomeno irreversibile, che ha reso dunque il fattore religioso molto meno importante
nella scelta delle posizioni politiche. Quantunque il maggiore partito conservatore e principale forza di opposizione a partire dal 1982, il Partido
Popular, sia il naturale destinatario dei voti dei cattolici tradizionali,
in particolare in Castiglia, Galizia e altre zone del paese, al pari dei due
partiti maggioritari democratici cristiani in Catalogna e nelle Province
Basche, il cosiddetto elemento cristiano progressista che appoggia i socialisti e i comunisti continua a essere forte. Inoltre, molti considerano
naturale che i cattolici di tutte le classi sociali votino per la sinistra (moderata) che è rimasta al potere per più della metà del tempo a partire
20 Si vedano J. Estruch, Los protestantes esparioles, Barcelona, Nova Terra, 1967; R. Saladrigas,
Las confesiones no católicas en Esparia, Barcelona, Peninsula, 1971.
114
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
dall’affermazione della democrazia nel 1976. In effetti, il Partito socialista al governo dipende interamente per la maggioranza attuale dal
voto cattolico (o piuttosto, dal voto dei cattolici)21. Di conseguenza, il
recente sganciamento tra classe, religione e partito è forse più profondo in Spagna che in altri paesi europei, per le ragioni suddette. Nessun osservatore avrebbe forse potuto prevedere una simile piega degli eventi in un paese quale la Spagna, in cui fino a oggi la storia è
stata forgiata dalla religione come in pochi altri paesi.
4. Il nuovo orientamento della Chiesa (1978-92)
La partecipazione attiva dei cittadini cattolici alla transizione politica e, successivamente, al consolidamento della democrazia liberale in
Spagna ha prodotto in definitiva una situazione in cui la Chiesa ha dovuto adeguarsi a un ambiente affatto nuovo, un ambiente che era in
parte una sua creazione, seppure non un prodotto della sua volontà.
Come si dirà in seguito, l’adeguamento alla realtà di una democrazia
oggi stabile e a uno stato secolare si è dimostrato un processo doloroso;
paradossalmente, la Chiesa sembra oggi in grado di affrontarlo meno
di quanto in passato abbia saputo sganciarsi dal legame con il regime
franchista.
È forse comprensibile che i dirigenti ecclesiastici tendano ad attribuire le difficoltà in cui versano al «governo», cioè, a partire dal
1982, al governo socialista. Tuttavia intellettuali, sociologi, giornalisti e
naturalmente un settore dei cattolici laici hanno rammentato loro più
volte che «il colpevole» di queste difficoltà non può essere esclusivamente il governo, ma piuttosto la situazione più generale di secolarismo e
modernità in cui si trovano sia la Chiesa sia il paese22. In questo paragrafo saranno analizzati alcuni ambiti fondamentali di confronto in
cui sono evidenti le tensioni tra religione e modernità e tra Chiesa e governo. Ovviamente, se in Spagna il cattolicesimo non può più considerarsi sinonimo di religione, ancor meno il governo (sia pure quello socialista, che ricorre a una terminologia esplicitamente «modernizzatrice») può essere considerato il detentore del monopolio della secolarizzazione
e della modernità. Nondimeno, per il periodo esaminato sembra si possa
senz’altro giustificare il mantenimento di questi punti di riferimento.
21 Si veda R. Díaz Salazar, «Politica y religión en la Esparia contemporanea» in Revista Espaffola de Investigaciones Sociológicas, 52, ottobre-dicembre 1990, p. 75.
22 Si veda L. Gari.n e F. Valls, Dios y el césar in «El País», 2 dicembre 1990.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
115
4.1. L’istruzione e la secolarizzazione
La secolarizzazione dell’istruzione ha luogo per lo meno a due livelli: la diminuzione progressiva della popolazione scolastica negli istituti cattolici e il maggiore controllo pubblico di alcune attività svolte dai
centri scolastici religiosi.
Oggi il 20-25 per cento della popolazione scolastica (prima della scuola
superiore) frequenta scuole cattoliche, con una tendenza in lieve diminuzione; nel 1973 il 26 per cento degli studenti delle scuole secondarie frequentavano istituti confessionali, mentre dieci anni dopo il dato era
del 20,5 per cento23. Nel 1989 gli studenti che frequentavano scuole
superiori cattoliche non raggiungevano il 18 per cento del totale. Quantunque gli alti gradi ecclesiastici ripetano che il 90 per cento dei genitori desidera che i figli seguano lezioni di religione, è significativo che la
maggior parte dei genitori non mandi i figli nelle scuole confessionali
e, forse in misura ancora maggiore, che gli stessi studenti rinuncino alle
lezioni di religione in una fase successiva, quando possono farlo,
optando piuttosto per i corsi alternativi di etica.
Quando nel 1982 il Partito socialista sali al potere, introdusse quasi
subito alcuni provvedimenti volti a garantire la libertà accademica degli
insegnanti e ad accrescere la partecipazione dell’intera comunità scolastica alla gestione degli affari della scuola. Parimenti, manifestò l’intenzione di aumentare il proprio controllo sulle sovvenzioni pubbliche concesse alle scuole private (cattoliche), che erano andate crescendo costantemente nei dieci anni precedenti. Nel luglio del 1983 il governo rese
noto il suo progetto per una legge del diritto allo studio (Ley Orgkiica
del Derecho a la Educación, o Lode), che suscitò l’immediata opposizione sia della Chiesa sia dei presidi (o proprietari) delle scuole private.
In sostanza, il «fronte anti-Lode» che si costituì comprendeva la Cece
(Confederación Espariola de Centros de Enserianza), la Cere (Confederación Espariola de Religiosos de la Enserianza) e la Concapa (Confederación Católica de Padres de Alumnos). I leader del fronte dichiararono
che la proposta di legge minacciava la libertà della scuola, sostenendo
che il controllo pubblico delle sovvenzioni avrebbe comportato anche
un controllo amministrativo delle scuole. La Cece affermò che i presidi
avrebbero potuto disporre soltanto del 20 per cento di potere discrezionale per gestire le scuole, alla luce delle nuove regole sulla partecipazione di insegnanti e studenti agli organi scolastici previste dal progetto.
23 C. Labrador, «El ceto de la enseiianza en Espaiia» Catolicismo en Espailí, Madrid,
Instituto de Sociologia Aplicada, pp. 215-32.
116
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
La legge avrebbe inoltre introdotto una laicizzazione progressiva mediante provvedimenti a favore del pluralismo ideologico e una politicizzazione delle scuole che sarebbe sfociata inevitabilmente nell’inefficienza.
Fu quindi organizzata una mobilitazione totale contro il governo
e più specificamente contro il Ministero dell’Istruzione e della scienza.
Aleggiavano i fantasmi dei confronti ideologici passati tra le due
Spagne (ormai defunte), quando la repubblica aveva tentato di
promuovere il secolarismo, pur essendo evidente che ora il governo si
muoveva con tatto molto maggiore rispetto ai turbolenti anni trenta.
Per fortuna nessuno prese sul serio tale paragone. Tuttavia, a parte la
spettacolare mobilitazione dei fedeli durante e dopo la visita del Papa
in Spagna nel 1982, l’opposizione alla Lode va considerata la più
massiccia operazione pubblica organizzata di recente dalla Chiesa. E
interessante rilevare che quando ha nuovamente cercato di contrastare il Ministero dell’Istruzione, nel momento in cui il governo si accingeva a introdurre una nuova legge sull’istruzione o Logse (Ley de Ordenación General del Sistema Educativo), essa è riuscita a radunare
appena ottomila persone in una manifestazione pubblica a Madrid.
Questa volta il governo ha avuto il sostegno della Confederazione
spagnola dei datori di lavoro (Ceoe), che auspicava una riforma delle
scuole tecniche conforme alle nuove esigenze del mercato del lavoro
ed era pronta in cambio a fare alcune concessioni. Con la nuova legge
la religione diventava una materia facoltativa e gli studenti non erano
obbligati a scegliere un’alternativa se non comprendevano la religione nel
proprio curriculum. Nonostante l’inevitabile preoccupazione dei vescovi, i
cattolici in generale non sono sembrati sconvolti dal provvedimento; il
fronte anti-Lode si è dunque spaccato e i presidi più fondamentalisti
sono usciti dalla Cece per formare una propria organizzazione più
piccola nel momento in cui la prima ha dato apertamente il suo consenso qualificato o «critico» alla Logse. E dunque chiaro che in materia
di libertà religiosa, e soprattutto in campo scolastico, generalmente nella
Spagna odierna i cattolici sono più liberali e permissivi della gerarchia
ecclesiastica. Ciò vale in particolare per le giovani generazioni24.
Oggi soltanto il 30 per cento circa della popolazione è nettamente
contrario a mandare i figli in una scuola religiosa, mentre il 42 per cento è pronto a farlo senza esitazione, e si tratta di una percentuale più
alta rispetto a coloro che da studenti frequentarono scuole cattoliche.
L’aspirazione a mandare i figli in una scuola religiosa sembra maggiore
24 Si veda F. A. Orizo, Los nuevos valores de los esparìoles, Madrid, Fundación Santa
Maria, 1991.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
117
tra gli analfabeti, che, non avendo un’esperienza scolastica personale,
attribuiscono grande valore a tale istruzione. Invece le persone che
hanno frequentato o frequentano l’università esprimono dubbi sull’«efficienza» dell’istruzione religiosa e per lo più decidono di non iscrivere i figli in una scuola religiosa’. Molti di costoro hanno studiato in
scuole religiose, i più anziani durante la dittatura. Non sembra esserci
nessuna correlazione tra gli studi compiuti e la loro posizione odierna.
La variabile «educazione religiosa» mostra una correlazione positiva soltanto con il livello scolastico conseguito (per la popolazione più anziana), ma ciò non ha un grande rilievo dal momento che, a parte poche
eccezioni ben note, la maggior parte delle scuole di élite durante il periodo franchista era gestita dalla Chiesa.
Le tensioni tra autorità religiosa e civile non sono state altrettanto
forti a livello di istruzione superiore, pur non essendo affatto trascurabili. Paradossalmente, l’avvento della democrazia ha offerto maggiori
opportunità alla Chiesa in fatto di istruzione universitaria. Il controllo
statale sull’istruzione durante la dittatura era un presupposto politico
tanto che l’Opus Dei fondò la propria università privata a Navarra nel
1952 fra opposizioni e reticenze (per un certo periodo i titoli e diplomi
che rilasciava dovettero essere ratificati dall’Università di Saragozza).
Per non essere da meno, i gesuiti crearono diversi istituti per l’istruzione superiore, quali l’Università pontificia di Comillas (con l’Istituto
di ingegneria, Icai, di Madrid), l’Istituto chimico Sarrià e l’Esade, una
business school avanzata, entrambi a Barcellona, e l’Università di
Deusto a Bilbao. Per quanto riguarda l’Università pontificia di Salamanca, fondata nel 1219 (da non confondere con l’altrettanto venerabile e più celebre Università di Salamanca), data la natura dei suoi corsi
tradizionali (essenzialmente teologia e discipline classiche), rimase in
vita; l’accordo del 1979 tra la Santa Sede e la Spagna ha consentito alla
Chiesa di sviluppare ulteriormente i propri istituti scolastici, con una
forma di supervisione statale, a eccezione che per gli studi ecclesiastici
quali il diritto canonico o la teologia.
Dopo un ulteriore consolidamento della democrazia, dopo il fallito
colpo di Stato del 1981 e la vittoria socialista alle elezioni del 1982, apparve chiaro che la situazione ereditata dal passato e appena ricomposta
dai primi governi democratici non soddisfaceva nessuno. Inoltre, con il
1990 la Chiesa ha assunto un nuovo ruolo nell’ambito dell’istruzione
superiore e della ricerca, cioè ha rinunciato a ogni tentativo di influenza
o di partecipazione nelle università statali (com’era avvenuto notoria15
Centro de Investigaciones sobre la Realidad Social (Cires), Rapporto 1990.
118
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
mente con l’Opus Dei). Piuttosto la Chiesa ha progettato di rafforzare e creare università proprie e di competere con le altre su un piano di relativa parità. Nel 1991 la chiesa catalana ha inaugurato il primo istituto che rispecchia il nuovo clima, l’Università Ramon Llull di
Barcellona, raggruppando diverse scuole superiori cattoliche e fondandone alcune altre. La prima università nuova è stata anche la prima
università privata tra quelle riconosciute dal governo, anche se la
Chiesa continua a non volerla definire tale. Se la nuova strategia avrà
successo, è probabile che i 65.000 studenti che oggi frequentano le
lezioni delle università cattoliche aumenteranno nettamente. Frattanto la
concorrenza di università private laiche è ancora poca cosa. Nonostante
i tentativi di rilanciarle, il legame di accademici, intellettuali e ricercatori con l’università pubblica è ancora così forte da impedire una crescita
altrettanto rigogliosa del settore privato non cattolico.
4.2. La secolarizzazione delle attività caritatevoli
Come si è detto, la dittatura franchista aveva affidato alla Chiesa
un gran numero di mansioni nel campo dell’istruzione, del controllo ideologico, della carità pubblica e dell’assistenza sociale; certo, non tutte
queste mansioni erano state demandate alle istituzioni ecclesiastiche, e
in effetti le origini dirette del welfare state spagnolo vanno cercate nel
franchismo. Tuttavia, per ragioni tanto politiche quanto economiche, in
Spagna negli anni ottanta si è verificato un rapido sviluppo dei servizi
pubblici vecchi e nuovi; in tutto il paese e in tutte le municipalità
importanti sono sorti «centri di servizi sociali» che hanno rapidamente sostituito i vecchi «centri sociali» costituiti dalla Chiesa fin dagli
anni sessanta e gestiti da un’organizzazione cattolica, la Caritas. Il
consolidamento dei nuovi centri pubblici è proseguito con la creazione,
nel 1988, di un Ministero degli Affari sociali, sebbene anche i governi regionali o le minoranze nazionali abbiano contribuito a tale tendenza. A
partire dal 1982 la spesa per l’assistenza sociale è cresciuta molto più
rapidamente nel settore pubblico che in quello privato, superando altre
fonti di spesa. Pertanto, nel 1988 la Caritas ha destinato ai programmi
sociali 8.353 milioni di pesetas, una cifra pari a poco più del 9 per cento
del bilancio del nuovo Ministero degli Affari sociali. La percentuale risulta ancora minore se teniamo conto delle risorse per l’assistenza fornite dalle autorità locali e regionali (oggi è difficile calcolarne l’ammontare)26.
26 Si veda G. Rodriguez Cabrero, El gasto público en servicios sociales en Esparia, Madrid, Ministerio de Asuntos Sociales, 1990.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
119
Il governo socialista spagnolo non è contrario a promuovere l’assistenza privata e le istituzioni di carità, anche se spesso tende a privilegiare le società di natura secolare o aiuta grandi organizzazioni, come la Croce Rossa o il potente Istituto nazionale per i ciechi, che non sono particolarmente vicine alla Chiesa. Non mancano invece le tensioni
con la Caritas, tanto più che quest’ultima ha criticato apertamente le
«ingiustizie» provocate a suo giudizio dalle politiche economiche e sociali (liberali) del governo. La Caritas ha pubblicato nel 1990 un rapporto fortemente polemico, attribuendo al governo la responsabilità della presenza di otto milioni di poveri in Spagna. Inoltre si è mostrata critica rispetto alla legislazione che tenta di regolare l’afflusso di immigranti dai paesi poveri (Africa e America Latina), alla scarsità di istituti per gli anziani, alla politica sulla casa, ai provvedimenti per l’integrazione degli zingari e ai progetti pubblici per ridurre la disoccupazione giovanile. Di maggior rilievo è forse il fatto che la Caritas abbia
caldeggiato la concessione di un «salario sociale» ai disoccupati contro le
scelte del Ministero degli Affari sociali, che, sostenuto da una forte corrente socialista moderata, punta non sulla distribuzione di denaro ma
su uno sviluppo dei servizi. Tutto ciò ha avvicinato in generale la Caritas ai sindacati e all’ala sinistra del partito socialista, vale a dire alle forze che hanno promosso il 14 dicembre 1988 il grande sciopero generale
a favore di una «svolta di 180 gradi» della politica sociale del governo.
Questa prova di forza (che non ha dato i frutti sperati) è stata appoggiata dai cattolici progressisti, dalle comunidades de base cattoliche e dall’associazione Giustizia e Pace.
Nonostante tutto ciò, il tentativo dei cattolici di mobilitare l’opinione pubblica contro la politica del governo non ha prodotto risultati
realmente tangibili, salvo che nei casi locali di mobilitazione dei cittadini contro il traffico di droga. L’unico tentativo di organizzare una manifestazione di massa contro tale politica sotto l’egida della Chiesa ha avuto
luogo nel marzo 1990 a Madrid, quando seminaristi, suore e operatori
sociali si sono raccolti intorno al motto «1992: quinientos afios de mendicidad» («1992: cinquecento anni di povertà»: il 1992 è il cinquecentesimo
anniversario della scoperta dell’America e della vittoria finale contro i
Mori, nonché l’anno delle Olimpiadi di Barcellona e della Fiera mondiale di Siviglia, avvenimenti che ovviamente richiedono un massiccio
impegno finanziario del governo). Alla manifestazione hanno partecipato
soltanto tremila persone, con una scarsa presenza della popolazione indigente, che avrebbe dovuto occupare il centro della scena.
Il confronto è stato aspro sulla questione dei contributi dello Stato
alla Chiesa. Nel 1979 lo stato spagnolo e la Santa Sede avevano concor-
120
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
dato di sostituire il contributo finanziario tradizionale, prelevato dal bilancio dello Stato, con una tassa pagata dai cittadini. Questa scelta
non è eccezionale: già altri paesi, come l’Italia, l’hanno attuata. Oggi i
contribuenti possono decidere di versare lo 0,52 per cento delle tasse
pagate, sulla base della dichiarazione dei redditi, alla Chiesa o per «altri
fini sociali». La somma versata per «altri fini sociali» è gestita dal Ministero degli Affari sociali, che la usa per i progetti avviati in campo sociale, compresi quelli cattolici. Nel 1987 la Caritas ha chiesto rnillecinquecento milioni di pesetas per la realizzazione di alcuni progetti, raccogliendo però solo sessantatre milioni; tale cifra la collocava al ventesimo
posto nell’elenco delle organizzazioni sovvenzionate (la Croce Rossa,
ad esempio, ha ottenuto tre miliardi di pesetas). Ma grazie all’intervento dell’ornbudsman [commissario parlamentare], oggi la Caritas riceve trecento milioni di pesetas e si trova al secondo posto tra le istituzioni di carità sovvenzionate dallo Stato. Tuttavia la polemica non si è esaurita: ha
investito a quel punto il 50 per cento dei contribuenti che non manifestavano la loro preferenza circa «l’infame» 0,52 per cento, nonché i
tentativi del Ministero di lanciare una campagna per promuovere
l’opzione per la destinazione delle sovvenzioni a favore dei «fini sociali». In verità, pressoché tutte le campagne avviate dal Ministero degli Affari sociali incontrano l’opposizione della Chiesa; una delle ultime polemiche è stata quella sulla propaganda governativa per la contraccezione mediante l’uso dei preservativi tra i giovani, lanciata nell’autunno del 1990 per scongiurare la grave minaccia dovuta alla diffusione
dell’Aids e delle malattie veneree (la crescente irritazione dei vescovi
era legata indirettamente ai timori e all’opposizione della Chiesa nei
confronti della legge sull’aborto in Spagna, molto moderata e a detta
di alcuni poco convinta, approvata in precedenza dal governo socialista). Il Papa in persona ha invitato i farmacisti cattolici a rifiutare la vendita di qualsiasi contraccettivo. Tuttavia, almeno su questo punto l’episcopato spagnolo non era compatto e si sono levate voci di dissenso.
4.3. Il declino della pratica religiosa cattolica
Nonostante l’opinione della Conferenza episcopale, secondo la quale le tensioni nei rapporti tra Chiesa e governo nascono dalla «marea
montante» dell’ostilità socialista, si direbbe che le vere cause vadano
cercate altrove (la modernizzazione e più ancora la crescente secolarizzazione della società spagnola)27. Quantunque si levino appelli (gennaio
27
Si veda L. Galú.n e F. Valls, Dios y el césar cit.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
121
1991) alla «recristianizzazione» e alla «missione» che non individuano
più nel governo l’unico responsabile dei mali che affliggono la Chiesa,
prevale tuttora quella che possiamo definire l’imputazione sistematica di una politica governativa presunta nefasta, senza considerare le
cause reali della secolarizzazione.
Come è avvenuto negli altri paesi cattolici che sino a pochi anni fa
erano ritenuti i baluardi della fede, la religiosità in Spagna ha subito
grandi cambiamenti (si sono assai ridotte le numerosissime feste, usanze, riti etnici e devozioni locali, che, spesso per ragioni di Gemeinschaft
[comunità], continuano a essere assai radicati tra la popolazione spagnola)28, al punto che, praticamente per la prima volta nella storia nazionale, i concetti di assistenza e carità non sono necessariamente riferiti alla Chiesa. In molti casi gli studi sugli atteggiamenti degli assistenti sociali rivelano che in alcune città come Madrid solo un terzo di
essi si definisce cattolico, mentre un quarto si dichiara indifferente
alla religione o afferma di non essere credente29. L’ampliamento dell’assistenza statale ha dato lavoro a molti giovani come operatori sociali o dipendenti pubblici, attività che svolgono senza dover manifestare pubblicamente la loro fede.
Un altro fattore importante è la mancanza di fiducia che in molti casi
la Chiesa suscita ai fedeli. Mentre un’indagine condotta per conto
dell’ombudsman ha evidenziato un appoggio e una fiducia popolari per
la Caritas maggiori che per le varie istituzioni statali (compresi tribunali e
amministrazioni comunali), la Chiesa in sé non gode di siffatta posizione
privilegiata. Intanto, continua lentamente a crescere la fiducia nel
controllo pubblico dell’assistenza sociale e a diminuire la cosiddetta
«tassa religiosa»: se nel 1987 solo il 12 per cento dei contribuenti versava
lo 0,52 per cento all’assistenza sovvenzionata pubblicamente, mentre il
35 per cento sceglieva la Chiesa e il 50 era indeciso, due anni dopo gli indecisi sono scomparsi e quasi il 65 per cento dei contribuenti si è detto
favorevole alla gestione pubblica dei fondi destinati all’assistenza. È interessante osservare che le persone favorevoli a versare un contributo
alla Chiesa, il 35 per cento, costituiscono una percentuale molto vicina
al numero di spagnoli che si dichiarano cattolici praticanti. Naturalmente essere cattolici senza però nutrire fiducia nella Chiesa è per gli spagnoli un atteggiamento tradizionale e trova espressione già nelle opere degli
28 S. Giner, «Ya no vuelve el espatiol dondesdia» in Las Nuevas Letras, 3-4, febbraio 1986,
pp. 10-16.
29 Si veda J. J. Llovet e R. Usieto, Los trabajadores sociales: de la crisis de identidad a la
profesionalización, Madrid, Popular, 1990.
122
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
autori classici del passato. È caratteristica della cultura una forma prettamente spagnola di anticlericalismo cattolico (e anche una fonte inesauribile di ironia: spesso gli anarchici spagnoli, avvicinati dai missinonari protestanti, dichiaravano che il cattolicesimo era la «vera religione».
Difficilmente qualcuno contesta la maestà della Chiesa e ciò che essa
significa per l’identità e la storia della nazione nel suo complesso).
Il declino costante delle vocazioni al sacerdozio, ribadito da tutte le
statistiche, significa che ben presto la Spagna dovrà fare i conti con una
forte carenza di sacerdoti. Tra il 1969 e il 1984, nonostante la crescita
demografica, il numero di frati e altri componenti di ordini religiosi è
sceso da 35.000 a 29.162; quello delle suore è sceso da 90.000 circa a
80.000 e dei preti da 24.000 a 22.000 (nel 1982). I centri per novizi
si sono svuotati e hanno cominciato a chiudere. Tra il 1980 e il 1984
c’erano in Spagna più di 900 novizi e 750 novizie, mentre vent’anni
prima erano rispettivamente 2.900 e 6.600. A metà degli anni ottanta
l’età media dei frati era di 52 anni e delle suore di 58: l’invecchiamento di questo settore della popolazione è da allora proseguito. Nel
1966 i preti giovani, tra 25 e 34 anni, costituivano il 36 per cento deI
totale, ma erano quasi scomparsi nel 1984, rappresentando appena il 2
per cento. Probabilmente all’inizio del secolo XXI l’entità numerica
deI clero sarà la metà di quella del 1966 con una composizione per età
molto più anziana e con scarse possibilità di ricambio, a meno che non
intervengano cambiamenti drastici e imprevedibili30.
Tuttavia, la fedeltà alla Chiesa si direbbe più forte di quanto questi
dati paiano indicare. A metà degli armi ottanta, 1’86 per cento degli spagnoli si è detto cattolico e il 90 per cento dei neonati è stato battezzato.
Ma nel corso di quel decennio il numero di cattolici praticanti si è dimezzato e quello dei non praticanti è aumentato, sorprendentemente,
del 300 per cento, così come sono triplicati indifferenti e non credenti.
Nel 1990 i cattolici praticanti ammontano a un terzo circa della popolazione, i non praticanti alla metà e non credenti o indifferenti al 20 per
cento. Le altre religioni coinvolgono stabilmente l’un per cento della popolazione. Nonostante le conversioni, le nuove religioni e l’incipiente
pluralismo religioso, nel complesso la Spagna sembra riluttante a rinunciare all’identità religiosa tradizionale, se non nel senso che un numero
assai maggiore di persone si allontana dalla Chiesa, generalmente assumendo una posizione di indifferenza. Di solito, al processo non si accompagna ostilità nei riguardi della religione e del suo clero.
30 Si veda J. Perez Vilaririo e R. A. Schoenherr, «La religi6n organi7ada en Esparia» cit.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
123
5. La ridefinizione culturale del cattolicesimo e della religione
L’allontanamento di un numero crescente di persone dalla Chiesa e
dalla religione tradizionale non ha solo significato che l’indifferenza ha
sostituito l’ostilità aperta, ma anche che si è venuto a creare, su scala
piuttosto ampia, un modello tipicamente «anglicano» di fedeltà religiosa. Sempre più, oggi, ci si avvicina alla Chiesa esclusivamente per le
cerimonie più importanti e per i riti di passaggio, quali nozze, battesimi e funerali. In effetti si può percepire un certo ritorno alla pratica di
tali cerimonie tra i gruppi di non credenti o di non praticanti che se ne
erano allontanati durante il processo di disaffezione o di ostilità «civilizzata» nei confronti della Chiesa, emerso chiaramente nell’ultimo
decennio della dittatura e nel corso della transizione alla democrazia31. Tuttavia, l’attuale tendenza al «ritorno alla Chiesa» per le nozze e
per altri avvenimenti liturgici non deve nascondere la tendenza prevalente
a un’ulteriore erosione del sostegno popolare alla Chiesa e alla religione che essa rappresenta (non sembra che la legge sul divorzio del 1981,
antecedente alla vittoria socialista, abbia inciso in modo decisivo su tali
tendenze: in questo caso alla modernizzazione giuridica non ha fatto
seguito un afflusso ai tribunali per i divorzi né un aumento corrispondente dei matrimoni civili, con grande sorpresa generale).
La comparsa di un modello culturale « anglicano» incide anche sulla
sostanza della fede, cosicché molti cattolici affermano di credere in
Dio ma non nell’anima, né nel paradiso, nella vita ultraterrena o nel
peccato (si veda la tab. 1). Parimenti, non diversamente da quanto è
avvenuto in altri paesi europei, molta gente non crede più nel diavolo
e spesso nell’inferno (le recenti dichiarazioni del Papa sulla presenza
del Maligno sono condivise soltanto dal 33 per cento della popolazione
spagnola). Il dissenso circa i maggiori dogmi della religione cattolica
riguarda il 20-36 per cento dei cattolici, a seconda del dogma, ed è
massimo tra quelli non praticanti. La maggioranza dei cattolici (55 per
cento) non ritiene che oggi la Chiesa offra le risposte necessarie ai problemi morali dell’epoca.
Generalmente l’atteggiamento nei confronti dei sacramenti è favorevole. Così nel 19901’82 per cento degli intervistati dichiarava di approvare il battesimo dei figli, mentre meno della metà pensava che fos31 Si veda C. Novo, EI 90% de los espanoles sacrificarla todo por la familia in «La Vanguardia»,
21 gennaio 1991, p. 31, rapporto sullo studio del Cires a proposito delle varie credenze.
124
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
Tabella 1. Alcune credenze degli spagnoli, dicembre 1990 (valori in percentuale).
Vita dopo la morte
Peccato
Diavolo
Paradiso
Inferno
Reincarnazione
Si
No
Non so
55
58
36
58
40
25
30
34
54
32
49
56
15
8
10
10
11
19
Fonte: Centro de investigaciones sobre la Realidad Social (Cires) in C. Novo, El 90% de los esparioks sacrificarla todo por la familia in «La Vanguaxdia», 21 gennaio 1991.
se un dovere morale. Il matrimonio e l’estrema unzione erano sacramenti
necessari per il 70 per cento. Quanto maggiore è il livello di istruzione,
tanto più è elevata la percentuale di coloro che considerano i sacramenti
convenzioni da seguire per ragioni di opportunità sociale. La catetoria più numerosa di persone che considerano il battesimo un rito inutile
è costituita da individui di istruzione superiore che però non hanno frequentato l’università. Per quanto riguarda l’istituto ecclesiastico, quasi
metà della popolazione spagnola ritiene che la Chiesa non sappia fornire risposte adeguate ai problemi del nostro tempo, così come a molte
questioni morali fondamentali, in particolare quelle relative alla famiglia e all’individuo. La maggioranza degli spagnoli rifiuta la Concezione del divorzio, dell’aborto e del controllo delle nascite espressa da
Giovanni Paolo II. Il dissenso è minore nel caso dell’aborto, sebbene
la metà degli intervistati si dica in disaccordo con il Papa. Si registra
invece un largo consenso alla difesa papale dei poveri; è interessante
che siano le persone prive di istruzione a dichiarare che l’attenzione del
Papa nei confronti dei poveri è sufficiente o perfino eccessiva32.
Tutti i dati sopra riportati sono in contrasto con quelli ricavati dieci
anni prima, nel 1981, sui valori morali in Europa, quando la Spagna era
ancora un paese con un indice di religiosità superiore alla media e mostrava un livello inferiore di permissività in fatto di condotta sessuale, divorzio e aborto. Solo il 27 per cento degli intervistati si era detto favorevole alla libertà totale di abortire33.
32 Cires, Rapporto 1990 cit.
Si vedano J. Stoetzel, Qué pensamos los europeos?, Madrid, Mapfre, 1983 e F. A. Orizo, Los
nuevos valores cit..
33
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
125
Nonostante queste tendenze, nel complesso sembra che la gente
continui a nutrire maggior fiducia nei preti che negli uomini politici e in
quelli impegnati in attività laiche34. Nondimeno, fra i cattolici si notano
forti discrepanze con la dottrina ufficiale della Chiesa sul piano dei costumi sessuali o familiari: il 60 per cento dei cattolici praticanti è contrario al divorzio e ai rapporti sessuali prematrimoniali, mentre solo il 30
dei non praticanti è della medesima opinione. Tuttavia, per quanto riguarda la realtà familiare, gli spagnoli continuano a considerare la famiglia l’unità suprema della loro fedeltà e devozione, in conformità con la
dottrina della Chiesa: alla fine del 1990 il 90 per cento ha dichiarato che
avrebbe «dato tutto» per la famiglia, vita compresa, anche a spese di altri
valori (patria, moralità, legge), ritenendola quindi di importanza capitale.
Quantunque la nozione di «familismo amorale» applicata in passato da
alcuni antropologi all’Italia meridionale e per estensione all’Europa mediterranea sia stata fortemente criticata, si ritiene che con le opportune
correzioni possa ancora essere utilizzata per interpretare alcuni aspetti
della situazione attuale. A ogni modo, i dati circa la fedeltà continua degli
spagnoli all’unità familiare non corrispondono ai cambiamenti radicali
occorsi di recente nella struttura delle famiglie spagnole né ai valori oggi
diffusi del femminismo, dell’individualismo né ad altre convinzioni in aperto contrasto con l’impegno personale nei riguardi della famiglia multigenerazionale ed estesa, tuttora benedetta dalla Chiesa.
La fede e le convinzioni religiose in Spagna sono diffuse, com’era da
attendersi, con diversa intensità nei diversi strati della società. La secolarizzazione è più forte tra le nuove generazioni. Anche l’accesso all’università, al pari dell’appartenenza agli strati inferiori del proletariato, spinge verso il secolarismo. Si riscontrano naturalmente alcune forme ricorrenti di comportamento religioso: le donne vanno regolarmente a messa la domenica con frequenza doppia degli uomini. La Chiesa stessa stima che il 30 per cento della popolazione vada a messa (il 31 per cento
se si contano coloro che seguono le funzioni per radio e televisione), un
dato che corrisponde a grandi linee al numero dei contributi fiscali volontari menzionati ed è relativamente maggiore alla percentuale di allievi
delle scuole cattoliche (quasi il 25 per cento). Parimenti, in Catalogna il
34 per cento degli studenti segue i corsi di religione. Non è detto che
queste percentuali omogenee rappresentino individui delle stesse
famiglie o gruppi (dato che provengono da fonti diverse), tuttavia non
sembra assurdo ipotizzare che nel 1990 circa un terzo della popolazione
spagnola avesse un legame forte e manifesto con la Chiesa sia in termini
34
Si veda C. Novo, «El 90% de los espatioles» cit.
126
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
di condotta esteriore sia di convinzioni. È troppo presto per stabilire se
questo terzo resisterà a ulteriori erosioni o magari riconquisterà parte del
terreno perduto35; si può affermare, con le dovute cautele, che la tendenza a un’ulteriore secolarizzazione non si è ancora arrestata.
In Spagna come in altri paesi europei (con alcune note eccezioni, ad
esempio il metodismo in Inghilterra nel primo periodo industriale) i processi di secolarizzazione e di industrializzazione sono proceduti più o
meno di pari passo, e il processo di industrializzazione non si è ancora
concluso. La pratica religiosa è più presente nel settore agricolo e nel
settore dei servizi (38 per cento) che in quello industriale (24 per cento). Nei primi anni settanta alcuni sociologi della religione osservarono la persistenza del modello tradizionale, un Nord più cattolico del
Sud e la parte orientale dell’Andalusia meno legata alla Chiesa di quella
occidentale. Gli studi recenti non hanno confermato tale analisi, se
non forse per quanto riguarda la presenza al rito della messa. Ad esempio, le percentuali più elevate di fede in Dio si riscontrano proprio
in Andalusia, insieme con le regioni confinanti della Murcia e dell’Estremadura36 (inoltre, le indagini svolte allora e oggi hanno ignorato la
pratica radicata delle manifestazioni religiose che si esprimono nelle feste popolari, nei pellegrinaggi e nelle cerimonie pubbliche inestricabilmente legate alla religione che si svolgono in tutta la Spagna. Anche in tal
caso l’enorme ricchezza del folclore religioso del paese sembra resistere
in misura considerevole agli attacchi della modernizzazione e della secolarizzazione). Tuttavia, diversamente da quanto avviene in Europa, nella
Spagna meridionale la pratica religiosa è maggiore di 2-7 punti percentuali nelle città che nelle campagne. I contadini senza terra dell’Andalusia (che in passato abbracciarono l’anarchia) hanno tuttora livelli di
pratica religiosa inferiori a quelli prevalenti nei centri agricoli più
grandi della regione, nei quali essere cattolici praticanti conferisce tuttora un certo livello di considerazione ai ceti medi. I loro pari delle zone industriali e delle città moderne mostrandosi fedeli alla Chiesa non
godono di altrettanta considerazione sociale.
In termini di occupazione e di dasse, sulla base dei dati del 1984
del Cis (Centro de Investigaciones Sociológicas), si direbbe che quanto
maggiore è inveii() di istruzione tanto più è diffusa una posizione critica nei confronti delle dottrine della Chiesa (il 60 per cento delle perso35 Si vedano E. Garcia Diaz e M. de Santiago (a cura di), Armarlo de la Iglesia en
España, 1990, Mósotles, Gralicas Arias Montano, 1990; S. Benet et al., Alguns trets del
cristianisme a Catalunya, Barcelona, Fundaci6 Cidob, 1990.
36 Cires, Rapporto 1990 cit.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
127
ne con titoli superiori è «molto critico»). Gli impiegati, i cuadros medios e
gli operai sono quasi altrettanto critici (58 per cento). I più vicini al cattolicesimo sono i contadini (29 per cento), mentre datori di lavoro e
dirigenti occupano una posizione intermedia (45 per cento). L’indagine del 1984 ha evidenziato che il 62 per cento dei braccianti, piccoli
imprenditori e artigiani credeva in Dio come creatore dell’universo, più
degli impiegati, dei ceti medi e degli operai (50 per cento). Anche in
questo caso datori di lavoro e dirigenti occupavano una posizione intermedia (54 per cento). I dati dimostrano che non è facile provare la correlazione tra appartenenza alle classi elevate e maggiore intensità della
pratica religiosa. Per spiegarla è necessario quindi distinguere tra ceti
medi vecchi e nuovi. I primi comprendono numerosi piccoli imprenditori, proprietari terrieri e artigiani con livelli inferiori di istruzione scolastica. Per quanto concerne le classi superiori, sembra che la condizione sociale imponga loro spesso di presenziare alle cerimonie religiose
pubbliche anche se, contraddittoriamente, l’istruzione superiore determina mancanza di fede. Vale infine la pena di sottolineare alcune sfumature: in una serie di gruppi occupazionali che mostrano percentuali simili
di scetticismo circa la creazione divina del mondo, gli operai erano
quelli meno propensi a dichiararlo francamente (16 per cento), mentre il 24 per cento si è detto dubbioso. Il dubbio è meno diffuso tra
impiegati e piccoli dirigenti (20 per cento), per i quali la percentuale di
quelli che non credono nella creazione divina è uguale a quella che si
riscontra tra alti dirigenti e imprenditori.
Alla fine degli anni ottanta la pratica religiosa tra i giovani (tra i 15 e i
29 anni) era considerevolmente minore rispetto a dieci anni prima37.
Questo dato, insieme con altri indicatori (quali il fatto che nel 1990 l’80
per cento si è detto favorevole ai rapporti sessuali prematrimoniali e all’uso dei contraccettivi) fa pensare ancora una volta a un indebolimento
futuro dell’influenza ecclesiastica sulla società spagnola (a meno che la
dottrina e la politica della Chiesa non cambino). Sembra che stiano venendo meno anche la tradizionale religiosità delle donne e la loro partecipazione alle attività religiose e caritatevoli della Chiesa. Se scomparirà
la netta differenziazione tra i sessi, continuerà a crescere la mancanza
di fede e si allargherà il divario con le dottrine morali della Chiesa (sempre fra i giovani); ben presto in tal caso si potrà parlare di una totale
ridefinizione culturale del cattolicesimo nella società spagnola. Nell’arco di dieci anni sia il ruolo culturale sia quello politico ed economico
37 Si veda E. Garcia Diaz e M. de Santiago (a cura di), Anuario de la Iglesia cit., pp.
502-9.
128
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
della Chiesa, che già hanno conosciuto cambiamenti drastici, ne saranno
radicalmente trasformati. È poco probabile che i governi futuri (magari
conservatori) siano in grado di intervenire per arrestare tale processo.
Concludiamo il paragrafo con altre indicazioni circa le tendenze che
conducono in questa direzione e che riguardano essenzialmente le coorti
giovani (si veda la tab. 2).
È opportuno un commento circa il piccolo incremento del numero di giovani che hanno scelto religioni diverse da quella cattolica.
Non vi è alcuna prova che i seguaci di altre religioni abbiano tassi
superiori di natalità. A parte i testimoni di Geova, i protestanti non
hanno fatto grandi progressi sul piano del proselitismo (la Federazione
delle chiese evangeliche spagnole rappresenta più o meno 250.000 persone, e gran parte delle comunità ad essa affiliate sono di vecchia data
e note a tutti). È stata ben maggiore la proliferazione, tra i giovani, di
«sette» (in un’accezione sociologicamente poco corretta del termine, usato popolarmente in Spagna in riferimento ad alcuni nuovi gruppi religiosi e semireligiosi), giunte nel paese per Io più dagli Stati Uniti a
partire dai primi anni settanta e che da allora si sono moltiplicate. Alcune sono legate ai servizi di recupero dei tossicodipendenti; nei casi
di provata serietà ricevono un appoggio dagli enti pubblici come comunità terapeutiche38. Altre sette invece sono considerate, come in altri
paesi, una seria minaccia per il benessere psichico degli adepti e per la
stabilità delle loro famiglie. Le autorità della Catalogna sono state le più
attive nella persecuzione delle «sette perniciose» (tra le quali è comparsa la stessa Opus Dei), ma anche le Cortes si sono mostrate seriamente
preoccupate dal loro progresso, al punto che nel 1989 è stata costituita
una commissione parlamentare d’inchiesta. Tuttavia la maggior parte
dei rapporti e degli studi su queste sette sono condotti dalla stampa,
spesso senza il necessario approfondimento critico39.
Se l’abbandono progressivo della fede e della pratica cattoliche ha favorito un incremento considerevole della secolarizzazione, si è avuto
anche un maggior numero di conversioni alle sette. Inoltre, in Spagna
c’è stato un aumento assai notevole di attenzione alla magia, all’astrologia, alla letteratura esoterica e alla parapsicologia, per ogni sorta di credenze superstiziose, per la presenza degli Ufo e degli esseri extraterrestri con i loro presunti medium, che non ha nulla da invidiare a quanto
38 Si veda D. Comas, El tratamiento de la drogodependencia y las comunidades terapéuticas, Madrid, Ministerio de Sanidad y Consumo, 1988.
39 Si vedano P. Salarrullana, Las sectas, Madrid, Ternas de Hoy, 1990; P.
Rodriguez, El poder de las sectas, Barcelona, Ediciones B, 1989.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
129
Tabella 2. Pratica religiosa tra i 15 e i 29 anni (valori in percentuale).
1977
Uomini
Cattolici praticanti
Non praticanti
Indifferenti
Non credenti
Altre religioni
Nessuna risposta
49,5
33,0
10,3
5,1
0,3
2,0
1988
Donne
76,0
16,9
3,9
1,9
0,4
0,9
Uomini
20,7
51,8
13,6
10,9
1,1
1,9
Donne
31,5
53,2
7,6
5,3
1,2
1,3
Fonti: Centro de Investigaciones Sociol6gicas (Cis), Rapporto 1.135, giugno 1977; Encuesta
Nacional de Juventucl, Instituto de Ie Juventud, 1988.
avvenuto in altri paesi. Altra questione è se si possano stabilire correlazioni credibili tra il declino della religione tradizionale e l’affermazione di tali fenomeni multiformi e spesso non connessi tra loro. Si può
affermare, con le dovute cautele, che in alcuni casi specifici essi colmano il vuoto lasciato dal riflusso costante della cultura religiosa
tradizionale del paese, ma ciò vale anche per altre pratiche semireligiose,
dal nazionalismo etnico (molto radicato in alcune regioni) alle attività
sportive, insieme con lo sviluppo di una religione civile e di una religiosità pubblica più intonate alla cultura politica di una democrazia
liberale matura40. Sfortunatamente mancano ancora studi che analizzino nel complesso le diverse sfere dell’esperienza e dell’espressione
religiose e che le colleghino tra di loro e con gli altri piani della vita
sociale in Spagna.
Conclusioni
L’analisi fatta dimostra che nella storia spagnola recente il rapporto
tra religione e modernizzazione è da leggere in termini politici. Né la
politica né le lotte per l’egemonia sociale, culturale o economica assorbono l’intera dimensione religiosa, qui o altrove, ma è evidente che, date le condizioni specifiche della Spagna, la politica della religione o, viceversa, il ruolo della religione nel processo politico, ha avuto un peso
determinante nell’intero processo di modernizzazione. Come si vedrà,
le ultime fasi del processo di secolarizzazione non hanno determinato il
successo definitivo di una religione «privata» o «non regolata», seb40
Si veda S. Giner, «Religión Civil» in Claves, 11, 1991, pp. 15-21.
130
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
bene entrambe queste forme tipicamente moderne della vita religiosa abbiano fatto progressi sensibili. Non si sono ancora verificate né
una definitiva privatizzazione della religione né una reale limitazione
delle istituzioni religiose nella sfera della società civile, benché vi siano indicazioni di un futuro sviluppo in questo senso in Spagna.
Nell’analisi precedente si è visto come la Chiesa sia stata ispirata e
abbia partecipato a una vera e propria «crociata» contro le forze della
secolarizzazione, non soltanto durante la guerra civile del 1936-39, ma
anche nei decenni seguenti, riuscendo a imporre la «religione totale»
con quello che è stato chiamato «nazional-cattolicesimo»43. Il tentativo della Chiesa di controllare tutto (la morale, lo Stato, l’ideologia, l’istruzione, la nazione, l’ordine economico) fu infine contrastato dalle tendenze del paese alla modernizzazione (già prima del Concilio vaticano II indetto da Giovanni XXIII nel 1958), nonché dalle influenze esterne del crescente secolarismo sul mondo spagnolo che essa aveva cercato di inglobare. Uno dei risultati di questo processo fu la scoperta,
da parte di alcuni settori del clero e dei fedeli, dei valori della democrazia, di una concezione più moderna della giustizia sociale e di alcune ideologie, per lo più socialiste. Per queste ragioni nel presente saggio si è avanzata l’ipotesi che l’identificazione del cattolicesimo tradizionale e ufficiale con la dittatura, insieme con l’identificazione dei
dissidenti cattolici con forme radicali di democrazia o con il socialismo in generale42, abbia avuto un peso decisivo, escludendo l’affermazione di un movimento cristiano democratico significativo. La presenza di forti partiti democratici cristiani in Catalogna e nelle Province
Basche (che hanno detenuto ininterrottamente il potere dall’avvento
della democrazia) sembra in effetti confermare quest’ipotesi, poiché in
entrambe le regioni il «nazionalcattolicesimo » spagnolo era un corpo
sostanzialmente estraneo, mentre in entrambe durante l’intera dittatura
fu presente un movimento clandestino conservatore ma pienamente
democratico.
I progressi della secolarizzazione (e della modernizzazione) sono stati in Spagna tanto rapidi e intensi negli ultimi decenni, da dare l’impressione, nonostante tutte le precauzioni prese, che ciò che si è detto
confermi in qualche modo la tesi «volgare» secondo cui la modernizzazione determina in modo più o meno lineare una secolarizzazione sempre più netta: nulla di più remoto da quanto qui si intende sostenere. Le
osservazioni fatte consentono però di trarre una conclusione certa:
Si veda R. Dfaz Salazar, El capital simbólico cit., pp. 41-50.
Si veda R. Mate, Modernidad, religi6n, raz6n. Escritos desde la democracia, Barcelona,
Anthropos, 1986.
41
42
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
131
durante il periodo di intensa modernizzazione (in particolare dopo il
1959), il riflusso della religione tradizionale, la diminuzione delle risorse umane della Chiesa e naturalmente la fine della sua partecipazione
ufficiale alla vita dello Stato e delle istituzioni statali, sono stati davvero clamorosi. Questo fenomeno fa parte del processo di avvicinamento della Spagna al resto dell’Europa occidentale, ma, come in tutti i
processi di convergenza, gli sviluppi sono disuguali e mai definitivi. Inoltre, l’Europa non è una società omogenea; sebbene medie, percentuali e altri indicatori formali siano simili o identici in vari paesi, spesso le società conservano una loro peculiarità qualitativa.
A conclusione dell’ultimo paragrafo si è accennato a una ridefinizione molto probabile del ruolo della Chiesa nella vita spagnola. Attualmente questa ridefinizione, con il cambiamento corrispondente nella
struttura sociale del paese, non ha ancora avuto luogo sino in fondo.
Dopo un periodo di aggiornamento, di adeguamento alla democrazia e anche un intervento decisivo per delegittimare la dittatura, la gerarchia ecclesiastica ha cambiato rotta e ha aperto le ostilità contro il governo socialista, come è stato alla fine del 1990. Se questo antagonismo non verrà meno, la nuova posizione della Chiesa determinerà un periodo di seri
conflitti politici tra autorità politiche ed ecclesiastiche. Così, ben prima
che la Conferenza episcopale accusasse direttamente il governo, in un
documento pubblicato nel novembre 1990, del deprecabile stato morale della nazione, definita ora quale vittima di ogni sorta di vizi e
peccati e preda di ogni genere di corruzione, alcuni osservatori avevano
già rilevato che il partito socialista era considerato dalla gerarchia ecclesiastica un pericoloso «agente secolarizzatore »43. Alla vigilia del
conflitto altri critici parlavano addirittura di una nuova ondata di «deprivatizzazione» nella Chiesa, considerata adesso la maggiore forza
delegittimante del «progetto » (cioè del programma politico) socialista
avviato dal governo e dal partito socialista44.
Un tono aspro nei confronti del governo prevale oggi tra le autorità
ecclesiastiche della Conferenza episcopale, che contrasta con lo stile molto più moderato e amichevole caratteristico degli anni in cui le autorità
cattoliche si convertirono alla democrazia. Ciò che preoccupa i democratici (sia cattolici sia non cattolici) è il fatto che il presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Suquía, e i suoi colleghi sembrano identificare sistematicamente le tendenze alla modernizzazione (con i vizi che
Si veda R. Díaz Salazar, El capita’ simbólico cit., pp. 89-100.
Si veda J. M. Mardones, «La desprivatizacién del catolicismo en los atios ochenta»
in Sistema, 97, 1990, pp. 123-36.
43
44
132
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
l’accompagnano) con la condotta e i progetti del governo. Ma sia
l’attuale presidente della Federazione protestante sia il suo predecessore hanno osservato (6 gennaio 1991) che la più parte dei dirigenti
politici del partito socialista ha studiato in scuole della Chiesa ed è
cresciuta all’interno di famiglie cattoliche, concludendo perciò che il
documento della Conferenza episcopale è essenzialmente «revanscista» e fa dubitare della sincerità delle dichiarazioni di fedeltà ai valori
moderni e alla democrazia fatte dalla gerarchia. I123 settembre 1991,
prima di un incontro con i vescovi spagnoli, Papa Giovanni Paolo II
ha espresso con gravità la sua profonda preoccupazione per la condizione morale della nazione, e in modo particolare per il «neopaganesimo», che probabilmente ora trova diffusione in molti settori sociali. In precedenza il Vaticano aveva annunciato la beatificazione di
José Maria Escrivà, fondatore dell’Opus Dei. Comprensibilmente
sono numerosi coloro che hanno individuato una sottile connessione tra i due avvenimenti.
È inutile dire che i cattolici liberali, progressisti e democratici sono
nettamente contrari alla svolta decisa con la presa di posizione della Conferenza45, e che numerosi fra gli osservatori che rifiutano energicamente di confondere le politiche decise da un partito politico (o dal governo) con lo stato morale generale della società sono intellettuali cattolici. In realtà, tutti i tentativi dei vescovi e in generale della gerarchia
cattolica di convincere l’opinione pubblica che il governo è responsabile
del deplorevole stato morale della nazione, o addirittura che la Chiesa è
vittima di una persecuzione, definita «persecución solapada» [persecuzione velata], suscitano la reazione dei cattolici progressisti e liberali, per i quali l’inatteso atteggiamento ostile della Chiesa deriva dai timori di esclusione sociale: dopo aver accettato definitivamente l’ordine
democratico liberale, ha avvertito in tutta la loro forza i sintomi di rigetto sociale di un corpo avvezzo da lungo tempo alla protezione e ai privilegi conferiti dai passati governi dittatoriali di destra. La perdita dei
privilegi ha causato irritazione e la ricerca di capri espiatori46. Durante
una conferenza di teologi e di intellettuali cattolici svoltasi nel febbraio
del 1991, questi timori sono venuti apertamente alla luce e hanno trovato conferma nelle parole del teologo gesuita francese Paul Valadier. A
suo giudizio, «l’atteggiamento autoritario della gerarchia ecclesiastica contributiva ad allontanare ulteriormente i laici dalla gerarchia», in quanto quest’ultima incontra tuttora difficoltà a «vivere in una società demo45 Si vedano i numeri speciali di El Gervo, El catolicismo en Espafia. Ayer, boy y
manona, giugno 1990 e Qué temen los obispos?, novembre 1990.
46 Si veda A. Manent, Iglesia perseguila? in «La Vanguardia», 22 gennaio 1991, p. 26.
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
133
cratica», pur non rappresentando più una minaccia per la democrazia
stessa. Il nocciolo del problema, a detta di Marciano Vidal, insegnante di
etica all’Università gesuita di Comillas, era un conflitto tra due mentalità
differenti: una favorevole al dialogo e alla razionalità come via per elaborare valori morali contemporanei, l’altra — quella delle autorità ecclesiastiche — essenzialmente «neoconfessionale e pessimista riguardo al mondo dell’uomo». Di conseguenza, essa «non accetta la modernità» sino in
fondo47.
Riassumendo, nonostante i seri tentativi delle autorità ecclesiastiche
di adeguarsi alla democrazia, la fine quasi improvvisa di una protezione
politica di enorme portata e l’esperienza concreta del pluralismo ideologico e della concorrenza del mercato hanno insinuato nel clero un’insicurezza che è sfociata nell’attuale situazione problematica («concorrenza del mercato» in particolare, in quanto oggi la Chiesa non si trova solo
in concorrenza con altre religioni e con l’indifferenza crescente, ma
anche con le tesi spesso autorevoli di una generazione influente di filosofi e scrittori di morale che sono scesi in campo nei dibattiti sulla morale pubblica)°. In questa nuova situazione, il clero ha assunto una posizione piuttosto complessa e a dir poco ambivalente. Così, da una parte la Chiesa, come si è visto, appoggia ufficialmente (essenzialmente attraverso la Caritas) politiche e programmi chiaramente più di sinistra di
quelle auspicate dai socialdemocratici moderati che amministrano la
cosa pubblica, dall’altra, adotta al contempo posizioni fortemente conservatrici, soprattutto per quanto concerne la famiglia e la moralità privata. Si è trovato un colpevole comodo e facilmente identificabile nel
partito e nel governo socialisti, che si vogliono laici e antireligiosi. Pur
non essendo chiaro perché debba esservi una contraddizione insanabile
tra le due posizioni, i fedeli (e gli elettori) colgono una specie di «schizofrenia» nell’adesione all’una e all’altra serie di valori. In ogni caso è
evidente il sostegno, appena velato, dato ai partiti conservatori all’opposizione. Il primo ministro Felipe Gonzges ha lamentato, in occasione
di un seminario internazionale sulla transizione della Spagna alla democrazia tenutosi a Mosca nel luglio 1991, che la chiesa spagnola non è
più politicamente neutrale, sebbene durante la transizione fosse stata
non solo imparziale, ma si fosse anche dichiarata a favore di un cambiamento politico pacifico in direzione democratica. Rispondendo a Gonzges, il cardinale Tarancón, ex presidente della Conferenza episcopale,
47 F. Valls, Intelectuales católicos, contra la conducta autoritaria de la jerarquía in
«EI Paia», 16 febbraio 1991.
48 Si veda V. Camps, Virtudes públicas, Madrid, Espasa Calpe, 1990.
134
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
ha concordato con il primo ministro sul ruolo della Chiesa durante
quell’evento storico, ma ha sottolineato che oggi i rapporti sono tesi.
Si direbbe che a un livello più profondo la chiesa cattolica spagnola
senta di continuare a svolgere un ruolo eccezionale e di far parte dell’anima della nazione in modo assolutamente diverso da ogni altra istituzione, donde la sua riluttanza ad accettare di essere considerata semplicemente una chiesa tra le altre. Ma se si osserva la realtà, si rileva
che essa non viene considerata tale dalle autorità civili e politiche.
Sia come sia, la concezione che la Chiesa ha di sé e del proprio posto
nella nazione sembra ignorare gli enormi cambiamenti culturali e morali
che hanno luogo in un paese che si è avviato sulla strada di quella che
possiamo chiamare «ipermodernità». Si è verificata inoltre una « deideologizzazione » molto rapida, per non dire vertiginosa, del paese e, dopo il 1982, una diminuzione della partecipazione politica dei cittadini49.
È cambiato completamente il panorama ideologico spagnolo: i vecchi ideali
anarchici, liberali, comunisti e socialisti sono scomparsi. Oggi le posizioni «alternative» all’ordine sociale prevalente vengono espresse da
altri e rappresentano una minaccia diversa per la vecchia visione egemonica del mondo. Ecologia, femminismo, diritti umani, movimento antinucleare, proliferazione di gruppi del «nuovo millennio» e l’aspirazione a forme di religione non regolate, spesso sincretiche ed «elastiche»,
fanno opera di proselitismo e sono in concorrenza (come in altri paesi
europei) non solo con le ideologie politiche legittime ma anche con la
Chiesa riconosciuta. Il cattolicesimo ha già operato qualche adeguamento
alle nuove tendenze, nel complesso però incerto e parziale. L’ambiente
culturale e politico del cattolicesimo è cambiato tanto da essere irridonoscibile, tuttavia, nonostante i tentativi fatti ad esempio da Giovanni
XXIII in Vaticano o da Pedro Arrupe, spagnolo basco, direttore generale dei gesuiti, in seguito riportato all’ordine da Giovanni Paolo II, il
cattolicesimo sembra non essere del tutto pronto ad adeguarvisi.
È troppo presto per prevedere quali saranno gli effetti del nuovo antagonismo ecclesiastico nei confronti dei numerosissimi cristiani che
fanno parte della Chiesa ma contestano decisamente l’accusa politica sui
mali della Spagna rivolta dalla gerarchia al partito governativo. In tale
situazione non è facile stabilire se la tendenza del clero (sia quello liberale
sia quello conservatore) ad assumere posizioni polemiche stia soltanto
49 J. Estefanía nel suo articolo El país que queremos in «El Pais», 28 dicembre
1990, si esprime in modo più drastico: a suo giudizio, nel corso degli ultimi quindici
anni «si è andati a una velocità vertiginosa verso la deideologizzazione assoluta e la
mancanza di partecipazione da parte dei cittadini».
Sviluppo politico e Chiesa in Spagna
135
a indicare il sopravvivere (a livello organizzativo?) di precedenti posizioni «intransigenti», ipotizzando così che la «modernità» compiuta
comporti una certa «flessibilità» della fede e del comportamento nei
riguardi dei credenti e anche dei non credenti. Potrebbe invece trattarsi di un sintomo di tale «modernità», nella misura in cui questa situazione ambigua determina forme specifiche di attivismo e di militanza. In questo secondo caso, la nuova combattività del clero, più
che un sopravvivere del vecchio stile della «chiesa militante», sarebbe
parte integrante della tendenza che rende oggi più controversa la religione e più militante il clero nella sua attività secolare e spirituale in
vari paesi occidentali, il che metterebbe in dubbio l’ipotesi acritica
della «flessibilità». Se le cose stanno così, c’è un argomento in più a
favore della tesi che oggi il reingresso della Spagna al centro della
cultura occidentale è un fatto compiuto.
Nell’analisi fatta si sono considerate le nozioni di modernità e di modernizzazione (e altre ad esse legate, come la secolarizzazione) in una
certa misura in modo non problematico, al fine di agevolare la discussione: per un’analisi degli aspetti quantitativi si rimanda all’Appendice
che sintetizza i risultati di alcune recenti indagini empiriche al riguardo. Pur nella consapevolezza delle difficoltà di teorizzare la modernità e di concettualizzarne le componenti, ci si è qui proposti di cogliere, in estrema sintesi, gli aspetti salienti di una situazione complessa. Si
spera tuttavia di non aver trascurato in misura eccessiva la complessità del
rapporto tra due gruppi di problemi («religione» e «modernità») che, lungi dall’escludersi l’un l’altro, si sovrappongono a vari livelli. Come si è
testé detto, il filo che ha guidato l’analisi è stato per le ragioni esposte
essenzialmente politico; ciò non significa però che in Spagna i processi e i conflitti determinati dalla modernizzazione e dalla religione contemporanea siano connessi all’affermazione di una visione umanistica, di una civiltà tecnologica, di una cultura vincolata ai mass media e di
una concezione nuova della salute, del lavoro e del tempo libero in misura minore che in altri paesi. Anche in Spagna i problemi in gioco sono
chiaramente questi, sebbene qui siano stati radicati nella sfera del
potere e dell’autorità forse più profondamente e per un periodo più
lungo che in altri paesi europei.
136
Salvador Giner e Sebastian Sarasa
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Società e atteggiamenti religiosi in Francia
Danièle Hervieu-Léger
I. Il paesaggio religioso francese: considerazioni storiche e demografiche
1. Il paradosso di una doppia filiazione
La tentazione di spiegare tutto il presente con il passato è un rischio che Marc Bloch ha sottolineato con forza. Tuttavia, non c’è
quadro del presente che non richieda un ritorno a questo passato.
Per tentare di individuare le tendenze caratteristiche della situazione
religiosa della Francia di oggi, sarebbe indispensabile esporre quale
sia stata la traiettoria storica dei rapporti tra religione e modernità in
questo paese. Se qui è impossibile descrivere in dettaglio quale sia
stata questa storia, occorre almeno sottolineare il paradosso sotto il
cui segno essa si è scritta. Questo paradosso è quello di una doppia
filiazione: la Francia è — si dice — la «figlia maggiore della Chiesa»;
ma i francesi sono tutti, secondo l’espressione di Emile Poulat, «figli
della separazione». Prima di introdurre qualsiasi altra considerazione
sulle recenti evoluzioni, è necessario ritornare un istante a questa
eredità doppia e contraddittoria.
Quando Giovanni Paolo II venne in Francia per la prima volta, nel
1980, egli apostrofò i cattolici francesi con un vigore che colpì l’opinione pubblica: «Francia — egli chiese — che cosa hai fatto del tuo
battesimo?». La formulazione della domanda è rivelatrice: rivolgersi ai
francesi cattolici, era, per il Papa, rivolgersi alla Francia stessa. Come se
questo «popolo cattolico», la cuí fedeltà fu così richiamata all’ordine,
fosse tutta la Francia; come se la Francia stessa si definisse attraverso la
propria identità cattolica. Alcuni spiriti laici, preoccupati, sottolinearono
ciò che questa assimilazione aveva di ingiustificato. Ma l’opinione pubblica nel suo complesso, anche se ben poco interessata dall’ammonizione pontificia, accolse senza particolare difficoltà questa identificazione
della Francia cattolica con la Francia tout court. Essa la richiamava all’evidenza di un’impregnazione culturale di cui continuano a testimoniare il paesaggio, il calendario, l’architettura, la letteratura, i nomi dei
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Danièle Hervieu-Léger
villaggi e così via. La Francia di oggi porta molteplici tracce di un’epoca in cui la chiesa cattolica era l’istituzione totale della società. Fino alla rivoluzione francese, infatti, il cattolicesimo romano era la religione del re e del regno. La Chiesa aveva a carico Io stato civile e
controllava l’insegnamento e l’assistenza pubblica. Le sue leggi, nel
campo della morale, della disciplina culturale (l’obbligo di confessarsi e di comunicarsi a Pasqua, in particolare) e della dottrina erano
leggi di Stato. Il clero era il primo ordine della nazione e svolgeva un
ruolo diretto nell’esercizio del potere pubblico.
Dopo lo sconvolgimento rivoluzionario e la sua riforma religiosa radicale, la pacificazione concordataria realizzata da Bonaparte nel 1802
riconobbe il cattolicesimo come «religione della grande maggioranza dei
cittadini francesi». Alla Restaurazione, la Carta del 1814 fece nuovamente della religione romana la «religione di Stato», e fu la monarchia di Luglio, nel 1830, a ritornare, nel suo articolo 6, al concetto più
limitato di «religione professata dalla maggioranza dei francesi». Questa
situazione si mantenne fino alla legge di separazione di Chiesa e Stato
votata sotto la Terza Repubblica, nel 1905.
Se non resta molto, dopo tale data, di questo ordine cattolico secolare, esso rimane, come la monarchia stessa, un riferimento nell’universo
simbolico di cui l’identità collettiva dei francesi si alimenta. Ciò
non è certamente estraneo alla costanza con la quale i francesi, nonostante il loro debole livello di coinvolgimento religioso effettivo,
continuano a identificarsi come cattolici. I sondaggi mostrano che alla
domanda sulla loro eventuale appartenenza confessionale, I’82 per
cento risponde di essere cattolico. E questa cifra presenta, nel corso
del tempo, una notevole stabilità.
Eppure, non è esagerato dire che i francesi sono, nello stesso tempo, figli
della separazione. Questa seconda filiazione si è definita, storicamente, in
opposizione radicale alla prima. Al contrario di altri paesi occidentali in
cui la separazione di politica e religione si è realizzata lasciando spazio a
una forma di cooperazione che Tocqueville giudicava eminentemente
favorevole al consolidamento della democrazia, questa separazione ha
assunto, in Francia, l’aspetto di uno scontro frontale tra il cattolicesimo
e l’ordine civile e politico nato dalla rivoluzione francese. Per più di un
secolo l’affermazione della repubblica, nel contesto francese, non si è
potuta concepire se non in relazione con l’avvilimento della Chiesa:
questo fu il senso, ad esempio, della politica scolastica della Terza Repubblica. In senso inverso, i diversi episodi «restauratori» che hanno
contrassegnato il secolo XIX implicavano, in reazione, la riaffermazione del privilegio cattolico nella vita pubblica. Punto di arrivo della poli-
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
157
tica di laicizzazione della Terza Repubblica, il voto della legge del
1905 segnò, secondo lo storico Michel Winock, «la vittoria di una
metà della Francia sull’altra»1. In realtà, le condizioni movimentate
della sua attuazione cristallizzarono, in una forma acuta, il conflitto
che opponeva, a partire dalla rivoluzione, due tradizioni irreconciliabili: una tradizione repubblicana, laica, democratica, impregnata degli
ideali dell’Illuminismo e dello spirito del positivismo scientifico, e una
tradizione di ancien régime, antidemocratica, antiliberale e cattolica.
Tuttavia, la legge del 1905 non escludeva il cattolicesimo dalla vita
pubblica, e nemmeno le altre religioni: essa supponeva che ognuna vi
trovasse il proprio posto in accordo con le regole del diritto comune,
senza statuto speciale e senza privilegio particolare. Lo Stato non ammette alcuna interferenza dell’autorità ecclesiastica negli spazi che sono
sotto la propria responsabilità, che si tratti, ad esempio, dell’insegnamento religioso durante le ore scolastiche o dell’amministrazione del sacramento del matrimonio (che infatti non può precedere, in alcun caso, ai sensi della legge, il matrimonio civile). Di rimando, lo Stato
deve, dal canto suo, salvaguardare la libertà di esercizio dei culti e proteggerli contro i fattori di disturbo. Proprietario della maggior parte
degli edifici religiosi, esso li mette a disposizione delle associazioni
cultuali costituite dai fedeli.
In questo ordine giuridico di razionalizzazione degli spazi rispettivi del civile, del politico e del religioso, «la laicità — sempre secondo
Michel Winock — non era solo una guerra, era una sfida, quella della
società moderna al cattolicesimo. Ora è incontestabile, agli occhi dello
storico, che questa sfida è stata largamente accolta»2. In questo senso,
la separazione fu anche il perno di un cambiamento profondo della
mentalità, che richiese tempo: si può datare a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il pieno e intero riconoscimento, da parte del
cattolicesimo francese, dei principi moderni della società politica, al
tempo stesso in cui la laicità veniva inserita, praticamente senza discussione, nella costituzione del 1946, poi in quella del 19583. La laicità
fa ormai parte del patrimonio comune dei francesi, cattolici o no, al di
là delle cicatrici, ancora sensibili, di quella che Emile Poulat chiama
«la guerra delle due France».
M. Winock, «Les combats de la laicité» in L’Histoire, 128, dicembre 1989.
Ibid.
3 Sulla storia della laicità in Francia, si vedano E. Poulat, Liberté, laîcité. La guerre des
deux Frane et le principe de la moclernité, Paris, Cujas, 1987; J. Baubérot, La laîcité, quel
héritage? De 1789 à nos jours, Genève, Labor et Fides, 1990.
1
2
158
Danièle Hervieu-Léger
Oggi — egli osserva — non è più la religione che è. pubblica, ma la libertà di
coscienza e di religione. à una libertà moderna, presto centenaria, alla quale la
chiesa cattolica ha fatto largamente opposizione, alla quale essa ha finito con il
consentire (...) Per i cattolici francesi, un’adesione di ragione o di sentimento si è
così tramutata, non senza reticenze, in un’acculturazione dagli esiti svariati4.
L’antica tradizione di una chiesa gallicana, estremamente sensibile
alle ingerenze dell’autorità romana, e contraria da lunga data alla pretesa dei papi di controllare i sovrani temporali, non è forse stata estranea a queste evoluzioni. Comunque sia, questo non significa affatto
che i francesi siano d’accordo sul significato della laicità, ma l’idea di
laicità come tale fa ormai parte integrante, per la quasi totalità di essi,
delle evidenze collettive attraverso le quali si definisce la loro identità.
Quando, nel 1984, un milione di francesi sono scesi in strada per difendere la scuola privata, minacciata, secondo loro, dal progetto del ministro socialista Alain Savary di costituzione di un grande «servizio pubblico dell’istruzione», era una concezione della laicità che si opponeva a
un’altra concezione della laicità. Ma il principio stesso non sembra più
suscettibile di alcun attacco nel contesto francese contemporaneo.
2. Le due «soglie di laicizzazione»
In questa traiettoria precipitosa, il modello francese della laicità ha
subìto un’evoluzione progressiva. Macchina da guerra contro il potere
della chiesa cattolica e contro le sue pretese di controllare integralmente la società, esso è divenuto, nel periodo recente, «una modalità
di gestione che garantisce la pluralità e la neutralità dei servizi animati dallo Stato»5. Jean Baubérot distingue, in questo percorso, due fasi principali, due «soglie di laicizzazione». La sua analisi merita qui un’attenzione particolare, nella misura in cui fornisce un’impostazione sintetica
suggestiva dell’articolazione storica dei rapporti tra religione e modernità nel caso francese6.
La prima soglia di laicizzazione corrisponde a una fase in cui la religione non è più un’istituzione inglobante, coestensiva alla società gloE. Poulat, Liberté, lakité cit., pp. 191 sg.
J.-C. Eslin, «La laicité, son évolution, son sens actuel» in Regards sur l’actualité. La
documentation française, 158, febbraio 1990.
6 Si troverà questa analisi di Jean Baubérot in Le retour des huguenots. La vitalité protestante XIXe-XXe, Paris, Cerf/Labor et Fides, 1985, pp. 301 sg., e in La laîcité, quel
héritage? cit.
4
5
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
159
baie. Le esigenze religiose sono distinte dalle altre esigenze sociali (esigenze educative, esigenze di salute), e ci sono istituzioni specifiche che
si occupano delle une e delle altre. In questa fase di differenziazione
delle istituzioni, le «esigenze religiose» continuano a essere riconosciute come esigenze socialmente oggettive. La religione, fondamento della morale, è considerata come utile e necessaria alla vita in società. Il
servizio del culto è un servizio pubblico, la cui legittimità è stata socialmente riconosciuta, e lo Stato garantisce uno stipendio ai ministri
del culto, nel quadro di un pluralismo religioso ufficialmente disciplinato dalla legge: nel quadro da esso fissato, lo Stato garantisce la libertà dei diversi culti, rispetto ai quali si pone come un arbitro imparziale.
Il sistema concordatario introdotto da Bonaparte corrisponde esattamente a questa prima soglia di laicizzazione: di esso fanno parte la legge del 18 germinale anno X (8 aprile 1802), che promulga a un tempo
il concordato (firmato nel 1801) e gli articoli organici, che vertono sull’organizzazione dei culti cattolico, luterano e riformato. Il pluralismo
religioso assume un aspetto definitivo nel 1807 con la riunione di un
grande sinedrio e di un’assemblea di notabili ebrei, in seguito all’emancipazione degli ebrei, ottenuta nel 1791. Nel 1808, un decreto si
occupa dell’organizzazione del «culto israelita».
Nel corso delle diverse fasi del confronto storico tra le due France,
si è verificato uno slittamento dalla prima soglia di laicizzazione a una
seconda soglia di laicizzazione, nella quale lo Stato non è più solo neutro,
ma indifferente e la religione assume allora un carattere puramente
privato. Questa seconda soglia di laicizzazione corrisponde alla lettera
e allo spirito della legge di separazione del 1905. La religione non è
più considerata ufficialmente come una delle istituzioni strutturanti
della società globale. Le «esigenze religiose» non hanno più un’oggettività socialmente riconosciuta. La libertà religiosa fa parte delle libertà
pubbliche garantite dallo Stato. Essa si esprime concretamente nella libertà di associazione che è riconosciuta e garantita ai fedeli delle diverse religioni. La repubblica, però, non riconosce, né retribuisce, né
sovvenziona alcun culto (art. 1). Dal punto di vista del diritto stesso,
la religione è così diventata una questione riguardante la coscienza individuale e le associazioni volontarie. Per quanto riguarda il caso francese, l’impostazione sociologica dei rapporti tra religione e modernità
comprende necessariamente la considerazione di una peculiare traiettoria giuridica e politica.
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3. La pluralità religiosa della Francia
Per forza di cose (cioè per forza di cifre), la presentazione della situazione religiosa in Francia moderna evidenzierà, in modo
privilegiato, gli sviluppi che riguardano il mondo cattolico. Tuttavia,
è indispensabile tenere a mente che la Francia è, per tutta la durata
della sua storia, un paese in cui coesistono diverse religioni. Ci si
limiterà, in questa prima parte, a fare una rapida panoramica della
situazione delle principali minoranze religiose, in prospettiva storica
e per il presente.
3.1. Il giudaismo
La presenza ebraica in Francia è attestata fin dal periodo gallo-romano, con un forte sviluppo delle comunità a partire dal IV secolo7. Lo
stato giuridico egualitario di cui gli ebrei godono fino al secolo XI si
degrada a partire dalla prima crociata. Persecuzioni, espulsioni e richiami
si alternano fino alla rivoluzione. Secondo Régine Azria, nel 1789 la popolazione ebrea comprende 40.000 persone, suddivise in tre grandi regioni: il Sudovest, Bordeaux e Bayonne Saint-Esprít; la Provenza, lo
stato pontificio e il Contado Venassino; le province dell’Est, Alsazia e
Lorena, dove risiedono i tre quarti degli ebrei. Soltanto in qualche centinaia (circa 500) sono tollerati a Parigi. L’emancipazione del 1791 che fa
degli ebrei cittadini a pieno diritto apre un periodo di stabilizzazione: la
curva demografica degli ebrei nel secolo XXX segue la progressione
naturale. Essa è poco influenzata dalla perdita dell’Alsazia-Lorena nel
1871, come anche dalla sua restituzione nel 1918: la grande maggioranza
degli ebrei dell’Est hanno infatti optato per la Francia e si sono
raggruppati a Parigi. Tuttavia, a partire dalla fine del secolo XIX, la
popolazione ebrea francese, molto assimilata, che aderisce in profondità
agli ideali moderni della rivoluzione francese, si accresce di una prima
ondata di immigrati: sono essenzialmente ashkenaziti, spesso cacciati
dall’Europa dell’Est dall’antisemitismo, e portatori, a questo titolo, di
una coscienza di sé (nello stesso tempo religiosa e politica) più sviluppata di quella degli ebrei francesi. La dinamica di integrazione e il
rinnovamento delle strutture comunitarie del giudaismo indotti da que7 Sulla storia della comunità ebraica di Francia e sulle fasi della sua istituzionalizzazione si vedano R. Azria, «Les juifs de France» in La religion au lycée. Conférences au lycée
Buffon, Paris, Cerf, 1990; B. Philippe, Etre juif dans la société francaise du Moyen Age à nos
jours, Paris, Montalba, 1979.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
161
sto flusso di immigrati sono interrotti dalla seconda guerra mondiale:
95.000 ebrei sono stati vittime del genocidio in Francia (di cui 8.000
bambini, e un terzo di ebrei francesi). Il governo di Vichy ha permesso e collaborato allo sterminio di 75.521 di essi. Dopo la guerra, l’integrazione degli ebrei dell’Europa centrale si è realizzata rapidamente, in
due o tre generazioni. Ma il processo di decolonizzazione del Magreb
e lo sviluppo del conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente hanno
dato luogo, negli anni cinquanta-sessanta, a un nuovo flusso migratorio, che ha prodotto gli stessi effetti dinamici per la vita della comunità
ebraica: si tratta questa volta di ebrei sef arditi, più radicati in culture
tradizionali diverse, ma anche con una maggiore padronanza della lingua francese, e di cui una buona parte è già di nazionalità francese. La
dialettica dell’assimilazione e della riaffermazione della propria identità
si trova così rilanciata ancora una volta.
Attualmente, diversi censimenti situano il livello della popolazione
ebrea di Francia tra le 500.000 e le 700.000 persone. Queste variazioni
si spiegano secondo il modo in cui si concepisce l’identificazione ebraica: il metodo onomastico (secondo il carattere ebraico del patronimico) adottata da Bensimon e Della Pergola arriva alla cifra di 535.000
(di cui il 45 per cento nella regione di Parigi) alla fine degli anni settanta. Un sondaggio della Sofres, che si basa sull’affermazione di appartenenza degli intervistati, dava nel 1976 un numero più elevato, 650.000
persone8.
I tre quarti degli ebrei di Francia (e probabilmente il 90 per cento
degli ebrei della regione di Parigi) sono riuniti nel Concistoro. I diversi
concistori locali, federati nel Concistoro centrale, tengono dei registri
dei matrimoni, dei divorzi e dei decessi, i quali forniscono un certo
numero di indicazioni sulla vita cerimoniale ebraica. Si conosce anche,
per i singoli concistori locali, il numero dei centri Talmud e Torah,
che assicurano l’istruzione religiosa dei bambini (maschi e femmine), il
numero dei loro allievi e dei loro insegnanti, nonché il numero dei
rabbini di comunità (si veda tab. 1). L’assenza però di indagini sufficientemente estese riguardo all’assistenza sinagogale, e il carattere essenzialmente domestico della pratica religiosa ebraica, rendono diffidile la valutazione precisa della vitalità religiosa ebraica in Francia.
Un tratto caratteristico della comunità ebraica di Francia, al di là del
carattere estremamente ibrido che le hanno conferito le diverse on8 D. Bensimon, S. Della Pergola, La population juive en France. Socio-démographie et
identité, Gerusalemme, The Institute of Contemporary Jewry, The Hebrew University
of Jerusalem/Cnrs, 1984; Indagine-sondaggio della Sofres, «Qui sont les Juifs de
France?» in Agence télégraphique juive, 1527, 11 febbraio 1977.
162
Danièle Hervieu-Léger
Tabella 1. Indicatori della pratica religiosa ebraica, attraverso le statistiche di alcuni concistori.
Fonte: Institut National de la Statistique et des Études Économiques (Insee), Donnés sociales, 1990
date di immigrazione, è la rapidità con la quale i nuovi arrivati si sono continuamente amalgamati alla società francese. Garantendo la
piena uguaglianza dei cittadini ebrei, la rivoluzione francese ha generato una dinamica di integrazione i cui effetti perdurano nel presente. Ne testimoniano nello stesso tempo il ruolo svolto da uomini politici, scienziati, artisti, industriali, universitari ebrei nella vita nazionale da due secoli a questa parte, e i sacrifici compiuti, in ognuna
delle guerre, dai patrioti ebrei. Ne testimonia, più quotidianamente, il
numero rilevante dei matrimoni misti, che contribuiscono potentemente alla scomparsa di un’identità ebraica assunta collettivamente.
In questo contesto, l’identità ebraica può affermarsi in un modo
che non sia strettamente individuale e confessionale? L’emancipazione civile, immenso beneficio per gli ebrei di Francia, che
permise loro di entrare, in pieno, nella modernità, avrebbe forse
suggellato, paradossalmente, la fine del giudaismo?9. Questo di9 Si troverà un’illustrazione di questi interrogativi nell’opera di D. Trigano, La république et les Juifs, Paris, Presses d’Aujourd’hui, 1982.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
163
lemma dell’assimilazione, altrettanto antico che il processo stesso, dopo la cesura di Vichy e nel clima di disillusione suscitato dalla ripresa
attuale dell’antisemitismo, si è riacutizzato. La crisi della guerra dei Sei
Giorni, nonché il rinnovo generalizzato delle richieste di identità, hanno favorito la sua attivazione. AI di là delle correnti religiose che cercano un’affermazione comunitaria autonoma degli ebrei nella società
francese in nome della purezza della tradizione, si è aperto un dibattito più ampio (in collegamento in particolare con la celebrazione del
bicentenario della rivoluzione francese): le prese di posizione, le iniziative, e anche i conflitti che esso fa sorgere, sembrano inaugurare una
nuova fase nel processo di elaborazione di una modernità ebraica, in
contesto francese.
3.2. Il protestantesimo
I protestanti costituiscono la seconda delle «antiche minoranze» religiose in Francia. Meno problematico di quello degli ebrei, il loro censimento incontra nondimeno alcune difficoltà. La prima è legata alla pluralità delle chiese. La Fédération Protestante de France (Fpf), che raggruppa i tre quarti dei protestanti francesi, conta una quindicina di chiese, tra cui la chiesa riformata di Francia (Erf, Église Réformée de France,
circa 400.000 membri nel 1987), la chiesa riformata d’Alsazia e di Lorena
(Eral, Église Réformée d’Alsace et de Lorraine, 42.500 membri nel
1987), la chiesa della confessione di Augsbourg di Alsazia e di Lorena
(Ecaal, Église de la confession d’Augsbourg d’Alsace et de Lorraine,
219.361 membri), la chiesa evangelica luterana di Francia (intorno ai
50.000 membri, di cui 30.000 nella regione di Montbéliard), la Federazione delle chiese evangeliche battiste di Francia (tra 2.000 e 2.500 persone), la chiesa apostolica (meno di 1.000 membri), la Missione evangelica degli zingari di Francia (di ispirazione pentecostale, circa 30.000
membri). Nel complesso la Federazione protestante di Francia conta
circa 800.000 persone. Vi si aggiunge l’insieme più ristretto delle chiese
ad essa non affiliate, di cui alcune non contano più di qualche centinaio,
anzi qualche decina di membri: Alleanza delle chiese evangeliche indipendenti, Alleanza evangelica di chiese battiste di lingua francese, chiesa
evangelica luterana, chiese battiste indipendenti, chiese mennonite di
Francia, chiesa evangelica metodista, chiese metodiste di Francia, chiese
metodiste collegate alla diocesi di Ginevra, Missione evangelica battista,
Missione evangelica di Francia, Unione cristiana evangelica di pentecoste, Unione delle chiese cristiane bibliche, Unione delle chiese evangeliche libere di Francia. All’inizio degli anni ottanta, Roger Mehl si-
164
Danièle Hervieu-Léger
tuava un po’ al di sotto delle 20.000 persone gli appartenenti a queste
chiese protestanti indipendenti. Tale cifra sale a 50.000 se vi si aggiungono le chiese strettamente pentecostali o assemblee di Dio10. In totale, si può situare tra 900.000 e 1.000.000 il numero di coloro che, in
Francia, si richiamano alla Riforma, cioè il 2 per cento della popolazione francese. Questa famiglia protestante è suddivisa in modo diseguale sulla superficie del territorio: essa si concentra principalmente in
alcune grandi città e nei loro dintorni: Parigi, Strasburgo, Marsiglia,
Nîmes, Montpellier, Mulhouse. Se il protestantesimo francese è per lo
più di tradizione riformata, le chiese luterane sono dominanti in Alsazia e nella regione di Montbéliard.
Le cifre qui riferite, che sono quelle presentate dalle chiese stesse,
danno solo un’idea imperfetta della presenza protestante in Francia. La
loro imprecisione deriva, al tempo stesso, dal numero relativamente elevato dei protestanti non iscritti e dai fenomeni di doppia appartenenza.
Inoltre, i dati disponibili sulla frequenza dei protestanti alle funzioni religiose non rendono conto della vitalità reale delle chiese (si veda la tab.
2). A ogni modo, questa vitalità è difficile da valutare, nella misura in cui
la partecipazione regolare al culto non ne costituisce il criterio centrale11.
Per comprendere correttamente la realtà protestante francese, occorre
infine sottolineare che per affinità il protestantesimo costituisce, in questo
paese, una sfera d’influenza più ampia del numero di coloro che appartengono formalmente alle chiese. Un numero non trascurabile di francesi interrogati sulle loro preferenze religiose e non censiti nelle chiese
della Riforma si dichiara «vicino al protestantesimo». Un sondaggio realizzato dall’Ifop nel 1980 ha permesso di comprendere nella «sfera d’influenza protestante» (che riunisce protestanti «formali» e protestanti
«virtuali») circa 2.000.000 di persone12.
Se l’influenza religiosa del protestantesimo sconfina dal gruppo relativamente limitato dei protestanti censiti, la sua influenza sociale è sen10 R. Mehl, Le protestantisme franals dans la société actuelle. 1945-1980, Genève, Labor et
Fides, 1982.
11 L Emile Léonard sottolineò, a suo tempo, la difficoltà presentata dalla trasposizione della classificazione dei parrocchiani secondo la frequenza alle funzioni religiose,
valida per il cattolicesimo, al protestantesimo, trattandosi di una religione centrata sull’individuo, che permette «di appartenere al tempo stesso a due raggruppamenti o di
non aderire ad alcuno, e dove la fede non ha necessariamente manifestazioni dimostrabili»: E. Le6nard, Le protestant francais, Paris, Puf, 1953.
12 J. Baubérot et al., (a cura di), Les protestants franfais au miroir d’un sondage Ifop 1980,
Strasbourg, Centre de Sociologie du Protestantisme, Flsh, 1983; si veda anche R. Mehl,
«Deux millions de Francais proches du protestantisme» in La vie protestante, 27, luglio
1981.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
Tabella 2. Indicatori
165
di vitalità di alcune grandi chiese protestanti.
Fonte: Institut National de la Statistique et des Études tronorniques (Insee), Données sociales,
1990.
za proporzioni rispetto all’entità demografica delle chiese protestanti.
Questo fatto è legato, in parte, alla composizione sociale del gruppo
protestante; tranne nelle regioni dell’Est, dove esiste un vero e proprio
protestantesimo popolare, gli operai e gli impiegati sono nettamente
sotto- rappresentati nella popolazione protestante, rispetto ai quadri,
agli insegnanti e ai membri delle professioni intellettuali. Questa immagine di un protestantesimo di «élite sociale», molto forte nell’opinione
pubblica, è rafforzata dal ruolo eminente svolto da protestanti nei settori dell’alta finanza, dell’impresa, dei gradi più elevati del servizio pubblico e della vita politica. Da Maurice Couve de Murville a Michel Rocard, passando per Gaston Defferre, Pierre Joxe o Lionel Jospin: la
classe politica francese conta numerosi protestanti, e la visibilità della
loro presenza si è accentuata con l’arrivo della sinistra al potere nel
1981. Questa affinità della sinistra e del protestantesimo non pregiudica
il pluralismo politico, tutto sommato reale, del protestantesimo francese. Essa mantiene però l’immagine «progressista», correntemente associata, in Francia, al protestante. Dietro tale immagine, c’è la storia di una
minoranza la cui coscienza della propria identità rimane fortemente marcata da una tradizione di resistenza e di lotta: resistenza alle persecuzioni
subite, dalla revoca dell’editto di Nantes nel 1685 alla patente di tolleranza nel 1787, in nome della religione di Stato; lotta costante, in nome dell’individuo e della sua coscienza, contro il monopolio schiacciante del
cattolicesimo, lotta che ha assunto, nel contesto già evocato della guerra
delle due France, la forma di un sostegno attivo alla modernità
repubblicana. I protestanti hanno svolto, in particolare, un ruolo prima-
166
Danièle Hervieu-Léger
rio nello sviluppo della scuola della repubblica, affidando, nel 1882, le
loro 1.500 scuole al settore pubblico. Essi hanno dato il loro appoggio,
nel 1905, alla separazione di Chiesa e Stato. Il loro contributo nel campo
dell’igiene e della sanità pubblica fino all’epoca recente (il controllo delle
nascite è una creazione protestante) mostra nel contesto francese la
continuità di un’ispirazione protestante armonizzata con la modernità13.
La «modernità protestante» costituirebbe oggi un ostacolo alla sua
evidenza sociale? Sotto molti aspetti, i «valori protestanti» — primato
della coscienza individuale, attaccamento alla democrazia, senso della
responsabilità sociale e della solidarietà, insistenza sul diritto di tutti alla
cultura e al sapere e così via —, molto esaltati da un protestantesimo
francese che intendeva sottolineare la sua differenza rispetto all’intransigenza cattolica nei confronti del mondo moderno, hanno perso la loro
specificità venendo a essere sempre più ampiamente condivisi (anche in
un universo cattolico che si acculturava alla modernità). Il «successo» del
protestantesimo francese, direttamente legato al rapporto positivo che
esso ha mantenuto e continua a mantenere con il mondo moderno,
suggellerebbe forse, paradossalmente, il declino della comunità protestante? Analisi recenti hanno sottolineato, contemporaneamente a un
ristagno demografico, una tendenza alla perdita di identità di una comunità molto impegnata nel dialogo ecumenico e relativamente atomizzata14. Nel caso del protestantesimo, come in quello precedentemente
evocato del giudaismo, la questione dell’identità comunitaria e quella
della rivalutazione del rapporto con la modernità appaiono strettamente
correlate.
3.3. La crescita dell’Islam
Il problema dei rapporti tra identità e modernità si pone anche in
modo cruciale, ma in termini completamente diversi, per la popolazione
musulmana in Francia. Questa costituisce oggi, con un numero stimato
a circa tre milioni, la seconda religione presente sul territorio francese,
prima del protestantesimo. Bruno Etienne propone anche uno spettro
più ampio, da 1.640.000 a 4.000.000 di persone". In realtà, abitualmente si basa tale valutazione sul numero degli stranieri provenienti da
13 Si veda J. P. Willaime, «Le protestantisme, religion de la modernité?» in La
religion au lycée cit.
14 J. Baubérot, Le protestantisme doit-il mourir?, Paris Seuil, 1988.
15 B. Etienne, La France et l’Islam, Paris, Hachette, 1989.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
167
paesi di religione musulmana (algerini, marocchini, tunisini, turchi, africani neri, pakistani, vicino- e mediorientali), di cui si presume che facciano riferimento all’Islam (tra 1.800.000 e 2.000.000). Vi si aggiungono i
francesi musulmani (gli harkis che hanno optato per la Francia in occasione dell’indipendenza dei paesi dell’Africa del Nord, e i loro discendenti, ossia 450.000 persone), i giovani franco-magrebini o beurs della
seconda generazione e un piccolo gruppo di francesi convertiti all’Islam
o di musulmani naturalizzati. Questi dati numerici costituiscono un indicatore della presenza musulmana in Francia, anche se, come sottolinea
Gilles Kepel, «sembra tanto contestabile qualificare semplicemente come musulmani i circa 800.000 algerini presenti sul territorio francese
quanto lo sarebbe ritenere cattolici la totalità dei francesi »16.
La presenza musulmana in Francia non è, in quanto tale, un menomeno nuovo. Sembra, nondimeno, che i francesi «scoprano» oggi la sua
ampiezza. Questa presa di coscienza è legata, evidentemente, all’impressione prodotta, nell’opinione pubblica, dalla rivoluzione iraniana e dalla
crescita generale dei movimenti islamici in tutti i paesi in cui l’Islam è
fortemente rappresentato (e particolarmente in Algeria, paese a cui i
francesi sono sempre «sensibili»). Episodi recenti con una forte carica emotiva — la «questione Salman Rushdie», la «questione dei chador» —
hanno contribuito ad accreditare l’immagine di un Islam chiuso in se
stesso, refrattario alla modernità e fanatico, in grado di mettere in pericolo l’«identità francese». Si sa quale uso l’estrema destra di Le Pen faccia
del timore dell’opinione pubblica nei confronti dell’Islam, per alimentare
un «odio dell’immigrato» di cui essa ha fatto la propria base di commercio elettorale. Il carattere passionale del dibattito pubblico riguardo all’affermazione della presenza musulmana in Francia contribuisce a oscurare
ancora la valutazione, difficile in se stessa, della realtà di questa presenza.
Si impone una prima osservazione, ed è quella del carattere composito dell’Islam. in Francia17. I «francesi musulmani» o nona (rimpatriati di
origine nordafricana), che costituiscono la prima e la più antica delle
componenti della popolazione musulmana, formavano già un insieme
disparato di nazionalità e di interessi, che associava ex soldati delle truppe ausiliarie francesi, funzionari, elementi di una borghesia locale occi16 G. Kepel, Les banlieues de l’Islam. Naissance d’une religion en France, Paris, Seuil, 1987; si
veda anche G. Kepel e R. Leveau (a cura di), Les musulmana dans la société française, Paris,
Presse de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1988; J.-F. Legrain, «L’Islam en
France. L’Islam de France» in Esprit, 119, ottobre 1986.
17 Aspetto ben evidenziato dall’articolo di C. Withol de Wenden, «L’Islam en France» in Regards sur l’actualité. La documentation franaise, 158, febbraio 1990.
168
Danièle Hervieu-Léger
dentalizzata e così via, coinvolti in modo molto diverso nella religione
islamica. Questo primo gruppo si differenzia nettamente da quello dei
musulmani immigrati progressivamente «sedentarizzati» in Francia. Questa « sedentarizzazione precaria» (secondo l’espressione di Gilles Kepel)
è stato uno degli effetti (non ricercati) della legge del luglio 1974 che ha
sospeso i flussi migratori di manodopera. Un gran numero di lavoratori
che circolavano regolarmente tra i loro paesi di origine (dove avevano
lasciato la loro famiglia) e la Francia, hanno allora optato per l’insediamento permanente in Francia, beneficiando delle disposizioni (che
non erano sospese) che permettevano il ricongiungimento familiare. Fino ad allora questi lavoratori, che vivevano tra la fabbrica e il
pensionato- albergo, avevano contatti limitati con la società francese, al
di fuori del loro mondo di lavoro. L’arrivo delle moglie e dei figli ha
sconvolto questa situazione di «invisibilità»: gli «immigrati» sono presenti
nei quartieri urbani, nei quartieri operai, nelle scuole. Vi si affermano
progressivamente come portatori di una cultura specifica, di cui l’Islam è
una dimensione. I conflitti sociali degli anni ottanta (conflitto Sonacotra
del 1976, scioperi dell’industria automobilistica negli anni 1982 e 1983),
nei quali sono stati coinvolti massicciamente lavoratori immigrati, hanno
contribuito a far passare questa affermazione culturale e religiosa da un
registro implicito e privato a un registro esplicito e pubblico: aumenta
nello stesso tempo il numero dei luoghi di preghiera, quello delle associazioni islamiche, quello delle macellerie ballai, quello delle librerie
islamiche e così via" (si veda la tab. 3).
L’affermazione cultural-religiosa dell’Islam in Francia assume un’ampiezza nuova con l’arrivo all’età adulta, negli anni ottanta, di una generazione di giovani nati dall’immigrazione magrebina, che risentono in
modo particolarmente acuto, a scuola e sul mercato del lavoro, delle difficoltà di un’integrazione divenuta, con lo svanire del sogno del «ritorno al paese», un imperativo. Questi giovani beurs rivendicano di vivere
pubblicamente e collettivamente un Islam che costituisce una dimensione fondamentale della loro identità culturale nella società francese.
L’ampiezza delle polemiche sollevate dallo hijeb indossato nella scuola
pubblica da giovani allieve musulmane ha messo in luce, in modo esemplare, il conflitto provocato, in una società laicizzata, da questa espressione pubblica dell’Islam, che, in diversi ambiti (neutralità della scuola,
carattere privato dell’espressione religiosa, statuto delle donne, autorità paterna e così via) prende in contropiede gli aspetti più ovvi e sconta18 Si vedano S. Sellarti, «Être musultnan en France» in Études, 5, CCCLXIV,
maggio 1986, e, soprattutto, G. Kepel, Les banlieues de l'Islam cit.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
169
Tabella 3. Evoluzione del numero dei luoghi di culto musulmano e delle associazioni islamiche in Francia.
Luoghi di culto
Associazioni
Prima del 1970
11
3
1970
33
7
1975
68
60
1980
274
192
1985
805
635
1990
da 1.000 a 1.500
—
Fonte: Gilles Kepel, Les banlieues de Naissance d’une religion en France, Paris, Seuil, 1987, pp.
229-31.
ti della modernità francese. Ai problemi posti alla società francese dalla
nuova realtà musulmana19 si aggiunge un’incertezza quasi totale riguardo
alle istituzioni rappresentative dell’Islam in Francia. Un gran numero di
musulmani rifiuta il privilegio dato alla moschea di Parigi (legata all’Islam
algerino), per quanto riguarda la rappresentazione dell’Islam di fronte al
potere pubblico. Conflitti etnici e politici, nonché teologici, vengono a
complicare un processo organizzativo reso difficile, comunque, dal rifiuto opposto da certe correnti dell’Islam integralista a qualsiasi forma di
compromesso con Io Stato, le sue leggi e la società profana da esso incarnata.
Se la modernità pone una sfida alla cultura religiosa degli immigrati
alla ricerca della propria integrazione, appare chiaro che l’Islam sfida oggi, di rimando, la cultura assimilatrice della repubblica francese. Questa
doppia sfida si gioca attualmente nel dibattito politico che si è aperto a
proposito dell’«inserimento», che attesta, come sottolinea Gilles Kepel,
che «la nascita dell’Islam e il suo sviluppo nelle periferie del territorio
francese costringono fin d’ora la società francese a ripensare la definizione di nazionalità e a inventare un’affermazione nuova e dinamica di se
stessa»20.
19 Si legga a questo proposito, l’articolo di A.-M. Brisebarre, «La célébration de
l’Aydel-Kébir en France: les enjeux d’un sacrifice» in Archives de Sciences Sociales des
Religions, 1, LXVIII, luglio-settembre 1989.
20 G. Kepel, Les banlieues de l’Islam cit., p. 384.
170
Danièle Hervieu-Léger
II. «Parrocchiani» e «militanti»: un mondo cattolico passato
1. La fine di un mondo di osservanza
L’idea che la religione si perda ineluttabilmente in una società che si
modernizza, fa parte della tematica classica della secolarizzazione. Essa
ha trovato, in Francia, una conferma antica e pacifica nei lavori empirici
sul cattolicesimo che hanno costituito, sino alla fine degli anni sessanta,
la parte più importante dei lavori di sociologia delle religioni. L’idea di
vaste indagini sulla pratica religiosa era stata lanciata, tra le due guerre,
dal preside della Facoltà di Diritto di Parigi, specialista di storia delle istituzioni, Gabriel Le Bras. Questi si era battuto, fin dagli anni trenta, affinché le quarantamila parrocchie francesi trovassero infine il loro storico.
«Si recensiscono bene i buoi e i cavalli — osservava umoristicamente —
ma chi pensa a valutare il numero dei cattolici praticanti, il cui posto è
forse altrettanto importante sul nostro territorio? »21. Il progetto venne
ripreso e portato a termine dal canonico Boulard che mise a punto, per
le esigenze dell’indagine, la classificazione dei fedeli secondo la frequenza alle funzioni, distinguendo quattro gruppi: i «distaccati», i conformisti
stagionali, i praticanti regolari e i fedeli «devoti» o «zelanti»22.
Adottata dalla maggior parte degli studi sulla pratica religiosa cattolica in Europa, questa classificazione pervade, malgrado i suoi limiti
spesso sottolineati23, i sondaggi d’opinione e gli studi di sociologia elettorale. La fotografia del paesaggio religioso francese che essa rese possibile fu di grande utilità per la ricerca: essa rivelava contemporaneamente l’esiguità generale dei tassi della pratica religiosa e l’ampiezza
delle disparità regionali della stessa in Francia. Boulard e Rémy hanno
potuto mostrare il ruolo che aveva avuto la storia della pastorale in queste
disparità, e le variazioni che occorreva apportare all’opinione comune
secondo la quale la mappa dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione
sarebbe completamente sovrapponibile alla mappa della mancanza di
fede religiosa24. Così arricchita, l’analisi confermava nondimeno, in modo
21 G. Le Bras, antroduction à l’enquéte» in Revue de l’Église de France, 17, 1931, pp.
425-49; si veda anche dello stesso autore, Etudes de sociologie religieuse, Paris, Puf, 1955,
cap. 1.
22 La prima «Carte de la pratique religieuse de la France rurale» stesa da F. Boulard
usci nel 1947, nei Cabiers du clergé raral. Essa venne riedita nel 1952 dopo quattro anni
di verifiche complementari presso il clero di sessanta diocesi.
23 Su questa tipologia e sui suoi sviluppi successivi, si veda H. Desroche, Sociologies
religieuses, Paris, Puf, 1968, pp. 46 sgg.
24 F. Boulard e J. Rémy, Pratique religieuse et régions culturelles, Paris, Ed. Ouvrières,
1968.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
171
massiccio, che il mondo moderno, quello dell’industria, della tecnica
della città, della comunicazione, è un mondo in cui la Chiesa non
parla più, o parla sempre di meno25.
I risultati delle indagini più recenti sono conformi alle evoluzioni osservate a partire dagli anni cinquanta: la pratica regolare (la frequenza
alla messa settimanale) continua a diminuire, scendendo, in molte regioni, al di sotto della soglia del 10 per cento (si veda la tab. 4).
La pratica effettiva, nel 1990, si situa al di sotto di queste cifre del
1986. Un’indagine realizzata nel dicembre 1989 dal Centre de Recherche
pour l’Étude et l’ Observation des Conditions de Vie (Credoc) valuta a
12 per cento la percentuale della popolazione cattolica che pratica regolarmente (la partecipazione alla messa tutte le domeniche o più spesso) o
semiregolarmente (una o due volte al mese), contro il 20 per cento del
1986. Essa pone soprattutto in evidenza l’ampiezza della disparità dei
tassi di pratica religiosa secondo le classi d’età (si veda la tab. 5).
Fatto che interessa le persone adulte, la pratica regolare o semiregolare inoltre riguarda più spesso le donne (il 72 per cento), soprattutto
se esse sono senza professione. Le differenziazioni secondo le categorie
socioprofessionali sono anche molto nette: la pratica religiosa è particolarmente debole tra gli operai e i lavoratori autonomi (commercianti),
mentre è più elevata tra gli agricoltori e i quadri (si veda la tab. 6). Si
nota il crollo del tasso di pratica culturale tra le donne operaie, unico
caso in cui essa è inferiore a quella degli uomini appartenenti alla stessa
categoria socioprofessionale.
Oltre alle cifre relative alla pratica, anche l’evoluzione dei tassi di
sacramentalizzazione testimonia del calo d’osservanza nella Francia contemporanea. La diminuzione del numero dei battesimi e dei matrimoni
religiosi è tanto più significativa per il fatto che esso era rimasto straordinariamente stabile fino alla metà degli anni settanta (si veda la tab. 7).
Tra il 1977 e il 1986, la diminuzione del numero dei matrimoni religiosi (meno 39 per cento) è stata più rapida di quella dei matrimoni civili (meno 28 per cento). Il decremento testimonia di una disaffezione
rispetto al sacramento del matrimonio, ma esso è anche legato al numero crescente delle seconde nozze di divorziati, che non possono, quali
che siano i sentimenti religiosi degli interessati, dar luogo a una celebrazione religiosa. Se si tiene conto di questo fenomeno, la diminuzione
della percentuale dei matrimoni cattolici tra i matrimoni civili è meno
25 Lo stato più avanzato della cartografia della Francia cattolica è presentato da F.
A. Isambert e J.-P. Terrenoire, Atlas de la pratique religieuse des catholiques en France, Paris,
Cnrs/Fnsp, 1980.
172
Danièle Hervieu-Léger
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
173
Tabella 7. Numero dei battesimi e edei matrimoni religiosi
1977
1978
Nati vivi
744.744
767.828
Battesimi
529.827
488656
525.797
4.030
477.654
11.134
368.166
265.177
51.304
316.862
59.650
205.527
76,7%
70,4%
231.788
11.138
135.964
8.682
tra 0 e 7 anni
dopo i 7 anni
Matrimoni civili
un coniuge divorziato
senza coniuge divorziato
Matrimoni religiosi sul totale dei matrimoni civili
senza coniuge divorziato
di cui:
coniugi cattolici
uno non cattolico
Fonte: Insitut National de la Statistique et des Étudent Économiques (Insee), indagine Emplois du temps,
1985-86.
forte: si passa dal 76,7 per cento nel 1977 al 70,4 per cento nel 1987.
Per quanto riguarda i battesimi, la tendenza alla diminuzione si è
avviata all’inizio degli anni sessanta e si è accentuata nel corso degli
anni settanta. Nel 1958, i battesimi cattolici rappresentavano il 91,7
per cento delle nascite. Tra il 1958 e il 1979 si valuta una
diminuzione del 24,22 per cento. Il decremento è però netto
soprattutto dopo il 1975, con circa 10 per cento di perdita in cinque
anni. Nel 1984, il tasso dei battesimi cattolici rispetto alle nascite era
del 65 per cento. Esso si situa attualmente attorno al 60 per cento. Si
deve sottolineare un fatto complementare, l’aumento del distacco
temporale tra nascita e battesimo. Il numero dei battesimi tardivi è
più che raddoppiato nel corso dell’ultimo decennio.
2. La crisi del reclutamento sacerdotale e religioso
L’evidenziazione numerica dello sfaldamento dell’osservanza delle
prescrizioni di culto nella Francia contemporanea assume tutto il suo
significato se la si esamina in rapporto a un altro dato riscontrato, quello
della crisi drammatica del reclutamento sacerdotale e religioso, gravemente accentuatasi a partire dal 1945. Parlare di «crisi del clero» non è cer-
174
Danièle Hervieu-Léger
to, in Francia, un tema nuovo: basta far riferimento, ad esempio, ai lavori degli storici dedicati allo stato del clero prima della rivoluzione francese per esserne convinti e per rimettere in questione l’immagine mitica
della «Francia tutta cristiana» del passato26. E chiaro però che il crollo
delle vocazioni riveste, nel periodo contemporaneo, un significato particolare, nella misura in cui la Chiesa ha, nello stesso tempo, da svolgere
un ruolo centrale nella vita pubblica. Le cifre parlano da sole: nel 1948
c’erano nel paese 42.650 preti; nel 1960, ce n’erano 41.600; erano solo
più 35.000 nel 1975, e il loro numero è precipitato a 28.700 nel 1987. La
cifra annuale delle ordinazioni, che era di 1.000 nel 1950, si situa intorno
a 100 a partire dal 1975, e rimane, a partire dal 1959, costantemente
inferiore ai decessi (si veda la tab. 8). Ne risulta un invecchiamento
notevole della popolazione clericale: attualmente, un prete su dieci ha
meno di 40 anni, e uno su tre ha più di 65 anni (si veda la tab. 9)27.
L’espressione statistica della crisi del clero rende evidente la gravità
del problema della mancanza di personale che si pone all’istituzione ecclesiastica. Questo fa parte però di un problema più generale che riguarda l’identità stessa del prete, in una società laicizzata in profondità. All’origine dell’incertezza della propria identità, che si è espressa in una
quantità di libri-testimonianze28, c’è la scoperta, da parte degli interessati, che la «condizione separata» in cui si trova il campo religioso, in opposizione all’ambito laico, non «si impone» più socialmente: quindi è
soggettivamente intollerabile, o almeno, difficile da sopportare. Questa
«condizione separata», classicamente associata, dai sacerdoti e dai fedeli,
al carattere sacro del ministero sacerdotale, è vissuta come «marginalità», dal momento in cui cessa di essere generatrice di benefici simbolici
e materiali compensatori, in termini di autorità, prestigio, potere locale.
Certo, una piccola frangia di giovani seminaristi nati dai nuovi movimenti devozionali (in particolare carismatici), apparsi da una quindicina
d’anni, tenta oggi di trarre un nuovo beneficio simbolico da questa
marginalità, riassociandola alla figura tradizionale del «prete, nient’altro
che prete» del passato. L’eco suscitata all’emergere di questi «nuovi preti
secondo la tradizione» da parte di certe correnti conservatrici nel26 Si veda, ad esempio, D. Julia, «La crise des vocations. Essai d’analyse hístorique»
in Études, febbraio 1967, pp. 238-51 e marzo 1967, pp. 387-96.
27 Sull’evoluzione delle vocazioni sacerdotali dopo il 1945, si vedano J. Potel, Les prétres
séculiers en France, Paris, Centution, 1977; J. Sutter, «Vocations sacerdotales et séminaires: le
dépérissement du modèle clérical» in Archives de Sciences Sociales des Religions, 2, LIX, gennaiogiugno 1985.
28 Si possono citare, tra gli altri, P. Duclos, Les prétres, Paris, Seuil, 1983; G. Bessière et al.,
Les volets du presbytère sont ouverts. 2.000 prétres racontent, Paris, Desclée de Brouwer, 1985; F.
Charles, La génération défroquée, Paris, Cerf, 1986.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
Tabella 8. Calo annuale dei membri del clero secolare tra il 1965 e il 1986
175
176
Danièle Hervieu-Léger
la società e nella Chiesa non deve però dare illusioni. In modo molto
generale, lo statuto sociale del sacerdote si è sgretolato nello stesso momento in cui si restringeva la capacità d’intervento della Chiesa nella vita
sociale. La «via clericale» è oggi largamente svalutata in quanto mezzo di
ascesa sociale. Essa non garantisce nemmeno più a coloro che vi si
impegnano il «confort» e la sicurezza materiali: nel complesso, il «semplice prete» francese, questo «tuttofare dell’azione parrocchiale» descritto
da Jean Rogé29, vive male. Alcune indagini hanno mostrato che, a eccezione dei preti retribuiti dallo Stato dei dipartimenti concordatari, i
ministri cattolici ricevono — considerando tutti i livelli gerarchici — una
remunerazione inferiore allo Smic30. Nonostante le affermazioni di valore spirituale che gli interessati non mancano di esprimere riguardo alla
propria condizione economica mediocre, essa ha la sua parte, fosse
anche in modo inconscio, nell’impressione di essere «declassati» rilevata,
in modo spesso eufemistico, da molti preti.
Mediocrità della condizione economica e sociale, isolamento dei preti
rurali costretti dalla scarsità di personale clericale a servire un numero
sempre più grande di luoghi di culto e a diventare dei semplici
prestatori di servizi sacramentali, problemi posti dal numero crescente
di preti anziani e malati, incertezza quanto al tipo di formazione da
sostituire a quella fornita in passato dai seminari (oggi chiusi, salvo
eccezioni)31: la situazione del clero cattolico francese è uno degli aspetti
cruciali della disgregazione dell’universo parrocchiale, che ha
costituito, per secoli, la matrice della vita religiosa dei francesi.
J. Rogé, Le simple prétre. Sa formation, son expérience, Paris, Casterman, 1965.
Smic (Salaire Minimum Interprofessionnel de Croissance): livello del salario
minimo in Francia, cioè circa 5.000 franchi nel 1990.
31 Si contano 1.258 candidati al sacerdozio in Francia negli anni 1989-90; la
maggior parte di essi si trova al primo ciclo di formazione (2 anni), di cui 408 suddivisi
in 7 seminari diocesani, 15 seminari regionali e 4 seminari universitari, 52 in Gfu
(Groupes de formation en milieu universitaire), 20 in Gfo (Groupes de formation en
monde ouvrier) e il resto in altri seminari (Prado, Mission de France 13 eccetera); un
secondo gruppo è costituito da coloro che sono stati ammessi al secondo ciclo (2
anni), che implica l’ammissione al ministero ordinato, di cui 288 suddivisi in 4 seminari
diocesani, 14 seminari regionali e 4 seminari universitari, 11 in Efmo (Equipes de
formation en milieu ouvrier), il resto in altri seminari (Mission de France 9). I candidati
che effettuano il terzo ciclo (2 anni) sono 290; l’ordinazione al diaconato avviene alla
fine del primo anno (età minima: 23 anni): sono 290. Questo curricolo di formazione
29
30
è generalmente preceduto da un anno di «propedeutica spirituale» che si effettua
sotto diverse forme.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
177
3. La civiltà parrocchiale scomparsa
Le curve discendenti, che si tratti della pratica religiosa o del numero delle ordinazioni, non sono altro che indicatori: questi assumono il
loro vero senso solo rispetto al tipo di società religiosa di cui segnano il crollo. Se la questione della partecipazione alle funzioni religiose e
quella del numero dei preti sono di una tale importanza per una sociologia del cattolicesimo francese, non è solo a causa del carattere centrale
della pratica sacramentale nella tradizione cattolica, ma anche perché
esse riguardano le basi stesse della civiltà parrocchiale che ha dominato la Francia da secoli. In questa «civiltà parrocchiale», di cui il campanile, elemento centrale del paesaggio rurale francese, è l’emblema32, si
articolano un sistema estensivo di influenza territoriale — che fa di ogni
abitante una persona appartenente, almeno potenzialmente, alla giurisdizione di una parrocchia —, e un dispositivo di potere socioreligioso,
che si incarna nella figura tipica del parroco. L’autorità di quest’ultimo,
«a cui il sacerdozio da solo deve bastare»33, isolato e formato specificamente in vista dell’esercizio monopolistico delle funzioni di produzione e di distribuzione dei beni relativi alla salvezza ultraterrena, si estende, a partire dall’esclusività del suo potere religioso, in tutti i campi della vita pubblica e privata. Di fronte a questa figura tipica del
prete, si forma la figura tipica dell’osservante fedele, radicalmente privo di questo potere religioso, e il cui impegno nel cattolicesimo si misura dalla frequenza degli atti sacramentali da lui adempiuti.
Il modello di organizzazione ecclesiastica che si articola secondo
questa modalità specifica di divisione del lavoro religioso si è costituito,
in tutta la cattolicità, a partire dal concilio di Trento, in reazione alla crescita dell’individualismo religioso nato dalla Riforma. Esso è stato di
sostegno, nel contesto francese, all’utopia mobilitatrice di un cattolicesimo che sognava, al di là della tormenta rivoluzionaria, di riconquistare
la sua influenza totale sulla società. Non c’è da stupirsi, in tali condizioni,
che il periodo aureo di questa civiltà parrocchiale abbia potuto situarsi
32 Si ricorda qui l’uso che fece di questo emblema il candidato alla presidenza della
repubblica Francois Mitterrand, in occasione di una campagna di manifesti che
richiamò l’attenzione generale sul tema della «forza tranquilla» durante la campagna
presidenziale del 1981.
33 Secondo la filosofia dei seminari ispirati dalla Scuola francese di spiritualità,
illustrata dal cardinale De Bérulle (1565-1629), fondatore dell’Oratorio francese, e da
J.J. 011ier (1608-1657), fondatore della Compagnia dei preti di Saint-Sulpice. Questi
seminari sono fioriti in tutte le diocesi all’inizio del secolo XIX, ed è attraverso di essi
che sono passati un gran numero di preti che hanno oggi più di 50 anni.
178
Danièle Hervieu-Léger
negli anni tra il 1830 e il 1850, durante i quali il cattolicesimo francese,
traumatizzato dalla Rivoluzione, sembrava rinascere: anni di ristrutturazione delle istituzioni, di ripresa delle vocazioni, di rinnovamento intellettuale e soprattutto devozionale, contrassegnati dallo sviluppo di una pietà
cristocentrica e mariana di valore referenziale, nella quale si manifestava
l’utopia di una Chiesa che riordinava la società. Questa «estate di San
Martino» del cattolicesimo francese fu di breve durata: lo storico Claude
Langlois ha ben mostrato come la Chiesa che manifestava rumorosamente il suo dinamismo nella prima metà del secolo XIX, si sia trovata
rapidamente nella situazione di una «fortezza assediata», impotente a far
fronte alle sfide politiche, economiche, sociali e culturali della modernità.
Nella fase di ripiegamento ultramontano e di aggressività antimoderna
che ha caratterizzato il cattolicesimo francese nella seconda metà del secolo XIX, la civiltà parrocchiale ha continuato a rappresentare l’immagine – sempre più estranea alla realtà vissuta di una società religiosa minata
dallo sviluppo dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e della mobilità
sociale – di una sovrapposizione totale di Chiesa e società34.
Si può persino considerare, contro tutte le abitudini di pensiero che
portano a opporre la «Chiesa delle parrocchie» e la «Chiesa dei movimenti», che questo sogno di una «società-parrocchia» nutrisse ancora i
paradigmi di quella riconquista cristiana della società alla quale erano
invitati i militanti laici dell’Azione cattolica nascente: «Nous referons
chrétiens nos frères», cantavano i militanti della Jeunesse Étucliante
Chrétienne all’inizio degli anni trenta. Questo grande disegno era nato
nella continuità dell’ispirazione del cattolicesimo sociale che, a partire da
Leone XIII, aveva riorientato il rifiuto integrale della modernità verso la
ricerca attiva di un’alternativa cristiana al liberalismo e al socialismo, nati
entrambi dalla Riforma e dalla rivoluzione francese35. Nel pensiero dei
fondatori dell’Azione cattolica, però, il fine ultimo della missione non
poteva essere che quello di ricondurre i «nuovi pagani» delle città, delle
fabbriche e delle università, verso l’osservanza religiosa, sotto il controllo
dei preti e della gerarchia: è del resto sotto lo stretto controllo della
gerarchia che dovevano agire queste «falangi di anime, piene del
desiderio ardente di partecipare all’apostolato della Chiesa e di cooperare, sotto i suoi ordini, alla diffusione del regno di Gesù Cristo tra gli
34 C. La ois, «Permanence, renouveau et affrontements. 1830-1880» in F. Lebrun (a
cura di), Histoire des catholiques en France, Toulouse, Privat, 1980.
35 Per una socio-storia dell’integralismo cattolico, si faccia riferimento ai lavori di
Ernile Poulat. In particolare: Eglise colare bourgeoisie. Introduction au devenir du catholicisme
actuel, Paris, Casterman, 1977; L’église, c’est un monde. recclésiosphére, Paris, Cerf, 1986.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
179
individui, nelle famiglie, nella società»36. La creazione dei movimenti di
Azione cattolica, e più ampiamente la costituzione dei movimenti missionari che si sono sviluppati con un dinamismo eccezionale nel contesto francese37, corrispondeva a una presa di coscienza acuta della desertificazione religiosa della Francia38. Essa si inseriva anche, all’origine, in
una volontà di fare o di rifare della società francese una società di praticanti.
Nel corso degli ultimi cinquant’anni, gli effetti pratici della modernizzazione, altrettanto e più delle offensive ideologiche di un laicismo conquistatore, hanno minato la civiltà parrocchiale: essi hanno dissolto, nello stesso tempo, una modalità storica di organizzazione e di socialità religiosa e un modello ideale di presenza sociale dell’istituzione ecclesiastica, che, anche se inserito imperfettamente nella realtà delle città e
delle regioni, costituiva il riferimento principale dell’identità del cattolicesimo francese, il suo ethos e il suo orizzonte di movimento. Oggi, le
chiese chiudono (si veda la tab. 10). I preti sono entrati a far parte
della schiera crescente degli «intellettuali proletaroidi» (per parlare con
Max Weber), quella degli intermediari culturali, insegnanti, lavoratori
sociali e animatori culturali, che vivono piuttosto male Io scarto crescente tra il capitale che detengono e la precarietà del loro statuto sociale ed
economico.
A livello più profondo, dal punto di vista non più soltanto della situazione sociale dell’istituzione, ma da quello dell’evoluzione del cattolicesimo come sistema di credenze, è un mondo di modelli che è definitivamente precipitato: Yves Lambert ha ben mostrato, nel suo libro sulle
trasformazioni della pratica del cattolicesimo a Limerzel, a partire dall’inizio del secolo, che nel cuore della stessa Bretagna, molto praticante, il
perseguimento istituzionalmente regolato della salvezza ultraterrena lasciava progressivamente posto a una religiosità diffusa e privata, orientata verso questo mondo, e alla realizzazione psicologica dell’individuo39.
36 Sulla nascita dell’Azione cattolica in Francia, si veda A. Latreille e R. Rémond,
Histoire du catholicisme en France, Paris, Spes, 1962.
37 In particolare, la creazione delle società di sacerdoti a vocazione missionaria,
rivolte principalmente verso la classe operaia: Mission de France (1941), Mission de
Paris (1943). Su questi movimenti, e il loro contesto, si veda in particolare E. Poulat,
Naissance des prêtresouvriers, Paris, Casterman, 1965.
38 Un libro diventò l’emblema di questa presa di coscienza: si tratta dell’opera di H.
Godin e Y. Dartici, La France, pays de mission?, Paris, Éd. de l’Abeille, 1943.
39 Y. Lambert, Dieu change en Bretagne. La religiosa à Limerzel, de 1900 à nos jours, Paris,
Cerf, 1985.
180
Danièle Hervieu-Léger
Tabella 10. Diminuzione dei luoghi di culto nei comuni rurali* tra il 1980 e il 1988
(valori in percentuale).
1980
1988
Luoghi di culto con funzione settimanale
Comuni rurali fuori Zpiu**
Comuni rurali in Zpiu**
Periferie
Città-centri
Francia intera
57,1
69,6
90,2
99,6
66,9
47,9
62,7
88,1
99,3
59,6
Ministri del culto residenti nel comune
Comuni rurali fuori Zpiu**
Comuni rurali in Zpiu**
Periferie
Città-centri
Francia intera
25,5
37,3
68,8
95,2
37,3
19,0
30,3
63,3
93,7
30,9
* I comuni rurali sono i comuni con meno di 2.000 abitanti, agglomerati e non annessi a un
agglomerato multicomunale.
** Zpiu: Zone di popolamento industriale e urbano.
Fonte: Institut National de la Statistique et des Études Éconornique (Insee), Inventari comunali, 1980 e 1988.
4. Modernizzazione e trasformazioni dell’«immaginario parrocchiale» della
Francia cattolica
Quali sono i fattori che permettono di spiegare questo mutamento?
Sul piano più generale, si evocherà costantemente l’avanzata del processo di secolarizzazione. Si riprenderà, ancora una volta, l’analisi di questo movimento di razionalizzazione, specifico della modernità, che produce il «disincanto» progressivo del mondo, contemporaneamente alla
perdita di plausibilità delle «visioni cosmiche del sacro» che davano unità
e senso a questo mondo vissuto. Queste classiche analisi sono troppo
note perché vi si indugi a lungo. In un universo caratterizzato al tempo
stesso dal dominio generalizzato del pensiero e del calcolo razionali e
dall’autonomia e dalla specializzazione crescenti dei diversi settori dell’attività umana, anche il campo religioso tende a essere solo più un campo istituzionale specializzato. Funzionando seconda una regola del gioco
che gli è propria, esso continua a far riferimento alla visione di un uni-
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
181
verso soprannaturale, visione progressivamente screditata da una
cultura scientifica e tecnica divenuta egemonica. Il rifiuto culturale
della visione religiosa di un mondo unificato è quindi inseparabile dal
rifiuto sociale del campo religioso, rifiuto che si manifesta, in primo
luogo, nella perdita di influenza delle religioni storiche sulla società.
Tuttavia, se le traiettorie religiose di tutte le società moderne seguono
generalmente questo processo culturale di lunga durata, ognuna appare,
nella specificità del suo percorso, più complessa. E pure il caso della
Francia, anche se gli studi empirici sul calo dell’osservanza cattolica sembrano confermare, in modo particolarmente massiccio, le grandi ipotesi
classiche sulla secolarizzazione ineluttabile delle società moderne.
Di questa complessità si prenderà in considerazione un solo esempio: i francesi, anche se sono per la stragrande maggioranza cattolici,
vanno sempre meno a messa la domenica. Vuol dire che la razionalità
moderna alla quale partecipano sempre più intensamente li allontana dalla
credenza e dal culto religioso? Le cose non sono così semplici: prima
di tutto perché la perdita di osservanza non significa automaticamente la perdita di credenza (anche se questa tende a conformarsi sempre
meno strettamente all’ortodossia definita dall’istituzione cattolica40.
Da un sondaggio Ifop-La Vie del 1986 risulta così che l’esistenza di
Dio resta considerata come certa dal 31 per cento dei francesi, probabile dal 35, improbabile dal 14 ed esclusa dal 12. L’8 per cento non
risponde. Alla domanda «Gesù Cristo, per voi, è il Figlio di Dio?», il 64
per cento risponde affermativamente, il 17 negativamente e il 19 non
ha opinione. Si osserva che queste cifre sono approssimativamente
comparabili con quelle che erano state ottenute nel corso di un sondaggio dello stesso tipo effettuato nel 1958.
Peraltro, la scomparsa relativa della fede e della pratica cattolica non
manifesta che in parte il dominio crescente di un pensiero razionale in
accordo con le norme della scienza e della tecnica: essa favorisce anche
il proliferare di credenze e pratiche rimaste marginali fintanto che la
sfera del credere era strettamente controllata dall’istituzione cattolica.
Così, il consumo di oroscopi — che non attesta precisamente il trionfo
della razionalità moderna — aumenta regolarmente a partire dagli anni
40 Da un sondaggio effettuato nel 1986 risulta che il 20 per cento dei francesi
credeva nella reincarnazione. Peraltro, il 51 per cento degli intervistati dichiara di
credere nella resurrezione del Cristo, i137 nella Trinità, i141 alla presenza reale
nell’Eucarestia, il 43 all’Immacolata Concezione, il 35 al peccato originale e il 24 al
demonio (Sondaggio Ifop-La Vie 1986). Per un’analisi approfondita di questo
sondaggio si faccia riferimento all’opera di J. Maitre, G. Michelat, J. Potel e J. Sutter,
Les Français sont-ils encore catholiques?, Paris, Cerf, 1991.
182
Danièle Hervieu-Léger
sessanta, nello stesso momento in cui si sviluppa la rubrica di astrologia
dei quotidiani e dei periodici41. Inoltre, Guy Michelat e Daniel Bois hanno potuto mostrare che le credenze nel paranormale e nelle parascienze,
lungi dall’interessare soltanto strati sociali arretrati della modernità, tendevano al contrario ad aumentare con il livello culturale e sociale degli
interessati42. Questi dati suggeriscono che l’avanzata della razionalizzazione, sotto l’egida del pensiero scientifico e tecnico, susciti, sulle sue orme, lo sviluppo di credenze e di pratiche che si contrappongono all’ortodossia ufficiale della modernità. Dunque, il rifiuto sociale e culturale dell’influenza cattolica sulla società, se risulta in parte dall’affermazione
massiccia di questa ortodossia, costituisce al tempo stesso un fattore favorevole all’espansione di questa «nebulosa di eterodossie» che si sviluppa contro di essa.
Piuttosto che far derivare meccanicamente il calo di credenze e pratiche religiose istituzionalmente regolamentate dal processo di secolarizzazione, occorre quindi cogliere quest’ultimo come un processo complesso di ricomposizione della sfera della fede, e tentare di mettere in luce le evoluzioni sociali che, in una società specifica, hanno potuto contribuire a determinare l’orientamento del processo stesso.
L’analisi completa di queste evoluzioni è un compito che sconfinerebbe dal quadro del presente saggio. Ci si preoccuperà qui soltanto di
sottolineare alcuni dei cambiamenti che, negli ultimi venticinque anni,
hanno svolto un ruolo particolarmente decisivo nella destabilizzazione
del modello antico della civiltà parrocchiale. Più esattamente, si prenderanno in considerazione quelli di essi che hanno favorito la scomparsa dei punti di riferimento fondamentali che strutturavano l’immaginario di questa civiltà. Si può osservare, infatti, che l’universo immaginario della parrocchia ha poggiato, per parecchi secoli, su tre pilastri fondamentali: una visione della famiglia che incarnava un ideale di stabili41 Negli anni 1979-80, il 63 per cento dei quotidiani presenta una rubrica di oroscopo.
La proporzione è la stessa per i periodici. Vent’anni fa, questa proporzione era soltanto
della metà. Tra i quotidiani, la distinzione tra quelli nazionali e quelli regionali è molto
netta (39 per cento contro 72 per cento). Le riviste settimanali femminili hanno quasi
tutte un oroscopo (92 per cento). I periodici che sfuggono a questa invasione sono: la
stampa cattolica, gli organi dei partiti politici, le pubblicazioni scientifiche e tecniche che
restano sotto la dipendenza delle grandi entità di regolazione cognitiva e comportamentale che sono le confessioni religiose dominanti, le istituzioni scientifiche e i partiti
politici. Su questa «nebulosa di eterodossie», si veda J. Maitre, voce «Horoscope» in
Encyclopedia Universalis, nuova edizione e il suo articolo «Les deux c6tés du miroir. Note
sur l’évolution religieuse actuelle de la population frangaise par rapport au catholicisme»
in L’année sociologique, 3a serie, XXXVIII, 1988.
42 si veda D. Bois e G. Michelat, «Croyances aux parasciences: dimensions sociales et
culturelles» in Revue frawaise de sociologie, 27, 1986, pp. 175-204.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
183
tà locale e di continuità che alimentava i modelli religiosi della comunità;
una visione di compensazione, assicurata da una buona vita di osservanza, tra le difficoltà del mondo presente e la felicità promessa nell’altro;
una visione del mondo rurale, infine, in cui si rifletteva l’immagine di un
mondo in ordine, che riconciliava la terra e il cielo, la natura e il soprannaturale. Nonostante scosse successive — dalla crisi rivoluzionaria alla
rivoluzione industriale —, i fondamenti referenziali dell’universo parrocchiale sono stati praticamente conservati fino alla prima guerra mondiale. Le prime imperfezioni, nell’evidenza di questo mondo d’osservanza,
apparvero irreversibili solo nel periodo tra le due guerre43. Sono però gli
anni cinquanta, anni della ricostruzione e della modernizzazione economica accelerata della Francia, che segnano la fine vera e propria di questa
«parrocchia sognata», che, al dí là dell’effettività delle pratiche religiose,
continuava a nutrire nell’immaginario l’identità cattolica dei francesi.
Il crollo della famiglia tradizionale, orientata tutta verso la riproduzione della vita e la trasmissione, di generazione in generazione, di un
patrimonio biologico, materiale e simbolico, non risale alla prima metà
del secolo XX. I lavori dei demografi e degli storici hanno mostrato
che il processo è in corso. già a partire dal secolo XVIII, concretizzato
in parte nelle rivoluzioni della società civile operate dalla rivoluzione
francese. Il secolo XIX è già contrassegnato dalle due tendenze caratteristiche della modernità familiare: un ripiegamento sulla famiglia ristretta, da un lato, un’influenza statale crescente sulle famiglie, attraverso lo sviluppo della scuola obbligatoria e delle istituzioni di assistenza
sanitaria, dall’altro44. Il momento determinante, per il periodo contemporaneo, si situa alla metà degli anni sessanta, allorché si invertono di
nuovo le curve demografiche, caratterizzate, negli anni 1945-50, da una
forte ripresa della fecondità e della nuzialità. A partire dal 1965, si osserva una diminuzione generale della fecondità (la famiglia media ha due
figli invece di tre), un calo anche molto netto della nuzialità accompagnato da un aumento dell’età media al matrimonio (dal 1972 al 1985, il
numero dei matrimoni è diminuito di un terzo), e infine un aumento dei
divorzi il cui tasso passa dal 10 per cento prima del 1965 al 30 per cento
nel 1989. Si valuta a due milioni il numero delle coppie non sposate. La
percentuale dei figli nati al dí fuori del matrimonio è passata dall’Il per
cento nel 1960 al 16 nel 1983 e al 24 nel 1987. Queste evoluzioni
Si veda Y. Lambert, Dieu change en Bretagne cit.
Su questa traiettoria storica dei modelli familiari e sulla situazione contemporanea
della si veda L. Roussel, La famille incertaine, Paris, Ed. Odile Jacob, 1989.
43
44
184
Danièle Hervieu-Léger
quantitative sono accompagnate da grosse trasformazioni qualitative, sostenute da evoluzioni legislative importanti (maggiore flessibilità del diritto matrimoniale, da un lato, liberalizzazione della contraccezione e dell’aborto, dall’altro). L’individuo, la sua realizzazione, la sua felicità passano
in primo piano: ci si aspetta dalla famiglia che essa si dedichi alla soddisfazione dei bisogni emotivi e affettivi vissuti nel presente, senza che prevalga la considerazione della stirpe e della sua continuità. Questo non significa che la vita familiare abbia meno importanza: parecchi indici confermano al contrario il posto del focolare domestico come orizzonte e luogo
della vita dei francesi45. Ma la stabilità familiare è passata, di fatto, in secondo piano, nella misura in cui può costituire un ostacolo alla realizzazione della sua funzione affettiva ed espressiva. Questa mobilità nuova
delle strutture familiari fa prevalere, secondo la tipologia di Louis Roussel, la «famiglia fusionista» o la «famiglia club» sulla «famiglia storia»46. Essa segna anche il crollo di un’immagine dell’ideale familiare che si integrava perfettamente nel mondo parrocchiale dell’osservanza e ad esso forniva, nell’ordine profano delle convenienze, il suo corrispettivo esatto.
Lo sviluppo accelerato della mobilità geografica, legato alle ridistribuzioni dell’impiego, ha completato questo cambiamento, delocalizzando in modo massiccio le famiglie: si nasce, ci si forma, si lavora, si abita,
si va in pensione, si muore in luoghi diversi. La perdita dell’identificazione locale accresce la perdita dell’identificazione di stirpe; questo doppio
movimento ha definitivamente scalzato due dei sostegni essenziali dell’immaginario parrocchiale: l’ideale di trasmissione continua e l’ideale di
radicamento locale.
Un secondo aspetto della scomparsa della civiltà parrocchiale è legato alla trasformazione degli stili di vita in un’economia in crescita, e
ai cambiamenti dei paradigmi di salvezza che ne risultano. Yves Lambert ha ben mostrato, nel suo studio sulle trasformazioni della vita religiosa nel villaggio bretone di Limerzel a partire dall’inizio del secolo, il
legame che esisteva tra l’osservanza fedele delle prescrizioni della Chiesa
45 Si veda M.-C. la Godelinais e Y. Lemel, «L’évolution du mode de vie.
Bouleversements et permanences sur fond de croissance» in Insee, Données sociales,
Paris, 1990, pp. 182 sgg.
46 La famiglia fusionista è caratterizzata dal primato esclusivo attribuito all’intensità
degli scambi affettivi. Di una vulnerabilità estrema di fronte alla disillusione del
sentimento amoroso, essa è caratterizzata dal numero più elevato di divorzi. La
famiglia club è caratterizzata dal primato attribuito all’autonomia degli individui che la
costituiscono. Essa si basa su una valutazione realista dei vantaggi e dei vincoli della
vita comune. La famiglia storia è fondata sull’articolazione tra la solidarietà affettiva e
un «patto di continuità» consapevolmente assunto dai suoi membri: L. Roussel, La
famille incertaine cit., cap. 6.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
185
nel campo del culto e l’attesa di una salvezza ultramoderna che sarebbe
venuta a ricompensare la «buona vita» condotta su questa terra, a dispetto delle difficoltà e delle sofferenze. Egli ha mostrato nello stesso tempo
i cambiamenti introdotti, in questa concezione della salvezza, dal miglioramento continuo degli stili di vita, che rendeva plausibile l’accesso alla
felicità in questo mondo. Questa analisi potrebbe, in realtà, essere estesa
alla totalità delle parrocchie di Francia. I «dorati anni sessanta», armi di
forte crescita, che hanno favorito l’arricchimento dei francesi e il loro accesso alla società dei consumi, hanno amplificato e generalizzato queste
tendenze47. La crisi economica, sopraggiunta dopo la prima crisi petrolifera del 1973, non ha rimesso in questione tale evoluzione di fondo: il
diritto a partecipare al benessere è, per la gran maggioranza dei francesi,
entrato a far parte delle certezze e i limiti alla realizzazione di questa promessa (la permanenza della disoccupazione a un tasso del 10 per cento,
in particolare) sono percepiti come scandali sociali e morali.
Va da sé che non esiste alcuna determinazione puramente meccanicistica tra l’accesso di massa al benessere — al di là dei soprassalti congiunturali dell’economia — e la perdita delle attese tradizionali di una
salvezza ultraterrena. Questi dati economici e sociali acquisiti dopo
trent’anni non sono che l’espressione materiale di un processo che riguarda nello stesso tempo l’economia e la mentalità, e che ha attinenza,
in modo generale, con la questione del rapporto con il godimento in una società capitalista avanzata. Il problema principale delle economie occidentali, e in particolare dell’economia francese, non è più, ora che siamo
alla fine del secolo, la repressione del godimento, ma quello della regolazione, dell’orientamento e della direzione delle aspirazioni individuali
e collettive, e delle pratiche di consumo. Il dispiegamento, nell’ideologia dominante, dei temi del diritto alla felicità e alla realizzazione individuale, la forza di imperativi come «essere giovani», «star bene nella
propria pelle», «liberare la propria sessualità» e così via, corrispondono
a questo riorientamento di un sistema economico condotto, dalla sua
logica produttiva, a controllare sempre più strettamente la domanda di
beni, di tempo e di simboli che esso deve creare per riprodursi. In questa nuova situazione socioeconomica, la tematica cristiana del non-godimento in vista della salvezza ha definitivamente perso qualsiasi cre47 La quasi totalità dei francesi dispone del telefono e della televisione. 11 70 per
cento delle famiglie beneficia di alloggi forniti di tutti gli elementi del comfort
moderno, il 75 di un’automobile, il 60 va in vacanza. Inoltre, su una fascia d’età, il 44
per cento dei giovani ha sostenuto la maturità nei 1990.
186
Danièle Hervieu-Léger
dibilità. Quindi essa, pienamente coerente con le esigenze di accumulazione del capitalismo ma divenuta oggi inadeguata agli ideali di un capitalismo molto avanzato, ha trovato, nella civiltà parrocchiale tradizionale, un vettore efficace: gli orientamenti della predicazione, della pratica
della confessione e della catechesi, l’accento messo sulla regolarità
dell’osservanza, il valore attribuito alla sottomissione alla gerarchia e la
rigidità della divisione del lavoro religioso erano in affinità elettiva con
un regime economico (e con una concezione dell’impresa) oggi completamente modificato. Nell’epoca della «cultura dell’iniziativa», della «creatività» valorizzata, della mobilità delle funzioni e del primato del consumo sulla produzione, l’universo parrocchiale si trova in una situazione
precaria. Le riconversioni interne del modello parrocchiale, che si autodefinisce sempre più come una continuità volontaria, in cui le responsabilità pastorali devono essere condivise tra tutti, dove ci si aspetta dal
prete che si comporti come un professionista competente più che come
un uomo del sacro, possono essere considerate, da un lato, come tentativi di adattamento alle norme di un universo socioeconomico, rispetto
alle quali il dispositivo organizzativo e ideologico antico della parrocchia
appare sfasato. L’inerzia del diritto ecclesiastico, e la difficoltà del corpo
clericale ad accettare una ridefinizione altrettanto completa del suo statuto, limitano la portata di queste innovazioni. Comunque stiano le cose, è
la necessità stessa di un’alleanza tra questa nuova situazione economicoculturale e l’etica cristiana della salvezza che si trova qui messa in discussione. L’analisi di un tale cambiamento richiederebbe ampi sviluppi: qui
si prenderà in considerazione solo la profonda destabilizzazione che ne
risulta per un universo parrocchiale che si è pensato e costruito storicamente come dispositivo di regolamentazione dell’accesso dei fedeli osservanti alla salvezza promessa dopo la morte.
Occorre infine evocare, come fattore essenziale della destrutturazione della civiltà parrocchiale, la fine del mondo rurale che ne ha costituito,
per secoli, la matrice, reale e immaginaria. Non è il caso di riprendere qui
i temi delle analisi, fiorenti nel periodo tra le due guerre, che imputavano
la «crisi religiosa del mondo moderno» alla perdita dei valori fondamentali della terra, sotto la spinta dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Eredi dell’intransigentismo antirnoderno che trionfava nel
cattolicesimo francese della seconda metà del secolo XIX, queste analisi,
orientate alla lotta contro il mondo moderno, hanno nondimeno trovato
un’eco nella sociologia nascente del cattolicesimo: per il decano Le Bras,
il trapianto urbano legato all’esodo rurale costituiva il fattore più
ineluttabile di distacco religioso. «Io sono persuaso — osservava — che
su cento contadini che si stabiliscono a Parigi, ce ne siano circa novanta
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
187
che, nel momento in cui escono dalla stazione di Montparnasse, cessano
di essere praticanti». Tale convinzione corrispondeva allora a un’idea
molto diffusa nel clero, anche urbano: quella dell’effetto pervertitore e
corruttore delle grandi città, opposto sotto tutti gli aspetti all’influenza
della Chiesa. Al di là di questo dibattito ideologico, che rifletteva, ancora
una volta, l’antagonismo delle due France, c’era nondimeno un’intuizione sociologica profondamente giusta, riguardo al fatto che il destino della Chiesa di Francia appare, lungo tutto il corso della storia,
legato a quello delle campagne. Come osserva Emile Poulat:
In una società in cui la terra era la base dell’economia e la fonte della nobiltà, il cristianesimo ha assunto una configurazione rurale che né i secoli né le
profonde trasformazioni dei mezzi di produzione sono riusciti a cancellare
(...). Questa situazione economico-geografica, che ha tanto pesato sull’organizzazione ecclesiastica, ha profondamente segnato la mentalità cattolica, non
solo a livello di quella che viene chiamata la religione popolare, con le sue tipiche tradizioni e i suoi sincretismi, ma fin dentro le forme più ufficiali della
liturgia, dell’insegnamento, della spiritualità, e persino del diritto canonico48.
Numerose ricerche hanno studiato il collegamento che è esistito, a
causa di questo radicamento rurale del cattolicesimo francese, tra il processo di modernizzazione (e l’esodo rurale che esso implicava) e Ia perdita di influenza dell’istituzione ecclesiastica sulla società francese, nel
corso dei secoli XIX e XX. I risultati di queste ricerche sono ben noti, e
non è necessario soffermarvisi. Quello che qui interessa sono le evoluzioni più recenti che riguardano meno il rilievo effettivo — e decisamente minoritario — del mondo rurale nell’economia e nella società francese49 e più l’immagine del contadino, e la simbologia ad essa legata, nell’immaginario collettivo dei francesi. La civiltà parrocchiale, da molto
tempo messa in difficoltà, nell’effettività della sua realizzazione, da una
48 E. Poulat, «La découverte de la ville par le catholicisme francais contemporain» in
Annales Esc, 6, XVI, novembre-dicembre 1960, pp. 1168-79.
49 La popolazione agricola rappresenta attualmente il 7 per cento della popolazione
attiva francese: 1,6 milioni di persone. Essa corrisponde a una perdita di 4 milioni di
posti di lavoro in quarant’anni. I giovani di meno di 15 anni rappresentano solo il 15 per
cento di questa popolazione, mentre le persone di più di 55 anni sono il 32 per cento. Più
di 500.000 gestori di aziende agricole (su circa 1.000.000 di aziende agricole) hanno
raggiunto o raggiungeranno l’età pensionabile entro il periodo 1993.95. Su questi 500.000
gestori 150.000 hanno un successore, 200.000 non ce l’hanno (per 100.000 la successione
è incerta). Certo, rispetto alla popolazione urbana, la popolazione rurale si stabilizza (il 27
per cento della popolazione francese abita in comuni rurali, cioè comuni di meno di
2.000 abitanti che non fanno parte di un agglomerato). Ma all’interno di questo mondo
turale, poco meno di un terzo delle persone ormai è costituito da contadini. Poco più di
un terzo delle persone sono operai, un terzo appartiene al settore dei servizi: B. Hervieu,
«Des paysans aux agriculteuri» in Cahiers pour croire aujourd’hui, 19, 15 giugno 1988.
188
Danièle Hervieu-Léger
modernizzazione che svuotava i villaggi e trasformava i contadini in agricoltori, ha continuato nondimeno a esistere come riferimento immaginario della vita agreste, facendosi forte di un altro mito, quello della società contadina. Al centro del mito c’è l’immagine del contadino che nutre la società, testimone di una relazione privilegiata e intima con la natura, detentore di saperi ancestrali, depositario di valori radicati in una tradizione remota, che sviluppa, in seno a comunità stabili, le forme di relazione con altri uomini che sono alla base di qualsiasi società umana. La
fortuna politica che ha avuto, in Francia, tale mitologia del mondo contadino è ben nota50. Questa visione ha però profondamente permeato
anche i modelli comuni di una civiltà parrocchiale che si autopercepiva
come l’espressione trascendente di questa civiltà contadina nella quale
essa prendeva corpo. Questa affinità elettiva della società contadina e del
mondo rurale è stata direttamente esplicitata nella visione del Regno di
Dio da instaurare sulla terra sviluppata dai movimenti d’Azione cattolica
in ambiente rurale51. Ma si potrebbe mostrare a che punto essa abbia penetrato i discorsi sulla comunità parrocchiale, fino a un’epoca recente.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un crollo dell’immagine del
contadino che distrugge contemporaneamente il mito della società contadina. I conflitti nati attorno ai contingenti di latte concretizzano questo
ribaltamento: per la prima volta nella loro storia, i contadini si vedono
proibire la produzione. Nello stesso tempo, si misurano i danni causati
all’ambiente da un’agricoltura preoccupata unicamente della redditività
produttiva: da custode della natura che era, il contadino si vede accusato
come persona che inquina. Inoltre, sovrapproduzione e inquinamento
costano cari alla società: colui che nutriva gli uomini si vede rimproverare di essere un assistito, che vive alle spalle dello Stato, e quindi dei contribuenti. Preso in questo nodo di contraddizioni, l’agricoltore moderno
tende lui stesso a sottrarsi al mito che le organizzazioni professionali si
sforzano ancora di preservare: che un allevatore francese abbia potuto
far bruciare un camion inglese carico di pecore vive è, da questo punto
di vista, molto più che un fatto di cronaca sconcertante. Al di là della disperazione individuale, è l’indifferenza nei confronti della materia
viva ridotta alla condizione formale di puro mezzo di produzione che
viene espressa da questo atto che tanto ha colpito l’opinione pub50 Si veda M. Gervais, M. Jollivet e Y. Tavernier, Histoire de da France rurale, torno 4,
La fin de la France paysanne, Paris, Seuil, 1977.
51 Si veda W Hervieu e A. Vial, «L’église catholique et les paysans» in L’Univers politique des paysans dans la France contemporaine, A. Colin-Fnsp, 1972, pp. 291-314.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
189
blica. Con esso crollava, simbolicamente, quella visione dell’« ordine eterno della terra» che continuava ad alimentare contemporaneamente
l’immaginario politico e l’immaginario religioso dei francesi. Questa
morte simbolica della società contadina, ultimo stadio della «fine dei
contadini», conclude il processo di disgregazione della civiltà parrocchiale avviato con quello della modernizzazione delle campagne.
5. La scomparsa dei militanti
Che cosa è avvenuto, nel momento in cui crollava l’armatura pratica, ideologica e simbolica della civiltà parrocchiale, del sogno di riconquista cristiana della società, nutrito — almeno nel suo emergere —
dall’ambizione di ricondurre tutti i francesi alla pratica regolare nella
struttura parrocchiale? La storia dei movimenti cattolici, da una
trentina d’anni, mostra che esso ha perso qualsiasi consistenza pratica
e teologica a mano a mano che si è sviluppata l’esperienza dei militanti
e dei preti missionari, messi di fronte non solo alla perdita di influenza
dell’istituzione nei diversi «ambienti» in cui essi si impegnavano, ma
anche alla perdita di plausibilità del messaggio cristiano, in una società
che vive ormai senza riferimento religioso.
Quello che i militanti dell’Azione cattolica rifiutavano, così come
combattevano la diffusione inarrestabile della perdita di fede religiosa,
era lo sviluppo di una «religione a uso privato», riguardante esclusivamente la coscienza di ciascuno e disposta ad accettare la specializzazione moderna delle istituzioni il confinamento della Chiesa in uno spazio
sociale delimitato. Figli di un integralismo cattolico spogliato delle sue
pretese restauratrici, essi si opponevano fermamente a questo cattolicesimo falsamente «illuminato», nato dal giansenismo e dal gallicanesimo,
che rifiutava l’intervento della Chiesa nel campo sociale e politico e
accettava che «il prete fosse rinchiuso in sacrestia». L’azione dei laici
cristiani nel loro ambiente tendeva, in modo esplicito, a «mettere tutta
la religione in tutta la vita». In questa formula si trova racchiuso tutto il
dilemma del «militante cristiano», penetrato dalla responsabilità che gli
incombe, in una Francia diventata «terra di missione». Per un cattolico
vero, mettere tutta la religione in tutta la vita equivale a rimettere la
Chiesa al centro della società. L’ideale di vita del cristiano convinto
non può essere separato dall’azione volta a promuovere l’affermazione
della presenza della Chiesa in tutte le dimensioni della vita sociale; ma è
l’esperienza stessa dell’impegno nel mondo in nome di questo ideale
che provocherà la dissociazione progressiva di questi due aspetti, for-
190
Danièle Hervieu-Léger
oralmente inseparabili, del progetto integrale, provocando al tempo
stesso quelle crisi ricorrenti (e spesso estremamente violente) che hanno
scandito per trent’anni le relazioni tra i movimenti militanti laici e la gerarchia52.
La logica di queste crisi era in realtà già evidente negli anni trenta,
quando si verificarono le prime tensioni; essa non cesserà di manifestarsi, rafforzandosi, sino alla fine degli anni sessanta, quando è crollata, in
Francia, la struttura specializzata dei movimenti di Azione cattolica: in
un primo tempo, la «presa a carico » dell’ambiente e dei suoi bisogni
porta i militanti a sposare intensamente le aspirazioni collettive che vi
sono presenti, e nelle quali essi leggono un’« attesa» propizia allo svolgimento della loro attività missionaria. Questa solidarietà vissuta dall’interno di una condizione sociale con la quale essi vogliono identificarsi
integralmente, li porta a impegnarsi a fianco di coloro che lottano per la
realizzazione di queste aspirazioni nel quadro delle organizzazioni sindacali operaie, rurali o studentesche", e ben presto, sul terreno direttamente politico. Ha inizio allora una seconda fase: quella della rivendicazione di autonomia. Questi impegni secolari richiedono rapidamente
prese di posizione e azioni che non devono nulla alle norme religiose.
Far riferimento alla gerarchia ecclesiastica in tali circostanze sarebbe vissuto come uno snaturamento della lotta sociale e comporterebbe un rischio di isolamento dei militanti cristiani, in seno all’«ambiente» di cui
per l’appunto essi si vogliono pienamente membri.
Questa affermazione di autonomia è però, in quanto tale, inaccettabile per la gerarchia, che ha dato l’incarico a questi laici cristiani di svolgere una missione religiosa, e solo religiosa. Il conflitto scoppia — nella
terza fase — non appena il movimento, invocando l’esperienza specifica
e la solidarietà vissuta dei suoi militanti, adotta pubblicamente, su un
problema particolare, sociale, politico, intellettuale o altro, un punto di
vista diverso dalla posizione della Chiesa; oppure quando si impegna, in
quanto movimento di Chiesa, in un campo in cui l’istituzione si è
astenuta da qualsiasi intervento.
Questo schema ideal-tipico di una crisi ripetutasi più volte nella storia dei movimenti di Azione cattolica è da accostare alle tensioni, spesso
drammatiche, che hanno contrapposto alcuni «preti al lavoro», o mem52 Si veda D. Hervieu-Léger, De la mission à la protestation. L’évolution des étudiants chrétiens
1965-1970, Paris, Cerf, 1973.
53 Louis de Vaucelles presenta una sintesi di queste evoluzioni in «Poi et politique.
L’évolution de leurs rapports au sein des mouvements d’Action Catholique spécialisée» in
Communio , 2, IV, marzo-aprile 1979 e in «Essai sur les difficultés présentes de l’Action
Catholique» in Etudes, marzo-aprile 1974, pp. 421-36.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
191
bri di ordini religiosi54, o membri di società di preti missionari55, a una gerarchia preoccupata anzitutto di mantenere il carattere «integralmente
spirituale» del sacerdozio, e la condizione sociale separata del clero: questi grandi conflitti che hanno traumatizzato la Chiesa di Francia prima
del Concilio vaticano II erano portatori di implicazioni teologiche ed ecclesiologiche di primaria importanza. Ma, dal punto di vista sociologico,
essi hanno costituito una vera e propria contromisura al confronto di un
progetto integralista con la realtà vissuta delle autonomie moderne. Essi
hanno rappresentato, in particolare, il momento decisivo di una modificazione fondamentale del rapporto con la sfera politica dei militanti cattolici, preti e laici. Per gli uni come per gli altri, la parola d’ordine iniziale
della missione era la ricristianizzazione di una società che sfuggiva alla
tutela della Chiesa, vale a dire all’influenza della civiltà parrocchiale. Il fallimento pratico della riconquista ha prodotto, in una prima fase, la trasposizione sul terreno etico del progetto missionario stesso: non potendo rimettere la Chiesa al centro della società, l’obiettivo diventò quello di
rimodellare questo mondo che le sfuggiva infondendovi, dall’interno, i
valori cristiani di cui l’istituzione era garante. Ci fu un nuovo slittamento,
dal momento che il rinnovamento etico del mondo cominciò a definirsi
esso stesso come un modo di dare «pienezza spirituale» ai valori di cui
questo mondo era già portatore. Questi slittamenti successivi, dalla riconquista religiosa alla crociata etica, dalla crociati etica all’accompagnamento spirituale di un mondo in cammino verso la sua realizzazione,
hanno alimentato la costruzione progressiva di una vera e propria «teologia del mondo». Questa si presenta come una teologia ottimista della
società, considerata come lo spazio di realizzazione del progetto religioso: teologia che rovescia in senso positivo il pessimismo antimoderno dell’intransigentisrno dassico, prendendo atto delle aspirazioni al cambiamento che fermentano nella società. Caratteristica dei
«dorati anni sessanta», anni gloriosi nei quali nessun limite sembrava
poter arrestare l’avanzata della modernizzazione economica e sociale,
questa rilettura religiosa positiva della storia e della società ha trovato
il suo pieno riconoscimento istituzionale nel Concilio vaticano II,
senza che i suoi fondamenti integralisti fossero per questo formalmente rimessi in questione: il mondo in cui si manifestano i «se54 Si veda F. Le Prieur, Quand Rome condamne. Dominicains et prétres-ouvriers, Paris,
Cerf-Plon, Collection Terre Humaine, 1989.
55 Si vedano, ad esempio, J. Vinatier, Le cardinal Liénart et la mission de France, Paris,
Centurion, 1978; R. Wattebled, Stratégies catholiques en monde ouvrier dans la France d’aprèsguerre, Paris, td. Ouvrières, 1990.
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Danièle Hervieu-Léger
gni dei tempi» rimane un mondo in cui la Chiesa, «esperta di umanità», conserva la vocazione esclusiva a essere interprete del significato.
Questa ambiguità del riconoscimento cattolico della positività del
mondo, strutturalmente estranea alla considerazione delle logiche autonome del mondo moderno, nell’ordine politico in particolare, è, paradossalmente, al centro del processo che ha portato, negli anni settanta,
un certo numero di militanti cattolici, tra i più impegnati, a una vera e
propria esaltazione religiosa dello stesso aspetto politico. Nella misura in
cui Io spazio proprio del politico non poteva essere riconosciuto come
tale, dal punto di vista religioso, nessun limite poteva neppure essere assegnato all’impegno politico dei cristiani, dal momento che l’ambito politico stesso diventava per loro il campo di esercizio della missione. La
reversibilità completa del fatto religioso nel fatto politico era potenzialmente presente (tanto quanto la negazione precedente del politico) nel
rifiuto integralista di considerare la realtà moderna della differenziazione
istituzionale. Lo sviluppo, alla fine degli anni sessanta, di un movimento
sociale potente che accreditava la plausibilità di un cambiamento sociale
rapido e profondo ha fornito le condizioni esterne necessarie per effettuare questo spostamento dal «tutto religioso» al «tutto politico», per una
frangia importante di militanti laici e di preti conquistati dall’«integralismo positivo» degli anni sessanta. L’instaurazione di una società radicalmente nuova poteva tanto più facilmente confondersi per loro con la
costruzione del Regno, per il fatto che la riconquista spirituale per la
quale la Chiesa stessa li aveva mobilitati non era mai stata pensata indipendentemente dalla riconquista dell’influenza normativa dell’istituzione
sulla società. Ma la traiettoria, dalla reintegrazione istituzionale all’utopia
rivoluzionaria, è stata possibile solo perché si innestava essa stessa in un
processo di utopizzazione del fatto politico caratteristico della fine degli
anni sessanta. Se il maggio 1968 ha costituito, per un certo numero di
cattolici francesi molto impegnati nell’azione missionaria, «un evento
della loro esperienza religiosa», è perché l’impegno politico stesso poteva
essere da loro vissuto come un’esperienza totale, in cui erano presenti
credenze, entusiasmi, dedizioni ascetiche e addirittura esperienze mistiche, tutti tratti caratteristici, secondo Max Weber, dell’esperienza religiosa nel senso sociologico del termine56.
Colto sotto questa nuova prospettiva, il conflitto che ha opposto l’istituzione cattolica a una parte dei suoi militanti «passati all’ambito po56 Si veda D. Hervieu-Léger, «Mai 1968 et les catholiques. Le cas de la Míssion ttucliante». in Pierre Collo (a cura di), Les catholiques ftLan9ais et l’héritage de 1789. D’un centenaire à l’autre, 1889-1989, Paris, Beauchesne, 1989.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
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litico» negli anni sessanta-settanta può essere letto come un processo di
secolarizzazione interna dell’integralismo, che salvava, paradossalmente,
la dimensione «religiosa» dell’impegno.
Ma questa corrispondenza tra l’esperienza religiosa e quella politica fu
di breve durata. Essa non poté resistere al raffreddamento dell’utopia
politica provocato dal movimento sociale degli anni sessanta. Essa non
resistette, soprattuto, ai cambiamenti del campo politico indotti dalla
crisi economica (e pertanto, culturale) che inizia alla metà degli anni settanta, e che provoca una rapida caduta dell’utopia nella sfera della politica, messa a confronto brutalmente con i vincoli della gestione di una
società complessa, in un ambiente sociale difficile. L’esperienza della
sinistra, arrivata al potere nell’euforia dei progetti sociali alternativi del
1981, e richiamata, a partire dal 1983, al pragmatismo disincantato del
realismo politico, ha costituito, da questo punto di vista, una svolta decisiva per la società francese, e in particolare per quest’ala dinamica del
cattolicesimo sociale che cercava, dal lato dell’utopia politica, il rinnovamento possibile di un progetto religioso privato di plausibilità sociale.
Crollo di un mondo di osservanza che costituiva la sostanza della civiltà parrocchiale, da un lato; disgregazione interna ed esterna dell’edificio utopico di un integralismo orientato verso la missione che aveva
alimentato i progetti di un cattolicesimo militante, dall’altro: sul piano del
pensiero come sul piano dell’organizzazione, o su quello dell’azione, il
cattolicesimo francese ha perso i suoi contrassegni tradizionali. Ormai la
modernità si impone ad esso, non più come un universo culturale
concorrente rispetto al quale gli sarebbe possibile situarsi, ma come una
matrice nella quale esso stesso si costituisce e si ricostituisce.
III. Alcune tendenze della modernità religiosa in Francia
1. «Rivoluzione silenziosa» e acculturazione alla modernità: alcune
evoluzioni recenti della sociabilità cattolica
I lavori empirici riguardo alla religiosità moderna rilevano ampiamente il legame che esiste tra il rifiuto costante dell’influenza delle istituzioni
religiose sulla vita quotidiana — professionale, familiare, politica, intellettuale, etica — degli individui moderni, o anche dei credenti moderni, e
la tendenza alla privatizzazione delle esperienze religiose individuali. Nel
caso della Francia, le considerazioni che precedono hanno evidenziato
la disarticolazione di fatto dei diversi elementi — «storia sacra, calendario, geografia sacra, onomastica, gestualità, etica, ermeneutica, po-
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Danièle Hervieu-Léger
litica, sapere» — che costituivano, secondo Emile Poulat, la struttura e la
sostanza di una cultura cattolica vissuta57. Con la civiltà parrocchiale si è
sgretolata, senza possibilità di ritorno, una religione vissuta nel
quotidiano, nella normalità delle relazioni sociali e interindividuali. La
questione che si pone ora è quella dei nuovi comportamenti che, nella
sfera cattolica, stanno apparendo sulle rovine di questo universo cattolico definitivamente disintegrato.
Un primo aspetto di questa trasformazione, legata alla scomparsa
progressiva della «religione-memoria», vissuta nell’immediatezza dei gesti
e delle relazioni di tutti i giorni, è lo sviluppo di una religiosità festiva, che si
esprime al contrario in modo extraquotidiano, nello straordinario e nell’eccezionale.
Questa dimensione dell’eccezionale, collegata o meno con una definizione del sacro, fa intrinsecamente parte dell’esperienza religiosa collettiva in generale. Si sa, a partire da Durkheim, che la specificità della
sociabilità religiosa tradizionale (e l’elemento costitutivo, per lui, di tutta
la società) si trova in questa relazione dialettica tra il quotidiano, minato
dalla routine e sempre minacciato di sgretolamento anomico, e la manifestazione dello straordinario garantito dalla festa religiosa e che permette la ricostruzione del legame sociale58.
Lo svuotamento della religione quotidiana istituzionalmente amministrata produce una situazione nuova, in quanto rompe la dialettica
strutturante del campo religioso tra la festa e il «religioso giorno per
giorno». Una nuova temporalità religiosa — temporalità dei «momenti
forti» — tende a sostituirsi alla temporalità critica della vita liturgica
quotidiana. Una nuova geografia religiosa — quella delle «roccaforti»
religiose — tende a imporsi accanto a forme di suddivisione religiosa
dello spazio che corrispondevano alle esigenze dell’amministrazione locale della religione quotidiana. Compaiono nuovi comportamenti, in relazione con questa visione trasformata del tempo e dello spazio religiosi, in particolare nella gioventù: non si assiste più alla messa della domenica nella propria parrocchia, ma si faranno chilometri per partecipare a
un raduno di Pasqua a Taizé, a un incontro di giovani all’abbazia dello
Bec-Hellouin o alla festa di Pentecoste a Paray-le-Monial. La religione,
sempre più disinnestata dalla memoria viva di una comunità localmente
situata, si concentra in «luoghi di memoria», «luoghi superstiti di una
57 E. Poulat, Modemistica, Paris, Nouvelles Editions Latines, 1982, cap. 3, «Le catholicisme comme culture».
58 La questione della festa religiosa è stata, in particolare, al centro dei dibattiti sulla religione popolare che hanno mobilitato la sociologia delle religioni in Francia negli anni settanta. Si veda F. A. isambert, Le sens du sacré. Féte et religion populaire, Paris, Minuit, 1987.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
195
memoria che non si abita più», ma pur non che più presente nel quotidiano, integrata e organizzatrice delle pratiche ordinarie, offre ancora abbastanza tracce per il compiersi di queste celebrazioni passeggere, rituali
episodici di una società senza rituali. La religione tutta intera (e il cattolicesimo in particolare, trattandosi della Francia) funzionerebbe come
«luogo di memoria» della modernità? L’analisi che propone Pierre Nora
dei rapporti tra memoria e storia nella società contemporanea apre una
prospettiva molto feconda per lo studio della religiosità moderna59. Ma si
può anche suggerire che questa nuova temporalità e questa nuova geografia del sacro corrispondano allo sviluppo di una nuova sociabilità religiosa, fondata sull’associazione volontaria, sul raduno temporaneo e sulla partecipazione mobile: sociabilità passeggera e fluida, «a scelta», che si
manifesta congiuntamente alle forze classiche della sociabilità parrocchiale e dell’équipe militante. Accanto al «praticante ordinario »,
uomo dell’osservanza regolare, accanto al «militante» che cerca in diversi
modi le vie di una religione vissuta «in tutta la vita», emerge la figura
nuova dell’«aderente festivo», che vive senza dramma interiore la
separazione di fatto tra una vita sociale e personale interamente
secolarizzata e una partecipazione religiosa organizzata secondo la modalità dell’extraquotidiano. Questo «aderente festivo» non manca di affinità, da questo punto di vista, con il praticante «stagionale»60. A differenza di quest’ultimo, però, la sua partecipazione non è una partecipazione riservata o limitata, che si definisce per difetto rispetto alle
norme fissate dall’istituzione. Essa è, in quanto tale, e in una forma che
può essere estremamente intensa, l’espressione di un’altra concezione e
di un altro modo di vivere il rapporto della religione con l’esistenza
personale, e nello stesso tempo il rapporto con la regola definita dall’istituzione. La molla principale della partecipazione non è più la prescrizione dell’istituzione, né l’impegno militante rispetto ad essa, ma il desiderio dell’individuo, che vi cerca, secondo combinazioni variabili, benessere, realizzazione personale, riattivazione puntuale di emozioni passate,
esperienza gratificante di fusione comunitaria istantanea e così via. Per
determinare la specificità di questa alternativa religiosa, rispetto alle visioni della «religione in tutta la vita» presentate dalla civiltà parrocchiale
del passato, nonché dalle utopie militanti della (ri)conquista cristiana
della società, bisognerebbe esaminare il legame che essa ha con la condizione di minoranza al tempo stesso oggettiva e soggettiva degli indivi59 P. Nora, «Entre mémoire et historie. La problématique des lieux» nel suo Les lieux de
mémoire, torno 1, La république, Paris, Gallimard, 1984.
60 Detto anche «praticante festivo» da certi autori, tra cui Serge Bonnet.
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Danièle Hervieu-Léger
dui religiosi in una società massicciamente indifferente. Occorrerebbe
anche individuare socialmente questi «aderenti festivi», seguendo le loro
traiettorie sociali e religiose, far apparire gli interessi socioreligiosi che si
esprimono attraverso l’« adesione festiva», esaminare infine le combinazioni possibili di questa con altre forme di partecipazione religiosa.
L’ipotesi di chi scrive è che lo sviluppo della religione «a uso privato»,
descritta da Martin, Berger, Luckmann e altri, e quello di questa «religione festiva», caratterizzata qui in modo ideai-tipico, non siano fenomeni
disgiunti che corrisponderebbero a nuove varianti nello spettro infinitamente colorato degli stili di devozione; essi appaiono strutturalmente
legati, come due poli di una nuova configurazione del rapporto del cristianesimo con la modernità: è parzialmente in gioco parzialmente, in
questi tempi fuori del tempo e in questi luoghi fuori dell’ordinario, nei
quali l’estraneità culturale del cristianesimo (rispetto alle norme della vita
moderna) diventa un valore, la formazione di un’identità religiosa moderna, compatibile tanto con la privatizzazione dei contenuti di credenza
quanto con la dispersione dei comportamenti istituzionali.
Di fronte a questo «aderente festivo» che testimonia direttamente degli sconvolgimenti che interessano l’universo della pratica cattolica, in
una società moderna secolarizzata, il praticante regolare — colui che si
conforma alla prescrizione ecclesiastica della partecipazione alla messa
domenicale — può apparire come la figura residua di un mondo di osservanza in via di sparizione. In realtà, è percettibile un’evoluzione, fin
nella minoranza rimasta dei «parrocchiani ordinari». Un’indagine effettuata nel dicembre 1989 dal Credoc ha fornito alcuni dati nuovi, che
suggeriscono l’emergere, nell’universo tradizionale delle parrocchie, di
una nuova figura di praticante regolare.
Nella fascia d’età dei 25-39 anni, la percentuale di coloro che partecipano regolarmente alla messa domenicale è debole (6,2 per cento).
Questo piccolo gruppo presenta però caratteristiche interessanti rispetto
alla popolazione di coloro che, nelle generazioni precedenti, sono individuati come praticanti regolari. Con un livello d’istruzione più elevato
rispetto alla media della loro classe d’età (il 27 per cento ha un diploma
universitario, contro il 14 per cento per la totalità della fascia), essi smentiscono il legame, attestato nelle generazioni precedenti, tra un livello
elevato di istruzione e un debole grado di coinvolgimento religioso. In
modo ancora più significativo, essi esprimono una grande fiducia nella
scienza e nella tecnica, e un vigoroso ottimismo nei confronti delle evoluzioni economiche e sociali a venire. Questo rapporto positivo con la
modernità scientifica e tecnica si manifesta praticamente nelle forme dei
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
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loro consumi: sono in molti a disporre di un persona! computer a casa,
di un videotel e di un forno a microonde, e giudicano favorevolmente
tutte le innovazioni che permettono di «modernizzare» la vita quotidiana. Questi dati possono sembrare aneddotici: essi rivelano in realtà un
cambiamento di mentalità la cui portata non è percettibile se non si confrontano gli atteggiamenti e i comportamenti di questi praticanti di nuovo stile con quelli dei praticanti regolari delle generazioni precedenti, caratterizzati invece dal loro pessimismo nei confronti della scienza e dalla
loro diffidenza molto netta nei riguardi delle conquiste della modernità
tecnica. L’indagine mostra al tempo stesso che questi giovani adulti praticanti hanno, in materia coniugale e sessuale, opinioni e pratiche piuttosto tradizionali: mentre il 14 per cento dei membri della loro classe
d’età convivono senza sposarsi, nessun praticante regolare tra i 25 e i 39
anni opta per la convivenza durevole. Essi hanno invece una vita sociale
più intensa della media della loro classe d’età: frequentano di più le biblioteche (il 38 per cento contro il 18), partecipano più frequentemente
alle attività di associazioni culturali, di associazioni per il tempo libero e
così via61.
Da questi dati frammentari non si potrà evidentemente derivare il ritratto tipo di un «nuovo praticante»: tuttavia essi infirmano, pur nei loro
limiti numerici l’ipotesi alla quale potevano condurre certe considerazioni sulla fine della civiltà parrocchiale, secondo cui la regolarità d’osservanza potrebbe ormai soltanto più interessare, in una società molto avanzata, individui non inseriti o marginali rispetto alla modernità. Semplicemente, questa pratica regolare ha, per gli interessati stessi, cambiato
senso: quello che rivelano le indagini qualitative è l’esclusione molto netta dell’idea di obbligo. La scelta della regolarità nell’osservanza è sempre
giustificata, da questi praticanti a loro agio nella modernità, in termini di
opzione personale: se scelgono di andare a messa tutte le domeniche,
non è perché l’istituzione ha emanato questa regola, è perché hanno —
dicono — provato personalmente l’interesse e il beneficio spirituale di
una partecipazione continua; è perché hanno deciso di manifestare in
questo modo il loro impegno ecclesiale e così via. La pratica religiosa è
una dimensione della loro vita sociale che non fa parte del tempo vincolato (quello il cui uso è imposto dalle istituzioni da cui dipende l’individuo), ma del tempo «libero» (quello di cui l’individuo dispone in funzione delle sue scelte e delle sue preferenze personali). Questa concezione di una «pratica-opzione», lasciata alla discrezione degli interessa61 Credoc, «Religion et comportements sociaux» in Consommation et modes de vie, 44,
dicembre 1989.
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Danièle Hervieu-Léger
ti, è una prova, in generale, delle «pratiche a scelta» (tra cui l’adesione festiva), per definizione poco regolari. È interessante osservare che essa è
presente, in questa classe d’età, anche tra coloro che optano per l’osservanza domenicale, in apparenza più conforme alle regole di gestione del
tempo religioso fissate dall’istituzione.
Ciò che viene evidenziato da queste osservazioni sulle tendenze attuali della pratica religiosa è l’estensione di uno stile di sociabilità religiosa volontaria, che mette in primo piano il coinvolgimento personale dell’individuo, e che s’insinua, in modo quasi invisibile, fino all’interno del
regime delle parrocchie più «classiche». Nel momento stesso in cui si assottiglia il numero dei parrocchiani, il gruppo dei praticanti regolari tende sempre più ad autopercepirsi come associazione di volontari e come
gruppo di affinità, la cui esistenza si sostiene solo per la volontà dei suoi
membri di farlo esistere e di esprimere, in questo modo, la solidarietà
che li lega. Questa tendenza è evidentemente accentuata dalle ridistribuzioni che avvengono, al tempo stesso, nella divisione del lavoro religioso. Il monopolio clericale del potere religioso, che costituisce, con la
suddivisione dello spazio, il perno della civiltà parrocchiale, ha subito,
negli anni settanta, gli assalti di una contestazione anti-istituzionale allora
vigorosa. Ma si può pensare che queste critiche esplicite siano state meno fatali al potere tradizionale dei preti di quanto non lo siano, di fatto, i
palliativi introdotti dall’istituzione stessa per far fronte alla situazione di
estrema scarsità di personale di cui essa soffre. Ormai, ad esempio, la catechesi dei bambini si basa, essenzialmente, su un corpo di catechisti
laici (circa 200.000 nel 1984, ossia l’87 per cento del corpo dei catechisti). Di questi, l’84 per cento sono donne. Questi/e intendono
sempre più dare un contenuto alla «corresponsabilità» (secondo la
parola in uso nell’istituzione) alla quale sono invitati. Vengono loro proposte sessioni di formazione: per i catecumeni più avanzati questa formazione integrativa apre un ciclo più o meno completo di studi teologici. Essi/e si uniscono, sui banchi delle facoltà di teologia, degli istituti
cattolici e dei molteplici centri di formazione teologica, a una popolazione crescente di uomini e soprattutto di donne che accedono a un sapere religioso fino ad allora riservato ai soli chierici62. Il considerevole
aumento della domanda di cultura teologica ha un significato dal punto
di vista della ricomposizione attuale delle identità religiose. Tale feno62 Edita per la prima volta nel 1989, una guida delle formazioni teologiche (Guide des
formations théologiques, Paris, Ed. Temps Présent) ha censito, nel 1990, 350 centri di formazione
ripartiti sulla totalità delle diocesi e raggruppanti parecchie migliaia di studenti, per formazioni
píù o meno lunghe.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
199
meno deve essere messo a confronto, da questo punto di vista, con il
notevole sviluppo che conoscono, in ambiente ebraico, i «circoli di studio» che reclutano i loro membri ben al di là degli ambienti religiosi63.
Occorre però anche sottolineare le implicazioni, in ambito cattolico, di
questa condivisione molto aperta del sapere religioso per l’esercizio stesso del potere religioso. Si trovano in effetti laici teologicamente preparati
non solo in posti di responsabilità in movimenti religiosi laici (Azione
cattolica, gruppi caritativi e terzomondisti, varie associazioni), ma anche
— il che è più insolito — in organizzazioni diocesane (direzioni diocesane dell’insegnamento cattolico, direzioni diocesane per l’apostolato dei
laici e così via) e in parrocchie in cui i militanti laici sono associati, in
modo più o meno periferico, all’elaborazione degli orientamenti pastorali, alla gestione amministrativa e finanziaria, all’inquadramento dei candidati ai sacramenti (battesimi, matrimoni), all’informazione religiosa. Sono i laici ad assumere, in mancanza di preti disponibili, la responsabilità
dell’assistenza religiosa in collegi, licei od ospedali. Dunque, i fedeli, e più
ampiamente l’opinione pubblica, si abituano a quest’evoluzione progressiva meglio di quanto le loro reazioni molto discordi riguardo alle riforme conciliari avrebbero potuto lasciar supporre. È una delle sorprese del
sondaggio Harris-La Vie realizzato nel 1984 aver mostrato non solo che
il 66 per cento dei francesi erano favorevoli al catechismo assicurato dai
laici (il 17 per cento era contro e il 17 senza opinione), ma che una quota
notevole di loro (il 49 per cento, e addirittura il 52 tra le persone di 25-49
anni, il 54 tra i quadri intermedi e il 51 tra gli inattivi e i pensionati) accettava l’idea che funerali religiosi fossero celebrati da laici (il 33 per cento
era contro e il 18 senza opinione). Questa percentuale è più elevata nelle
regioni molto praticanti dell’ovest (59 per cento) e dell’est (54 per cento).
Il 49 per cento dei francesi si dichiara anche favorevole alle assemblee
domenicali in assenza di un prete (Adap), la cui pratica si sta sviluppando soprattutto nelle regioni rurali più colpite dalla scarsità di personale
clericale.
Nessuna ricerca si è dedicata sistematicamente all’analisi degli effet63 Questi circoli di studio sono frequentati in particolare da intellettuali ebrei laici che vi
cercano l’approfondimento di una cultura religiosa vissuta, al di fuori di qualsiasi credenza,
come patrimonio culturale insostituibile e come fondamento di un’identità individuale e
collettiva (si veda M. Cohen, «Jalons pour une histoire socio-culturelle de la communauté
juive en France depuis 1945» in Yod, 24, 1987, pp. 65-80). Analogamente, si può osservare
attualmente una ripresa delle pratiche liturgiche ebraiche in ambienti ebraici non religiosi,
come modo di affermare, in una società divenuta pluriculturale, un’identità culturale specifica
e dei valori propri (si veda, su questa tendenza, l’articolo in corso di stampa di R. Azria,
«Pratiques juives et modernité» in Pardès, 1991).
200
Danièle Hervieu-Léger
ti indotti da questa partecipazione crescente dei laici. Non c’è dubbio,
però, che il crollo quantitativo del corpo clericale, rendendo questa partecipazione praticamente indispensabile, sconvolge le modalità tradizionali di regolamentazione istituzionale. I primi lavori sociografici sulle
Adap hanno soprattutto sottolineato la tendenza dei laici che assumono
l’incarico di queste assemblee aI «mimetismo» clericale e la loro propensione ad attenersi «a esclusione della consacrazione», ai gesti stereotipati
della celebrazione liturgica. Questo mimetismo manifesta probabilmente
la dipendenza dei laici rispetto al modello clericale, ma esso pone anche
la questione degli effetti futuri che può produrre, sulle immagini paradigmatiche che hanno i fedeli dei rapporti tra sacerdoti e laici, questa possibilità offerta a membri della comunità di prendere, a turno e senza specializzazione fissa e permanente, il «posto del prete», fosse anche con
l’eccezione di certi gesti64. Problemi dello stesso tipo si pongono in tutti i
paesi detti di «missione», dove le parrocchie servite molto episodicamente da preti itineranti, sono animate da laici, catecumeni, diaconi, religiose
o semplici fedeli. Nel caso della Francia, queste ridistribuzioni pratiche,
combinate con una diffusione allargata del sapere teologico e con l’espansione di una concezione associativa della vita parrocchiale, possono
essere considerate come l’indice di una «rivoluzione silenziosa» dei comportamenti religiosi in atto.
Révolution tranquille chez les catholiques è anche il titolo di un’opera
pubblicata nel 1989, che espone i risultati di un’indagine effettuata nei
sinodi diocesani, i quali conoscono un vero e proprio rinnovamento in
Francia65. A partire dal 1983, una trentina di diocesi hanno organizzato
il proprio sinodo, accompagnato da indagini, consultazioni e assemblee
che durano parecchi mesi, se non addirittura parecchi anni. Convocato
dal vescovo, il sinodo non ha in quanto tale potere decisionale. In
quanto assemblea consultiva che riunisce delegati eletti dai fedeli, esso
non può imporre alcuna scelta aI vescovo. Tuttavia l’ampiezza delle
consultazioni e delle partecipazioni che comporta ha prodotto, in tutte
le diocesi interessate, uno sviluppo notevole nell’espressione della propria opinione da parte dei laici. Così a Evry, un questionario distribuito
in 180.000 esemplari ha prodotto 6.000 risposte, di cui 1.500 provenienti da gruppi. Il fatto di rendere pubblici, sotto diverse forme, i de64 Si veda Les Assemblées chrétiennes du dimanche, studio del Centre régional d’études socioreligieuses, Lille, settembre 1981. Si veda anche lo studio di M. Bruno, «Les Adap» in La
Maison-Dieu, 130, 20 trimestre 1977.
65 M. Hébrard, Révolution tranquille chez les catholiques. Voyage au pays des Synodes diocésains,
Paris, Centurion, 1989; si veda anche il dossier «Synodes, mode d’emploi» in L’Actualité
religieuse dans le monde, 66, 15 aprile 1989.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
201
sideri dei fedeli (compresi quelli, come l’ordinazione di donne e di uomini sposati, che non possono in nessun caso essere presi in considerazione dal vescovo) costituisce, sotto una forma ancora incerta, un riconoscimento dell’esistenza di un’opinione pubblica nella Chiesa. Questa
mobilitazione temporanea non risponde che parzialmente alle richieste
di «democratizzazione della Chiesa» largamente espresse nelle risposte
all’indagine CsalLa Vie effettuata nel 1990, «Cattolici, che cosa pensate
della vostra Chiesa e che cosa desiderate per essa?»66. La mobilitazione
traduce però, e contribuisce ad amplificare, una richiesta di partecipazione diretta dei fedeli alla gestione dell’istituzione, che è più legata, alla fine
degli anni ottanta, alla ricerca pragmatica dell’efficacia nell’ordine religioso che alla contestazione antistituzionale.
Dalla pratica festiva «a scelta» alla concezione associativa della vita
parrocchiale, dalla ridistribuzione del sapere religioso alla pratica sinodale
del dibattito pubblico nella Chiesa: queste «minuscole rivoluzioni» non
hanno sconvolto il paesaggio cattolico francese. Esse sono però indici di
un lento adattamento della vecchia struttura religiosa, ereditata dalla civiltà parrocchiale, alla modernità. La valorizzazione del potere decisionale collettivo, l’insistenza sulla competenza richiesta da coloro che esercitano le funzioni decisionali, lo sviluppo della domanda di formazione, la
pluralizzazione rivendicata delle modalità di partecipazione istituzionale,
il ruolo crescente delle reti affinitarie: tutte queste caratteristiche della
nuova sociabilità cattolica non delineano ancora un modello di organizzazione religiosa alternativo al modello parrocchiale, ma indicano — in
particolare nell’affinità che hanno con alcuni dei tratti della cultura moderna dell’impresa — il senso di un’evoluzione in corso.
2. Verso una religione di comunità «emozionali»?
La caratteristica principale di questa lenta ricomposizione delle forme
della sociabilità cattolica è il riferimento che viene fatto costantemente
all’esperienza dell’individuo, come fondamento e misura di ogni forma
di espressione religiosa, e come giustificazione primaria di ogni
raggruppamento comunitario. Ciò che importa prima di tutto è che il
66 Indagine pubblicata in La Vie, 2335, 31 maggio 1990 e 2336, 7 giugno 1990. Il 64 per
cento delle persone interrogate trova che «la Chiesa è un’istituzione troppo gerarchizzata e
che in essa non esiste abbastanza dialogo», il 24 per cento è di opinione contraria e il 12 senza
opinione.
202
Danièle Hervieu-Léger
fedele metta in gioco — nella vita liturgica, nello scambio spirituale, nella
testimonianza pubblica e così via — il vissuto spirituale della sua fede.
Una religione del coinvolgimento tende a sostituirsi così alla religione di
osservanza e alla religione di impegno che costituivano, in un passato
recente, le due modalità privilegiate della partecipazione cattolica. La religione di osservanza postulava la sovrapposizione «naturale» della società profana e di quella religiosa; la religione di impegno intendeva ricreare,
nelle condizioni di una società secolarizzata, la possibilità di una coesione tra la Chiesa e la società: in entrambi i casi, l’intento integralista si esteriorizzava nella visione utopica di un mondo interamente «cristianizzato». Questa «cristianizzazione» poteva essere concepita tanto nei termini politici di una società interamente sottomessa all’influenza dell’istituzione ecclesiastica quanto nei termini etici di una società interamente
penetrata dai valori evangelici: in tutti i casi, era la realizzazione integrale
del progetto cristiano nel mondo — tutta la religione in tutta la vita —
che si ricercava. La caratteristica propria della «religione di coinvolgimento» è quella di dirigere interamente il progetto religioso integrale non
più verso il mondo, ma verso l’individuo: tutta la religione in tutta la mia
vita. Tutto avviene (evidentemente in termini di tendenze ideal-tipiche)
come se un «integralismo» soggettivo venisse progressivamente a sostituirsi agli integralismi oggettivi nei quali si è espresso, nel passato, il
progetto cattolico. Messo di fronte al processo moderno della differenziazione delle istituzioni che elimina ineluttabilmente qualsiasi mira di
totalizzazione religiosa della società, l’integralismo cattolico ha oscillato, da due secoli a questa parte, tra il ripiegamento antimoderno radicale dell’intransigentismo e lo sforzo di ridefinizione delle sue ambizioni sul terreno etico-sociale, intrapreso con il cattolicesimo sociale.
La ridefinizione etica dell’intento integralista («infondere i valori cristiani in tutta la società») assegnava già un posto centrale all’individuo
«convertito», testimone di questi valori nel mondo67. La rielaborazione
soggettivistica del progetto integrale spinge ancora più lontano l’adattamento dell’integralismo alla cultura moderna dell’individuo, facendo
di questa conversione, in quanto tale, il mezzo e il momento della sua
realizzazione. Lo sviluppo di una «religione di coinvolgimento », che
tende alla massimizzazione degli investimenti personali dei fedeli nelle
forme classiche della partecipazione cattolica (parrocchie, movimenti,
varie associazioni religiose), può essere analizzata come una forma di
compromesso tra una cultura cattolica modellata dall’integralismo
67 Su questi orientamenti dell'integralismo — dalla cristianizzazione della società all'evangelizzazione degli ambienti — si veda D. Hervieu-Léger, De la mission à la protestation cit.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
203
e una cultura moderna dell’individuo che penetra progressivamente la
sfera religiosa.
Questo connubio è ancora più netto nel caso dei movimenti di rinascita — e in particolare in quello dei movimenti carismatici — che hanno prosperato, in Francia come ovunque, a partire dagli anni settanta.
Quella che si chiama «rinascita» nel contesto cattolico francese, è un mosaico di gruppi di preghiera (più di 1.500, secondo le stime più recenti),
in parte collegati ad alcune grandi comunità: l’Emmanuel, Le Chemin
Neuf, Le Lion de Juda, la Fondation e altre ancora. Un primo tratto caratteristico di questa corrente, in tempi in cui si osserva piuttosto l’indebolimento della capacità mobilitatrice delle istituzioni religiose, è la sua
forza di attrazione, in particolare tra i giovani. Le sessioni estive dell’Emmanuel -a Paray-le-Monial riuniscono da 10.000 a 15.000 persone. Si valuta in 250.000 persone il numero di coloro che, in modo regolare o sotto la forma più puntuale di sessioni e di ritiri, sono interessati dal movimento carismatico68. Tutte le correnti della rinascita condividono la
stessa insistenza sul cambiamento interiore che può avvenire in qualsiasi
credente, purché si conceda ai doni dello Spirito. Questi doni si
manifestano, nelle comunità, sotto le forme straordinarie della profezia,
della guarigione, del parlare in lingue. All’origine (1970-75), l’influenza
dei movimenti di risveglio protestanti, con il loro emozionalismo un po’
esuberante, caratterizzava in modo sensibile lo stile delle comunità. Da
una decina d’anni, i gruppi di preghiera tendono tutti a una maggiore
pacatezza, manifestata in particolare dal ruolo ormai centrale svolto da
«animatori», «responsabili» o «pastori» nella regolazione dell’esperienza
collettiva, e anche nella pratica dei doni dello Spirito69. Questa routinizzazione progressiva dell’entusiasmo iniziale non basta a spiegare la notevole acclimatazione istituzionale della corrente carismatica nella Chiesa, dove essa si presenta attualmente come avanguardia spirituale. Il riconoscimento di cui gode oggi la rinascita nel cattolicesimo francese corrisponde senza dubbio a un compromesso riuscito tra gli interessi di un
68 Per una descrizione vivace del terreno delle comunità, si faccia riferimento all’indagine
di M. Hébrard, Les nouveaux disciples. Voyage à travers les communautés charismatiques, Paris,
Centurion, 1979, nuova versione nel 1987, Les nouveaux disciples, 10 ans après, Paris,
Centurion. Per un’analisi sociologica, si vedano di M. Cohen, «Le renouveau charismatique
en France ou l’affirmation des catimlicismes» in Christus, 131, luglio 1986; «Figures de l’individualisme moderne. Essai sur deux communautés charismatiques» in Esprit, aprile 1986;
«Vers de nouveaux rapports avec l’ institution ecclésiastisque. L’exemple du renouveau charismatique en France» in Archives de Sciences Sociales des Religions, 1, LXII, luglio-dicembre 1986.
69 Si veda, per una descrizione giornalistica recente delle diverse correnti della rinascita, A.
Devailly, Les charismatiques, Paris, La Découverte, 1990.
204
Danièle Hervieu-Léger
movimento che non attira, nel contesto in cui opera, soltanto fedeli cattolici desiderosi di una vita spirituale più intensa (e allergici a qualsiasi
dissidenza di genere settario), e quelli di un’istituzione preoccupata di dirigere a proprio vantaggio le forze nuove di un movimento da essa percepito come un «vivaio di vocazioni»70. Ma questo compromesso risponde più profondamente all’affinità elettiva che può esistere tra l’integralismo storico, che rimane l’utopia sognata da una Chiesa alla ricerca di
una ridefinizione della sua modalità di presenza nella società, e l’«integralismo soggettivo» di un movimento che tenta, sotto questa forma, la sintesi dell’ideale moderno dell’individuo e dell’ideale cattolico della «religione totale».
Tuttavia l’analisi di questo adattamento della cultura moderna dell’individuo alla sfera religiosa deve essere spinta al di là dell’analisi della sua
variante cattolica, di cui il movimento carismatico offre il migliore più
diffuso esempio. Ciò che qui è in gioco è anche l’espansione, nell’insieme del campo religioso, di una religione di comunità «emozionali» che
costituisce una figura caratteristica dell’articolazione possibile dei rapporti presenti tra religione e modernità.
Questa religione di comunità emozionali può essere caratterizzata,
dal punto di vista ideal-tipico, a partire da un insieme di tratti che essa
combina in modo specifico: un carattere di «religione volontaria», un accento posto sull’esperienza personale degli aderenti, un’intensificazione
particolare della dimensione espressiva della vita religiosa collettiva, l’insistenza sulle forme non verbali di questa espressione, una diffidenza più
o meno teorizzata nei confronti della «religione intellettuale». In modo
significativo, la religione di comunità emozionali favorisce la soggettivizzazione del rapporto con la norma dottrinale; essa conferisce a questo rapporto un carattere pragmatico: se ne prelevano gli elementi «utili»
per un procedimento individuale e collettivo, trattenendone «quello che
funziona» nella dinamica comunitaria. La comunità, a ogni modo, non
ha per funzione di garantire la conformità dei percorsi individuali dei
suoi membri a una qualsiasi ortodossia od ortoprassi. Essa è prima di
tutto un modo di garantire la migliore circolazione possibile di scambi
di esperienze individuali, che si prolungano e amplificano con l’eco
che incontrano negli altri. Questa concezione puramente pratica della
vita comunitaria è presente soltanto in parte nei gruppi carismatici
cattolici, o nei gruppi protestanti di genere revivalistico apparsi nel70 Ho sviluppato questa analisi in D. Hervieu-Léger, «Charismatisme catholique et institution» in P. Ladrière e R. Luneau (a cura di), Le retour des certitudes. Ev énements et orthodoxie
depuis Vatican II, Paris, Centurion, 1987, cap. XII.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
205
l’ambito di questa religione di comunità emozionali, che mantengono un
riferimento esplicito alle ecclesiologie cristiane. Essa è invece spinta all’estremo nella nebulosa dei gruppi mistici ed esoterici che offrono ai loro
adepti la promessa di una «salvezza» individuale, puramente terrena e interiore. Di qui l’estrema porosità dei gruppi fluidi, nei quali si entra e si
esce, in funzione del benessere personale che vi si trova, e tra i quali si
transita secondo le fasi di un’esperienza che ha per solo criterio la realizzazione personale del soggetto. In tutti i casi, però, sia che si tratti dei
gruppi cristiani della rinascita (cattolica o protestante), sia che si tratti
delle correnti multiformi della spiritualità della nuova era, o dei vari
gruppi nati da una tradizione esoterica antica rivisitata, la partecipazione
comunitaria è subordinata al desiderio dell’individuo e al beneficio interiore che egli ne trae. Questa propensione a sviluppare una concezione
strumentale di una comunità ordinata alla realizzazione interiore dei suoi
membri, costituisce un segno indicatore, allo stesso titolo del primato
concesso all’esperienza, dell’affinità che questa religione di comunità
emozionali intrattiene con una modernità definita dall’avvento del soggetto, mentre al tempo stesso si situa per altri tratti (il suo rifiuto dell’imperialismo della razionalità tecnico-scientifica e dell’atomizzazione e della funzionalizzazione burocratica dei rapporti sociali, in modo particolare) in rottura protestataria con la modernità.
3. Dal «cristianesimo culturale» alla «nuova laicità»
La penetrazione della cultura moderna dell’individuo nella sfera religiosa — penetrazione di cui testimonia, in modo particolare, l’espansione della religione di comunità emozionali — si traduce, in modo molto generale, in una soggettivizzazione del rapporto con la tradizione religiosa, e più specificamente con la tradizione cristiana. Tutto avviene
come se il cristianesimo, fondo comune di un paese in modo maggioritario cattolico come la Francia, funzionasse ormai come un «serbatoio
di simboli» offerto agli adattamenti più liberi e ai reimpieghi più diversi.
Questa «disponibilità»" osservabile dell’immaginario cristiano è stata
ammirevolmente caratterizzata da Michel de Certeau, in occasione di
un’intervista radiofonica che lo ha messo a confronto con Jean-Marie
71 Il termine «disponibilità» è scelto apposta per far eco al discorso del cardinale Lustiger,
arcivescovo di Parigi, che ha dichiarato, per condannare l’interpretazione della figura di Gesù
presentata nel film di Martin Scorsese L’ultima tentazione di Cristo, «l’immaginario cristiano non
è disponibile»: protesta logica nella bocca di un cardinale della chiesa romana, ma che
l’osservazione sociologica e i fatti smentiscono.
206
Danièle Hervieu-Léger
Domenach e che è stata in seguito pubblicata sotto un titolo evocatore:
Le christianisme éclaté72. In questo scambio, De Certeau evocava la formidabile mutazione culturale rappresentata, in generale e in un paese di antica tradizione cattolica più che altrove, da questa dissoluzione di un legame stabile e controllato tra credenze e pratiche obbligatorie, dissoluzione che caratterizza proprio il processo della secolarizzazione. Non
che non ci sia assolutamente più una relazione tra fede cristiana e appartenenza istituzionale, pratiche rituali, stili di vita familiare, comportamenti sessuali, scelte politiche73; ma, osserva Michel de Certeau,
sono legami oscuri, spesso drammatici, sempre più ambivalenti, e che vengono
lentamente spezzati. Gli elementi del sistema si disgregano. Ognuno di essi
cambia sordamente di senso, restando qui l’espressione di una fede,
divenendo là il segno di riferimento di un conservatorismo o lo strumento
di una politica. (...) La costellazione ecclesiale si disperde a mano a mano che
i suoi elementi escono dall’orbita. Essa non «tiene» più, perché non c’è più
un’articolazione ferma tra l’atto del credere e dei segni oggettivi. Ogni segno
segue un cammino proprio, deriva, obbedisce a reimpieghi diversi, come se
le parole di una frase si disperdessero sulla pagina ed entrassero in altre
combinazioni di senso74.
,
Dal momento che la tradizione cristiana non funziona più, in quanto
tale, come un corpo di significato, gli elementi del sistema cristiano possono entrare in gioco, in modo «libero», in combinazioni di significati
estremamente diverse, e diventare oggetto di svariati riadattamenti, in
sfere dell’attività sociale regolate da norme secolari. Questi reimpieghi
possono essere opera di individui o di gruppi che rimaneggiano in modo
autonomo l’universo di significati che permette loro di comprendere la
propria esperienza quotidiana. A un livello più elaborato, questi elementi
presi a prestito dal «corpus di simboli» costituito dalla tradizione cristiana
possono alimentare creazioni estetiche, legittimare pratiche e scelte politiche, partecipare alla definizione di orientamenti culturali, giustificare
prese di posizione etiche eccetera, senza per questo essere formalmente
collegati a credenze e pratiche religiose.
Va da sé che si descrive qui una tendenza ideal-tipica: rimane da svolgere lo studio empirico delle ricomposizioni delle modalità di adattamento della simbologia cristiana in un universo culturale in cui la tradizione
non articola più un sistema integrato di credenze e di pratiche. Si può
M. de Certeau e J.-M. Domenach, Le christianisme éclaté, Paris, Seuil, 1974.
NeI campo delle scelte elettorali, i lavori dei politologi mostrano, in particolare, la stabilità del legame che esiste tra l’osservanza cattolica regolate e il voto a destra. Si veda per una
prospettiva d’insieme su tale questione, G. Michelat e M. Simon, Classes, religion et comprotement
politique, Paris, Ed. Sociales-Fnsp, 1977.
74 M. de Certeau e J.-M. Domenach, Le christianisme éclaté cit., pp. 11 sg.
72
73
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
207
pensare che essa costituisca uno dei campi più promettenti per la sociologia della modernità religiosa. Trattandosi qui delle tendenze del campo
religioso francese, intendiamo semplicemente sottolineare come la logica
di questi reimpieghi tenda paradossalmente a favorire una certa riaffermazione dell’importanza delle tradizioni religiose nella vita pubblica e
permetta un’impostazione relativamente nuova della questione — molto
delicata — della laicità.
Quando Michel de Certeau evocava, all’inizio degli anni settanta,
l’ampiezza dei reimpieghi culturali della simbologia cristiana, egli insisteva soprattutto sui fenomeni di estetizzazione del cristianesimo: cessando di essere colto come il segno di una verità data alla fede cristiana,
il corpus degli scritti e dei riti cristiani tende — egli osservava — a
essere percepito solo più come un insieme di opere d’arte belle,
poetiche, suggestive, «resti ammirevoli di una simbologia che apre a
tutti possibilità di invenzione e di espressione».
Circa vent’anni più tardi, l’analisi dei processi attraverso i quali testi,
immagini e oggetti possono essere vissuti diversamente da come sono
stati creati, percepiti e vissuti da credenti, metterà più verosimilmente
l’accento sul modo in cui sono invocati, utilizzati, anzi deviati, allo scopo di servire da emblemi a identità sociali e culturali incerte. Da una
quindicina d’anni, in effetti, la Francia scopre di essere diventata una
società pluriculturale. Gli anni settanta-ottanta sono stati contrassegnati
da una forte presa di coscienza collettiva del carattere problematico
dell’«identità francese», in una società che conosce, come la totalità delle
società occidentali, gli effetti destabilizzanti — per l’immagine che essa
ha di se stessa — dell’internazionalizzazione della vita economica, dell’ampiezza dei fenomeni migratori e della mondializzazione degli scambi culturali. Non che questi fenomeni siano in se stessi nuovi, ma hanno
assunto una valenza nuova nel contesto di incertezza economica e sociale che si è sviluppato, in Occidente, a partire dalla prima crisi petrolifera. Le interpretazioni economico-culturali potevano, nel clima di ottimismo caratteristico dei «dorati anni sessanta», essere presentate come
un’opportunità favorevole per la Francia. Esse sono state percepite,
negli strati sociali più destabilizzati dalla crisi economica, come una minaccia per i francesi. Da una decina d’anni si sono sviluppate reazioni di
diffidenza nei confronti dello straniero, percepito come un intruso la
cui presenza mette in pericolo i valori che costituiscono il fondamento
dell’identità nazionale. Nella loro espressione più esacerbata, esse hanno
nutrito la crescita regolare di una estrema destra nazionalista, xenofoba
e antisemita, di cui Jean-Marie Le Pen è diventato il portavoce clamoroso e tremendamente efficace. Ma esse alimentano anche, in modo
208
Danièle Hervieu-Léger
più insidioso e più discreto, atteggiamenti di ripiegamento difensivo (nei
confronti, in particolare, dell’Europa), tensioni corporativiste75 e nostalgie del passato: si costituisce così una «nebulosa rivendicativa», congelomerato di varie proteste che non trovano la loro unità che nell’incertezza
d’identità di cui esse testimoniano. In questo contesto, il ricorso agli emblemi cristiani può diventare un modo di invocare un’identità collettiva
che viene meno. Il leader del Fronte nazionale ha valutato perfettamente
il vantaggio politico che poteva derivare dalla manipolazione di questi
emblemi: vigorosamente spalleggiato da gruppuscoli attivisti integristi,
egli non manca di associare, nei suoi discorsi, la difesa dell’identità nazionale e la difesa della civiltà cristiana minacciata". La crescente visibilità di
una comunità musulmana, per cui la riaffermazione religiosa costituisce
uno dei mezzi per attestare il fallimento degli sforzi e delle politiche di
integrazione, e il cui rafforzamento è correntemente assimilato, dall’opinione pubblica, alla crescita del «fanatismo integrista», favorisce il successo potenziale di questa operazione ideologica, ben al di là della popolazione, ancora relativamente limitata, degli elettori del Fronte nazionale.
La sfida che costituisce, per l’esercizio della laicità repubblicana, questa
messa in gioco dei simboli religiosi nel dibattito politico — messa in gioco che si effettua al di fuori e contro la volontà esplicita delle istituzioni
ecclesiastiche — non deve essere sottovalutata.
Tuttavia, la mobilitazione non religiosa dei simboli religiosi può assumere altre forme, meno strumentali, in una società alla ricerca di una
ristrutturazione dei suoi ideali collettivi e dei suoi valori. Paradossalmente, la «disponibilità» di tradizioni religiose considerate come un patrimonio comune della collettività nazionale, e non più come la riserva di
caccia delle istituzioni religiose, può addirittura portare alla
rivalutazione del ruolo di queste istituzioni (nella misura in cui esse
sono percepite come le custodi storiche di queste tradizioni) nella
vita pubblica. Questo processo è manifestamente all’opera nella
Francia di oggi.
Per coglierlo, occorre partire dalle nuove sfide che si presentano in
materia etico-politica. Gli specialisti della sociologia dell’etica hanno ben
studiato i problemi posti ai paesi più moderni dalla necessità, alla quale
devono far fronte, di rispondere nello stesso tempo alla rivendicazione
sempre più forte di autonomia personale degli attori sociali e alla gestione di rischi di grande portata collettiva, che si tratti del nucleare, dell’inquinamento, del terrorismo, dei grandi rischi epidemiologici (Aids),
75
76
Si veda Denis Sagrestin, Le phénomène copporatiste, Paris, Fayard, 1985.
In particolare il gruppo Chrétiens-solidarité, diretto da Romain Marie.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
209
dei nuovi problemi posti dalle scoperte biologiche e genetiche, o ancora
delle sfide poste dall’istruzione e dalla comunicazione di massa77. In tutti
questi campi, lo Stato non può accontentarsi di assicurare, in modo
neutro e burocratico, la regolamentazione delle scelte etiche private degli
individui. Esso deve anche affermare il diritto, ma non può farlo che
mobilitando l’adesione degli attori sociali a valori comuni. Ma sembra
che oggi Io Stato manchi dei riferimenti etici indispensabili per condurre
a buon fine la sua azione normativa in questi diversi campi, in particolare
in materia di bioetica. I grandi ideali moderni del progresso e dello
sviluppo razionale delle società sotto il segno della scienza sono stati
fortemente scossi dalla crisi culturale (tanto quanto economica) degli
anni settanta, ma anche dal crollo delle grandi visioni politiche del senso
della storia che ha accompagnato il fallimento dei regimi socialisti all’Est.
La modernità è, ovunque, perdita di utopia. Questa crisi degli ideali
moderni ha assunto (tra l’altro), nel contesto francese, la forma di una
messa in dubbio dell’esistenza di quella che Jean-Yves Nau ha chiamato,
a proposito della bioetica, la «morale francese», «prolungamento dei
concetti di libertà, uguaglianza, e fratellanza»78. In senso più lato, sembra
che i grandi princìpi del 1789 non bastino più a far fronte, sul terreno
etico-legislativo, ai problemi completamente nuovi posti dagli sviluppi
della scienza e da quelli dei rischi più gravi. In questo contesto, gli
individui sono portati a rivolgersi verso quelle zone strutturate dello
spazio simbolico rappresentate dalle tradizioni religiose, al fine di
prelevarne gli elementi della loro sintesi etica personale. Ma si osserva
anche, come fa Jean-Paul Willaime, «che c’è una richiesta da parte delle
autorità pubbliche nei confronti delle tradizioni religiose e dei loro rappresentanti, il che è un modo di riconoscere loro un certo ruolo nella
società, più particolarmente nella gestione di certi problemi sociali»79. Si
può citare — tra gli indicatori significativi di questo «atteggiamento
meno rigido» di una laicità che non disdegna più di fare appello al «capitale etico» costituito dalle grandi religioni e tradizioni spirituali — la
costituzione di una missione di dialogo in Nuova Caledonia nel 1988,
composta, tra gli altri, da rappresentanti delle «famiglie spirituali» (cattolica, protestante, massonica); la richiesta fatta nel 1989 ai ministri delle
77 Si veda, ad esempio, F. A. Isambert, «Une sociologie de l’avortement est-elle possible?»
in Revue française de sociologie, XXIII, 1982.
78 J.-Y. Nau in «Le Monde», 3 settembre 1989, articolo che commenta il progetto preliminare di legge sulle «scienze della vita e i diritti dell’uomo» elaborato da M. Braibant, su richiesta del primo ministro.
79 J.-P. Willaime, «État, étique et religion» in Cahiers internationaux de sociologie, LXXXVIII,
1990, pp. 189-214.
210
Danièle Hervieu-Léger
diverse religioni di una celebrazione comune dei funerali delle vittime di
un attentato80; l’invito esteso alle chiese di contribuire alla promozione di
talune iniziative governative europee81; le consultazioni delle diverse famiglie spirituali per certi progetti di legge riguardanti i costumi o la famiglia; la consultazione dei rappresentanti delle diverse religioni per la riforma del Codice della nazionalità e così via.
Questa collaborazione etica dello Stato e delle istituzioni religiose, nei
casi in cui sono in gioco valori che non si possono dedurre semplicemente dai grandi princìpi dell’etica repubblicana, si è istituzionalizzata
con la creazione nel 1983 del Comité National d’Ethique pour les sciences de la
vie et de la santé, comitato consultativo di cui fanno parte cinque personalità che rappresentano «le principali famiglie filosofiche e spirituali» (un
ebreo, un cattolico, un protestante, un musulmano, un marxista). Il Conseil national sur le Sida (Aids), creato nel 1989, presenta lo stesso dispositivo consultivo. Questi episodi non significano che venga rimesso in
questione il livello di laicizzazione raggiunto da un paese come la Francia. Come sottolinea bene Jean-Paul Willaime, nell’articolo già citato, si
tratta di una
ricomposizione del ruolo della religione nello spazio pubblico, ricomposizione che
si effettua sul fondo di una laicizzazione indiscussa delle istituzioni pubbliche, di una
perdita di potere delle istituzioni religiose sui loro membri e di una caduta delle utopie della modernità. Non si tratta di una ripresa di potere deI fatto religioso, ma di
una ricomposizione del suo ruolo pubblico resa possibile per il fatto stesso della sua
perdita di potere sulla società e sugli individui, e del carattere pluralista della società.
La perdita di potere delle istituzioni religiose è alla base di questo nuovo riconoscimento sociale che è loro concesso82.
Questa ridefinizione deI posto delle istituzioni e delle tradizioni religiose nella vita pubblica è resa paradossalmente possibile dalla perdita
d’influenza di queste stesse istituzioni religiose sulla società e sui suoi
membri. La privatizzazione specificamente moderna delle scelte religiose può così ricondurre, contro ogni attesa, a una rivalutazione della laicità83. Nella misura stessa in cui il conflitto storico tra la repubblica e la
80 Jean-Paul Willaime osserva che la partecipazione di un pastore protestante era stata
richiesta per la celebrazione del funerale delle vittime del DC IO dell’Uta che esplose nel Ténéré, mentre non figurava nessun protestante tra le vittime. Occorreva infatti che tutte le tradizioni
spirituali riunite potessero contribuire insieme all’offerta di significato che era loro richiesta
dalla repubblica, messa di fronte al dramma della morte delle vittime del terrorismo.
81 Così il governo si è rivolto alle chiese per convincere la popolazione della necessità di
abolire la pena di morte.
82 J.-P. Willaime, «Etat, éthique e religion» cit., pp. 207 sg.
83 Sulla ricerca di questa «nuova laicità», si veda J. Baubérot, Vers un nouveau patte lai’- que?,
Paris, Seuil, 1990.
Società e atteggiamenti religiosi in Francia
211
chiesa cattolica si trova a essere riassorbito dall’avanzata del processo di
secolarizzazione, il patrimonio religioso nazionale diventa suscettibile di
una valorizzazione, sia in materia etica, sia in materia culturale, secondo i
bisogni di una società alla ricerca di valori comuni. I dibattiti attuali sull’introduzione di un insegnamento della storia delle religioni nella scuola
pubblica rientrano in questa logica’’’. E chiaro che quest’ultima suscita
gli irrigidimenti di certe correnti laiche radicali, e che incoraggia, dal lato
delle istituzioni religiose, qualche sogno di riconquista. Ma queste sono
ricadute marginali, rispetto al fatto centrale rappresentato dal processo
— ancora agli inizi — di ridefinizione del contenuto stesso della laicità
alla francese, provocato — si può dire — dall’avanzata del processo di
secolarizzazione.
84 Si troverà una panoramica generale su questo dibattito neI dossier «Doit-on enseigner
les religions au Iycée?» in A.R.M., 82, 15 ottobre 1985. Si veda anche J. Baubérot, Vers un
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Religione e società nel Regno Unito*
James A. Beckford
Premessa
Tensioni tra potere spirituale e materiale, tra autorità religiosa e politica, tra fonti trascendenti e immanenti di valore hanno contribuito a
foggiare la situazione religiosa odierna dei Regno Unito, in modo particolarmente evidente a partire dal tempo della Riforma in Europa e
delle guerre civili inglesi.
La successione di eventi che allontanò la chiesa anglicana da Roma
e la subordinò nel 1534 all’autorità suprema del sovrano determinò un
contesto in cui un numero via via crescente di confessioni protestanti
poté asserire la propria autonomia dalle autorità politiche e religiose.
La restaurazione della monarchia nel 1660 dopo le guerre civili e il regime repubblicano («Commonwealth»), lasciò ai non conformisti1, agli
ebrei e ai cattolici libertà sufficiente per praticare il proprio culto religioso, ma li privò al tempo stesso di alcune libertà civili e politiche. I ripetuti tentativi alla fine del Seicento di estendere il riconoscimento delle religioni non ebbero successo, ma lo sviluppo della vita politica parlamentare, i limiti costituzionali alla monarchia e il governo di gabinetto nel secolo XVIII e all’inizio del XIX, allontanarono progressivamente la Corona dal centro della scena e modificarono perciò indirettamente la concezione della religione di Stato. In particolare, il parlamento rivendicò un controllo più diretto sugli affari della chiesa anglicana e una serie di leggi abrogò i provvedimenti legali contro i dissidenti, i
cattolici e gli ebrei. A metà Ottocento la chiesa anglicana subì la rapida
offensiva di un numero sempre maggiore di chiese indipendenti, anglicani dei territori coloniali, cattolici e tractarians2, che si battevano per
* Ringrazio Grace Davie per i preziosi suggerimenti nella preparazione di questo saggio.
1 E questo il nome dato ai protestanti che rifiutavano di sottomettersi 1a chiesa anglicana.
Oggi è più o meno sinonimo di membro delle chiese indipendenti.
2 I tractarians erano anglicani conservatori che deploravano la diffusione dell’evangelicalismo ed erano favorevoli a un legame intellettuale e liturgico molto più stretto con la
chiesa cattolica romana.
218
James A. Beckford
abolire la chiesa di Stato, per darle un carattere radicalmente nuovo.
Tuttavia, solamente a partire dagli anni venti del secolo scorso si cominciarono ad abolire i provvedimenti contro il numero crescente di
dissidenti della chiesa ufficiale. L’influenza culturale e il potere politico
del non-conformismo toccarono l’apice nel primo decennio di questo
secolo, dopo di che esso fu eclissato dalla popolarità crescente del
partito laburista e dei sindacati. Nel frattempo la religione di Stato, in
Inghilterra come in Scozia3, ha conosciuto alterne fortune. I suoi
privilegi legali, civili e simbolici sono rimasti intatti, ma la sua influenza
pubblica e il numero di persone che vi partecipano in modo attivo sono
in continua diminuzione.
Il quadro introduttivo della configurazione via via diversa delle chiese
di Stato e non conformiste nel Regno Unito mette in luce vari fattori
connessi al percorso particolare dei processi di modernizzazione in
questo paese. In primo luogo, nonostante alcune chiese siano state
riconosciute per legge, non si sono trasformate realmente in «chiese di
Stato»; in altre parole, hanno occupato una posizione ufficiale godendo
al contempo di una relativa autonomia rispetto allo Stato. In secondo
luogo, l’esistenza delle religioni di Stato non ha impedito lo sviluppo né
delle chiese indipendenti né della chiesa cattolica romana. Talvolta, senza
dubbio, si sono verificate tensioni, lotte e competizioni, ma a partire da
metà Ottocento tutte hanno goduto di una libertà d’azione, relativamente priva di restrizioni, entro la legge. Le chiese di Stato si sono però
valse di privilegi e di obblighi peculiari. In terzo luogo, il fatto che anche
le chiese ufficiali abbiano conservato un’autonomia relativa rispetto allo
Stato ha contribuito a scongiurare l’eventualità di uno scontro frontale
tra Chiesa e Stato in tempi moderni. L’evoluzione dello stato britannico,
insomma, è inscindibile dalla storia delle chiese ufficiali. Pertanto,
diversamente da quanto avvenne in molti altri paesi, lo sviluppo dello
stato britannico nell’Ottocento non fu conseguito al prezzo di una lotta
per il potere all’ultimo sangue tra Io Stato e un’unica Chiesa dominante.
Il grado di polarizzazione di posizioni secolari e religiose è stato nel
Regno Unito minore che in molti altri paesi. La conseguenza più
importante è che la vita politica inglese non ha assistito a un
allineamento duraturo tra forze religiose e politiche, ma solo a qualche
alleanza ad hoc in determinate occasioni.
Nel Regno Unito la modernizzazione ha avuto luogo in un contesto
3 La chiesa irlandese perse il carattere di religione di Stato nel 1870, quella del Galles nel
1920. Le due chiese tuttora ufficiali nel Regno Unito sono la chiesa anglicana e la chiesa di
Scozia; quest’ultima è un’istituzione presbiteriana presieduta da un moderatore eletto.
Religione e società nel Regno Unito
219
insolito dell’ordinamento sociale. Da un lato, alcune chiese hanno goduto di una posizione costituzionale privilegiata: ad esempio il sovrano è a
capo della chiesa anglicana, i cui vescovi più anziani siedono alla Camera
dei Lords. Dall’altro, tuttavia, le organizzazioni politiche e sindacali esercitano un potere notevole in modo affatto indipendente dall’organizzazione religiosa; i limiti legali imposti alle chiese non riconosciute sono
per lo più ininfluenti; la religione non è una categoria dell’umana attività
che goda per definizione di privilegi o di salvaguardie eccezionali; e, se si
eccettuano molti non cristiani, la religione di un individuo non è un indicatore attendibile delle sue opinioni e dei suoi atteggiamenti.
Nondimeno, questa situazione apparentemente paradossale acquista
un senso sociologico ove si comprenda che la spinta culturale e politica
alla modernizzazione ha le sue radici religiose in alcuni elementi del protestantesimo, che furono ripresi e incoraggiati da settori influenti della
società britannica e infine da alcune parti statutarie e semiufficiali dello
stato britannico. Idee di modernizzazione e modernità furono a poco a
poco assimilate da imprese militari, scientifiche, coloniali, scolastiche,
assistenziali, mediche e a fine di profitto senza sfidare seriamente
l’autorità religiosa e lo Stato. La ricerca della conoscenza per la
conoscenza, l’incoraggiamento della responsabilità individuale, la spinta
ad applicare il sapere scientifico a ogni sfera della vita, l’ideale della
formazione per le professioni, lo zelo ad abolire o riformare le norme
sociali che negavano le libertà individuali, furono tutti contributi al
processo di modernizzazione più o meno impregnati di significato
religioso. Le chiese protestanti concretizzarono attivamente alcune di
queste spinte, soprattutto in campo sanitario, scolastico e dell’assistenza
sociale. A fine Ottocento, lo Stato sancì per legge molte di queste
iniziative, piegandone alcune ai propri interessi. Dunque sarebbe
scorretto evocare l’immagine di un contrasto tra religione organizzata e
forze di modernizzazione. Né si trattò di «concessioni» fatte dalla
religione alla modernità. Piuttosto, all’inizio del Novecento si verificò
una convergenza progressiva, ma non sempre lineare, di interessi tra
numerosi settori religiosi, scientifici, economici e politici sotto l’attivo
patrocinio dello Stato e, naturalmente, con il dissenso e la critica di
gruppi e fazioni marginali. Sebbene il dibattito filosofico su religione e
scienza sia stato talvolta particolarmente acceso, ben poche
organizzazioni religiose centrali hanno tentato di fatto di ostacolare
l’egemonia crescente della scienza e della tecnologia sulla vita sociale.
A questo punto bisogna chiarire il significato del termine «modernizzazione» in questo saggio. Da un lato, esso ha un significato sociostrutturale alquanto generale, concernente la serie di trasformazioni so-
220
James A. Beckford
ciali, economiche, scientifiche e politiche che cambiarono in modo radicale, a partire da fine Settecento, più aspetti della società britannica, con
l’obiettivo dello sviluppo economico, della potenza coloniale, della produttività e della prosperità4. Urbanizzazione e industrializzazione furono
componenti di rilievo di questo processo generale. Tale concettualizzazione implica che le trasformazioni furono tante e di tale portata per l’intera società da costituire un cambiamento qualitativo, da società «tradizionale» a «moderna». In questo senso la modernizzazione strutturale del
Regno Unito aveva fatto progressi decisivi a fine Ottocento.
D’altra parte «modernizzazione» indica anche i cambiamenti intervenuti in valori, credenze, atteggiamenti, conoscenze, sensibilità e stili artistici, coscienza e identità, che accompagnarono le trasformazioni strutturali della società tradizionale. Anche a questo livello è chiaro che essi furono di tale portata da caratterizzare un tipo qualitativamente nuovo di
coscienza e di cultura.
Sia il significato sociostrutturale sia quello culturale del termine «modernizzazione» sottolineano la scomparsa o l’erosione delle vecchie comunità e strutture di riferimento a favore di ordinamenti molto più differenziati, frammentati, razionalizzati e transitori, come si può osservare
nei temi della sociologia «classica» e negli studi successivi su società di
massa, società astratta, anomia, alienazione e così via.
Queste analisi sulla modernizzazione ruotano intorno al contrasto tra
tradizione e modernità, o alla transizione da una condizione all’altra. In
entrambi i casi si intende che la modernità è un punto fisso dello sviluppo socioculturale. Alcune versioni della teoria della modernizzazione
giungono a sostenere che la transizione è inevitabile, irreversibile e uniforme, ma è arduo conciliare tali tesi con la realtà della variabilità, dell’indeterminatezza e degli evidenti insuccessi della modernizzazione.
Un approccio più difendibile, ed è quello del presente saggio, parte
dalla constatazione che il processo di modernizzazione è aperto, riflessivo e imprevedibile5. II suo aspetto più importante è la discussione continua delle pratiche invalse, fine a se stessa o alla ricerca di nuovi
vantaggi. Il fatto che a partire da metà Settecento la modernizzazione si
sia preoccupata in primo luogo di sottrarsi a quelli che erano percepiti
4 « Modernità è il termine riferito ai modi di vita o organizzazione sociale che emersero in
Europa a partire dal secolo XVII e che successivamente estesero la loro influenza più o
meno in tutto il mondo»: si veda A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge,
Cambridge University Press, 1990, p. 1.
5 Si veda D. Hervieu-Léger, «Tradition, Innovation and Modernity: Research Notes» in
Social Compass, 1, XXXVI, 1989, pp. 71-81.
Religione e società nel Regno Unito
221
come vincoli di idee, valori e istituzioni medievali, non significa che il
processo si sia necessariamente concluso tra il XIX e il XX secolo. Ogni
sviluppo ha creato invece i presupposti di cambiamenti ulteriori, compreso il desiderio da parte di alcuni di ritornare allo status quo ante. La
modernizzazione in quanto tale non contiene limiti intrinseci, è un processo oscuro che induce a riflettere consapevolmente sul suo sviluppo e
può essere pertanto suscettibile di un controllo intenzionale. Non è per
definizione irreversibile, inarrestabile o inesorabile, può essere il risultato
accidentale e imprevedibile di una collisione tra ignoranza, conoscenza,
intenzione e conseguenze involontarie.
Ad esempio, i progressi nel sapere scientifico, nelle sue applicazioni
mediche e nella comprensione dei suoi effetti psicosociali, hanno
sollevato problemi nuovi di etica della ricerca, di bioetica e di politica
sociale. Un tema comune a molti movimenti sociali moderni è la
protesta contro il fatto che lo sviluppo del sapere teorico e dei sistemi di
utilizzo delle informazioni ha sopravanzato la comprensione della
persona e dei limiti moralmente sostenibili dell’intervento medico e
sociale. Sembra che ogni nuova scoperta scientifica o tecnologica porti
alla luce un nuovo strato di problemi morali, spirituali o religiosi. La
modernità, nella mia accezione del termine, comprende le scoperte, le
rivelazioni e i dilemmi che il progresso comporta.
Pertanto, definire «moderno » un fenomeno significa sostenere che è
avvenuto un cambiamento non a livello superficiale, ma nell’ambito di
una trasformazione più ampia, che segna una rottura significativa e
magari problematica con il modello del passato.
In questo saggio sosterrò che il Regno Unito è cambiato, dopo il
1945, in modo tale da ridefinire i rapporti tra religione e modernità.
Questa nuova configurazione ha ridestato l’interesse sociologico per la
religione, molto tempo dopo rispetto alle prime analisi sulla modernità,
che davano per certo che la religione avesse cessato di essere una forza
rilevante o problematica nella società britannica. Mi interessa in particolare, da una parte, la dialettica tra la progressiva differenziazione tra potere religioso e politico e, dall’altra, l’affermazione di credenze e sentimenti
religiosi che adottano, modificano o mettono in discussione ponderatamente le tendenze prevalenti nella cultura e nella società britannica.
Le due facce di tale dialettica sono rese pienamente dal termine inglese, ambiguo, «subjectivity», che indica sia la qualità autonoma di un
soggetto sia lo stato di subordinazione a un’autorità superiore. Ovviamente questi due modi di essere non sono una novità, ma la peculiarità
del processo di modernizzazione sta nel fatto che radicalizza simultaneamente i due significati di «subjectivity», cioè che la libertà perso-
222
James A. Beckford
nale acquista maggior valore e che al tempo stesso cresce il peso delle
idee accettate, trasmesse dai mass media, dal sistema scolastico e dall’intervento uniformatore della nazione-stato. La mia tesi è che l’opposizione tra l’individuo e la collettività nella modernità, postulata da Durkheim
e ripresa da Bellah e altri6, è inesistente. Piuttosto, un tipo particolare di
collettività moderna, ovvero la nazione-stato liberale, determina un tipo
peculiare di individualità moderna, come previde chiaramente Georg
Simmel. Questi due elementi hanno bisogno paradossalmente l’uno dell’altro: una logica intrinseca li unisce e la religione contribuisce a mediare
in vari modi il loro rapporto7.
Il primo paragrafo del saggio riassume alcuni aspetti strutturali della
modernizzazione nel Regno Unito; si tratta di una scelta inevitabilmente
limitata tra il gran numero di elementi cui solitamente associamo la
modernizzazione e che mette l’accento sulle trasformazioni fondamentali verificatesi nel corso del Novecento, e in particolare dopo il 1970,
nelle strutture basilari della società britannica in termini demografici ed
occupazionali, di classe sociale e potere politico. Questi mutamenti strutturali costituiranno la base dell’analisi nel secondo paragrafo delle recenti
innovazioni nella religione non istituzionale. Le alterne fortune delle organizzazioni religiose nel Regno Unito sono al centro del terzo paragrafo; il quarto e ultimo paragrafo prenderà in esame le interpretazioni sociologiche prevalenti di tali cambiamenti, con un’attenzione particolare
ai problemi che sembrano nascere dall’interazione tra religione e modernità.
1. Le strutture della società britannica moderna
1.1. Demografia
M pari di quanto è avvenuto nelle società industriali più avanzate, la
popolazione di Inghilterra, Scozia e Galles è cresciuta nel corso del XX
secolo, ma dopo un periodo di fluttuazioni negli anni settanta è pervenuta a una posizione di stabilità, con un incremento annuo naturale
inferiore a 0,5 per cento. I tassi di fertilità e mortalità sono scesi in
misura significativa e la dimensione media della famiglia ha continuato a
R. N. Bellah et al., Habits of the Heart, Berkeley, University of California Press, 1985.
Si veda L. Davidman, «Accomodation and Resistance to Modernity: A Comparison of
Two Contemporary Orthodox Jewish Groups» in Sociological Analysis, 1, LI, 1990, pp. 3551.
6
7
Religione e società nel Regno Unito
223
ridursi. Prime e seconde nozze sono diventate più frequenti, ma è aumentato anche il numero di nuclei familiari composti da un’unica persona. A partire dal 1970 sono emerse alcune tendenze:
1) I giovani lasciano prima la casa dei genitori, si sposano più tardi,
fanno il primo figlio più tardi, possono vivere da soli tra il divorzio e le
seconde nozze.
2) Gli anziani vivono più a lungo, anche dopo la morte del partner.
3) La contraccezione è praticata dal 91,4 per cento delle coppie sposatesi tra il 1961 e il 1965.
4) Il rapporto tra aborti legali e nati vivi è salito da 62 per mille nel
1969 a 215 per mille nel 1985.
5) La percentuale di figli di genitori non sposati è salita dal 5 per cento circa del 1955 al 20 per cento circa del 1985.
6) A partire dal 1971 l’età al momento delle prime nozze è più elevata, fenomeno bilanciato in una certa misura dalla crescente diffusione della coabitazione, che prescinde da un futuro matrimonio. Circa un quarto
delle coppie sposate per la prima volta tra il 1979 e il 1982 aveva già vissuto insieme.
7) Le modifiche alla legge hanno reso più accessibile il divorzio. Circa
un terzo dei matrimoni contratti negli anni settanta può finire col divorzio dopo venticinque anni, se già non è accaduto. La quota di insuccesso
dei matrimoni tra adolescenti è attualmente pari al 56 per cento.
Negli ultimi quindici anni, nel processo di mutamento della famiglia
sono proseguite numerose tendenze a lungo termine, quali la riduzione
della dimensione media del nucleo familiare, del numero di figli a carico
e di parenti anziani o infermi che vivono in casa, del numero di domestici e della durata dei matrimoni. D’altra parte vanno registrati anche tassi
crescenti di matrimonio, divorzio, seconde nozze e occupazione femminile extradomestica. Poiché si ritiene che la religione dei genitori sia l’elemento che più influenza la visione religiosa personale8, è ragionevole
ipotizzare che la crescita di un individuo in una serie di realtà familiari diverse avrà come conseguenze una certa confusione, l’indifferenza o un
pluralismo tollerante. È troppo presto per una verifica al riguardo tra le
prime coorti che hanno vissuto questo tipo di esperienza familiare relativamente nuovo, ma la minore popolarità di riti di passaggio o rituali del
ciclo vitale di natura religiosa indica che la famiglia cessa di essere il crogiuolo più importante di convinzioni religiose.
8 Si veda W. D’Antonio, uFandly Life, Religion and Societal Values and Structures» in W.
D’Antonio e J. Aldous (a cura di), Farnilies and Religions. Conflict and Change in Modern Society, Beverly
Hills, Sage, 1983, pp. 81-108.
224
James A. Beckford
Le differenze di classe sociale incidono tuttora su fertilità, morbilità,
probabilità di vita ed età al momento delle prime nozze, ma differenze
ben più nette si rilevano tra categorie razziali ed etniche nonché tra Irlanda del Nord e resto del paese. Il numero di immigrati dai paesi del cosiddetto New Commonwealth e dal Pakistan tra il 1962 (anno in cui furono introdotti i controlli) e il 1985 è stato di 13 milioni di persone, che
hanno generato un milione di discendenti nel Regno Unito. Gli emigrati
di Pakistan, India, Africa orientale e Bangladesh hanno forse contribuito
più degli altri alla diversificazione religiosa del paese.
Non esistono dati attendibili sul numero di immigrati dalla Repubblica d’Irlanda, ma il numero di residenti nel Regno Unito nati in Irlanda
è sceso da 950.000 nel 1971 a 850.000 nel 1981. Tuttavia, il censimento
irlandese del 1986 rileva che una nuova ondata migratoria verso la Gran
Bretagna è seguita negli anni ottanta alla crisi economica irlandese.
Sono affluiti nel paese circa 200.000 ebrei, provenienti per lo più da
Russia e Polonia, tra il 1881 e il 1920. La popolazione ebrea ha raggiunto
il numero massimo di 450.000 persone negli anni cinquanta, poi ridottesi
a circa 330.000 nel 1985.
Anche i modelli migratori all’interno del Regno Unito sono sensibilmente cambiati dopo la seconda guerra mondiale. Si è ridotto il tasso di
affluenza nell’Inghilterra meridionale dall’Irlanda del Nord, dalla Scozia,
dall’Inghilterra settentrionale e dal Galles. È invece cresciuto il tasso di
emigrazione dal centro delle città industriali verso la periferia e le zone
rurali, nonostante i nuovi arrivi dal New Commonwealth e dal Pakistan.
Soltanto il 2 per cento della forza-lavoro è occupato nel settore agricolo e anche nelle aree rurali gli addetti all’agricoltura non sono più del
14 per cento della popolazione attiva. Il trasferimento sempre più massiccio nelle città di provincia e nelle località di mare dell’industria ad alta
tecnologia e della coorte sempre più numerosa di pensionati, insieme
con la scelta di decentrare l’amministrazione di alcuni organi di governo
e di società private, comincia a controbilanciare la tendenza precedente
allo spopolamento delle campagne. Questo recente fenomeno eserciterà
un forte influsso sulle vicende delle parrocchie e delle congregazioni
rurali9.
Il profilo demografico del Regno Unito è per molti versi tipico delle
società industriali moderne, in particolare per la transizione a un tasso
9 Si veda D. Davies et al., The Rural Church Project, Dept. of Theology, University of Nottingham,
1990, 4 voli.
Religione e società nel Regno Unito
225
molto basso di crescita della natalità, con fluttuazioni di breve periodo.
L’invecchiamento della popolazione va già creando seri problemi al welfare state, che si acuiranno nel secolo venturo, quando una popolazione
attiva relativamente piccola dovrà farsi carico di coorti relativamente
consistenti di giovani e vecchi. L’aumento percentuale degli anziani nella
popolazione britannica si riflette nella distribuzione bipolare dei gruppi
di età nelle chiese maggiori. Intanto, la tendenza verso nuclei familiari
con un solo genitore o con un solo adulto aggraverà il problema degli alloggi.
Il quadro che emerge da questi cambiamenti demografici è una frammentazione di svariati gruppi, processi o istituzioni in passato compatti.
Diventa quindi difficile e/o improponibile per le organizzazioni religiose
simboleggiare e sacralizzare l’identità collettiva o la solidarietà comunitaria nel modo classico premoderno, mentre sono costrette a entrare in
contatto con le esperienze sempre più frammentate e instabili della vita
personale comuni a molti inglesi. D’altra parte, le organizzazioni religiose debbono entrare in rapporto con individui la cui esperienza di vita è
sempre più soggetta al potere delle burocrazie statali e alla formalità dei
rapporti di lavoro.
1.2. Classi sociali
Ti secolo XX ha assistito a trasformazioni di rilievo nella struttura
occupazionale britannica. La percentuale della forza-lavoro impiegata in
agricoltura, nell’industria estrattiva e nei servizi domestici è diminuita
drasticamente, mentre ha registrato un forte aumento quella delle
persone che svolgono mansioni professionali, manageriali, tecniche e
impiegatizie o che sono occupate nei servizi (si veda la tab. 1).
Tra i cambiamenti della struttura occupazionale avvenuti negli ultimi
quindici anni vi sono la crescita continua dell’occupazione femminile e di
quella a tempo parziale, l’aumento della disoccupazione, la diminuzione
della percentuale degli operai, l’aumento dell’occupazione nei servizi
finanziari, il numero crescente di occupati in società di proprietà straniera
e il rallentamento della crescita numerica dei dipendenti statali. Tuttavia,
questi cambiamenti non possono mascherare il fatto che le donne sono
tuttora gravemente sottorappresentate nelle occupazioni e nelle cariche
che offrono i compensi maggiori e che i membri delle minoranze razziali
ed etniche tendono a essere segregati nelle mansioni meno remunerative.
Classe occupazionale non è sinonimo di classe sociale, ma è chiaro il
rapporto tra l’occupazione di numerosi adulti e la qualità della loro
226
James A. Beckford
Tabella 1. Distribuzione della popolazione per gruppi occupazionali in Gran Bretagna tra il 1931 e il
1981.
1931
1951
1961
1.407
4.841
1.117
6.948
1.139
8.478
―
11.072
―
13.278
Operai
770
240
728
323
1.404
1.376
14.776
1.245
435
1.059
590
2.341
1.278
14.450
1.268
718
1.418
682
2.994
1.398
14.022
2.460
945
1.938
754
3.547
1.428
13.949
3.489
1.218
2.681
1.042
3.687
1.161
12.128
Totale popolazione occupata
21.024
22.515
23.639
25.021
25.406
Datori di lavoro e titolari
Non operai di
cui:
Dirigenti
Professioni superiori
Professioni inferiori e tecnici
Supervisori e ispettori
Impiegati e affini
Addetti alle vendite
1971
1981
Fonte: elaborazioni dell’autore da A. H. Halsey (a cura di), British Social Trends Since 2900, London,
Macmillan, 1988, p. 163.
vita. Ad esempio, la distribuzione del reddito e della ricchezza è fortemente correlata all’occupazione. Tale distribuzione rivela inoltre che, nonostante l’espansione dell’occupazione nel settore impiegatizio, la percentuale di reddito netto ottenuta da ciascun quintile della popolazione
adulta non è cambiata di molto dal 1976. Anche la distribuzione della
ricchezza è cambiata assai poco, certo non abbastanza da smentire l’esistenza di differenze reali e persistenti tra le classi sociali10
Queste scoperte confermano quelle emerse dagli studi sulla mobilità
sociale nel Regno Unito. I dati indicano che circa un terzo della popolazione adulta ha conosciuto una mobilità intergenerazionale ascendente,
tuttavia rivelano anche che essa è in larga parte «indotta» dalle trasformazioni della struttura occupazionale, che l’ autoreclutamento nelle classi
sociali superiori e inferiori resta molto più forte che nelle classi intermedie, e che la mobilità è quasi sempre a breve termine11. In conclusione, le differenze di qualità di vita tra le classi sociali sono tuttora nette,
sebbene i livelli globali di prosperità siano cresciuti senza alcun dubbio
10 Si vedano J. Westergaard e H. Resler, Class in a Capitalist Society, Harmondsworth,
Penguin, 1985, e G. Marshall et al., Social Class in Modern Britain, London, Unwin-Hyman,
1988.
11 Si veda A. Heath, Social Mobility, London, Fontana, 1981.
Religione e società nel Regno Unito
227
per tutti, a eccezione che per una «sottoclasse», piccola ma in via d’estensione, per Io più di disoccupati, invalidi o genitori soli.
Nondimeno, i confini di classe non sono precisi, e le classi sociali
oggi sono più frammentate che unitarie. I risultati dello studio più recente12 mostrano che tra gli operai prevale un’ottica individualistica o
strumentale, anche se la coscienza di appartenere a una classe continua a essere l’elemento che più influenza l’identità personale. Tuttavia,
questa coscienza di classe non è estrema né si traduce automaticamente, ad esempio, in un voto della classe operaia a favore del Partito laburista. La coscienza di classe dei lavoratori è caratterizzata da un «fatalismo informato» per quanto riguarda le disuguaglianze e le ingiustizie della società britannica.
Il saggio di Marshall13 ha evidenziato che i gruppi religiosi figurano
al secondo posto tra le fonti di identità sociale più citate, dopo la classe sociale, e sorprendentemente prima dell’etnia o razza (quarto posto), del partito politico (settimo) e del sesso (ottavo). Ma i conflitti
circa le relazioni industriali, la razza e la difesa sono considerati una
realtà più presente nel Regno Unito dei conflitti di classe (10,5 per
cento delle risposte) e di quelli religiosi (2,3 per cento). Ciò significa
che la classe sociale e la religione contribuiscono fortemente a formare l’identità, senza essere per gran parte delle persone controverse
o problematiche. Può essere significativo che il campione considerato
non comprenda abitanti dell’Irlanda del Nord.
1.3. Politica
La modernizzazione politica del Regno Unito ha determinato molti
cambiamenti profondi e di lungo periodo nella distribuzione del potere
e dell’autorità. Ma l’elemento fondamentale del cambiamento politico
avvenuto dopo il 1945 è stata la concentrazione graduale dell’autorità,
del potere e delle risorse materiali nelle mani di organi di Stato a livello
nazionale e locale. La formalizzazione di un welfare state che si occupa di
sanità, istruzione e servizi sociali ha contribuito a rafforzare l’apparato
statale non solo come struttura legale dell’azione esecutiva, ma anche
come aggregazione di informazione e di altri fattori che favoriscono un
controllo maggiore sulla vita dei sudditi o cittadini britannici.
Il secondo elemento di rilievo del cambiamento postbellico può
essere una conseguenza indiretta del potere e dell’autorità crescenti dello
12 G. Marshall
13Ibid., p. 148.
et al., Social Class in Modem Britain cit.
228
James A. Beckford
Stato, ovvero la credibilità chiaramente in declino dei partiti politici. A
quanto risulta, l’abitudine di votare per lo stesso partito in elezioni successive comincia a ridursi, mentre cresce la percentuale di «elettori fluttuanti». Si osserva ancora una forte relazione tra occupazione manuale e
preferenza per il Partito laburista, e analogamente la classe media continua ad appoggiare in larga misura il Partito conservatore. Tuttavia, a
partire dal 1979 le elezioni hanno rivelato un favore crescente per partiti
di centro come i socialdemocratici, i verdi e i liberaldemocratici. La loro
percentuale di voti è salita al 25 per cento circa (si veda la tab. 2), ma la
regola della maggioranza semplice in ogni circoscrizione elettorale ha negato loro una rappresentanza proporzionale in parlamento. La stessa
situazione prevale a livello di governo locale e nelle elezioni per il parlamento europeo.
Se si eccettua un breve periodo di corporativismo negli anni settanta, il sistema politico britannico si è modernizzato in modo tale
da lasciare il potere, tranne qualche eccezione, nelle mani di élite
provenienti per lo più da famiglie delle classi elevate, dalle scuole
migliori e dalle antiche università. Si osserva una continuità notevole nella detenzione del potere, ad esempio, fra le alte cariche dell’amministrazione pubblica, del potere giudiziario e militare, della
chiesa anglicana e delle più potenti istituzioni e società finanziarie.
La modernizzazione non ha sostituito né danneggiato questi elementi della classe dirigente, sebbene in qualche occasione i sindacati forti abbiano costituito un contrappeso. Ma nel complesso, dopo il 1945 non si è avuta una redistribuzione significativa del potere o dei privilegi politici.
Si può concludere che i cambiamenti significativi di lungo periodo nella struttura demografica del Regno Unito non sembrano aver
destabilizzato fino ad oggi la distribuzione del potere materiale,
onorifico e politico emersa nel secolo XVII. La grande espansione
dei poteri dello Stato nel secolo XX ha contribuito anzi a consolidare quella distribuzione. Se la lealtà comunitaria e le basi della solidarietà continueranno a essere minate dall’aumento del potere
nelle mani dello Stato e delle vaste burocrazie, è probabile che la
religione ne risentirà in due modi. Da un lato, le parrocchie territoriali continueranno a perdere il loro primato di sedi di gran parte
dell’attività religiosa pubblica e, dall’altro, si schiuderanno nuove
opportunità di offrire i prodotti religiosi a una clientela mobile in
fatto di residenza, occupazione, modo di vivere, rapporti familiari,
fedeltà politica e così via.
Religione e società nel Regno Unito
229
Tabella 2. Preferenza ottenuta dai partiti maggiori alle elezioni del parlamento nel periodo 1970-87
(escludendo dal 1974 i candidati in Irlanda del Nord; valori in percentuale).
Partito conservatore
Partito laburista
Liberali*
Socialdemocratici*
Altri
Numero dei deputati
del partito «vincente»
46,4 37,9 35,8 43,9
42,4
42,2
43,0 37,1 39,2 36,9
27,6
30,8
7,5 19,3 18,3 13,8
13,7
12,9
―
―
―
―
11,6
9,7
3,1
Cons. Lab. Lab. Cons. Cons. Cons.
330
301
319
339
397
376
* I liberali e i socialdemocratici si sono presentati insieme in molte circoscrizioni, nel 1983 e
1987, con il nome di Liberai and Social Democratic Alliance.
Fonte: elaborazioni dell’autore da A. H. Halsey (a cura di), British Social Trends Since 1900, London,
Macmillan, 1988, pp. 307-9.
2. La religione non istituzionale nel Regno Unito
Si smarrirebbe il significato sociologico della religione per la società
britannica se l’analisi si incentrasse soltanto sulle organizzazioni religiose
formali oppure sui sistemi religiosi non istituzionali, informali. Questo
paragrafo si propone quindi di analizzare le conclusioni empiriche sui
sistemi religiosi che attraversano i confini delle organizzazioni. Nel
paragrafo seguente saranno invece presentate alcune indicazioni sulle risposte che le maggiori organizzazioni religiose e «comunità di fedeli»
danno alla modernità.
Il dato più sorprendente nella religione moderna del Regno Unito è la
combinazione tra continuità e mutamento. Le principali chiese cristiane
sono presenti da secoli, essendo sopravvissute a periodi di rivolta sociale.
A fianco di queste antiche comunità, a partire dal 1945 sono proliferate
comunità religiose per Io più nuove per il Regno Unito. Alcune trovano
origine nelle antiche tradizioni del Medio Oriente e dell’Asia, altre sono
varianti americane del cristianesimo evangelico, altre ancora sono
invenzioni sincretiche degli ultimi decenni. La crescente differenziazione
delle comunità religiose è quindi un dato di spicco della società britannica
moderna.
Tuttavia, la varietà religiosa del Regno Unito non è la stessa cosa del
pluralismo americano regolato dalla legge. Il Regno Unito offre non già
un pluralismo, ma una diversità religiosa contrassegnata da nette dif-
230
James A. Beckford
ferenze di status e autorità. Contro i gruppi religiosi più deboli si
praticano forme di discriminazione14.
Inoltre, esistono differenze dimensionali notevoli tra le comunità di
fedeli del Regno Unito. La più estesa è l’anglicana, se si contano tutti i
suoi membri puramente nominali. Invece, il numero dei suoi partecipanti «reali», attivi, si va riducendo rispetto a quello di molti altri gruppi religiosi. Si prevede che il numero dei cattolici all’inizio del XXI secolo supererà quello degli anglicani nel caso in cui le attuali tendenze rimangano
invariate. I cattolici praticanti sono già più numerosi degli anglicani praticanti. Probabilmente, tuttavia, questo cambiamento si rivelerà a lungo
termine meno importante del fatto che il numero complessivo di musulmani, sikh e indù rappresenta una percentuale in rapida crescita degli appartenenti ufficiali a tutti i gruppi religiosi del Regno Unito.
2.1. Ecumenismo
L’entusiasmo postbellico per l’ecumenismo15, in particolare tra le chiese protestanti più liberali a seguito della costituzione del British Council
of Churches nel 1942, sembra aver preso una direzione nuova negli ultimi vent’anni. La fusione di larga parte della chiesa congregazionalista in
Inghilterra e Galles con la chiesa presbiteriana d’Inghilterra, che nel 1972
ha dato vita a un’unica chiesa riformata unita, è stata il prodotto maggiore
del movimento per l’unità ecclesiastica. Alla nuova chiesa si sono unite
nel 1982 molte sezioni delle chiese di Cristo, ma molti progetti di comunione ecumenica tra altre chiese non sono andati oltre la fase iniziale.
Ne è un buon esempio l’intesa a lavorare per l’unità firmata nel 1975
dai rappresentanti della chiesa anglicana, presbiteriana, metodista, riformata unita del Galles e di alcune congregazioni battiste. Si sono svolti
dibattiti sull’unità o su una maggiore comunione, ma i risultati pratici
sono stati ben pochi. In numerose località esiste una grande volontà e
cooperazione pratica tra le varie chiese, ma l’unità organica si rivela sfuggevole. Secondo un autorevole parere, «le chiese hanno accettato il ci14 Si vedano E. Barker, «The British Right to Discriminate: Church, State and the New
Religions» in T. Robbins e R. Robertson (a cura di), Church-State Relations, New Bninswick,
Transaction Books, 1987, pp. 269-80; Id., «Tolerant Discritnination: Church, State and the New
Religions» in P. Badham, Religion, State and Society in Modern Britain, Lewiston, Edwin Mellen Press,
1989 pp. 185-208 e J. A. Beckford, «Politics and Religion in England and Wales» di prossima
pubblicazione su Daedalus.
15 Tra le conquiste ecumeniche, ma non interconfessionali, dei periodo prebellico vi furono nel
1929 la fusione tra la chiesa di Scozia e la chiesa indipendente unita e nel 1932 l’unione fra tre
correnti del metodismo: wesleyana, unita e primitiva.
Religione e società nel Regno Unito
231
vile pluralismo del vivi e lascia vivere, che di fatto è anche uno stato di
frammentazione estrema»16. D’altra parte, due sviluppi indicano un risultato più positivo. In primo luogo, le chiese indipendenti hanno costituito
diversi gruppi interconfessionali e fatto progetti di cooperazione per fornire, ad esempio, cappellani a istituti superiori, ospedali e prigioni. Inoltre, hanno creato una propria commissione per l’unità delle chiese e, dopo il 1978, un consiglio delle chiese in vista di un accordo. In secondo
luogo, il declino relativo del separatismo cattolico «ufficiale» e i segni di
un allentamento del legame tra chiesa anglicana e Stato hanno ridimensionato la polarizzazione tra le chiese indipendenti e le loro più potenti
«concorrenti» che ha pervaso la storia religiosa del Regno Unito nella
prima metà del Novecento.
La speranza espressa da molti negli anni sessanta che la modernità
giungesse a creare un mercato competitivo per religioni solo marginalmente distinte non si è realizzata. La più parte delle confessioni cristiane
ha difeso strenuamente la propria identità separata. Inoltre, molte confessioni sono divise all’interno tra fautori e avversari dell’ecumenismo.
Ancor meno probabile è che i gruppi non cristiani si fondano con i loro
concorrenti o rinuncino spontaneamente al proprio «marchio di riconoscimento».
2.2. La religione e i giovani
Gli effetti della scomparsa del movimento per la scuola domenicale di
catechismo a partire dagli anni cinquanta si vedono di fatto nella percentuale declinante di giovani formalmente presenti nelle organizzazioni cristiane. Fino alla seconda guerra mondiale, sia la percentuale di bambini
delle Sunday Schools sia quella dei giovani che andavano in chiesa erano
nettamente superiori a quelle odierne, ma il vistoso declino della prima
sembra aver alimentato, o accompagnato, una caduta quasi altrettanto
rapida della seconda. Ad esempio, il numero di iscritti alle Sunday
Schools della chiesa presbiteriana d’Inghilterra è sceso da un massimo di
89.558 ragazzi nel 1905 a 19.200 nel 1970. Nel corso del medesimo periodo gli iscritti alle Sunday Schools della chiesa presbiteriana del Galles sono scesi da 195.227 a 46.867, quelli della chiesa congregazionalista da 734.986 a 152.641 e quelli della chiesa battista da 586.601 a
190.315. Al momento della riunione della chiesa metodista del 1932,
1.297.953 ragazzi frequentavano le Sunday Schools della stessa chiesa,
16 A. Dyson, The Christian Religion, in T. Thomas (a cura di), The British, Their Religious Beliefs and
Practices, 1800-1986, London, Routledge, 1988.
232
James A. Beckford
cifra scesa a 476.436 ragazzi nel 1966. Le stime non ufficiali sul numero
di ragazzi iscritti alle Sunday Schools alla fine degli anni ottanta varino da
1 a 1,5 milioni, ovvero il 10-14 per cento della popolazione sotto i quindici anni. Nel 1945 la percentuale era del 30 per cento circa.
Allo stesso tempo, le organizzazioni per i giovani legate alle chiese
hanno subìto un declino analogo. Le presenze nei circoli giovanili ecclesiastici, tra i Boy Scouts e nelle Boys Brigade e Girls Brigade evangelicomilitari, sono diminuite vorticosamente negli anni sessanta. Le indicazioni
che emergono dagli studi compiuti dimostrano che questa prima generazione di giovani non praticanti non rivela maggior interesse per la religione organizzata ora che molti suoi appartenenti sono diventati genitori. I
loro figli mostrano in molti casi la medesima indifferenza per le Sunday
Schools e le chiese: secondo Ozorak, «pressoché tutte le ricerche individuano nei genitori la fonte più importante di influenza religiosa, anche in
età adulta»17. Vi è ragione di credere che il tasso di giovani che si allontanano dalla Chiesa e non partecipano alle attività ad essa legate sia in crescita18. Invece, costoro partecipano attivamente a movimenti sociali di tipo morale, come la Campagna per il disarmo nucleare, Amnesty International e Amici della terra.
2.3. Le trasmissioni religiose
Probabilmente, le persone cresciute nel Regno Unito dopo il 1945
hanno subito più l’influenza della televisione che quella delle organizzazioni religiose. Sono presenti quattro canali televisivi pubblici e altri canali per trasmissioni via cavo e satellite. La Bbc 1 e la Bbc 2 fanno parte
del servizio di teletrasmissione pubblico non commerciale, mentre Itv e
Channel 4 sono gestite da società private che traggono gran parte degli
introiti dalla vendita di spazi pubblicitari. Ciascun canale offre un piccolo numero di programmi settimanali e occasionali di carattere religioso, pari al 3 per cento circa del tempo totale, alcuni sotto forma di
servizi filmati delle funzioni in chiesa, altri di documentari o programmi d’intrattenimento con un’ottica chiaramente religiosa. In realtà, l’analisi fatta dall’Università di Leeds sul modo in cui i mass media pre17 E. W. Ozoralc, «Social and Cognitive Influences on the Development of Religious
Beliefs and Commitment in Adolescence» in journal for the Scientific Study of Religion, 4,
XXVIII, 1989, pp. 449-63.
18 I risultati dello studio dell’European Value Systems Study Group (Evssg) in Gran
Bretagna hanno messo in luce l’importanza primaria del fattore generazione e del fattore età
nella determinazione pressoché di tutti i valori. Si veda M. Abrams et al., Values and Social
Change in Britain, London, Macmillan, 1985, p. 49.
Religione e società nel Regno Unito
233
sentano la religione19 ha rivelato che riferimenti ad essa sono presenti, con
diversa frequenza, in tutti i tipi di programmi televisivi. Tenendo conto del
fatto che la definizione di «religione» comprende le componenti sia «convenzionali» sia «comuni», è da sottolineare che l’82 per cento dei riferimenti alla
religione in televisione avviene in programmi non dichiaratamente religiosi.
Quasi tutti i riferimenti a temi della religione comune hanno luogo in programmi non religiosi.
Uno dei motivi della presenza moderata di trasmissioni televisive sulla
religione è che il Broadcasting Act del 1981 ha decretato che le televisioni
commerciali devono ricevere il benestare dell’organo di controllo, l’Independent Broadcasting Authority (Iba), per mandare in onda «qualunque servizio
religioso o qualsiasi propaganda riguardante questioni di natura religiosa».
Devono inoltre consultare regolarmente i rappresentanti delle «maggiori correnti del pensiero religioso nel Regno Unito». L’organo consultivo principale è costituito dal Central Religious Advisory Committee
(Crac), formato da laici ed ecclesiastici nominati per un periodo determinato
dalle maggiori comunità religiose. La Bbc è soggetta al giudizio e al controllo
dello stesso comitato.
Anche il contenuto religioso dei programmi radiofonici della Bbc e dei
canali commerciali è sottoposto all’esame del Crac. Ci sono programmi quotidiani di meditazione religiosa, culto, inni religiosi, e un epilogo al termine
delle trasmissioni quotidiane della Bbc. Tuttavia, poiché non si hanno informazioni attendibili sul pubblico di questi programmi, ci si limiterà qui ad analizzare i programmi televisivi.
I programmi religiosi degli anni cinquanta e sessanta riflettevano sentimenti e credenze dei maggiori gruppi cristiani (e in rari casi degli ebrei),
laddove negli anni ottanta è emersa la volontà di dare spazio all’intera
gamma di fedi religiose presenti nella popolazione assai più varia del Regno Unito. Oggi i programmi trasmessi in alcune lingue sudasiatiche a
beneficio delle comunità recentemente immigrate in Gran Bretagna hanno un contenuto in parte non cristiano. Ma l’analisi di Leeds ha rivelato
che sikh, musulmani e indù, che costituiscono solo l’1,5 per cento del
campione, non seguono i programmi religiosi alla televisione. Al tempo
stesso, alcuni documentari apparentemente dedicati alla religione hanno
espresso critiche nei riguardi di alcuni aspetti della stessa e probabilmente
hanno richiamato l’attenzione di un pubblico non impegnato sul piano
religioso. Secondo il rapporto su Television and Religion in Britain20, solo il 2
19 K. Knott, Media Portrayals of Religion and Their Reception, rapporto conclusivo di
un progetto sovvenzionato dal Christendom Trust, University of Leeds, 1984.
20 Independent Broadcasting Authority, Television and Religion in Great Britain,
London, Iba, 1987.
234
James A. Beckford
o 3 per cento di un campione di 1.496 adulti ha definito «molto religiosi»
i programmi più seri e approfonditi che analizzano gli avvenimenti attuali
e le questioni morali da un punto di vista religioso. Invece il 68 per cento
ha definito tale il Morning Worship. L’idea popolare di religione come
sinonimo di culto nelle chiese, o per lo meno di canto degli inni sacri21,
trova riscontro, come si vedrà, nel tono e nel carattere di quasi tutti i
programmi religiosi.
Due indagini sui programmi religiosi televisivi a livello nazionale22
hanno dimostrato che il pubblico di tali trasmissioni non rappresenta la
popolazione britannica adulta (si veda la tab. 3). I telespettatori sono
prevalentemente di mezza età o anziani dei ceti inferiori, e sebbene gli
uomini superino del 4 per cento le donne nell’audience media dei programmi televisivi, per quanto riguarda i programmi religiosi più popolari
il rapporto è di 43 uomini per 57 donne (tali programmi raccolgono i tre
quarti circa del pubblico settimanale di tutte le trasmissioni religiose della
televisione). Le persone tra i 16 e i 24 anni sono quelle che meno
seguono i programmi religiosi nel mese di febbraio 1988.
L’indagine di Leeds ha rivelato inoltre che di solito gli intervistati che
seguono i programmi religiosi sono in qualche modo devoti; solo il 3 per
cento ha dichiarato di non credere in nessuna religione. Nondimeno, un
numero notevole di inglesi segue i programmi religiosi. Nel febbraio
1988 il pubblico dei programmi trasmessi durante l’ora dedicata a trasmissioni del genere, tra le 18,45 e le 19,15 della domenica sera, è stato in
media di 6,9 milioni per la Bbc 1, di 5,1 milioni per la Bbc 2, di 7,8 milioni per la Itv e di 1,6 milioni per. Channel 4. Insomma, tali programmi sono seguiti all’incirca dalla stessa percentuale di popolazione adulta che segue i documentari seri e le trasmissioni sugli avvenimenti attuali.
E probabile inoltre che chi segue abitualmente i programmi religiosi
alla televisione sia un cristiano impegnato e praticante23. Ciò significa che
la religione in televisione non sostituisce necessariamente la partecipazione alla vita della chiesa, se non per chi ne è impedito da invalidità,
responsabilità familiari, isolamento geografico od orari di lavoro scomodi che non permettono di recarsi nei luoghi di culto. Sarà interessan21 «La gente continua a identificare i "programmi religiosi" con immagini religiose tradizionali come chiese, sacerdoti, canto di inni sacri e così via»: K. Knott, Media Portrayals of
Religion cit., p. 29.
22 Independent Television Authority, Religion in Britain and Northern Ireland, London, Ita,
1970, e M. Svennevig et al., Godwatching. Viewers, Religion and Television, London, John
Libbey, 1988.
23 M. Svennevig et al., Godwatching cit., p. 27.
Religione e società nel Regno Unito
235
Tabella 3. Composizione del pubblico dei programmi religiosi televisivi per tutte le trasmissioni dal 1°
gennaio al 1° aprile 1988 (valori in percentuale).
Età
16-24 25-34 35-44 45-59 55-64 65 e oltre
Highway
6
10
9
16
28
30
Songs of Praise
6
8
9
17
23
36
Spettatori di tutti i programmi Tv
17
18
18
15
14
19
Classe sociale e sesso
Professioni
inferiori
Tecnici
7
19
20
21
28
22
16
23
27
Dirigenti e
professioni
superiori
Highway
Songs of Praise
Spettatori di tutti i
programmi Tv
Supervisori,
ispettori,
impiegati e affini
Uomini
Donne
45
39
43
44
57
56
34
52
48
Fonte: elaborazioni dell’autore da M. Svennevig et al., Godwatching. Viewels, Religion and Television,
London, John Libbey, 1988, p. 15.
te vedere come i praticanti reagiranno allo stile evangelico più aggressivo
dei programmi religiosi che avranno una diffusione maggiore nel paese
con l’avvento delle trasmissioni via satellite di emittenti esclusivamente
religiose degli Usa e della pubblicità religiosa.
Nell’ottobre del 1990 il parlamento ha approvato nuove norme che
regolano la pubblicità sui canali televisivi commerciali. È possibile per la
prima volta reclamizzare manifestazioni, servizi e altri eventi religiosi. Le
organizzazioni possono inoltre pubblicizzare le proprie attività e
promuovere la vendita della Bibbia o di altro materiale religioso. E invece
proibita la pubblicità diretta delle dottrine religiose e, conformemente alle
norme esistenti per la pubblicità in generale, non è tollerata la critica di
altre fedi o filosofie.
Il fatto che le nuove norme sulla pubblicità religiosa escludano specificamente i gruppi religiosi meno conosciuti, che non mettono direttamente a disposizione del grande pubblico le loro pratiche, conferma la
mia affermazione che nel Regno Unito vige una discriminazione contro
le religioni di minoranza. Tuttavia, il presidente del Crac ha criticato tali
norme in quanto non «ci proteggono dagli evangelisti di stampo
americano né dalla possibilità che le sette usino l’etere. Non sono state
innalzate barriere abbastanza alte da allontanare quanto c’è di inaccet-
236
James A. Beckford
tabile nella religione». La sua critica si basa anche sulla seguente obiezione: «Abbiamo sempre pensato che le trasmissioni dovessero riflettere le
fedi e le chiese maggiori del paese. Invece prevedo che le chiese, impegnate a sovvenzionare il loro clero, difficilmente troveranno i soldi per
la pubblicità o il finanziamento di programmi. Lo faranno i gruppi marginali con ricchi sponsor24». E molto significativo, per quanto mi riguarda, che uno dei vescovi politicamente più liberali della chiesa anglicana
manifesti una discriminazione tanto netta, sicura e senza giustificazioni
nei riguardi dei gruppi religiosi non appartenenti alle correnti cristiane
dominanti. Le sue obiezioni alla pubblicità religiosa in televisione dimostrano eloquentemente quanto sia diffusa l’accettazione scontata non
solo delle principali correnti cristiane, ma anche dei privilegi di cui godono nel paese.
I risultati dell’analisi a tappeto sul modo in cui i mass media presentano la religione condotta dall’Università di Leeds nel 1982-8325, aiutano
a inserire in un contesto più ampio le caratteristiche dei programmi religiosi. Un’analisi complessa di tutti i programmi televisivi (salvo quelli
educativi, professionali e per bambini) trasmessi tra il 19 e il 25 aprile
1982 e del contenuto di tre quotidiani e due settimanali, ha rivelato che
il 74 per cento dei 3.455 riferimenti alla religione riguardavano quella
«convenzionale» e il 26 per cento quella «comune». Il primo termine
comprende le forme istituzionalizzate nelle chiese e nei movimenti, il
secondo le credenze e le pratiche popolari associate, ad esempio, alla
superstizione, alla fortuna, al destino, all’astrologia e allo spiritismo26.
Tra i riferimenti alla «religione convenzionale», solo l’11 per cento riguarda «i concetti e le dottrine religiose» e «i testi religiosi». La maggior
parte dei riferimenti riguarda invece le organizzazioni, pratiche e la storia. Inoltre, la tendenza a sottolineare gli aspetti generali e comuni a
danno di quelli particolari e circostanziati è emersa in modo evidente
nel modo in cui giornali e televisione hanno parlato della visita di papa
Giovanni Paolo II nel Regno Unito tra il 28 maggio e il 4 giugno 1982.
Il tono rigorosamento inoffensivo delle trasmissioni religiose è senza
dubbio in parte causa e in parte effetto del carattere dominante della
24 Dichiarazioni del reverendissimo David Sheppard, vescovo anglicano di Liverpool,
riportate su «The Independent» del 24 ottobre 1990.
25 K. Knott, Media Portrayals of Religion cit.
26 Si vedano K. Knott, «Conventional Religion and Common Religion» in Religious
Research Paper, 9, University of Leeds, 1983; R. Towler, Homo Religiosus, London, Constatole,
1974; e R. Towler e A. Chamberlain, «Common Religion» in A Sociological Yearbook of
Religion in Britain, 6, 1973, pp. 1-28.
Religione e società nel Regno Unito
237
fede, del sentimento e della pratica religiosi nel Regno Unito27. Non è
possibile separare in modo netto cause ed effetti, è chiaro tuttavia che la
reazione dell’opinione pubblica a ogni tentativo di proporre un’immagine
più provocatoria o problematica della religione è immancabilmente ostile,
anche in un’epoca che si vuole laica. La maggioranza considera «molto
importante» o «abbastanza importante» che il Regno Unito sia un «paese
cristiano»28. Nel 1986 era di quest’opinione l’81 per cento di un campione
di adulti dell’Irlanda del Nord. Si osserva un netto scarto tra il consenso
all’idea di essere un paese cristiano e l’identità religiosa personale. Solo il
49 per cento del campione della Gran Bretagna e il 62 per cento di quello
dell’Irlanda del Nord si è definito «molto religioso» o «abbastanza
religioso».
2.4. Fede religiosa
Le indagini recenti sul sentimento e sulle esperienze di fede indicano
che il livello di adesione alle credenze cristiane ed ebraiche più generali
rimane elevato, ma che ad esso si affianca un livello molto più basso di
adesione ai dogmi specifici della dottrina, con l’eccezione di coloro che
fanno parte di piccoli gruppi o di movimenti religiosi di devoti. Ad
esempio, le indagini condotte per conto dell’Iba29 dimostrano che tra il
1968 e il 1987 l’incremento delle persone che si definiscono «molto
religiose» riguarda soltanto la categoria della chiese non anglicane e non
cattoliche e i cattolici dell’Irlanda del Nord: probabilmente una conseguenza dello sviluppo di un cristianesimo non trinitario, carismatico ed
evangelico in Gran Bretagna e di una polarizzazione più netta tra cattolici
e protestanti in Irlanda del Nord.
Ma se si eccettuano questi due casi, e si unificano le categorie dei
«molto religiosi» e degli « abbastanza religiosi» nella valutazione favorevole della religione, diventa evidente una diminuzione di tale atteggiamento: del 14 per .cento tra gli anglicani, del 12 tra i cattolici, del 9 tra
gli altri e del 12 tra le persone non affiliate ad alcuna confessione in
Gran Bretagna. La diminuzione corrispondente in Irlanda del Nord è
del 26 per cento per la chiesa irlandese, del 13 per i cattolici e solo del 5
per i membri di altri gruppi religiosi. Le medesime indagini hanno
evidenziato nello stesso tempo un aumento della percentuale di coloro
che negano di essere «in qualche modo religiosi». In Gran Bretagna l’inSi veda K. Knott, Media Portrayals of Religion cit.
M. Svennevig et al., Godwatching cit.
29 Ibid.
27
28
238
James A. Beckford
cremento è stato del 17 per cento tra gli anglicani, dell’8 tra i cattolici,
dell’8 tra gli altri e del 32 tra chi non è affiliato ad alcuna confessione. In
Irlanda del Nord è stato del 10 per cento per la chiesa irlandese, del 4
per i cattolici e dell’8 per gli altri.
Va inoltre ricordato che il fatto che un numero elevato e crescente di
inglesi sia pronto ad accettare la definizione di anglicano, cattolico o
altro, negando però di essere in qualche modo religiosi30, dà un’idea del
persistere della religione come forza socioculturale nel Regno Unito e
indica che l’effetto dell’identificazione come membro di una comunità
religiosa durante la prima socializzazione può protrarsi nella fase adulta
(e più ancora in quella terminale) della vita, anche quando non si esprime
una preferenza personale per alcuna religione31. Ciò spiega i «non religiosi» anglicani e cattolici. In questo senso, l’identità religiosa trascende
le questioni della dottrina e della pratica, pur essendo ancora associata a
divisioni di classe sociale, status, rispettabilità, senso civico e stile liturgico, determinate a livello locale.
Dati i livelli generalmente bassi di partecipazione degli adulti alle attività religiose, forse è sorprendente che solo il 13 per cento delle 1.496
persone intervistate per l’Iba32 abbia dichiarato nel 1987 di non avere
un’affiliazione religiosa. Inoltre il 40 per cento del campione di tale indagine si è rivelato convinto che la vita quotidiana sia influenzata molto o
abbastanza dalla fede religiosa, mentre il 50 per cento ha negato che questa sia importante; il 60 per cento considera la Bibbia la reale parola di
Dio; il 50 pensa a Dio quando è felice; il 47 pensa che Dio veda tutti; il
45 ritiene che Gesù Cristo è il figlio di Dio; il 42 è certo che esista un
Dio; il 35 pensa a Dio quando è turbato.
I risultati dello studio di Leeds33 indicano livelli analoghi di fede e di
pratica su un campione di 1.627 adulti di una città industriale del nord: il
72 per cento sostiene di credere in Dio e il 71 dichiara di pregare.
30 Si veda D. Gerard, «Rpligious Attitudes and Values» in M. Abrams et al, Values and Social
Change in Britain cit., p. 59, in cui viene detto che venti dei quarantacinque intervistati dall’Evssg che
si sono definiti atei hanno tuttavia dichiarato di avere una vita di devozione confessionale. Knott ha
riportato in Media Portrayals of Religion cit., p. 26, che 1’84 per cento dei 1.627 intervistati di Leeds «ha
riconosciuto di avere una specie di devozione religiosa».
31Si veda C. K. Hadaway, «Identifying American Apostates. A Cluster Analisys» in Journal for the
Scientific Study of Religion, 2, XXVIII, 1989, p. 213, in cui si osserva che negli Stati Uniti «alcuni
apostati possono rifiutare un’identità religiosa per coerenza con il fatto di non credere, mentre altri
possono mantenere la fede, anche in misura profonda, rifiutando però di identificarsi con
un’istituzione religiosa».
32 M. Svennevig et al., Godwatching cit., p. 20.
33 K. Knott, Media Portrayals of Religion cit.
Religione e società nel Regno Unito
239
Dall’indagine su 1.231 adulti condotta in Gran Bretagna nel 1981 da
un gruppo che collabora all’European Value Systems Study Group
(Evssg) sono emersi risultati in gran parte simili34. Il 76 per cento degli
intervistati ha detto di credere in Dio; il 58 si è definito religioso; il 50
considera Dio importante nella vita; il 50 ha dichiarato di sentire
l’esigenza di pregare; il 46 trae conforto e forza dalla religione. Invece,
soltanto il 4 per cento si è definito ateo, il che indica che la rinuncia
completa o un’indifferenza totale nei confronti della fede religiosa sono
alquanto rare.
Tuttavia, al livello relativamente elevato di generale riconoscimento
dell’importanza della religione non corrisponde un livello paragonabile
di ortodossia cristiana; in effetti soltanto il 31 per cento degli intervistati
dall’Evssg crede in un Dio personale, mentre il 39 pensa a Dio come a
uno spirito o a una forza vitale; la fede nella vita ultraterrena è stata
espressa solo dal 45 per cento (sebbene il 57 dichiari di credere nel
paradiso!). In breve, non più di un quarto del campione crede nei
dogmi fondamentali cristiani, nonostante le prove di un livello molto
più elevato di adesione a credenze religiose non specifiche. Questa
interpretazione è avvalorata dai risultati dello studio di Leeds. Knott
riferisce che «sebbene l’83 per cento delle persone abbia una visione di
Dio e di Gesù che si può chiamare “religiosa”, solo il 42 per cento dei
campione ha una visione “cristiana tradizionale”»35. Il 29 per cento
pensa in effetti che Gesù fosse solo un comune mortale. Ciò indica che
nel Regno Unito esiste da una parte una popolazione relativamente
ridotta, e probabilmente in diminuzione, di individui che aderiscono a
credenze cristiane specifiche e dall’altra una popolazione molto più
vasta che crede nella religione in generale, sia come insieme di impegni
personali sia come insieme di convinzioni sul valore sociale e culturale
della religione per le comunità36. I risultati dell’indagine circa i livelli di
credenza nelle forme e negli effetti del male nel mondo confermano
questa erosione della specificità. L’indagine dell’Evssg del 1981 precisa
che solo il 30 per cento del campione britannico dice di credere nel
diavolo e il 27 nell’inferno.
Non è questa la sede per approfondire gli effetti dei modo in cui i
M. Abrams et al., Values and Social Change in Britain cit.
K. Knott, Media Portrayals of Religion cit., p. 26.
Un teologo che ha riflettuto sui risultati dell’indagine dell’Evssg in Gran Bretagna
non ha potuto far a meno di concludere che «la Gran Bretagna oggi è in gran parte urla
società con una religiosità vaga da non mettere troppo alla prova, che non ha un forte
impatto esplicito sulla vita delle persone»: J. Mahoney, «Theological and Pastoral
Reflections» in M. Abrams et al., Values and Social Change in Britain cit., p. 258.
34
35
36
240
James A. Beckford
mass media presentano la religione sul profilo della fede religiosa nel
Regno Unito, ma Knott accenna a tale influenza sottolineando il
contrasto tra il significato della visita del Papa per i cristiani
personalmente presenti e gli aspetti accentuati nella descrizione fattane
dai mass media. Pur senza poter valutare con precisione l’effetto dei
mass media sulla pratica della religione moderna del Regno Unito, Knott
afferma nondimeno che «il modo in cui la presentano contribuisce a
formare e a rafforzare la religione e la religiosità popolare »37. Ciò vale in
particolare per la conoscenza popolare, ad esempio, dell’astrologia, dei
nuovi movimenti religiosi38 e di altre religioni mondiali. Vale anche per la
reazione della gente alla visita del Papa: pochi intervistati dello studio di
Leeds ricordano il contenuto specifico del discorso ufficiale del Papa.
I risultati dell’Iba39 su quanto gli intervistati pensano dell’importanza
relativa dei vari aspetti della religione confermano quelli delle indagini
dell’Evssg e di Leeds circa il prevalere delle credenze generali su quelle
specifiche. La tabella 4 mostra che le considerazioni etiche sono al
primo posto.
La stessa indagine ha rivelato che il declino della fede piú
intransigente tra il 1968 e il 1987 è stato più rapido di quello della
convinzione più generale sulle funzioni sociali e culturali della religione:
«Ciò indica un affievolirsi dell’elemento della fede nella vita religiosa del
paese, mentre gli aspetti etici e morali conservano il loro richiamo
generale »40.
Suddividendo i risultati dello studio di Svennevig in due categorie,
quella di una convinzione religiosa forte e quella di una convinzione religiosa moderata, ed escludendo coloro che credono poco o nulla, sono
emerse alcune costanti: le donne sono più numerose degli uomini in entrambe le categorie, gli anziani sono più partecipi, le persone che si trovano agli estremi dello spettro sociale sono più propense a vivere attivamente la religione, il livello di religiosità è nettamente superiore in
Irlanda del Nord rispetto al resto del Regno Unito. La tabella 5 mostra il
grado di declino a partire dal 1968, quando le stesse domande furono
poste a un campione simile in Gran Bretagna.
Un’analisi più articolata del tipo di convinzioni religiose presenti nel
Regno Unito è l’indagine dell’Evssg. L’interpretazione dei risultati di
Gerard41 sottolinea che la percezione soggettiva dell’importanza di Dio
37 K. Knott, Media Portrayals of Religion cit., p. 31.
38 Si veda J. A. Beckford e M. A. Cole, «British
and American Responses to New Religious
Movements» in Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester, 3, LXX, 1988, pp. 209-25.
39 Iba, Television and Religion in Gran Britain cit.
40 M. Svennevig et al., Godwatching cit., p. 45.
41 D. Gerard, «Religious Attitudes and Values» cit., p. 59.
Religione e società nel Regno Unito
241
Tabella 4. Aspetto più importante della religione in generale (valori in percentuale).
Gran Bretagna
Ciò che fai agli altri
Ciò in cui credi
Pregare Dio
Andare in chiesa
Altro/Non so
1968
39
46
12
3
3
Irlanda del Nord
1987
49
37
11
3
3
1968
26
33
34
7
1987
29
33
27
9
2
Fonte: M. Svennevig et al., Godwatehing. Viewers, Religion and Television, London, John Libbey, 1988, p.
34.
Tabella 5. Religiosità per età e classe sociale in Gran Bretagna tra il 1968 e il 1987 (valori in
percentuale).
Base: chi si dichiara religioso o molto religioso
1968
1987 Variazione
Totale
Uomini
Donne
Età
16-24
25-34
35-44
45-54
55-64
65 e oltre
Classe sociale
Dirigenti e professioni superiori
Professioni inferiori
Tecnici
Supervisori, ispettori, impiegati e affini
49
39
58
36
26
45
-13
-13
-13
36
37
41
50
64
61
19
28
33
36
48
52
-17
-9
-8
-14
-16
-9
53
49
47
51
39
37
30
38
-14
-12
-17
-13
Fonte: M. Svennevig et al., Godwatching. Viewers, Religion and Television, London, John Libbey, 1988, p.
25.
242
James A. Beckford
è il miglior indicatore sommario della religiosità globale e che essa varia
sistematicamente a seconda delle credenze religiose tradizionali e ortodosse. In altre parole, il livello generale di partecipazione religiosa varia a
seconda delle dottrine specifiche delle organizzazioni religiose. Quindi,
l’impegno religioso non è una dimensione indipendente dalla fede e dai
valori: è invece strettamente legato al tipo di religione che si pratica nelle
organizzazioni religiose formali. Inoltre, chi dice di credere in un Dio
personale (il 31 per cento del campione) considera con maggiore probabilità la fede un valore importante da trasmettere ai figli, frequenta la
chiesa tutte le settimane e si affida a valori morali assoluti. Questo conferma la conclusione dell’indagine dell’Iba secondo cui «quanto maggiore è la religiosità dell’individuo, tanto più è probabile che Dio sia considerato una persona, l’essere che veglia su ciascuno di noi»42.
È chiaro che la partecipazione alle organizzazioni religiose favorisce
credenze religiose particolari e che, come ha osservato Abercrombie,
l’ortodossia è probabilmente minore tra i non partecipatiti43. Pertanto, i
dati britannici sulla religione tratti dallo studio dell’Evssg possono essere letti con attendibilità secondo le due dimensioni della disposizione
religiosa e del legame istituzionale. Si osserva una forte correlazione
(gamma = 0,74) tra le due dimensioni dividendo il campione in tre
gruppi di grandezza simile (si veda la tab. 6).
L’indagine dell’Evssg nel Regno Unito ha mostrato inoltre che gli
effetti separati e combinati dell’età e del sesso sulla partecipazione religiosa sono solo relativamente forti e vanno nella direzione prevista: essa è maggiore tra gli anziani e le donne in particolare. Invece, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, le donne che svolgono un lavoro retribuito fuori casa mostrano un impegno religioso maggiore durante
tutta la vita lavorativa. Le giovani donne che restano a casa con i figli
mostrano scarso impegno religioso. Non si sono trovate indicazioni a
conferma dell’ipotesi che tale impegno vari in misura direttamente proporzionale alla sensazione di privazione o al bisogno di conforto.
Il nesso tra partecipazione alla vita della Chiesa e ortodossia, o per lo
meno specificità delle credenze cristiane, trova corrispondenza nei
risultati dell’Evssg sul legame tra impegno religioso e adesione a valori
42 Ita, Religion in Britain and Northern Ireland cit., p. 19.
43 N. Abercrombie et al., «Superstition and Religion:
The God of the Gaps» in A Sociological
Yearbook of Religion in Britain, 3, 1970, pp. 93-129. Pur non riguardando esclusivamente l’ortodossia
della fede, i risultati di Hornsby-Smith sul rapporto positivo tra la densità delle amicizie tra i cattolici
di una parrocchia e il livello della loro vita religiosa sono interessanti: M. Hornsby-Srnith, The
Changing Parish. A Study of Parishes, Priests and Parishioners after Vatican II, London, Routledge, 1989, p.
42.
Religione e società nel Regno Unito
243
Tabella 6. Rapporto tra disposizione religiosa e legame istituzionale (valori in percentuale) *.
Legame istituzionale
Basso
Disposizione religiosa
Bassa
Media
Alta
64
32
5
Medio
35
43
22
Alto
3
33
64
* Campione = 1.233 frequenze.
Fonte: D, Geratd, «Religious Attitudes and Values» in M. Abrams et al., Values and Soci& Change in
Britain, London, Macmillan, 1985, p. 66.
morali assoluti. Da una lunga serie di domande sulle convinzioni morali
è emerso che i cristiani impegnati sono nettamente più legati a una posizione «tradizionalista», ad esempio, riguardo alla coesione familiare, al
matrimonio, alla fedeltà coniugale, ai valori comuni, a una rigida
disciplina familiare e che sono invece contrari al divorzio e alla figura
del genitore solo.
2.5. Superstizione
Il persistere della credenza in forze paranormali o soprannaturali
come la fortuna, il destino, la magia, la superstizione, l’occulto,
l’astrologia o il satanismo è un’altra caratteristica della religione
moderna nel Regno Unito. L’indagine di Leeds44 ha rilevato un livello di
credenza nel paranormale che arriva al 77 per cento degli intervistati;
l’85 per cento si è fatto predire l’avvenire o legge l’oroscopo sui giornali;
il 36 per cento crede nei fantasmi (ma solo il 14 ha detto di averne
avuta l’esperienza); il 61 per cento crede nell’intervento del fato o del
destino; il 57 ritiene che la fortuna intervenga nella propria vita.
Sono ben poche le ricerche sistematiche sulla superstizione condotte
nel Regno Unito. L’indagine più metodica al riguardo è, significativamente, un progetto «pilota» condotto dagli studenti della London School of
Economics45. È stato intervistato un campione più o meno rappresentativo di 181 adulti del quartiere londinese di Islington sulle pratiche e
sulle credenze superstiziose. Le pratiche più frequenti sono tocca44 K. Knott, Media Portrayals of Religion cit.
45 N. Abercrombie et al., «Superstition and Religion» cit.
244
James A. Beckford
re legno per scongiurare eventi avversi (più del 75 per cento) e gettarsi il
sale dietro le spalle per scongiurare la malasorte (più del 50). «A grande
distanza vengono la credenza nei numeri fortunati (22 per cento) e negli
amuleti (18), che non si debba passare sotto le scale e che i gatti neri
portino fortuna (entrambi 15 per cento)»46.
I risultati hanno evidenziato, oltre a queste nette differenze nella
frequenza delle pratiche superstiziose, differenze non meno nette nell’importanza attribuita dalle persone superstiziose alle loro pratiche scaramantiche. Si sono osservate anche differenze notevoli ma non costanti
tra la superstizione degli uomini e quella delle donne. È invece sorprendente la scoperta che le differenze di classe di fatto non influiscono
sui comportamenti superstiziosi, un dato in aperto contrasto con gli studi
precedenti. E stata invece confermata l’osservazione precedente che i
gruppi di età maggiore e minore presentano i livelli più alti di pratica
superstiziosa.
Passando alle credenze su astrologia, fantasmi e premonizioni, lo
studio di Islington ha rilevato livelli superiori di incertezza e perplessità.
Nondimeno, l’80 per cento conosce il proprio segno zodiacale, il 60 legge
gli oroscopi, il 60 crede nelle premonizioni, il 30 pensa che «fantasmi o
spiriti possono a volte essere visti o percepiti dalla gente», mentre solo il
18 ha detto di essersi recato da chiromanti, indovini o astrologi. Il tipo di
differenze legate al sesso, all’età o alla classe sociale è largamente simile a
quello delle pratiche superstiziose specifiche, salvo il fatto che gli uomini
sembrano più propensi a nutrire credenze che abbiano una parvenza di
fondamento scientifico.
La distribuzione in relazione alla fortuna è un po’ diversa: gli uomini
hanno mostrato di credere di più nell’importanza della fortuna, mentre le
differenze legate all’età e alla classe sociale sono più o meno uguali: «La
fortuna si presenta quindi come concetto maschile e, almeno tra gli
uomini, particolarmente forte nella classe operaia»47.
Dividendo gli intervistati in quattro categorie di diversa superstiziosità, è emerso che circa un quarto dei credenti è anche «molto superstizioso», mentre solo il 10-14 per cento dei non credenti lo è. Il rapporto
positivo tra religione e superstizione non cambia a seconda del sesso o
della classe sociale. D’altra parte, chi va regolarmente in chiesa è meno
superstizioso di chi non la frequenta mai, anche tenendo sotto controllo
gli effetti della classe sociale. Si è dunque ritenuto di poter concludere
che, sebbene religione e superstizione si confondano, le chiese agiscono
46 Ibid., p. 98.
47Ibid., p. 104.
Religione e società nel Regno Unito
245
come filtro e riescono a tenerle in una certa misura separate48. Invece, la
preghiera individuale è diffusa tra le persone superstiziose a prescindere
dalla classe sociale, con l’eccezione di coloro che frequentano regolarmente
la chiesa, molto meno spesso superstiziosi: una conferma dell’ipotesi
che partecipare alla vita religiosa formale agisce da freno alla superstizione:
I risultati dell’indagine di Islington riguardano direttamente in due
modi l’idea di modernità. In primo luogo, suggeriscono che il rapporto
tra pratica e credibilità costanti della superstizione e minore partecipazione alla religione organizzata non è casuale. C’è ragione di credere che
sebbene le chiese cristiane abbiano sempre mescolato l’ortodossia con
la superstizione e il paganesimo, il declino della Chiesa agevoli il persistere della superstizione, in quanto allenta il controllo teologico sulle
credenze e sulle pratiche popolari. E chiaro, insomma, che diminuendo
la partecipazione religiosa la credenza nella superstizione trova un terreno più favorevole. Una seconda conclusione dei risultati dell’indagine
è che la razionalità strumentale che domina il pensiero e l’azione in tanti
settori della vita moderna porta a credere che si potrà arrivare a capire e
a controllare ogni evento. Pertanto, il ricorso alla superstizione non è
considerato un regresso a una visione prerazionale o non razionale, ma
appare come un ampliamento del principio della comprensione e del
controllo razionale in un territorio che in passato era stato riservato al
mito o alla religione.
Possiamo quindi considerare la superstizione come «il dio del vuoto». Se la
scienza non è in grado di fornire risposte soddisfacenti a domande quali
«Perché mi è successo questo?», forse la superstizione lo è? La scienza non
sa dare una risposta a molte domande di questo tipo, cosicché, nella misura
in cui tale teoria è vera, non c’è ragione di pensare che la superstizione
declini con il progredire del sapere49.
2.6. L’esperienza religiosa
Contrariamente a quanto avviene nel caso delle convinzioni religiose,
Io studio dell’esperienza religiosa è carente. Secondo l’analisi dell’Evssg,
il 19 per cento degli intervistati ha avuto un’esperienza religiosa, contro
una media europea del 12 per cento. Analogamente, il 17 per cento degli
intervistati dall’Iba dichiara di aver avuto un’esperienza religiosa
48 «La fede religiosa, quando non è associata alla partecipazione attiva a una chiesa, tende ad
associarsi alla credenza superstiziosa, mentre la vita nella chiesa tende a essere antitetica alla
superstizione»: ibid., p. 124.
49 Ibid., pp. 122 sg.
246
James A. Beckford
intensi»50, e il 9
per cento dei cristiani dei campione di aver avuto un’«esperienza di
rinascita». Purtroppo l’indagine del 1968 non pone interrogativi sulle
esperienze religiose, sicché non c’è modo di valutare la portata dei
cambiamento. La differenza terminologica tra le domande poste
dall’Evssg e dall’Iba rende inoltre rischiosa una comparazione tra i
risultati.
Una fonte più attendibile di informazione sui livelli odierni di esperienza religiosa nel Regno Unito sono le indagini condotte o dirette da
David Hay51. Utilizzando una domanda formulata in precedenza dal
decano dei ricercatori in questo campo, sir Alister Hardy, Hay ha
individuato una frequenza dell’esperienza religiosa assai superiore a
quanto abbiamo riportato e a grandi linee corrispondente a quella
rilevata dai ricercatori americani52. Il 36 per cento di un campione
casuale di circa 2.000 adulti rappresentativi di tutte le regioni del
Regno Unito nell’agosto 1976 ha risposto affermativamente alla
seguente domanda: «Sei mai stato consapevole di o influenzato da una
presenza o forza, che si chiami Dio o meno, diversa dal tuo io
quotidiano?»
La percentuale di risposte affermative a questa domanda è salita al
48 per cento in uno studio su 985 adulti condotto da Hay e Heald53,
con l’aiuto di un sondaggio Gallup, a Londra nel 1985. La frequenza
dei vari tipi di esperienza riferiti è presentata nella tabella 7.
Le conclusioni essenziali dello studio del 1985 sono che il tasso di
esperienze religiose è in aumento e che tendenzialmente esse sono
associate a caratteristiche positive e favorevoli come «buona salute
mentale, buona educazione, felicità e responsabilità sociale»54.
Tuttavia, il 40 per cento degli intervistati ha dichiarato di non aver
raccontato l’esperienza ad altri.
Secondo la ricerca di Hay, il 41 per cento delle donne e il 31 degli
che definisce come «un’intuizione o un risveglio particolarmente
50 M. Svennevig, Godwatching cit., p. 49.
51D. Hay, «Religious Experience among
a Group of Postgraduate Students. A qualitative
Survey» in Journal for the Scientific Study of Religion, 2, XVIII, 1979, pp. 164-82; Id., Exploring Inner Space,
Harmondsworth, Penguin, 1982; Id., Religious Experience Today, London, Mowbray, 1990; D. Hay e
G. Heald, «Religion is Good for You» in New Society, 17 aprile 1987; D. Hay e A. Morisy, «Reports
of Ecstatic, Paranormal or Religious Experiences in Great Britain and the United States. A
Comparison of Trends» in Journal for the Scientific Study of Religious, 3, XVII, 1978, pp. 255.68; Id.,
«Secular Society/Religious Meanings. A Contemporary Paradox» in Review of Religious Research, 3,
XXVI, 1985, pp. 213-27. Sí veda anche G. Ahern, Spiritual Religious Experience in Modern Society,
Oxford, Alister Hardy Research Centre, 1990.
52 A. Greeley, The Sociology of the Paranormal: a Reconnaissance, Beverly Hills, Sage, 1975.
53 D. Hay e G. Heald, «Religion is Good for You» cit.
54 D. Hay, Religious Experience Today cit., p. 57.
Religione e società nel Regno Unito
247
Tabella 7. Frequenza di alcuni tipi di esperienza religiosa dichiarati nel Regno Unito nel 1985 (valori
in percentuale)*.
Influenza sugli eventi
Consapevolezza della presenza di Dio
Consapevolezza di aver ricevuto aiuto grazie alle preghiere
Consapevolezza della presenza dei morti
Consapevolezza di una presenza sacra in natura
Consapevolezza di una presenza maligna
Aver percepito che tutte le cose sono «una»
29
27
25
18
16
12
5
Campione = 985 frequenze. Quota de] campione che ha dichiarato un’esperienza: 48 per
cento.
Fonte: D. Hay, Religious Experience Today, Stuclying the Facts, London, Mowbray, 1990, p. 83.
uomini di questo campione nazionale attesta l’esperienza di «una
presenza o forza...». Esiste un nesso positivo con l’età, la lunghezza degli
studi, la classe professionale e la residenza in aree rurali o cittadine. Pur
non essendo chiara la relazione tra quest’esperienza e l’adesione a una
confessione, i risultati hanno sottolineato che gli intervistati che vanno in
chiesa almeno occasionalmente hanno doppie probabilità di fare un’esperienza religiosa rispetto a quelli che vanno in chiesa soltanto per i riti
di passaggio. Nondimeno, solo il 56 per cento dei praticanti ha riferito
un’esperienza, e solo il 7 per cento del campione ha dichiarato che
l’esperienza era occorsa in pubblico, ad esempio durante una funzione. Il
61 per cento ha sentito di comunicare direttamente con Dio in assoluta
solitudine. D’altra parte, l’elemento che meglio predice l’esperienza
religiosa è la convinzione dell’importanza dell’aspetto spirituale della vita.
Il 74 per cento di coloro che nutrono tale convinzione ha avuto
un’esperienza religiosa.
Hay ha ottenuto un quadro più dettagliato delle esperienze religiose
da un campione casuale di 107 adulti della città di Nottingham. L’aspetto
forse più sorprendente di questo quadro è che sebbene le esperienze
religiose siano solitamente di breve durata (meno di dieci minuti) e si
verifichino in momenti di tensione o disagio in cui le persone sono del
tutto sole, il 61 per cento degli intervistati ha dichiarato che l’esperienza
gli ha dato un senso di pace, felicità o sollievo. Circa due terzi del
campione (e di campioni simili esaminati da Hay e altri nel Regno Unito)
sentono che l’esperienza ha cambiato in positivo la propria visione della
vita.
D’altra parte, il 12 per cento del campione di Nottingham si ritrova
248
James A. Beckford
in uno stato di confusione, il 15 di allarme o agitazione e il 7 in uno stato
d’animo inalterato. L’allarme nasce dalla sensazione della presenza di una
forza maligna o da una premonizione preoccupante. Questi risultati
hanno indotto Hay a classificare tali esperienze come « paranormali»
anziché «religiose».
È opportuno riferire anche dell’ultimo prodotto del Six Alister Hardy
Research Centre. Lo studio di Geoffrey Ahern55 su Spirituallreligious
experience in modem society ha valutato la possibilità di utilizzare il computer
per analizzare il contenuto dei 5.000 resoconti scritti di esperienze
religiose personali che si sono accumulati negli archivi del centro. Il suo
lavoro è caratterizzato da discernimento e cautela concettuali circa le
conclusioni che si possono trarre logicamente dal suo studio pilota di un
campione molto esiguo dei racconti esistenti. E però evidente che la
prudenza gli ha permesso di elaborare un metodo di analisi del contenuto
con l’ausilio del computer che si può applicare a campioni molto più
vasti. Inoltre, lo studio pilota ha sollevato incidentalmente diverse
questioni interessanti per una futura ricerca. Ad esempio, la
categorizzazione delle esperienze ha rivelato che molti giovani sono più
propensi a raccontare esperienze di tipo psichico che di tipo religioso o
spirituale. I risultati hanno poi dimostrato che, nonostante la varietà di
esperienze e di modi di esprimerle, è estremamente probabile che tutte
rivelino un’identità di fondo.
Inoltre, Hay è in grado di estrapolare dalla sua ricerca risposte a domande più generali circa il ruolo dell’esperienza religiosa nelle società e
culture moderne. Ad esempio, la sua spiegazione dell’attuale successo di
libri e film dell’orrore e del maligno è che la categoria dell’esperienza
religiosa è stata repressa ma trova ancora espressione (perversa) nella
cultura popolare. Analogamente, egli afferma che «l’estremismo associato
ai moderni culti religiosi è in larga misura una reazione alla negazione
della nostra religiosità»56.
2.7. La religione convenzionale
La conclusione di Hay circa la larga diffusione e la capacità di integrazione dell’esperienza religiosa è compatibile con l’interpretazione di
Towler57 della «religione convenzionale» nel Regno Unito, sebbene
55
G. Allem, Spiritual Religious Experience cit.
D. Hay, Religious Experience Today cit., p. 64.
57 R. Towler, The Need for Certainty. A Sociological Study of Conventional Religion, London,
Routledge Kegan Paul, 1984.
56
Religione e società nel Regno Unito
249
questo secondo concetto sia più limitato del primo. Infatti, se una
parte delle esperienze che interessavano Hay non rientrano nei confini
dell’ortodossia cristiana, le credenze analizzate da Towler fanno tutte
parte di una «religione molto convenzionale» e non riguardano in
alcun modo «l’esotico, il remoto o il raro»58. Le credenze in questione
sono state estrapolate mediante un’analisi del contenuto di 4.000
lettere scritte dalla gente al vescovo John Robinson in risposta, diretta
o indiretta, al suo controverso volume Honest to God (1963). Il fatto
che gli autori non raccolgano un campione rappresentativo non inficia
l’utilità dello studio, che si propone di scoprire «i principali tipi di
religiosità presenti nella cultura di cui le lettere erano espressione,
ovvero in Gran Bretagna e in misura minore nel Commonwealth
britannico, negli Usa e nell’Europa»59. Towler ha chiaramente preso a
modello The Varieties of Religious Experience di William James, e lo status
logico dei suoi risultati è il tipo ideale, non quello empirico. I cinque
tipi mettono in rilievo le componenti principali della religiosità o
dell’essere cristiano in senso convenzionale.
1) L’esemplarismo riguarda la venerazione per gli ideali etici
rappresentati dalla lotta eroica ma personale di Gesù Cristo contro le
avversità, nella sua risoluzione di far del bene all’umanità. Le chiese sono
considerate largamente ininfluenti se non un ostacolo per l’esemplarismo,
che giudica per lo più inutili le loro dottrine per i propri ideali umanistici.
Tuttavia, l’esemplarismo è un tipo di religiosità che trova solide
giustificazioni e precedenti nel cristianesimo.
2) Il conversionismo riguarda l’esperienza certa del sentirsi liberi dal peso
del peccato e della colpa per non aver saputo conseguire gli ideali morali
e spirituali del cristianesimo. Nutre la speranza che le chiese diverranno
comunità di cristiani rinati, in cui si potrà ripristinare l’esperienza della
salvezza. Il conversionismo difficilmente sfocia in un serio impegno negli
affari secolari del mondo.
3) Il teismo riguarda la fede in un Dio creatore benevolo, che
conferisce al mondo un ordine e un fine e che di conseguenza ispira
sentimenti di timore e di meraviglia. E un tipo di religiosità non
particolarmente vicina a Gesù e che mostra una forte intolleranza per la
presunta incapacità della chiesa di spiegare il significato immanente della
creazione di Dio. Ispira conservatorismo e un atteggiamento ottimistico
di fiducia nel mondo, seppure raramente espresso in modo esplicito.
58
Ibid., p. 1.
p. 15.
59 Ibid.,
250
James A. Beckford
4) Lo gnosticismo riguarda l’attenzione per la dimensione spirituale
della vita, in particolare per il modo in cui entrare in contatto con gli
spiriti dei morti o con le forze che si pensa nascano da fonti nascoste
e spirituali. Comporta lo sforzo di andare al di là del mondo materiale
dell’illusione in un regno di più profondo significato. È insofferente
nei confronti delle chiese in quanto non capiscono né perseguono i
benefici della ricerca spirituale, ma è relativamente poco interessato
agli affari terreni.
5) II tradizionalismo riguarda «tutto ciò che è presente convenzionalmente nella religione cristiana»60. In particolare, si sottolinea il fatto
che ogni singolo aspetto della dottrina e della pratica convenzionali è
essenziale per questo ideale e va perciò difeso. Nel complesso, il
modello delle credenze tradizionaliste risolve ogni questione e dubbio,
traendo le sue certezze dalle Sacre Scritture, dalle funzioni religiose,
dall’autorità dei capi della Chiesa e dalla sovrapposizione di Chiesa e
Stato. È associato al sentimento che il mondo contemporaneo stia
scivolando nel disordine e nell’abbruttimento.
Towler ritiene che i cinque tipi ideali «normalmente» si controbilanciano l’un l’altro, mentre presi singolarmente sono una distorsione unilaterale. Poiché però sono diffuse, egli sostiene che tali distorsioni diano
un’indicazione significativa della situazione religiosa nel Regno Unito.
La sua interpretazione è che riflettano un forte «bisogno di certezza»,
nel senso del desiderio di trovare un ordine e un senso nella vita.
Nonostante tutti i problemi sollevati dal «campione» di Towler e
dal suo metodo di costruzione di tipi ideali, il risultato della sua analisi
costituisce il tentativo di più ampio respiro nella descrizione delle caratteristiche del cristianesimo convenzionale nel Regno Unito. Inoltre,
il suo studio contribuisce a chiarire le differenze tra religione convenzionale e talune varianti come la religione implicita, comune e consuetudinaria. Nel paragrafo finale riprenderò alcuni di questi concetti.
3. Le organizzazioni religiose e le comunità di fedeli61
Le «statistiche ufficiali» sulle organizzazioni religiose britanniche variano
per ampiezza e attendibilità, in parte perché molti religiosi non accettano
l’idea di un controllo metodico delle loro attività e/o che estranei
60 Ibid., p. 81.
61 Questo paragrafo deve molto a A. Hastings, A History of English Christianity, 1920-1985,
London, Sphere, 1986.
Religione e società nel Regno Unito
251
ne vengano a conoscenza, in parte anche perché non esiste un
organo dello stato britannico legalmente responsabile degli affari o
delle organizzazioni religiose. Non esiste pertanto un registro centrale
delle attività religiose. La categoria «religione» non gode di molti
privilegi particolari o straordinari nel diritto inglese o scozzese. In
realtà, la posizione peculiare della chiesa anglicana e di quella
scozzese non nasce dall’elemento religioso, bensì dal fatto che sono
chiese di Stato. Analogamente, ad alcune organizzazioni religiose è
concessa l’esenzione da forme di tassazione e di controllo statutario,
ma non perché siano religiose: l’esenzione è dovuta in primo luogo
alla loro natura di istituzioni di carità. L’incoraggiamento della
religione è solo una delle quattro attività che danno diritto a questa
condizione. E pur vero che sono tuttora in vigore le leggi contro la
blasfemia, che i luoghi di culto registrati godono di alcuni privilegi e
che i ministri del culto a tempo pieno hanno tuttora, in qualche caso,
uno status giuridico distinto.
Da un punto di vista storico le fonti statistiche migliori sono
Churches and Churchgoers e The Making of Post-Christian Britain62. Esistono
stime aggiornate (di assai varia attendibilità) sulla posizione attuale delle
chiese in una collana non sistematica intitolata Uk Christian Handbook,
diretta da Peter Brierley63. Il quadro generale che emerge da queste fonti
(dichiaratamente inadeguate) è che il 15 per cento circa degli adulti nel
Regno Unito ha affermato nel 1987 di appartenere a una chiesa cristiana, il che significa una diminuzione del 5 per cento dal 1970. Ancor meno certe e più variabili sono le stime relative alla presenza settimanale
alle funzioni religiose in poco meno di 50.000 località, tuttavia un dato
del 10 per cento circa non è in contrasto con le stime più autorevoli.
Questi dati indicano che, nonostante i timori circa il declino della
religione nel Regno Unito, le chiese e altre associazioni religiose
sono tuttora i gruppi volontari di adulti più numerosi del paese e che
62 R. Currie et al., Churches and Churchgoers. Patterns of Church Growth in the British Isle since 1750,
Oxford, Oxford University Press, 1970; A. D. Gilbert, The Making of Post-Christian Britain, London,
Longman, 1980.
63 Tra le altre fonti si vedano D. Martin, A Sociology of English Religion, London, Scm, 1967; B.
Martin, «Comments on Some Gallup Poll Statistics» in A Sociological Yearbook of Religion in Britain, 1,
London, Scm, 1968; B. R. Wilson, Religion in Secular Society, London, Watts, 1966; B. R. Wilson,
Contemporary Transformations of Religion, Oxford, Oxford University Press, 1974; Bible Society, Prospects
for the Eighties, London, Bible Society, 1980; K. Thompson, «How Religious Are the British?» in T.
Thomas (a cura di), The British, Their Religious Beliefs and Practices, 1800-1986, London, Roudedge,
1988; P. Badham (a cura di), Religion, State and Society in Modera Britain, Lewiston, Edwin Mellen Press,
1989; W. F. Maunder (a cura di), Reviews of United Kingdom Statistical Sources, 20, Oxford, Pergamon,
1987, contiene diversi commenti esaurienti sulle fonti delle informazioni statistiche relative alle
religioni nel Regno Unito.
252
James A. Beckford
sono molto più consistenti delle folle regolarmente mobilitate dai partiti
politici o degli spettatori di eventi sportivi.
Queste stime di carattere generale mascherano le nette variazioni, ad
esempio, tra gruppi religiosi, regioni e categorie di età differenti. Così, se
le principali chiese non conformiste e le chiese anglicana e scozzese
hanno conosciuto una perdita di seguaci, di praticanti e di pastori per
vari decenni, le chiese evangeliche conservatrici indipendenti e le chiese
pentecostali, i cui membri provengono prevalentemente dalle comunità
afrocaraibiche, hanno avuto una rapida crescita a tutti i livelli a partire
dal 1970. Anche i maggiori gruppi settari quali i mormoni, gli avventisti
del settimo giorno e i testimoni di Geova hanno continuato a
richiamare e a conservare un numero imponente di nuovi adepti a
partire dagli anni cinquanta. Invece le comunità ebraiche appaiono
pressoché statiche in termini numerici.
L’espansione delle comunità non cristiane di indù, sikh e musulmani
è cominciata grazie all’immigrazione dai paesi che facevano o fanno
parte del Commonwealth britannico in Asia meridionale e nei Caraibi.
Oggi molti dei figli nati in Gran Bretagna da quegli emigranti sono
adulti che decidono in misura diversa di conservare la propria identità
religioso-culturale.
3.1. Le chiese non conformiste
Nel presente saggio per chiese non conformiste si intendono tutte le
principali confessioni protestanti a parte le chiese anglicana e scozzese.
Rientrano ovviamente nella categoria i metodisti, i battisti, la chiesa
riformata unita e i presbiteriani, mentre è più ambigua la posizione, tra gli
altri, di unitariani, quaccheri ed Esercito della Salvezza.
Alcuni gruppi di protestanti inglesi si sono battuti per secoli contro
l’imposizione dell’anglicanesimo o del cattolicesimo. Si sono battuti in
primo luogo per ottenere il diritto di praticare la propria religione senza
essere penalizzati, in secondo luogo per avere le stesse libertà civili dei
membri delle chiese di Stato, in terzo luogo per contestare alcuni privilegi
materiali e politici di queste ultime e, infine, per influenzare la vita morale,
sociale, economica e politica della nazione in conformità con le proprie
convinzioni di fondo64.
Le chiese non conformiste hanno toccato l’apice della potenza, per
64 Una delle caratteristiche prevalenti del non-conformismo è «l’innalzamento della coscienza e
della sincerità al di sopra del rigore e dell’informalità al di sopra della formalità»: D. Martin, A General
Theory of Secularization, Oxford, Blackwell, 1978, p. 188.
Religione e società nei Regno Unito
253
numero di membri e per influenza sociale, all’inizio di questo secolo.
Un’alleanza non vincolante con il Partito liberale consentì loro in particolare di indirizzare la politica inglese verso l’indipendenza dell’Irlanda, lo sviluppo della pubblica istruzione e l’idea del welfare state. Ma
neppure al culmine del loro potere, verso il 1906, esse costituirono un
insieme compatto, anzi, alcune chiese erano lacerate da divisioni interne e da squilibri regionali. L’aumento del consenso popolare per il nascente partito laburista e per i sindacati allontanò in definitiva molte
famiglie delle zone urbane e industriali dalle chiese non conformiste.
Anche l’emigrazione dalle aree rurali verso le città e le contee intorno
a Londra indebolì le vecchie roccheforti del non-conformismo. Ciò
non significa però che tali cambiamenti rientrassero necessariamente
in un processo generale di declino della religiosità. Semplicemente, le
trasformazioni demografiche in alcune aree rurali e quartieri cittadini
privarono il numero crescente di congregazioni di molti adepti reali o
potenziali e di predicatori laici. Al tempo stesso, il nuovo welfare state si
fece carico di alcuni servizi sociali ed educativi in passato forniti dalle
chiese non conformiste ai loro membri. La combinazione tra i cambiamenti demografici e quelli sociali, che fu contemporanea o seguì i
massicci programmi di costruzione di chiese di fine Ottocento, contribuì a ridurre sia il totale dei membri delle chiese non conformiste sia
le dimensioni di molte singole congregazioni65, ciò che diffuse un pessimismo mitigato solo parzialmente dalla constatazione che le chiese
di Stato subivano una sorte analoga.
La figura 1 illustra la traiettoria delle adesioni alle maggiori confessioni protestanti in Gran Bretagna: battisti, metodisti, congregazionalisti,
chiesa presbiteriana d’Inghilterra e del Galles. Alle due guerre mondiali
seguirono incrementi relativamente consistenti del numero di membri,
ma a partire dal 1925 circa la tendenza generale è chiaramente alla diminuzione.
E però necessario fare alcune precisazioni. Il tasso di declino non fu
uguale per tutte le confessioni: i battisti riuscirono ad arrestarlo negli anni
ottanta, e in qualche località tutte le sette hanno conosciuto un certo
aumento di adepti. Pertanto, il quadro a partire dal 1970 non presenta un
declino uniforme, come mostra la tabella 8.
Inoltre, i dati non rivelano che, se il tasso annuo di declino è rimasto
più o meno costante per i presbiteriani nei due decenni, negli anni ottanta
si è assistito a un rallentamento del calo degli adepti per la chiesa
metodista e a un lievissimo guadagno per i battisti. Ma il profilo dell’e65 Si veda R. Gill, Competing Convictions, London, Scm 1989, p. 188.
254
James A. Beckford
Fonte: elaborazione dell’autore da R. Currie et al.., Churches ad Churchgoers. Patterns of Church Growth in
the British Isles since 1700, Oxford, Clarendon 1977, p. 29.
Tabella 8. Appartenenza ad alcune chiese non conformiste tra il 1970 e il 1990.
1970
Metodisti
Battisti
Presbiteriani
694.323
295.341
1.806.736
1980
558.264
239.874
1.508.509
1990*
509.010
244.625
1.287.630
% declino
-26,68
-17,00
-28,73
* Stima
Fonte: elaborazioni dell’autore da P. Brierley, UK Christian Handbook. 1989/90 .Eidition, Bromley,
Marc Europe-Evangelical Alliance-Bible Society, 1988.
tà dei membri delle chiese non conformiste è tale che per il futuro si
prevede la continuazione delle perdite, giacché continua a diminuire la
percentuale di bambini nelle Sunday Schools delle chiese non
conformiste e aumenta il peso della coorte dei membri anziani sul totale.
Vi è inoltre motivo di credere che il numero di persone che seguono oggi
le funzioni nelle chiese non conformiste possa essere inferiore al numero
Religione e società nel Regno Unito
255
di membri e che il tasso di declino della frequenza possa essere ancor
più forte. In tal caso si avrà un ribaltamento significativo della situazione che prevalse in molte congregazioni delle chiese non conformiste a
fine Ottocento.
Com’era prevedibile, la perdita di ministri del culto in queste chiese è
stata meno rapida del calo del numero di aderenti e di congregazioni.
Ma il profilo dell’età dei ministri di alcune confessioni fa pensare che,
perdurando le attuali tendenze in fatto di reclutamento e ordinazione,
verso la fine del secolo il tasso di perdita dei ministri ordinati salirà nettamente.
La forza numerica e il profilo demografico dei membri non sono la
sola fonte di problemi, per le chiese non conformiste a partire dal 1945;
infatti, esse hanno perso in larga misura la loro influenza sui termini del
dibattito pubblico, su questioni morali, sociali, politiche ed economiche,
e ciò in parte perché l’alleanza informale tra non conformisti e Partito
liberale si è sfaldata a causa della concorrenza del Partito laburista e di
quello conservatore, sempre più forti. Inoltre, il declino della forza
politica del Partito liberale ha privato le chiese non conformiste di un
portavoce di vecchia data, anche se non naturale, delle idee non
conformiste. Non meno importante è stata l’affermazione, dopo il
1944, di un welfare state pienamente sviluppato, che non solo si è fatto
carico di molte questioni care alla coscienza di queste chiese, ma ha
anche introdotto pratiche e strutture che hanno reso superflue molte
funzioni sociali svolte in passato dalle congregazioni di queste chiese.
Non c’è da stupirsi pertanto che l’opposizione agli indirizzi di quattro governi conservatori consecutivi a partire dal 1979 abbia riscosso
l’approvazione di alcuni membri delle chiese non conformiste. Numerosi dirigenti non conformisti hanno espresso la convinzione che la
scelta monetarista abbia seriamente danneggiato la base morale e pubblica della società britannica. Sarebbe tuttavia eccessivo affermare che si
sia formata una sorta di ideologia o critica dell’indirizzo politico odierno
propria delle chiese non conformiste. Piuttosto, le proteste dei loro dirigenti, e questo è un sintomo del declino della peculiarità del non-conformismo, sono considerate dai giornalisti una parte indifferenziata dell’opposizione.
Uno dei più illustri storici nel Regno Unito del non-conformismo,
David Thompson66, ha sostenuto analogamente che nel periodo postbellico si è verificata una confusione crescente circa l’identità e la fun66 D. M. Thompson, «The Free Churches in Modera Britain» in P. Badham, Religion State and
Society cit
256
James A. Beckford
zione delle chiese non conformiste. Mentre la tensione tra il riconoscimento dell’iniziativa d’impresa, che costituiva un’apertura al mondo, e l’insistenza su un’etica morale rigorosa, che costituiva una chiusura, poté caratterizzare proficuamente le chiese non conformiste in sviluppo dell’Ottocento,
questa tensione creativa ha ceduto il posto a una polarizzazione nella seconda metà del Novecento. Prendendo lo spunto dalle opinioni di Thompson, mi pare di poter dire che, da una parte, l’ala più conservatrice del
non-conformismo si è avvicinata a una concezione settaria di indifferenza
al mondo, dall’altra, l’ala più progressista si è avvicinata a un accomodamento o compromesso con il mondo. E quindi svanita la tensione creativa
del passato e al suo posto troviamo opinioni sempre più divise. Non si può
più parlare di una presenza chiaramente non conformista nella vita pubblica britannica che sia minimamente paragonabile ai grandi entusiasmi di
tanti dirigenti non conformisti dell’Ottocento per un’iniziativa industriale e
una realtà civile razionali cui si affiancasse un vero umanitarismo. I non
conformisti non figurano più come tali nelle attuali campagne per i diritti
umani e l’uguaglianza razziale o contro la povertà.
Il dilemma che sta di fronte ai non conformisti è se passar sopra allo
sgretolamento della loro peculiarità confessionale, nella speranza di contribuire in tal modo a una presenza cristiana comune ma magari blanda
nel Regno Unito, oppure se puntare su un’identità chiaramente separata,
correndo però il rischio di diventare esclusivisti in questa ricerca di una
separazione radicale.
3.2. La chiesa cattolica romana
Con l’eliminazione delle sanzioni legali contro i cattolici nel 1829 e
l’afflusso in massa di nuovi proseliti dall’Irlanda, la chiesa cattolica della
Gran Bretagna conobbe una fase di espansione e di introspezione a fine
Ottocento. Sul piano teologico, sociale e morale il cattolicesimo era
conservatore e difensivo; le sue simpatie politiche andavano in primo
luogo al Partito liberale; invocava il governo autonomo per l’Irlanda e
sovvenzioni statali alle scuole parrocchiali. Il legame con il Partito liberale crebbe costantemente negli anni trenta e quaranta di questo secolo, parallelamente alla minore opposizione della gerarchia al welfare
state. La ghettizzazione delle comunità cattoliche nell’Inghilterra nord67 Ibid., p. 114, aggiunge che «poiché tutte le chiese hanno subito pressioni esterne, con
un’erosione del ruolo della religione nella vita pubblica e privata, e poiché il movimento ecumenico
ha esaltato ciò che unisce tutti i cristiani, la conservazione di un ethos specifico delle chiese libere è
parsa sovente meno importante della conservazione di un ethos cristiano».
Religione e società nel Regno Unito
257
occidentale, nelle Lowlands scozzesi e nelle contee meno prospere intorno a Londra (ma non in Irlanda del Nord) terminò finalmente negli
anni sessanta, quando l’effetto di diverse generazioni di limitata mobilità
sociale verso l’alto, di alti livelli di mobilità geografica, del progresso dell’istruzione, delle tesi liberali del Concilio vaticano II e della ristrutturazione del mercato del lavoro contribuì a eliminare la peculiarità dell’identità e della coscienza cattoliche. Oggi quello che Whyte ha definito
«il cattolicesimo aperto»68 costituisce la norma al di fuori dell’Irlanda del
Nord; esso consente un rapporto relativamente disteso tra i cattolici e i
protestanti, salvo quelli evangelici e settari più conservatori, a livello locale e nazionale, nonché una quantità crescente di matrimoni misti tra i
cattolici e gli altri.
La traiettoria delle adesioni alla chiesa cattolica romana nel Regno
Unito nel corso del secolo XX è quasi l’opposto del modello per le
chiese non conformiste. La figura 2 mostra che la popolazione cattolica
della Gran Bretagna stimata è cresciuta costantemente, grazie soprattutto all’incremento naturale, fino al 1945, per poi crescere più rapidamente fino al 1970.
Comunque, dopo il 1970 la popolazione cattolica si è ridotta a un
tasso annuo di quasi 1,4 per cento. Il numero di praticanti rappresenta
una percentuale in diminuzione di questa popolazione, come mostra la
tabella 9.
Nondimeno, coloro che si definiscono cattolici (bambini compresi)
costituiscono oggi il 14 per cento circa della popolazione del Regno
Unito e sono forse la categoria più consistente di praticanti.
E numero di preti cattolici attivi nel Regno Unito è parimenti diminuito mediamente dell’1,4 per cento l’anno tra il 1970 e il 1987. Il fatto
che non vi sia un numero sufficiente di giovani consacrati e che circa
un quarto di tutti i sacerdoti abbia più di 65 anni significa che in un
futuro prossimo il tasso di calo di questi ultimi sarà maggiore. Inoltre,
una realtà che si sta diffondendo è quella dei sacerdoti che devono
operare da soli nelle parrocchie, con tutti i rischi associati allo
sconforto, alla solitudine e all’eccesso di lavoro. Ma le variazioni tra
parrocchie e regioni sono piuttosto pronunciate, come nel caso dei
cambiamenti della popolazione cattolica.
I cattolici britannici sono eterogenei anche sul piano dell’origine nazionale o etnica. Circa uno su tre discende dalle famiglie «dissenzienti»
che rifiutarono di sottostare al protestantesimo durante e subito dopo
68
1981.
J. Whyte, Catholics in Western Democracies. A Study in Political Behaviour, Dublin, Gill Macmillan,
258
James A. Beckford
Religione e società nel Regno Unito
259
la Riforma e dai nativi convertiti al cattolicesimo; per un terzo sono di
origine irlandese; per un terzo sono nati o sono figli di genitori nati fuori del Regno Unito o dell’Irlanda (in particolare, in Italia e in Polonia)69.
Per quanto riguarda la percentuale dei membri delle chiese cristiane nel
Regno Unito, i cattolici sono calati di un solo punto, dal 31 per cento
del 1970 al 30 del 1987. Questo fenomeno è dovuto senza dubbio soprattutto al fatto che la chiesa cattolica riesce a conservare con discreto
successo l’adesione di adolescenti e ragazzi provenienti da famiglie cattoliche, e anche al fatto che ha continuato a costruire nuove chiese nelle
aree di sviluppo demografico, dimostrando quindi una certa flessibilità
e adattabilità nella risposta ai cambiamenti.
Tra questi cambiamenti annotiamo il tasso crescente di mobilità
geografica all’interno del Regno Unito dei cattolici e il tasso di variazione occupazionale (e forse di classe sociale) intergenerazionale. A quanto
pare, oggi i cattolici inglesi sono per classe e status molto vicini ai connazionali non cattolici70. Inoltre, grazie alla scuola, ai matrimoni misti,
all’ecumenismo, a una maggiore presenza laica nelle liturgie e all’abolizione dell’astinenza del venerdì, si sono inseriti maggiormente nella cultura britannica dominante71.
Tuttavia, questa nuova convergenza con i modelli britannici non
può cancellare le differenze persistenti: la percentuale sproporzionata di
immigrati di prima generazione tra i cattolici del Regno Unito, il loro
livello relativamente elevato di partecipazione alle funzioni e di fedeltà
alla propria chiesa, il divario apparentemente crescente tra gli attivisti
della classe media e la maggioranza dei laici «comuni». In effetti, nella
misura in cui verranno mantenuti «l’endogamia coniugale, l’esclusività
dei legami di amicizia, gli alti livelli (...) di partecipazione e attività istituzionali»72, è probabile che nel futuro prossimo le subculture cattoliche
peculiari non scompariranno. Può darsi però che ad esse si affianchi
una crescita delle organizzazioni e dei movimenti guidati da cattolici
che perseguono ideali di giustizia e di pace nel regno della politica, delle
relazioni internazionali e dell’assistenza sociale. Forse un’etica cattolica
realmente caratteristica potrà emergere solo quando la grande maggioranza dei cattolici britannici si sarà fusa completamente nella società e
nella cultura della maggioranza.
69 Si veda M. Hornsby-Smith, «The Roman Catholic Church in Britain since the Second World
War » in P. Badham, Religion, State and Society cit.
70 Si veda M. Hornsby-Smith e R. Lee, Roman Catholic Opinion. A Study of Roman Catholics on
England and Wales in the 1970s, University of Surrey, 1979.
71 Si vedano P. Coman, Catholics and the Welfare State, London, Longman, 1977; M. HornsbySmith, Roman Catholics in England, Cambridge, Cambridge University Press, 1987.
72 Ibid., p. 213.
260
James A. Beckford
Ma fino a oggi il punto focale della vita religiosa dei cattolici è stata la
parrocchia, non l’attività o le campagne laiche. La parrocchia è il punto nodale in cui si intersecano la gerarchia ecclesiastica e la vita quotidiana dei
cattolici, e i suoi locali sono la sede dei sacramenti e dei riti di passaggio
fondamentali. Il livello variabile di attività rituale nelle parrocchie, evidenziato dalla tabella 10, indica un declino lento ma costante delle pratiche che
in passato erano considerate essenziali per una vita cattolica normale.
I dati evidenziano anche cambiamenti demografici che non promettono bene per il futuro della chiesa, il numero sempre minore di matrimoni
celebrati in chiesa, la percentuale crescente di matrimoni esogamici, l’aumento sproporzionato di funerali a causa dell’invecchiamento della popolazione cattolica. Questa serie di cambiamenti, che si accompagna al minor
numero di battesimi, di conversioni di adulti al cattolicesimo, di prime comunioni e di cresime, suggerisce che si stia allargando il divario tra il livello
di partecipazione attiva alla vita della chiesa e il livello di adesione almeno
nominale al cattolicesimo. È prematuro parlare di polarizzazione tra un
settore attivo e un settore passivo, tuttavia vi è ragione di pensare che a
lungo termine questo possa essere il risultato.
Una delle ragioni di tale convincimento è l’evidenza di un’espansione
improvvisa e notevole del numero di catechisti laici, che ammontavano
in Inghilterra e Galles a 4.245 nel 1970, a 5.942 nel 1980 e a 11.451 nel 1985,
a detta di Hornsby-Smith73. Tale fenomeno è pienamente in linea con lo
spirito e le raccomandazioni del Concilio vaticano II per una partecipazione più ampia dei laici alla vita pastorale; al tempo stesso contribuisce a
colmare i vuoti creati dalla morte e dalle rinunce di preti e monaci, per
non parlare del divario tra queste perdite e il numero sempre minore di
nuove vocazioni e ordinazioni. La diminuzione del numero di preti ordinati è proporzionalmente più netta per la chiesa cattolica che per ogni altra chiesa di primo piano nel Regno Unito74. D’altra parte, sarà interessante valutare l’influsso dell’intervento di attivisti laici sulla struttura organizzativa della chiesa a livello di parrocchia, diocesi e provincia. Al di là
del fatto che tali cambiamenti sono il sintomo di un processo di «protestantizzazione» della chiesa cattolica nel Regno Unito, è comunque evidente che la sua struttura organizzativa sta attraversando modifiche profonde. E probabile che tutto ciò acuisca la coscienza dei cattolici attivi di
non essere tanto un ghetto quanto un popolo chiamato a una missione
particolare.
73 M. Hornsby-Smith, The Changing Parish cit., p. 2.
74 Si. veda P. Brierley, Uk Christian Handbook. 1989/90 Edition, Bromley, Marc Europe-Evange-
lical Alliance-Bible Society, 1988, p. 159.
Religione e società nel Regno Unito
261
Tabella 10. Alcuni riti di passaggio e sacramenti della chiesa cattolica in Inghilterra e Galles
tra il 1945 e il 1985.
Matrimonio
Battesimo
1945
1960
1965
1970
1975
1980
1985
73.400
123.430
134.055
108.187
75.815
76.352
74.491
Prima
comunione
Cresima
numero totale
% matrimoni
cattolici
―
―
―
95.382
84.887
68365
53.334
―
80.602
69.672
71.956
74.013
54.803
46.427
36.553
46.480
46.112
46.105
35.197
31.524
27.422
―
50
45
37
35
34
35
Esequie
―
―
-―
36.596
39.251
41.715
44.947
Fonte: M. Hornsby-Smith, The Changing Parish. A Study of Parishes, Priests and Parishioners after Vatican
London, Routledge, 1989, p. 3.
3.3. La chiesa anglicana
I limiti di spazio mi costringono a parlare in modo esauriente solo di
una delle due chiese di Stato sopravvissute nel Regno Unito (quella
d’Irlanda fu privata del riconoscimento nel 1870 e quella del Galles nel
1920). Sono tuttavia necessarie alcune osservazioni preliminari sull’altra
chiesa ufficiale del Regno Unito, ovvero la chiesa presbiteriana
scozzese (the Kirk), che continua a essere religione di Stato per legge e
anzi costituisce una chiesa nazionale più di quella anglicana in
Inghilterra. Ciò è in parte dovuto al fatto che the Kirk annovera tra i
propri membri circa il 70 per cento di tutti i residenti in Scozia, in parte
al fatto che la sua General Assembly costituisce per certi versi un
parlamento scozzese ufficioso. Inoltre the Kirk è un simbolo importante
dell’identità nazionale scozzese. Tuttavia essa ha perduto proseliti,
praticanti e influenza a partire dalla metà degli anni cinquanta a tassi
non molto inferiori di quelli della chiesa anglicana. La presenza media
alle funzioni domenicali della chiesa scozzese è pari al 7 per cento circa
della popolazione scozzese, una percentuale a grandi linee uguale a
quella dei cattolici praticanti.
Tornando alla chiesa anglicana, sarebbe insensato analizzare le
alterne fortune degli ultimi anni trascurando il contesto storico e non
sottolineando di esse le implicazioni politiche generali.
Per prima cosa, se si eccettuano alcuni momenti di predominio del
puritanesimo nel secolo XVII, la chiesa anglicana e lo stato britannico
hanno riconosciuto che ciascuno gode di un’autonomia relativa nella pro-
262
James A. Beckford
pria sfera di competenza sotto il sovrano. In altre parole, la chiesa anglicana non è mai stata una «chiesa di Stato» del tipo sorto nelle regioni influenzate dal luteranesimo, non è un dipartimento del governo e neppure emula il calvinismo teocratico di Ginevra o della Scozia. È vero invece che il suo erastianismo le conferisce poteri costituzionali severamente
limitati ma una capacità notevole di simboleggiare la nazione e di rivolgersi ad essa75. Si propone perciò di rappresentare la continuità dell’identità nazionale, a volte al fianco di settori dell’apparato statale come il
parlamento, le cerimonie dell’incoronazione e dell’armistizio, le antiche
università, i tribunali ecclesiastici e gli edifici storici. Ma la chiesa anglicana non è legalmente responsabile di fronte ad alcun ministero statale e lo
è invece delle proprie finanze76. La formazione degli ordinandi ha luogo
nei collegi della Chiesa, che inoltre finanzia alcune cattedre di teologia
nelle università statali. Il suo clero, al pari del clero di altre chiese, può essere autorizzato a celebrare matrimoni e funerali e le sue scuole hanno
diritto al sostegno finanziario dello Stato. L’anglicanismo tende anche a
essere il default value sia dell’atto (teoricamente) obbligatorio dell’assemblea religiosa quotidiana e della lezione settimanale di religione nelle
scuole (salvo quelle cattoliche, ebraiche e musulmane) sia delle filosofie e
delle trasmissioni della televisione pubblica Bbc e delle reti televisive
commerciali.
Quindi, per molti aspetti la chiesa anglicana gode di privilegi, poteri e
responsabilità ereditati, che risalgono agli accordi medievali tra la chiesa
cattolica romana e la corona inglese77. D’altra parte, ha conservato questi
vantaggi accettando il monarca quale suo capo titolare, il diritto del
parlamento di determinare le sue dottrine di fondo, le forme del culto e il
tipo di organizzazione, e il diritto del primo ministro di operare la scelta
finale dei nuovi vescovi. Dunque il suo carattere ufficiale ha dei
75 Hooker, in Laws of Ecclesiastical Polity del 1594, aveva interpretato così l’essenza del rapporto
della Chiesa con Ia nazione: «Non esiste un solo uomo della Chiesa d’Inghilterra che non sia al
contempo anche membro della comunità, né esiste alcun membro della comunità che non
appartenga anche alla Chiesa d’Inghilterra» (libro VIII, cap. 1.2, citato in P. R. Cornwell, «The
Church of England and the State. Changing Constitutional Links in Historical Perspective» in G.
Moyser (a cura di) Church and Politics Today, Edinburgh, T & T Clark, 1985, p. 42).
76 Nondimeno, í pastori anglicani incaricati di operare nelle colonie nei secoli XVII e XVIII
venivano pagati dallo Stato ed erano soggetti all’autorità dei funzionari delle colonie. E vero che lo
sviluppo di una comunità anglicana mondiale di chiese nazionali autonome ha creato problemi
particolari nei rapporti tra Stato e Chiesa neI Regno Unito, ma non è possibile affrontare tali
problemi in questa sede. Si veda ibid., pp. 48-51.
77 Si vedano P. Hinchliff, «Church-State Relations» in 5. Sykes e J. Booty (a cura di), The Study of
Anglicanism, London, Spck, 1988, pp. 351-63; W. S. F. Pickering, «Sociology of Anglicanism» in ibid.
Religione e società nel Regno Unito
263
pro e dei contro78 e probabilmente è sopravvissuto grazie alla vaghezza
della sua base costituzionale non meno che alla sua palese estraneità rispetto al potere reale nel Regno Unito di oggi. Per la verità, la chiesa anglicana ha saputo in genere conciliare una gamma vastissima di posizioni
teologiche, stili rituali, preferenze politiche e rapporti con la società ospite. Una delle argomentazioni dei critici del riconoscimento ufficiale della
Chiesa è il fatto che essa ha perduto l’adesione, sia pur nominale, di un
gran numero di cittadini. In realtà è tutt’altro che certo che la Chiesa abbia mai annoverato tra i suoi fedeli la maggioranza degli abitanti di umili
condizioni delle parrocchie rurali o urbane all’inizio dell’età moderna. Lo
sviluppo delle città industriali nell’Ottocento non fece che allargare il divario tra l’enunciato che la Chiesa rappresentava la nazione e la realtà di
tassi di partecipazione declinanti e diversi a seconda delle regioni.
La scarsità di pastori dopo la prima guerra mondiale aggravò questi
problemi di rappresentatività nazionale, ulteriormente complicati
dall’avvio cauto e controverso di iniziative ecumeniche negli anni venti.
Ma la crisi per l’abdicazione del 1936 e l’incoronazione di Giorgio VI
l’anno seguente dimostrarono che, nonostante il declino della sua base
sociale, la chiesa anglicana era ancora un attore importante sulla scena
nazionale e ancora poteva simboleggiare la nazione nelle manifestazioni
rituali. Rifiutò di sancire acriticamente le scelte dello Stato nella seconda
guerra mondiale, avendo imparato evidentemente le dolorose lezioni del
1914-18, nondimeno contribuì a orchestrare un forte senso di unità
nazionale di fronte alle avversità. La decisione della Chiesa di sancire la
conclusione delle ostilità con l’Argentina nel 1983 con un rito di
riconciliazione (anziché di vittoria) ha ulteriormente irritato chi vorrebbe
che la chiesa anglicana agisse di più come chiesa di Stato.
Nel dopoguerra la nuova carenza di pastori, per di più mal distribuiti,
accentuò il calo dei membri nominali della chiesa anglicana. La tabella 11
mostra il tasso costante di diminuzione del clero retribuito.
Le varie missioni e campagne non parrocchiali non riuscirono ad arrestare il calo rafforzando l’ala evangelica della Chiesa, sempre più influente. Nonostante qualche piccolo incremento della partecipazione alla
vita ecclesiastica nei primi anni sessanta, la Chiesa fu costretta a razionalizzare le proprie risorse, raggruppando le piccole parrocchie, incoraggiando l’ordinazione di persone anziane, utilizzando diaconesse e dividendo i locali con altre chiese. Ma il clero anglicano, come mostra la
tabella 12, è una collettività in via di invecchiamento.
78
1983.
Si veda J. Habgood, Church and Nation in a Secular Age, London, Darton, Longman e Todd,
264
James A. Beckford
Tabella 11. Clero della chiesa anglicana tra il 1970 e il 1990 in Inghilterra e Galles.
1970
1975
1980
1985
1990*
15.700
14.379
13.250
12.672
12.250
* Stima.
Fonte: adattato da P. Brierley, UK Christian Handbook. 1989190 Edition, Brornley, Marc EuropeEvangelical Alttanee-Bible Society, 1988.
Tabella 12. Età del clero anglicano tra il 1963 e il 1984 (valori in percentuale).
Meno di 30
30-34
35-39
40-44
45-49
50-54
55-59
60-64
65-69
70 e oltre
1963
1967
1971
1978
1984
10
10
9
9
12
15
14
10
6
5
8
11
11
9
10
12
16
13
7
3
8
9
11
11
9
11
15
16
7
3
5
10
10
14
14
12
11
14
8
2
5
9
13
12
16
16
13
11
4
1
Fonte: P. Brierley, UK Christian Handbook. 1989/90 Edition, Brornley, Marc Europe
Evangelical Alliance Bible Society, 1988, p. 155.
I risultati di un recente questionario sottoposto a un campione casuale
di 216 pastori anglicani sul carico di lavoro, il ruolo, i livelli di
soddisfazione e stima di sé, i rapporti con gli altri e la salute fisica e
mentale79, hanno rivelato tuttavia che il livello generale di tensione non è
elevato a paragone di quello di altri professionisti della classe media. Per
contro, i pastori che si sono dichiarati omosessuali hanno evidenziato un
alto grado di tensione e di disinganno nei riguardi della chiesa anglicana.
79 Si veda B. Fletcher, Clergy under Stress. A Study of Homosexual and Heterosexual Clergy, London,
Mowbray, 1990.
Religione e società nel Regno Unito
265
L’introduzione nel 1969 del governo sinodale a tutti i livelli della
Chiesa è stata il risultato di un’approfondita analisi delle strutture
organizzative80, ma ha coinciso con una riduzione drastica del numero di
battesimi, cresime, matrimoni e ordinazioni anglicane, oltre che con
l’insuccesso di un progetto molto reclamizzato di riunificazione con i
metodisti. La tabella 13 offre qualche indicazione sulle tendenze di lungo
termine dell’adesione e della partecipazione.
Lo studio di Leslie Francis su una diocesi rurale di mezzo milione di
persone, in Inghilterra, offre un’immagine più articolata della mutata
posizione della chiesa anglicana sul mercato dell’identità e della fedeltà
nel periodo postbellico81. L’autore ha dimostrato che la percentuale della
popolazione adulta iscritta nelle liste elettorali della Chiesa è scesa dal
17,5 per cento nel 1950 al 7,4 nel 1980. Si tratta di un dato che ben
misura il mutato atteggiamento rispetto all’identificazione con la Chiesa e
alla partecipazione attiva ai suoi affari interni. Di contro, i tassi di
partecipazione alle cerimonie di Pasqua e di Natale sono diminuiti in
misura minore. Nel 1956 i tassi erano rispettivamente dell’Il e dell’8,6 per
cento della popolazione adulta; nel 1980 entrambi sono scesi al 6,9 per
cento, il che indica che la partecipazione a queste cerimonie non è tuttora
trascurabile. D’altra parte, sembra perdere rapidamente popolarità nella
chiesa anglicana la pratica di battezzare i neonati. Il numero di bambini
battezzati, come percentuale di tutti i nati vivi registrati nella diocesi, è
sceso dal 63,2 per cento del 1956 al 38,8 nel 1980. Una spiegazione
alternativa potrebbe essere la seguente: poiché la Chiesa non costituisce
più la religione nazionale data per scontata, alcuni pastori accettano
meno facilmente che i genitori facciano battezzare i propri figli se non
mostrano un interesse attivo per la Chiesa. Non sorprende che anche il
rapporto tra clero e popolazione sia salito da 1 a 1.417 nel 1956 a 1 a
2.585 nel 1980.
Proprio questo tipo di indicazioni circa la minore capacità e/o
volontà della chiesa anglicana di proporsi come espressione «naturale» o
scontata dell’identità inglese ha indotto alcuni suoi esponenti di primo
piano a invocare non solo la separazione dallo Stato ma anche lo status
di «chiesa confessionale »82.
80
1970.
Si veda K. Thompson, Bureaucracy and Church Reform, Oxford, Oxford University Press,
L. Francis, Rural Anglicanism. A Future for Young Christians?, London, Collins 1985.
Ma si vedano J. Habgood, Church and Nation cit.; S. Sykes, The Integrity of Anglicanism,
Oxford, Mowbray, 1978; A. Aldridge, «Slaves to No Sect. The Anglican Clergy and Liturgical
Change» in The Sociological Review, 2, XXXIV, 1986, pp. 357-80; D. Martin, «The Church of
England. From Established Church to Secular Lobby» in D. Anderson (a
81
82
266
James A. Beckford
Tabella 13. Adesioni alla chiesa anglicana tra il 1900 e il 1986.
1900
1920
1940
1960
1980
Comunicandi di Pasqua*
Battesimi
1.902.000
2.171.619
1.997.820
2.159.356
1.732.000
564.364
603.947
365.075
411.650
―
Cresime
Liste elettorali**
181.154
199.377 —
144.323 3.388.630
190.713 2.861.887
―
―
* Questi dati possono risultare inflazionati se si conta chi è stato presente più di una
volta il giorno di Pasqua.
** I laici battezzati al di sopra dei 17 anni che hanno risieduto in una parrocchia per
almeno sei mesi hanno il diritto di inserire il proprio nome nel suo elenco di elettori.
Fonti: R. Currie et al., Churches and aurchgoers. Patterns of Church Growth in the
British Isles sine 1700, Oxford, Clarendon, 1977; Churth of England Yearbook.
Oltre alle frizioni e alle tensioni che toccano i meccanismi delle relazioni ufficiali tra il sinodo generale e il parlamento, i rapporti ChiesaStato sono complicati ulteriormente da dispute politiche e ideologiche;
ad esempio, molti conservatori lamentano che la chiesa anglicana e altre
confessioni si identifichino troppo e in modo superficiale con il liberalismo borghese occidentale83. Tra i bersagli preferiti delle critiche conservatrici vi sono Bias to the Poor del vescovo di Liverpool84, il socialismo cristiano, l’ecumenismo, lo scetticismo nei confronti del capitalismo e della «cultura dell’impresa», l’idea stessa delle donne sacerdoti e le
asserzioni circa l’improbità nell’amministrazione della giustizia85. Le
presunte simpatie di sinistra dei capi della chiesa anglicana sono oggetto di critiche particolari, in quanto siffatto liberalismo comprometterebbe il loro dovere di preservare il retaggio religioso nazionale, senza
distinzioni di classe o ideologia86. Il nesso che si vuole essenziale tra
cura di), The Kindness that Kills. The Churches’ Simplistic Responses to Complex Social Issues,
London, Spck, 1984. La difficoltà dei rapporti tra Chiesa e Stato può essere riassunta nei
termini di «un divario crescente tra la Chiesa e la nazione, vale a dire tra l’inglese battezzato
che va in chiesa non regolarmente e non è impegnato a fondo nella missione e il praticante
regolare che invece lo è»: P. A. Welsby, A History of the Church of England 1945-1980, Oxford, Oxford University Press, 1984.
83 Si veda E. K. Norman, Christianity and the World Order, Oxford, Oxford University
Press, 1979.
84D. Sheppard, Bias to the Poor, London, Hodder & Stoughton, 1983.
85 Si veda D. Anderson (a cura di), The Kindness that Kills cit.
86 Si vedano D. Martin e P. Mullen (a cura di), No Alternative. The Prayer Book Controversy,
Oxford, Blackwell, 1981; D. Reeves (a cura di), The Church and the State, London, Hodder &
Stoughton, 1984.
Religione e società nei Regno Unito
267
Chiesa, nazione e cultura sembra essere il fondamento della tesi conservatrice della «nazione una»; il legame con lo Stato è solo una condizione
necessaria per preservare quel nesso più importante.
La tesi opposta più diffusa, nella sua forma più apertamente
cristiana, è che la religione di Stato crei una «falsa apertura», «un
modello di ufficio cristiano inadeguato in una società pluralista», un
ostacolo all’unione della chiesa87. L’articolazione politico-morale di
questa tesi è che «aggravandosi la crisi della nostra società, la base
morale su cui edificare tutti i giudizi politici si fa sempre più chiara e la
Chiesa deve liberarsi della subordinazione allo Stato »88. La retorica della
crisi, della profezia e della liberazione è espressa con voce forte e chiara.
Si sentono ripetere gli argomenti pro e contro la religione di Stato,
mentre si discute molto poco la possibilità di pervenire a un loro
compromesso. È però da credere che esistano modi migliori di
utilizzare i vantaggi del riconoscimento ufficiale della Chiesa.
3.4. Il giudaismo
La storia degli ebrei nel Regno Unito per certi versi corre parallela a
quella della comunità più numerosa dei cattolici. Entrambi furono interdetti dall’attività politica e da alcune cariche della burocrazia statale fino a metà Ottocento. Entrambe le comunità crebbero rapidamente grazie all’immigrazione, i cattolici dall’Irlanda a metà Ottocento, gli ebrei
dall’Europa orientale e centrale dopo il 1880. La popolazione ebraica
passò da 60.000 a 300.000 unità nei quarant’anni seguenti e si arricchì
negli anni trenta dei profughi dei regimi fascisti. Infine, entrambe le
comunità si sono assimilate in larga misura alla cultura dominante e
hanno conosciuto in questo secolo tassi molto elevati di mobilità sociale ascendente89. Ma le strutture della comunità ebraica nel Regno
Unito sono diverse per molti aspetti importanti da quelle dei cattolici.
In primo luogo, pur essendo notoriamente difficile e problematico
misurare le dimensioni della comunità ebraica, si riconosce che essa si è
andata riducendo dopo il 1945. Circa 108.000 famiglie ebree, ovvero
due terzi del totale, sono affiliate alle sinagoghe. Hanno a disposizione
circa 450 rabbini a tempo pieno. La popolazione ebraica totale è di circa
330.000 persone. In secondo luogo, le istituzioni e le organizzazioni
87 P. R. Cornwell, The
Church and the Nation, Oxford, Blackwell, 1983, pp. 102-3.
T. Benn, «A Case for the Disestablishment of the Church of England» in D. Reeves (a
cura di), The Church and the State cit., p. 73.
89Si veda G. Alderman «The Jewish Vote in Great Britain since 1945» in Studies in Public Policy,
72, 1980.
88
268
James A. Beckford
ebraiche non hanno la capacità di coesione e il potere di controllo del
sistema cattolico delle parrocchie. L’organo che rappresenta gli ebrei
nella vita quotidiana è il consiglio dei delegati, che però non ha nessuno
degli attributi di un sistema parrocchiale. Infatti gli affari religiosi non
sono una sua responsabilità diretta: sono affidati al gran rabbino. In
terzo luogo, le differenze sociali e intellettuali tra l’orientamento
ortodosso maggioritario e quello progressista minoritario hanno
frammentato la comunità ebraica in un modo che non trova riscontro
tra i cattolici. Infine, le campagne di beneficenza e le cause degli ebrei
britannici, soprattutto a sostegno dello Stato di Israele, costituiscono
una spinta di fondo alla continuità dell’identità collettiva. Le esperienze
e il ricordo delle persecuzioni in molti paesi e per molti secoli hanno
contribuito a preservare quest’identità etnico-religiosa peculiare,
nonostante le pressioni contrarie. Il numero crescente di ebrei in
passato non praticanti che imparano oggi a vivere in maniera ortodossa
indica che le risposte degli ebrei alla modernità sono complesse.
3.5. Le comunità religiose ai margini della società britannica tradizionale
Nel Regno Unito erano presenti, ben prima del 1945, numerosi
gruppi religiosi, espressione non convenzionale del cristianesimo o di
religioni non cristiane. Oltre alle comunità molto esigue di espatriati
stranieri che praticavano versioni proprie di diverse religioni mondiali,
soprattutto nei centri commerciali maggiori, vi erano anche piccoli
gruppi di inglesi che avevano abbracciato una varietà sbalorditiva di
religioni importate, alcune originarie dell’Asia90, altre giunte dagli Stati
Uniti91. Questo panorama, precedente alla seconda guerra mondiale, si
ampliò negli anni sessanta, dando vita a una serie ancor più variegata di
pratiche religiose. L’impatto dell’immigrazione dai paesi del
Commonwealth, prima, e dei cosiddetti nuovi movimenti religiosi, poi,
è stato notevole. Un’analisi globale di queste innovazioni e di questi
cambiamenti non farebbe loro giustizia, sicché preferiamo concentrarci
soltanto sulle comunità o sulle categorie maggiori che non rientrano tra
le correnti religiose principali del Regno Unito92.
90 Si vedano L P. Oliver, Budclhism in Britain, London, Rider, 1979; B. R. Wilson, «The Westward
Path of Buddhism» in Journal of Orienta! Studies, 2, 1989, pp. 1-10.
91 Si veda B. R. Wilson, «American Religious Sects in Europe» in C. W. E. Bigsby (a cura di),
Superculture. American Popular Culture ami Europe, London, Paul Elek, 1975, pp. 107-22.
92 Un fatto singolare della sociologia della religione nel Regno Unito è che gli studi sulle correnti
principali sono di numero inferiore a quelli sulle minoranze settarie. Si veda J. A. Beckford, The
Trumpet of Prophecy. A Sociologica) Analysis of jehovah’s Witnesses, Oxford, Blackwell, 1975.
Religione e società nel Regno Unito
269
Organizzazioni cristiane o semicristiane relativamente esclusive. Le organizzazioni religiose che si discostano per alcuni aspetti fondamentali da
quelle che sono ritenute le norme di una visione aperta, tollerante e
pluralistica sono, tra le altre, la confraternita di Plymouth, i testimoni
di Geova, gli avventisti del settimo giorno, Scienza Cristiana, i mormoni, i fratelli di Cristo, la chiesa dell’unificazione e alcune delle comunità più militanti di evangelici. Queste organizzazioni hanno assai
poco in comune quanto a dottrine e forme di culto, ma mostrano tutte, in varia misura, esclusività rispetto all’ammissione, obbedienza ai
capi, approvazioni di credenze normative, rigore morale e nei rapporti
con i non adepti. Questa esclusività è stata fonte di frizioni tra alcuni
di questi gruppi, gli organi regolatori dello Stato, il giornalismo d’inchiesta e gruppi esterni o apostati critici93.
Laddove la fortuna di Scienza Cristiana, dei fratelli di Cristo e della confraternita di Plymouth è andata calando dal 1945 in fatto di adepti, edifici, gruppi locali, scuole domenicali e contributi, altre organizzazioni relativamente esclusive hanno avuto miglior sorte nonostante scandali occasionali, denunce dei giornali e critiche delle autorità statutarie. Ciò è dovuto in parte alla capacità di alcune organizzazioni più vecchie di attirare un’alta percentuale dei figli dei loro
membri, in parte ai programmi avventurosi e metodici di proselitismo
e in parte alle pressioni esercitate sugli adepti affinché si adeguino alle
norme di obbedienza all’autorità stabilite dal gruppo. Anche se si può
affermare che i fautori del riscatto universale94 o le «House Churches »
che si rifanno ai princìpi del Nuovo Testamento sono un po’ meno
esclusivi delle organizzazioni settarie più vecchie, è chiaro che essi
hanno avuto successo per ragioni analoghe, proponendo una dottrina
rigorosa, un’autorità forte e una comunità chiusa.
I mormoni, i testimoni di Geova, le House Churches, le chiese afrocaraibiche95 e gli avventisti del settimo giorno, nonostante le differenze, hanno conosciuto la crescita più prolungata negli ultimi trent’anni, senza dubbio grazie alle capacità economiche e manageriali delle organizzazioni americane da cui derivano alcuni di loro. La tabella
14 mostra i diversi tassi di crescita dei membri di tali organizzazioni a
partire dal 1970.
93 Si veda , ad esempio, B. R. Wilson, «A Sect at Law. The Case of the Exclusive Brethren» in
Encounter, 1, LX, 1983, pp. 81-87.
94 Si veda A. Waiker, Restoring the Kingdom. The Radical Christianity of the House Church Movement,
London, 1-Xodder & Stoughton, 1985.
95 Si veda I. MacRobert, The Black-Led Pentecostal Churches in Britain in P. Badham (a cura di),
Religion, State and Society cit.
270
James A. Beckford
Tabella 14. Membri di alcune organizzazioni cristiane esclusive tra il 1970 e il 1987.
1970
1975
1980
1985
1987
Fratelli di Cristo
21.000
25.500
22.000
20.000
20.000
Scienza cristiana
22.000
17.000
15.000
13.500
12.000
Testimoni di Geova
61.913
79.586
83.521
97.495 107.767
Mormoni
85.217
99.830 114.458
132.810 142.310
Avventisti del settimo giorno
«House Churches»*
12.145
100
12.719
10.00
14.569
20.000
16.065
75.000
16.831
95.000
* Stima.
Fonte: P. Brierley, UK Christian Handbook. 1989/90 Edition, Bromley, Marc Europe-Evangelical Alliance Bible Society, 1988.
Sfortunatamente non si ha in pratica nessuna informazione sulla
«carriera» religiosa di coloro che entrano in questi gruppi esclusivi.
Pertanto, attualmente non è possibile sapere se essi esemplifichino il
fenomeno della «circolazione dei santi», per cui gli apostati delle
chiese più liberali si risocializzano in gruppi religiosi di tipo più
conservatore96, oppure se si tratti di persone che aderiscono per la
prima volta a un’organizzazione cristiana.
Ciò che però emerge chiaramente è che i movimenti relativamente
nuovi ed esclusivi, come la chiesa dell’unificazione, Scientology e i
bambini di Gesù, non hanno saputo sfruttare l’impatto che hanno
avuto sulla gioventù britannica nei primi anni settanta. Il numero di
adepti di questi gruppi è cresciuto di poco e lentamente, nonostante
(o forse proprio per) i numerosi servizi dei mass media sulle loro
attività97. È poco probabile che i partecipanti a tempo pieno siano più
di qualche migliaio, anche se decine di migliaia di persone possono
essere vicine o nutrire simpatia per questi movimenti98.
Ancor più importante è che nulla dimostra che i nuovi movimenti
esclusivi abbiano avuto un’influenza positiva sulle altre organizzazioni
religiose. In questo senso la proliferazione dei nuovi movimenti religiosi
negli anni sessanta e settanta non ha costituito l’inizio di una «riforma
della coscienza», sebbene le fondamenta psicologico-umanistiche dei
96 Si veda R. Bibby e M. Brinkerhoff «The Circulation of the Saints. A Study of People
who Join Conservative Churches» in Journal of the Scientific Study of Religion, 3, XII, 1973, pp.
273-83.
97 Si veda J. A. Beckford e M. A. Cole, «British and American Responses» cit.
98 Si veda E. Barker, New Religious Movements. A Pmctical Introduction, London, Hmso,
1989.
Religione e società nel Regno Unito
271
movimenti meno esclusivi, volti a realizzare il «potenziale umano», facciano ormai parte della riflessione sulla formazione dei dirigenti, sulla
scelta del personale e sulle professioni sociali. Al tempo stesso, alcuni elementi della controcultura degli anni sessanta hanno contribuito, direttamente o indirettamente, a richiamare l’attenzione generale sui problemi relativi all’ecologia, alle alternative alle cure biomediche, alla qualità
del cibo e alla meditazione. Alcuni nuovi movimenti religiosi meno esclusivi hanno contribuito a far accettare queste influenze culturali della
«New Age». Tuttavia, nel complesso l’impatto di questi movimenti (esclusivi o tolleranti) sulla vita religiosa britannica è stato minimo. Le
controversie cui hanno dato luogo rispetto ai sistemi di reclutamento,
alle pratiche finanziarie e allo stile di vita dei loro adepti sono probabilmente il loro contributo più rilevante, seppur negativo99.
L’islamismo. Come molti altri immigrati, i musulmani di Pakistan,
Bangladesh e India (che rappresentano circa il 40 per cento delle comunità
sudasiatiche del paese) non pensavano necessariamente di stabilirsi per
sempre nel Regno Unito. Tuttavia, l’introduzione dei primi controlli
sull’immigrazione ininterrotta dagli stati membri del Commonwealth nel
1962 ha cambiato le prospettive, rendendo necessaria ad esempio l’immigrazione di mogli e figli di coloro che avevano lavorato nel Regno Unito
e avevano mandato rimesse ai parenti a loro carico nel paese di origine.
Non appena fu chiaro che una residenza permanente o almeno di lungo
periodo nel Regno Unito per tutti i membri della famiglia era inevitabile, i
musulmani hanno intrapreso la costruzione di moschee, scuole, centri
culturali e altre istituzioni, a difesa del proprio retaggio cultural-religioso.
Secondo i dati del censimento, i nati in Pakistan nel Regno Unito
ammontavano a 5.000 nel 1951, cifra salita a 135.000 nel 1981; ben
più numerosi sono però i nati nel frattempo in Gran Bretagna da genitori pakistani. La comunità di persone di origine etnica pakistana
ammonta oggi a 400.000 persone, ovvero il 40 per cento dei musulmani del Regno Unito. Altre comunità in larga parte musulmane sono
gli indiani (130.000), i ciprioti turchi (60.000), gli arabi (50.000), gli africani orientali (27.000), i malesi (23.000), gli iraniani (20.000), i nigeriani (15.000) e i turchi (5.000). Gli esperti concordano sul fatto che
oggi i musulmani nel Regno Unito sono circa un milione, concentrati
in particolare a Bradford, nelle West Midlands e a East London.
La creazione di comunità etniche stabili in regioni in cui c’era lavo99 Si veda J. A. Beckford, Cult Controversies. The Societal Response to New Religious Movements, London, Tavistock, 1985.
272
James A. Beckford
ro, in cui i correligionari e i connazionali potevano fornire un aiuto e
in cui i datori di lavoro e/o i dirigenti sindacali erano disposti a permettere l’impiego di lavoratori non bianchi, ha contribuito alla nascita
di strutture per i musulmani. Il numero di moschee registrate come
luoghi di culto è cresciuto da nove nel 1960 a circa 350 alla fine degli
anni ottanta. Alcuni organi e centri musulmani hanno acquisito preminenza e autorità a livello nazionale, ma vi è una certa concorrenza tra
le diverse scuole spirituali. Negli ultimi tempi, sulla scia dell’affare Salman Rushdie, è nato un partito politico musulmano e nel corso di
un’elezione suppletiva nel 1990 si è cercato di porre fine all’alleanza
sviluppatasi a Bradford tra i musulmani (ma anche asiatici non musulmani) e il Partito laburista. Secondo un esperto, «i musulmani debbono riscoprire che cosa significa essere musulmano »100. Nel corso di
tale processo, i musulmani che vivono nel Regno Unito stanno riscoprendo l’importanza della loro religione.
Un’ulteriore indicazione della forza crescente dell’identità e della
coscienza musulmana nel Regno Unito sono le campagne per ottenere sovvenzioni statali per le scuole musulmane, preservare il modo
musulmano di preparare il cibo, allargare la legge contro la blasfemia
alle offese contro l’islamismo, ottenere l’esenzione da alcune norme
sul modo di vestirsi e comportarsi a scuola per ragioni religiose e culturali. Secondo alcuni osservatori, tali campagne alimentano un movimento più generale non solo per l’integrità musulmana, ma anche per
una purezza musulmana che non corrisponde alle culture particolari
da cui provengono molti emigranti. Si direbbe che il confronto con il
secolarismo e con l’indifferenza britannica nei riguardi della religione
organizzata abbia scatenato un movimento di rinascita tra i musulmani. Il sostegno finanziario e morale delle organizzazioni musulmane
nel cuore del mondo arabo ha certamente contribuito a questa rinascita, avvalorando la tesi che le nazioni-stato non sono necessariamente l’unità migliore per analizzare la modernità.
L’induismo. Probabilmente l’interesse per l’identità specificamente religiosa è meno pronunciato tra la maggioranza dei 250.000 indù del Regno Unito rispetto ai musulmani o ai sikh, anche perché l’induismo è un
complesso non rigido di credenze e pratiche, comuni alla maggioranza
della popolazione indiana che non aderisce ad altre religioni e straordinariamente varie. Inoltre questa diversità non è casuale nella storia
100 J. S. Nielsen, «Islamic Communities in Britain» in P. Badham (a cura di), Religion,
State and Society cit., p. 236.
Religione e società nel Regno Unito
273
religiosa, al contrario ha sempre caratterizzato la tradizione indù. Pertanto, è probabile che le realtà regionali e linguistiche e il sistema delle
caste prevalgano sull’elemento puramente religioso.
E anche probabile che l’attenzione all’identità religiosa sia meno impellente tra gli indù in quanto l’induismo non richiede un culto comune
in templi pubblici. Esso è radicato più profondamente nelle cerimonie
che si possono svolgere in casa, senza alcun bisogno di sacerdoti, anche
se va aggiunto che la celebrazione delle feste pubbliche costituisce una
parte significativa dall’induismo e che i sacerdoti indù svolgono una
funzione importante celebrando i riti di passaggio. Resta però il fatto
che gran parte degli obblighi religiosi degli indù riguarda i rituali quotidiani che si svolgono in casa al fine di preservare lo stato di purezza
proprio della casta.
Di conseguenza, l’induismo nel Regno Unito è fortemente frammentato a molti livelli, riproducendo numerosi aspetti della situazione
in India; al tempo stesso, però, esso va sviluppando istituzioni che non
trovano riscontro nei paesi sudasiatici d’origine. In particolare, si vanno
formando comunità peculiari, legate a diversi movimenti specifici della
spiritualità indù nonché alle concentrazioni residenziali degli indù nelle
grandi città. Secondo Knott queste innovazioni debbono molto all’esperienza degli indù fuggiti dai nuovi paesi indipendenti dell’Africa
orientale negli stessi sessanta101. Gli indù sottratisi alle persecuzioni e
alle politiche di africanizzazione avevano già formato comunità difensive, ad esempio in Uganda e in Kenia. Il trasferimento nel Regno Unito
determinò una seconda fase di adattamento alla condizione di minoranza religiosa in un ambiente ostile o nel migliore dei casi indifferente. In
effetti Burghart sostiene che l’induismo è divenuto una religione etnica
soltanto nel contesto culturale estraneo della Gran Bretagna 102.
I templi comuni sono cresciuti rapidamente di numero a partire dalla
fine degli anni sessanta; alcuni sono affiliati a organizzazioni nazionali. È
probabile però che gli indù siano più attratti da ciò che offrono
movimenti particolari o settari come la Missione Swaminarayan, la Ramakrishna, la Satya Sai Baba o la Società internazionale per la coscienza
di Krishna, che mettono a disposizione funzioni religiose, istruzione
spirituale, scuole, possibilità di esercitare la devozione a tempo pieno,
celebrazioni di feste e mutuo soccorso. In una certa misura questi nuovi
legami comunitari degli indù sono in concorrenza e si scontrano con la
101 K. Knott, «Hindu Communities in Britain» in T. Thomas (a cura di), The British,
Their Religious Beliefs cit., p. 247.
102 R. Burghart (a cura di), Hinduism in Britain, London, Tavistock, 1987, p. 14.
274
James A. Beckford
solidarietà familiare, di casta e del villaggio di origine. È possibile,
pertanto, che le divisioni settarie e sociali si acuiscano, in quanto gli
immigranti indù e il numero ben più vasto di persone a loro carico
nate nel Regno Unito aspirano a una nuova identità in una società in
generale inospitale. D’altra parte, è possibile anche che l’induismo si
trasformi nel nucleo di un tipo nuovo di identità etnico-religiosa.
La religione dei sikh. I sikh, che sono una minoranza religiosa in
India, hanno potuto cooperare più facilmente di indù e musulmani
con il regime coloniale britannico, in particolare con il suo apparato
militare, quando il loro regno del Punjab diventò parte dell’impero nel
1849103. L’emigrazione in Africa orientale e in Canada all’inizio di questo secolo fu una risposta alla pressione demografica in patria. Tra le
due guerre mondiali c’erano nel Regno Unito diverse migliaia di commercianti sikh, ma l’emigrazione maggiore, come nel caso di musulmani e indù, ebbe luogo negli anni cinquanta e sessanta, e all’inizio
coinvolse solo gli uomini; la minaccia dell’Immigration Act del 1962
spinse però molte donne e bambini a raggiungere i mariti e padri nel
Regno Unito prima che fosse loro negato l’accesso. La diffusione dei
«gurdwara» o luoghi di culto ebbe un’impennata con lo sviluppo di
comunità sikh a base familiare in alcune città. Un altro impulso alla
formazione delle comunità fu dato dall’espulsione dei sikh relativamente benestanti dall’Uganda all’inizio degli anni settanta.
Cole calcola che la popolazione sikh del Regno Unito sia di 400.000
persone circa104, mentre Brierley dimezza tale cifra105. Sembra perciò ragionevole il datO intermedio di 300.000 persone fornito da Knott, che
aggiunge che la comunità sikh è divisa in caste (contrariamente all’augurio
del fondatore) e in scuole teologiche106. Sono tuttavia stati fatti tentativi di
coltivare l’identità e l’attività comunitaria sikh sotto gli auspici di
organizzazioni quali la Società missionaria sikh, che mirano a superare le
divisioni fondate su parentela, casta o villaggio di origine. Si rileva
inoltre la tendenza, pressoché ignota in Punjab, ad attribuire ai
«gurdwara» le funzioni di centri comunitari nelle città inglesi. Ma a
detta di alcuni osservatori i sikh della Gran Bretagna attribuiscono
103Ma si veda E. Nesbitt, «Religion and Identity. The Valmild Community in Coventry» in
New Community, 2, XVI, 1990, riguardo al fatto che in alcune comunità indiane del Regno
Unito le distinzioni tra indù e sikh si vanno offuscando.
104 W. O. Cole, «Sikhism» in P. Badham (a cura di), Religion, State and Society cit. 1°5 P.
Brierley, Uk Christian Handbook cit.
105 K. Knott, «Other Major Religious Traditions» in T. Thomas (a cura di), The British,
Their Religious Beliefs cit.
Religione e società nel Regno Unito
275
maggiore importanza dei correligionari in India alla preservazione
dell’usanza del matrimonio combinato o «assistito» e alle divisioni
più generali basate sulle caste.
Tuttavia, se nel Regno Unito è presente un’identità sikh più compatta, essa è la conseguenza del fatto che i sikh hanno dovuto
battersi per ottenere il diritto legale di conservare taluni aspetti della
loro identità collettiva. Ad esempio, si è resa necessaria una lunga
causa per dare ai maschi sikh l’esenzione dalla norma che impone di
indossare a scuola e sul luogo di lavoro certe divise che sono
incompatibili con il loro obbligo di portare la barba e il turbante.
Infine, nel 1976, il parlamento ha approvato un legge allo scopo di
esentare i motociclisti sikh dall’obbligo di portare il casco. Le
agitazioni legate alle campagne dei sikh a favore di uno stato
sovrano del Khalistan separato dall’India hanno contribuito in una
certa misura a rafforzare l’identità sikh anche nel Regno Unito,
seppure non in modo uniforme. In realtà, la comunità è divisa, in
parte a seconda delle caste, sulla questione del Khalistan. Ma anche
queste divisioni e il razzismo della società britannica servono a
sollevare la questione dell’identità sikh.
4. Interpretazioni sociologiche
Il punto di partenza di questa discussione sulle interpretazioni sociologiche della religione che si sono affermate nel Regno Unito a
partire dal 1945 è che i termini «modernità» e affini non hanno trovato molto spazio. Nella misura in cui si è fatto riferimento alla «religione moderna» si è sottolineata la distinzione puramente storica tra
le sue forme passate e presenti, senza offrire una spiegazione di fondo dei cambiamenti. In genere i sociologi inglesi della religione hanno preferito spiegare i cambiamenti in termini di secolarizzazione,
razionalizzazione o differenziazione sociale. Questi termini non sono incompatibili con quello di «modernità», naturalmente, ma gli
studiosi della religione non si sono granché preoccupati di analizzare
i nessi tra i due tipi di concetti. Per contro, gli studiosi che fanno riferimento alle tradizioni della teoria critica e della società di massa
hanno riflettuto a fondo sulla modernità e sui suoi aspetti problematici107, senza tuttavia addentrarsi nel territorio della religione.
Un altro elemento che caratterizza la sociologia della religione nel
107 Si vedano, ad esempio, S. Giner, Mass Society, London, Martiri Robertson, 1976 e
D. Frisby, Fragments of Modernity, Cambridge, Polity, 1985.
276
James A. Beckford
Regno Unito è la sua forte connotazione evoluzionistica e antropologica.
Il fatto che il gruppo molto esiguo di sociologi inglesi della religione degli
anni cinquanta e sessanta mutuasse in larga misura la sua lettura delle teorie classiche della modernità dalle scuole prevalentemente funzionaliste
della sociologia americana ha contribuito a confinare ulteriormente la
categoria della modernità in concetti quali l’adattamento funzionale, la
differenziazione strutturale, le alternative funzionali e le funzioni latenti.
Anche i critici di ispirazione marxista avevano pochi motivi di considerare seriamente la «modernità», a meno che non fosse riformulabile, ad
esempio, in termini di alienazione, falsa coscienza o reificazione.
4.1. Secolarizzazione
Mancando un’attenzione specifica alla modernità, il concetto di
«secolarizzazione» è quello usato più largamente per interpretare i
cambiamenti religiosi nel Regno Unito dopo il 1945. Non si tratta però di un concetto unitario, ed è stato usato nei modi più svariati. La
formulazione di Bryan Wilson è tuttora da tenere presente: «La secolarizzazione è associata alla differenziazione strutturale del sistema sociale, alla separazione delle diverse sfere di attività sociale in forme più
specializzate »108. Wilson aggiunge che l’integrazione delle comunità
locali in società globali («societizzazione») elimina il bisogno di religione, in quanto «il sistema societario su vasta scala non si fonda, o non
sembra fondarsi, su un ordine morale, bensì, ove possibile, su un ordine tecnico»109. Ma sebbene le istituzioni religiose perdano la loro capacità di integrare e/o controllare le società moderne, questa teoria
della secolarizzazione riconosce che credenze e pratiche religiose possono sussistere in forme culturali marginali o costituire il centro di interesse per piccoli gruppi di entusiasti. In effetti il protestantesimo ha
probabilmente contribuito alla stessa frammentazione della società e
della cultura che favorisce la secolarizzazione110. Tuttavia, l’immagine
prevalente della società secolare è quella della società industriale, urbana e pluralistica, dominata dalla logica della razionalità strumentale, in
cui la religione è sempre più marginale e/o specializzata.
Una variante sul tema della società secolare è la tesi di David Martin
B. R. Wilson, Contemporary Transformation cit., p. 40.
B. R. Wilson, Religion in Sociological Perspective, Oxford, Oxford University Press,
1982, p. 159.
110 Si veda S. Bruce, A House Divided. Protestantism, Schism and Secularization, London,
Roudedge, 1990, p. 27.
108
109
Religione e società nel Regno Unito
277
sull’importanza cruciale dei primi conflitti moderni per il potere e la
legittimità tra le chiese e gli stati nazionali emergenti111. Risultato di tali
conflitti è il potere crescente dello Stato e il declino del potere delle
chiese. Nel caso del Regno Unito, l’esito pluralistico limitato contribuisce a spiegare vari aspetti della religione dopo il 1945: il persistere
del nesso tra classi sociali e pratica religiosa; la debolezza delle organizzazioni religiose nelle regioni industriali; il fondamento comunitario e non più gerarchico dell’autorità religiosa; il persistere di una retorica dell’identità religiosa; il minor bisogno di un Dio che colmi le lacune del sapere scientifico. Ma anche in tal caso la spiegazione non è
articolata in termini di modernità, bensì di conseguenze di un momento fondamentale della prima storia moderna.
Una delle conseguenze più importanti dell’accentuazione della secolarizzazione è che i nessi tra questo processo e altri aspetti del cambiamento sociale sono stati relativamente ignorati, quasi che i cambiamenti in campo religioso siano leggibili indipendentemente da altri fenomeno oppure siano un caso particolare di processi più generali dati
per scontati. Così un’attenzione esclusiva alla religione può far pensare che la secolarizzazione riguardi solo essa nel mondo moderno. C’è
pertanto spazio, a mio parere, per uno studio comparato dei cambiamenti simultanei in campo religioso e non religioso. Ad esempio, l’osservazione importante che il sentimento religioso sembra essersi staccato dall’appartenenza religiosa112 dev’essere affiancata dall’osservazione che pressoché tutte le associazioni volontarie hanno negli ultimi
decenni incontrato difficoltà a fare proseliti e a conservarli. In altre
parole, «l’appartenenza» ha perduto popolarità al tempo stesso in
campo religioso e in molti altri. La scissione tra credere e appartenere
fa parte dunque di un processo più generale di cambiamento, che tra
l’altro incide sulle organizzazioni religiose. Non è un problema esclusivo della religione e non nasce necessariamnte dalla dinamica interna
delle sole organizzazioni religiose113. Considerare questa scissione esclusivamente come un aspetto della secolarizzazione vuoi dire correre il rischio di limitare la ricerca delle cause al campo religioso.
Si è cercato di mostrare che per diverse ragioni sarebbe utile modificare, ai fini dell’analisi, l’uso del termine «secolarizzazione», affiancati111D. Martin, A General Theory cit.
112 Si vedano G. Davie, «Believing
without Belonging. Is This the Future of Religion in
Britain?» in Social Compass, 4, XXXVII, 1990 e, dello stesso autore, «An Ordinary God. The
Paradox of Religion in Contemporary Britain» in British journal of Sociology, 3, XLI, 1990.
113 Si veda R. Stark e W. Bainbridge, The Future of Religion, Berkeley, University of
California Press, 1985.
278
James A. Beckford
dolo a una nozione più ampia come quella di «modernità». Mi sia
consentito ripetere che il primo termine è stato applicato con grande
efficacia ai recenti cambiamenti nella religione inglese, ma che si corre il rischio di isolare analiticamente lo studio della religione da quello di altri fenomeni. Il vantaggio di un termine quale «modernità» è
che esso impone di analizzare il cambiamento contemporaneamente
in più di un’istituzione sociale.
4.2. Religione non ufficiale
Altri concetti che avrebbero dovuto dare ragione dei cambiamenti intervenuti dopo il 1945 nella religione britannica sono quelli
di religione «implicita», «comune» e «consuetudinaria»114. A volte
vengono inseriti nel quadro della secolarizzazione, ma li si trova anche in contesti indipendenti. Ciascuno di essi sottolinea il fatto che
molti inglesi nutrono credenze e fanno esperienze religiose connesse
assai vagamente alle dottrine e alle pratiche delle organizzazioni religiose formali. Inoltre, alcune forme «non ufficiali» sembrano in grado di sopravvivere da una generazione all’altra senza il sostegno di
alcun genere di attività associativa. Le differenze principali tra i concetti nascono dalla diversa interpretazione del modo in cui queste
forme religiose non ufficiali ebbero origine.
La particolare lettura di Edward Bailey della religione implicita richiama l’attenzione sulla coerenza e sugli impegni solitamente non riconosciuti che stanno alla base della realtà quotidiana nella presunta
società secolare115. Molti di questi impegni non riconosciuti si nascondono al di sotto della superficie della religione ufficiale delle chiese
maggiori e sono compatibili o anche identici ad essa. Equivalgono a
un incontro con il sacro, nella misura in cui concernono le più profonde fonti dell’identità personale e collettiva o dell’«umano».
Per contro, la nozione di Towler di religione comune si riferisce alla
sopravvivenza di religioni popolari precristiane che hanno mantenuto
un’indipendenza relativa rispetto alle organizzazioni religiose ufficiali116. La religione comune sarebbe tipica delle classi inferiori e avrebbe
114 La nozione di «religione convenzionale» di Towler è discussa nel presente paragrafo alle pagine 278-79.
115 E. Bailey, «The Implicit Religion of Contemporary Society. Some Studies and Reflections» in Social Compass, 4, XXXVII, 1990 e, dello stesso autore, «Implicit Religion. A
Bibliographical Introduction» in Social Compass, 4, XXXVII, 1990.
116 R. Towler, Homo Religiosus cit. e R. Towler e A. Chamberlain, Common Religion cit.
Religione e società nel Regno Unito
279
uno status inferiore rispetto alle credenze e alle pratiche ufficiali. Si
preoccupa in primo luogo di ciò che attiene alla fortuna e alla sfortuna personali.
La religione consuetudinaria, analizzata da Hornsby-Smith e altri, è
ancora diversa: consiste essenzialmente delle «credenze e pratiche che
sono mutuate dalla religione ufficiale ma che non sono soggette a un
controllo continuo da parte della Chiesa»117. Essa misura il calo dell’influenza sulla coscienza dei loro membri, da parte delle chiese, le quali
però hanno depositato uno strato di atteggiamenti, sentimenti e valori
che esercitano un effetto duraturo su coloro che non hanno un legame stretto con esse. Colpiscono le analogie con l’idea di Cipriani della
«religione diffusa» 118.
Sebbene i teorici della religione implicita, comune e consuetudinaria nel Regno Unito non abbiano cercato di fondere i loro concetti
con quello di «modernità», mi sembra si possano fare diverse considerazioni comuni. In primo luogo, l’interesse per il destino personale degli individui può coesistere con il prevalere della razionalità strumentale nella sfera pubblica associato generalmente alla modernità. In secondo luogo, il rispetto per l’integrità delle comunità locali sussiste
tuttora nelle visioni religiose non ufficiali, tra gli interstizi delle società
moderne sempre più nazionali se non globali. In terzo luogo, la religione non ufficiale può essere un antidoto parziale all’esperienza
frammentata della vita quotidiana nel mondo moderno.
4.3. Ipotesi di ricerca futura
Ho cercato di mostrare che molte teorizzazioni dei sociologi inglesi
della religione, ad esempio riguardo alla secolarizzazione, alle varietà religiose non ufficiali, ai movimenti religiosi settari, possono essere proficuamente legate alle teorie della modernità. Ma non avrebbe molto senso farlo se questa «fusione» non aggiungesse nulla a ciò che già sappiamo. A mio parere, è importante cercare di discutere le scoperte sociologiche sulla religione britannica nel contesto della modernità per due ragioni. Da un lato, come ho già detto, un’analisi siffatta contribuirebbe a
sfatare l’ipotesi implicita che la secolarizzazione sia una patologia peculiare della religione, dall’altro, contribuirebbe a mettere in dubbio al117 M. Hornsby-Smith, R. Lee e P. Reilly, «Common RPligion and Customary Religion. A
Critique and a Proposal» in Review of Religious Research, 3, XXVI, 1985, p. 247.
118 S R. Cipriani, «“Diffused Religion” and New Values in Italy» in J. A. Beckford e T.
Luckmann (a cura di), The Changing Face of Religion, London, Sage, 1989.
280
James A. Beckford
cune ipotesi date per scontate circa il concetto di «modernità». Nella
religione britannica emergono tre fenomeni particolari che sembrano richiedere un nuovo esame del concetto.
In primo luogo, la tendenza di alcuni attivisti religiosi (in particolare
il clero liberale) ad adottare una posizione polemica nei dibattiti di politica pubblica non trova riscontro in molti contesti di modernità, il che
non significa negare che vi sia stata la tanto discussa privatizzazione della religione: semplicemente, a fianco di questa si è verificato un fiorire
di dispute pubbliche sulla religione. A mio giudizio, sia la privatizzazione sia le crescenti discussioni pubbliche sulla religione sono aspetti della
frammentazione del modello un tempo dato per scontato dell’attività
religiosa secondo le linee delle località residenziali, delle classi sociali e
della parentela. Inoltre, molti dei problemi in gioco in queste controversie attraversano lo spartiacque pubblico/privato. Essi sono controversi proprio perché rivelano che le questioni private sono inestricabilmente legate ai problemi pubblici. Un esempio eccellente della capacità
della religione di superare il divario che si vuole crescente tra pubblico e
privato è offerto da Malcolm Bull, secondo il quale gli avventisti del settimo giorno e alcune altre sette di orientamento terapeutico propugnano energicamente una politica della sanità pubblica che richiederebbe
una modifica del modo di vivere dei singoli119.
In secondo luogo, in genere i contesti della modernità tengono in
poco o nessun conto il ruolo della religione al di là di quanto concerne
l’identità puramente personale, mentre la storia religiosa britannica dal
1945 ha dimostrato che quando la religione si allontana dai suoi ancoraggi tradizionali nelle comunità locali, nelle classi sociali e nelle strutture parentali, diventa in generale uno strumento di lotta ideologica. Il
linguaggio della religione è particolarmente adatto al compito di esprimere posizioni ideologiche che si fondano su presunti princìpi primi o
universali, a condizione che non sia strettamente vincolato a radici sociali particolari. Se ha ragione Giddens quando afferma che due caratteristiche fondamentali della modernità sono la capacità di superare il
tempo e lo spazio e di ricombinarli in forme svincolate come mai in
passato120, la risposta di molti religiosi è di cercare di rimettere le cose
nella prospettiva dell’eternità. Ma allora, paradossalmente, il declino della
presenza in chiesa ha facilitato lo sviluppo di forme più atonome di
critica religiosa, che si fondano su princìpi superiori, se non necessaria119 M. Bull, «Secularization and Medicalization» in British Journal of Sociology, 2, XLI, 1990,
pp. 245-61.
120 A. Giddens, The Consequences of Modernity cit.
Religione e società nel Regno Unito
281
mente soprannaturali121. Alcuni dirigenti delle campagne e dei movimenti per la pace, l’ecologia, i diritti umani e l’assistenza sociale, ad
esempio, oggi considerano vantaggioso ottenere il sostegno non confessionale, morale di ogni sorta di gruppi religiosi. Ciò sarebbe stato
molto più problematico e improbabile in un periodo in cui le organizzazioni religiose erano numericamente più consistenti, ideologicamente più rigide e socialmente più esclusive. E uno sviluppo, inoltre, che
non corrisponde a molti scenari di modernità.
In terzo luogo, numerosi modelli di modernità postulano che i
processi di convergenza e assimilazione erodano l’identità collettiva
fondata su criteri particolaristici come l’etnicità e le opinioni religiose
forti. In effetti, Talcott Parsons aveva previsto la sostituzione delle
nette differenze interconfessionali nel cristianesimo con una fede
generalizzata, indifferenziata, fondata sull’amore. Anche in questo
caso si può affermare che in una certa misura ciò è avvenuto tra i
gruppi protestanti liberali, ma al tempo stesso si può parlare di un
divario crescente in altri punti dello spettro religioso. La teoria della
modernizzazione racconta solo metà della storia, e l’altra metà è
incompatibile con essa.
La natura controversa della religione è legata alla contestazione sia
liberale sia conservatrice. Numerose chiese sono attraversate da
profonde divisioni politiche, ma i gruppi più conservatori sono in
genere quelli meno divisi. Il separatismo musulmano e il nazionalismo
sikh sono ulteriori segni di intransigenza in nome della solidarietà
etnico-religiosa. L’opposizione all’idea di una religione moderna
blanda, espressa da Parsons, è stata di recente esemplificata dalla
protesta di 76.000 cristiani contro il multiculturalismo del programma
obbligatorio di religione nelle scuole122.
All’altra estremità dello spettro, i dirigenti radicali e liberali di molte
chiese hanno protestato contro il supposto aggravarsi delle disuguaglianze nella società britannica. Ad esempio, la Commission on Urban
Priority Areas dell’arcivescovo di Canterbury ha pubblicato nel 1985 un
rapporto, Faith in the City, fortemente critico nei riguardi della presunta
incapacità del governo di farsi carico dei problemi che i disoccupati
e/o i poveri incontrano nelle aree urbane degradate o impoverite. Tra
gli altri rapporti recenti troviamo una condanna della politica degli alloggi del governo inglese da parte dei vescovi cattolici della Conferen121 Si veda J. A. Beckford, Religion and Advanced Industrial Society, London, UnwinHyman, 1989 e, ancora, J. A. Beckford, «The Sociology of Religion and Social
Problems», in Sociological Analysis, 1, LI, 1990.
122 in Si veda «The Independent», 19 dicembre 1990.
282
James A. Beckford
za di Inghilterra e Galles, nel dicembre 1990; l’invocazione dell’Azione
ecclesiastica sulla povertà, interconfessionale, a lasciar cadere una nuova
imposta controversa, nell’ottobre del 1990; un rapporto anglicano del
gennaio 1990 su Living Faith in the City, che riprende le critiche espresse
cinque anni prima. Sarebbe sbagliato però pensare che la filosofia progressista alla base di questi scritti sia condivisa parimenti da tutti i settori
delle chiese che li hanno espressi. L’evidenza mostra che il clero delle
confessioni maggiori è più liberale dei membri laici e che queste
reagiscono a problemi politici particolari, senza propugnare politiche
coerenti a lungo termine.
La conclusione è duplice. Da un lato, c’è molto da guadagnare da
un’analisi della religione dopo la guerra in termini di modernità: questo
punto di vista contribuisce a spiegare molte caratteristiche salienti, come
il minor potere delle organizzazioni cristiane formali, la crescente
disparità tra credenza e appartenenza religiosa, la vitalità costante di
forme nuove e settarie della religione. Questa prospettiva aiuta inoltre a
ridimensionare il pathos metafisico associato alla secolarizzazione,
dimostrando che i cambiamenti non riguardano solo la sfera religiosa, ma
sono esempi di fenomeni molto più vasti. Dall’altro lato, i cambiamenti
recenti nella religione in Gran Bretagna hanno messo a nudo alcuni
difetti dell’attuale concezione della modernità. Contrariamente a quanto
si crede, alcune forme di religione non si allontanano semplicemente dalla
sfera pubblica, in realtà contribuiscono a ridefinire il confine tra pubblico
e privato. Inoltre, la religione diventa oggetto di maggiori controversie e,
nel caso degli estremi del conservatorismo e del progressismo, dà vita a
comunità ideologiche che contestano il presunto svigorimento della
religione moderna.
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Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca*
Karl-Fritz Daiber
1. Riflessioni teoriche preliminari su religione e modernità
1.1. Modernità
In generale, una teoria sociologica del moderno presuppone una teoria
dell’evoluzione sociale. Il moderno è definito, in un modo o nell’altro, come qualcosa di diverso dal premoderno e, possibilmente, dal postmoderno.
C’è relativo accordo su un modello di evoluzione sociale in tre fasi, dalle
società arcaiche ― attraverso quelle tradizionali ― alle società moderne (industrial-burocratiche) . Il processo di differenziazione nell’evoluzione sociale porta a un aumento della complessità a carico della struttura globale della
società, come pure dei suoi sottosistemi. Il processo di differenziazione che
plasma le società moderne è inteso da Niklas Luhmann e altri come il procedere della differenziazione funzionale. Tipi di differenziazione precedenti, come quella segmentale o stratificata, esistono in parte ancora, senza tuttavia determinare il sistema.
Viceversa, anche il processo della differenziazione funzionale non è
esclusivamente moderno: nelle società antiche ne sono per lo meno gettate
le basi, se non altro dove le società stabiliscono istituzioni secondo punti di
vista funzionali, le quali poi naturalmente determinano le regole dell’agire
per il complesso della società.
Per Luhmann la strutturazione delle società moderne è caratterizzata da un tipo particolare di sistema sociale, quello dell’organizzazione.
Egli afferma: «Possiamo dire organizzati i sistemi sociali che collegano
1
* E saggio esamina principalmente Ia situazione della Repubblica federale tedesca prima
dell’ottobre 1990, ma traccia altresì un breve profilo delle prospettive della scena religiosa tedesca
a seguito dell’unificazione.
1 Si veda T. Luckmann, «Bemerkungen zur Gesellschaftsstruktur, Bewußtseinsformen und
Religion in der modernen Gesellschaft» in B. Lutz (a cura di), Soziologie und gesellschaftliche
Entwoicklung. Verhandlungen des 22. Deutschen Soziologentages in Dortmund 1984, Frankfurt a.M.,
Campus Verlag, 1985, pp. 475-84, in particolare p. 476.
292
Karl-Fritz Daiber
l’appartenenza a determinate condizioni, dunque fanno dipendere l’ingresso e l’uscita da alcune condizioni»2. Se si adottano i tratti distintivi
delle organizzazioni così come sono definiti in genere nei testi di
sociologia dell’organizzazione, bisogna aggiungere: le organizzazioni
sono sistemi sociali relativamente pianificati, orientati razionalmente a
uno scopo, guidati da un programma, che svolgono funzioni specifiche
e che sono delimitati, rispetto ad altri sistemi sociali, da una relazione di
appartenenza che può essere resa esplicita.
Luhmann delimita il piano della società, costituito dalle organizzazioni, rispetto al piano delle interazioni individuali, che si verificano in
contesti di comunicazione immediata, face to face, nonché rispetto al
sistema della società quale «sistema sociale complessivo di tutti gli atti
che possono reciprocamente raggiungersi comunicativamente»3, sistema
che al giorno d’oggi si può pensare solo come società mondiale. Benché
dal punto di vista delle possibilità comunicative la società mondiale divenga sempre più realizzabile, al tempo stesso esistono comunque sistemi sociali il cui raggio d’azione è spazialmente limitato. Lo dimostra il
sussistere di società tradizionali; inoltre le società industriali sviluppate,
oggi come ieri, si costituiscono in ambito più limitato, come società
continentali, società nazionali, società regionali e, non da ultimo, come
società locali, che in quanto tali danno luogo a mondi-della-vita che plasmano l’esperienza. Nel concetto di mondo-della-vita (Lebenswelt) si
comprende, richiamandosi a Habermas, di ciò che è ritenuto, in modo
«immediato» (selbstverständlich), socialmente, individualmente e
culturalmente valido. Mondo-della-vita è la comunità linguistica, la comunità culturale, e anche la comunità culturale locale e regionale, quale
insieme di modelli d’azione vissuti come immediati e problematizzati
solo in misura minima. Si tratta di istituzioni fondamentali, che non sono poste in discussione, come la famiglia, la parentela, e anche la comunità nazionale. Proprio a differenza del tipo dell’organizzazione, la socialità del mondo-della-vita è contrassegnata dal fatto di essere data come per destino. Riguardo ad essa non si può decidere nulla, non la si
può dirigere univocamente secondo una razionalità finalistica e viene
mediata nel dominio simbolico tanto, comunicativamente quanto attraverso il discorso. L’individuo può scontrarsi con essa, confrontarsi con
essa, delimitare se stesso rispetto ad essa, tuttavia vi rimane in gran parte
radicato. Essa simboleggia il destino sociale al quale l’individuo è sottomesso. Di certo Habermas considera il mondo-della-vita molto più ra2 N. Luhmann, Soziologische Aufleldrung, Opladen, 1975, 19863, 2 volli, p. 12.
3 Ibid., p. 11.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
293
zionalmente plasmabile di quanto non risulti secondo questo punto di
vista. Per lui, proprio il fatto che si possano distinguere cultura, società e
personalità consente una spiegazione comunicativa intorno al mondodella-vita, il quale in essa viene ulteriormente sviluppato. Di fronte a ciò
bisogna tener fermo che il mondo-della-vita comprende più di quanto
possa essere deciso mediante il discorso razionale. Habermas stesso
rimanda, a ragione, ai fattori culturali immediati nei quali si imbatte il
mondo-della-vita. Che i contesti del mondo-della-vita siano plasmati
attraverso i discorsi razionali che in essi hanno luogo, rimane indiscutibile,
pure nel moderno. Quest’ultimo è caratterizzato, più fortemente di altri
stadi dello sviluppo sociale, proprio dal fatto che la socialità non vi è mai
presente soltanto in forma elementare, ma è sempre modellata
politicamente, socialmente e, in processi discorsivi, individualmente. La
formazione dell’identità individuale giunge a compimento essenzialmente
in tali processi discorsivi, anche quando questi restano limitati dalle condizioni culturali, sociali e individuali circostanti4.
1.2. Religione nel moderno
Quanto la religione sia significativa per il processo di costituzione della
socialità umana, si comprende anche solo considerando che le forme della
religione sono covarianti con le forme della società, che i processi di
evoluzione sociale rappresentano processi di evoluzione religiosa e che
esiste un mutuo rapporto, forse così fondamentale che le simbolizzazioni
religiose sono in generale simbolizzazioni dell’umano5.
L’evoluzione sociale si ripercuote sul sistema religioso attraverso la
differenziazione: quest’ultima significa pluralizzazione, ma anche aumento della complessità. Poiché il processo di differenziazione concerne appunto la società nel suo insieme, la differenziazione implica al tempo
stesso una delimitazione. Con la crescente differenziazione del sistema
sociale, si rende la religione sempre più parziale, e la differenziazione fun4 Per la teoria del mondo-della-vita si veda anche A. Schütz e T. Luckmann, Strukturen der
Lebenswelt, Darmstadt, 1975, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 19842, 2 voli.
5 Si veda a questo proposito R. N. Bellah, «Religiöse Evolution» in C. Seyfarth e W. M. Sprondel (a
cura di), Seminar: Religion und gesellschaftliche Entwicklung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1973, pp. 267-302. Se
ne incontra l’equivalente anche in Habermas, soprattutto in alcuni saggi dei volume Zur Rekonstruktion
des historischen Materialismus, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1976 [trad. it. di F. Cerutti, Per la ricostruzione del
materialismo storico, Milano, Etas Libri, 1979]. Analoghe indicazioni si trovano anche in N. Luhmann,
Funktion der Religion, Frankfurt a.M., 1977, in particolare pp. 272 sgg.; di quest’ultimo si veda inoltre il
saggio «Die Organisierbarkeit von Religionen und Kirchen» in J. Wössner (a cura di), Religion im
Umbruch, Stuttgart, F. Enke, 1972, pp. 245-85.
294
Karl-Fritz Daiber
zionale diventa così delimitazione funzionale: già prima del moderno si
erano sviluppate istituzioni religiose specifiche6, che attraverso un’ulteriore differenziazione funzionale hanno perso sempre più il loro carattere globale.
La crescente razionalizzazione dei contesti del mondo-della-vita, per
la quale il sistema della personalità, il sistema della cultura e della società
si separano gli uni dagli altri e diventano accessibili alla riflessione, dà
origine a un’esigenza crescente di riflessione e dunque alla necessità di
decisioni, non da ultimo riguardo all’orientamento religioso. Le società
moderne sono caratterizzate, dunque, dal fatto che la religione diventa
oggetto di decisione individuale. Ciò si manifesta, con particolare
evidenza, nel momento in cui la forma sociale della religione non è primariamente un’istituzione riconosciuta come relativa alla società nel suo
insieme, e quindi immediata, bensì diventa necessaria l’appartenenza
all’organizzazione, appartenenza che si realizza a partire da decisioni individuali. L’assenza di uno statuto unitario della religione resta comunque una caratteristica delle società moderne: vi è piuttosto una giustapposizione di forme sociali della religione, improntate a differenti stadi
dell’evoluzione religiosa e dunque di quella sociale. Accanto all’immediata incorporazione culturale e sociale della religione in un mondodella-vita familiare, locale e addirittura regionale o nazionale, e accanto
alle istituzioni religiose basate su questa incorporazione, saldamente
radica te al livello della società nel suo insieme, stanno infine le forme
sociali religiose appartenenti al tipo dell’organizzazione. Si può concludere che il moderno non è affatto caratterizzato dall’unità di uno
statuto sociale della religione, bensì da forme fenomeniche del religioso
di estrema molteplicità. Singole società nazionali sono dominate da
sviluppi differenti, e questo vale esattamente per l’ambito della religione
e dei suoi contesti sociali di vita.
1.3. Forme sociali del cristianesimo
Diverse forme sociali del cristianesimo sono state per la prima volta
descritte analiticamente in modo accurato da Ernst Troeltsch, in parte in
sodalizio lavorativo con Max Weber7.
6 Si veda T. Luckmann, «Bemerkungen zur Gesellschaftsstruktur» cit., pp. 477 sgg.
7 E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen in Gesammelte Schriften,
Tübingen,
1912, vol. 1, pp. 360-77 [trad. it. di G. Sanna, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, Firenze, La
Nuova Italia, 1942-60, 2 voli.]; M. Weber, Wirtschaft und Soziologie, cap. 9, «Herrschaftsoziologie»,
Tübingen, 1923 [trad. it. a cura di P. Rossi, Economia e società, Milano, Comunità, 1961].
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
295
Troeltsch e Weber sono partiti da una distinzione fondamentale tra il
tipo della «chiesa» e il tipo della « setta», ove il segno distintivo della
chiesa era il suo carattere di «istituzione» (Anstalt), le sette potendosi
descrivere anche con il termine di «chiese della libera adesione» (Freiwilligkeitskirchen). Troeltsch ha esaminato la differenza di struttura tra
chiesa e setta su tre piani:
1) la forma sociale del cristianesimo è tanto più improntata alla chiesa istituzionale quanto più fortemente ed esclusivamente la salvezza e la
redenzione sono trasmesse dall’azione sacramentale o di annuncio
svolta dalla Chiesa, e quanto meno la salvezza e la redenzione
dipendono dal convincimento soggettivo del singolo membro della
Chiesa;
2) la forma sociale della fede cristiana è tanto più improntata alla
chiesa istituzionale quanto più la trasmissione della salvezza attraverso i
sacramenti è legata a un particolare ufficio, sia esso quello dei sacerdoti
o quello dei predicatori, e quanto minore diviene al tempo stesso il
valore costitutivo dell’insieme di tutti i membri della Chiesa per il suo
stesso essere chiesa;
3) la forma sociale della fede cristiana è tanto più improntata alla
chiesa istituzionale quanto minore diventa e quanto meno è vissuta la
differenza tra Chiesa e società, quanto più Chiesa e Stato, pur restando
distinguibili, si avvicinano.
Troeltsch ha elaborato dei concetti fondamentali, anche se naturalmente era debitore alla sua esperienza diretta nella situazione tedesca
dell’epoca. Apparvero necessari, perciò, degli ampliamenti della tipologia. Si ricordi soltanto il tentativo di Yinger di sviluppare l’antinomia in
un continuo tipologico, basandosi a tal fine su tre variabili: la misura in
cui il gruppo religioso in questione raccoglie i membri di una società; la
misura di assenso e di rifiuto dei valori secolari e delle strutture della
società; la misura della differenziazione strutturale interna dei gruppi
religiosi (formazione di una burocrazia, di quadri professionali ecc.)8.
Se prendiamo per base lo schema a tre livelli di Luhmann (sistemi
sociali semplici, organizzazioni, società), evitando al tempo stesso il
concetto di setta, spesso teologicamente standardizzato, possiamo
ampliare la tipologia di Troeltsch nel modo seguente: il tipo della chiesa
istituzionale viene suddiviso nei tipi della chiesa come istituzione e della
chiesa come organizzazione, e il tipo della setta viene inteso come
chiesa di gruppi.
8 M. Yinger, The Scientific Study of Religion, London, Macrnillan, 1970, pp. 251-81; si veda
inoltre a questo proposito B. R. Wilson, Religiöse Sekten, München, 1970, pp. 25-27.
296
Karl-Fritz Daiber
Si parlerà allora di chiesa come istituzione se la forma sociale della
fede cristiana rappresenta così compiutamente la religione ritenuta valida
nella società, che si può rinunciare di gran lunga alla formazione di propri
gruppi religiosi e occorre soltanto creare istituzioni per la cura religiosa
dei membri della società.
Si parlerà poi di chiesa come organizzazione se il cristianesimo dispone di forme sociali peculiari, di formazioni comunitarie proprie, che si
distinguono chiaramente da altri raggruppamenti e perseguono uno
scopo religioso-cristiano autonomo. In parte ne è una conseguenza, in
parte ne è un presupposto, che in una società sia presente la coscienza
che l’appartenenza a una chiesa non è socialmente immediata, bensì è
materia di decisione, cosicché si può entrare e uscire dalla chiesa in questione.
Il tipo di istituzione comune in Occidente a partire dal IV secolo,
conservato poi nel XVI secolo sia nei territori evangelici sia in quelli
cattolici, ha iniziato a procedere in questa direzione al più tardi a partire
dal XVIII secolo. Così, ad esempio, le chiese come unità organizzative si
sono rese sempre più indipendenti, fino a livello locale, dove le comunità
ecclesiali hanno costituito proprie organizzazioni religiose con relativi
organi direttivi. Che la Chiesa sia un’«organizzazione» nella quale si può
entrare e dalla quale si può uscire, nella tradizione europea si è preso
coscienza soltanto in determinate situazioni di conflitto. Questo vale
soprattutto per la situazione tedesca. Le nuove forme sociali dell’elemento cristiano si sono affermate prima nell’America del Nord, nel
quadro della colonizzazione europea, dove in seguito si sono consolidate
istituzionalmente durante il movimento indipendentista.
In generale, la chiesa come organizzazione e la chiesa come istituzione
sono accomunate dal fatto di raccogliere, nella loro rispettiva società, una
quota di popolazione relativamente ampia, cosicché già solo da questo si
evidenzia una spiccata conformità agli orientamenti sociali dominanti.
Infine, la chiesa di gruppi è quella forma sociale del cristianesimo
che, all’interno della rispettiva società, rinuncia tendenzialmente a esercitare un’influenza sulla società nel suo insieme, o la esercita in antagonismo ai valori dominanti. I piccoli gruppi che compongono le comunità religiose locali possono essere collegati tra di loro in una struttura a
rete (Netzwerk), senza però che ciò sia necessario. Chiese di gruppi di
questo genere sono relativamente instabili, se non si avvicinano al tipo
dell’organizzazione. Sovente le chiese di gruppi ― anche ai nostri tempi
― sono sorte come movimenti di protesta contro la chiesa come istituzione o come organizzazione: il costituirsi delle sette cristiane ne è un
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
297
esempio. Al tempo stesso bisogna ricordare i gruppi minoritari che sono
rimasti all’interno delle chiese come istituzioni o dei gruppi appartenenti
all’organizzazione. Le comunità pietistiche all’interno delle maggiori chiese tedesche sono tipicamente modellate sul tipo della chiesa di gruppi.
In contrapposizione a Max Weber, Ernst Troeltsch ha parlato anche
di un tipo di socialità del misticismo, intendendo con ciò il dato di fatto
sociologico che gli orientamenti religiosi non portano incondizionatamente a forme di socializzazione, bensì sono in relazione ai singoli
e danno luogo a strutture di comunicazione del tutto casuali, senza
trasformarle in strutture stabili. Al più tardi a partire dal XVIII secolo si
profila una corrispondente tendenza alla perdita di socialità della fede
cristiana. Così, in Germania, i ceti istruiti, orientati all’autonomia, erano
inclini a concepire la religione come immune dall’organizzazione,
immune addirittura dalla socialità. La fede era vista come una mera questione privata, l’orientamento religioso andava sostanzialmente vissuto
senza che ne risultasse un vincolo sociale, ossia senza una chiesa. Ciò
sembra indicare che lo svanire della socialità della religione si presenti
come un tipico fenomeno moderno, e proprio laddove esigenze di autonomia chiaramente formulate enfatizzano la soggettività religiosa. Solo
nelle società arcaiche la religione è altrettanto povera di forme sociali
peculiari. In esse la religione è incorporata nel sistema sociale complessivo, né si costituiscono istituzioni specificamente religiose. La religione è
una parte immediata di un mondo-della-vita immediato, che tutto
abbraccia. Questa ridottissima socialità rappresenta un punto di osservazione marginale, vista dal quale la religione, specialmente quella cristiana, nel suo costituire particolari forme sociali ― siano esse nella figura
di istituzioni, organizzazioni o gruppi religiosi ― risulta palesemente
legata alle corrispondenti fasi dell’evoluzione sociale.
1.4. Religiosità praticata individualmente
Nelle società moderne diventa possibile concepire personalità, cultura
e società nelle loro differenze e relazioni reciproche. Diventa allora
necessario prestare attenzione alla differenza tra religiosità individuale e
religione istituzionalizzata od organizzata. Naturalmente, rispetto a ogni
esigenza di distinzione rimane valido che la religiosità, proprio quando è
concepita individualmente, «misticamente» nel senso di Ernst Troeltsch, è
legata da una parte alle prescrizioni del mondo-della-vita culturale e alle
sue forme di socialità, dall’altra a orizzonti sociali che assicurano
plausibilità alla religiosità individuale di ciascuno e in tal modo la
sostengono. Proprio le più recenti ricerche sulla devozione hanno po-
298
Karl-Fritz Daiber
sto in rilievo il fatto che essa, come fenomeno individuale, è al tempo
stesso un fenomeno sociale. Se nelle società più antiche non è possibile
scegliere il proprio sistema di riferimento religioso, che è bensì presupposto
nel mondo-della-vita, nelle società moderne alla preferenza per una forma
determinata di religiosità è legata al tempo stesso la scelta di un sistema
corrispondente di riferimento religioso.
In una cultura d’impronta cristiana, allora, la religione vissuta, considerata dal punto di vista del contenuto, può esprimersi in una grande
varietà di modi: ad esempio, nella forma di una costituzione individuale di
senso, del tutto in armonia con i valori umani fondamentali della cultura;
oppure nella forma di una «devozione universale», nel senso di un
cristianesimo latente d’orientamento etico, cioè di una vita improntata
individualmente a costumi il cui contenuto cristiano è vago e che sono
espressione di una cristianità liberai-borghese; o ancora sotto forma di una
vita improntata a un cristianesimo individuale, con la mediazione di un
insieme ecclesiasticamente normato di costumi, e alle corrispondenti
usanze; oppure, infine, nella forma di una devozione orientata al gruppo,
secondo norme religiose particolari: le forme di devozione delle comunità
pietistiche, le forme di devozione dei gruppi giovanili, la devozione
comunitaria, la devozione degli ordini religiosi, la devozione dei pastori
quali rappresentanti professionali della religione. La religiosità odierna,
come quella di un tempo, può esprimersi come religiosità particolare in
ambito regionale (la devozione popolare di singole regioni, in palese
deviazione rispetto alla chiesa maggiore). Analogamente, nel contesto del
moderno le forme individualistiche di religiosità possono staccarsi dal
contesto cristiano, com’è il caso dell’orientamento verso una religione
culturale. Simili forme di religiosità si incontrano in gruppi ecologisti,
pacifisti, femministi, in cui per fondare l’identità si ricorre a simboli religiosi
di diversa origine, che al tempo stesso servono a una prassi sincretistica.
Infine, ci sono orientamenti di vita che non prendono più in
considerazione per se stessi l’attributo «religioso», ma che nella loro forma
di vita rimangono ugualmente segnati dalle tradizioni religiose.
Le singole forme di religiosità si possono ricondurre senza difficoltà a
forme di comunitarizzazione della religione, in particolare della religione
cristiana. Ci sono forme di devozione che si accordano molto bene con i
presupposti di una comunità cristiana, appartenga essa al tipo
dell’organizzazione, dell’istituzione o dei gruppi e delle comunità. Ve ne
sono altre che sono radicate culturalmente nel mondo-della-vita e altre,
infine, che trovano la propria collocazione piuttosto in strutture a rete di
genere subculturale.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
299
La modernizzazione sociale significa differenziazione e aumento della
complessità. Per quanto concerne le forme sociali possibili della religione,
ciò provoca immediatamente un processo di pluralizzazione, ove pluralizzazione significa non solo il formarsi di sistemi religiosi strutturalmente
analoghi, ma anche la contemporanea presenza di sistemi sociali religiosi
che sorgono da fasi evolutive diverse del processo sociale, quasi un
affiancarsi di chiese-istituzione, chiese-organizzazione, chiese di gruppi e
addirittura di strutture a rete. Questo processo di pluralizzazione si
ripresenta sul piano del soggetto, dove si giunge a forme assai differenti di
religiosità, per cui il grado di pluralizzazione, se si tiene conto anche della
prospettiva diacronico-biografica, presumibilmente è ancora più elevato.
Bisogna supporre che i soggetti non possano produrre un’identità unitaria,
biograficamente continuativa, ma pervengano a identità mutevoli che si
ripercutono anche in diverse forme della religione vissuta.
1.5. Religione e modernità in Germania
Considerando i rapporti tra religione e modernità sia nell’ottica di una
teoria della struttura sia nell’ottica di una teoria della soggettività, non è
ancora possibile chiarire adeguatamente le condizioni specifiche proprie di
una concreta società nazionale presa nel suo insieme. Solo quando
all’interno del quadro teorico di riferimento sono presentati e interpretati
dei fatti storici, si riesce a evidenziare l’elemento particolare. Per quanto
riguarda il mutuo rapporto di religione e modernità in Germania, può e
deve essere introdotta una serie di circostanze specifiche in prospettiva
storica, senza con ciò pretendere di spiegare l’intero processo di
modernizzazione tedesco nella sua relazione con la religione:
1) l’evoluzione tedesca è segnata dalla Riforma del XVI secolo, soprattutto nelle sue varianti genetiche luterane. Nella ricerca storica odierna si ritiene in genere fuor di dubbio che la Riforma, nel suo complesso,
sia stata a sua volta plasmata dal contesto vitale del medioevo. Nonostante ciò, mediante essa e in particolare grazie a Lutero, si sviluppa un
evidente potenziale di modernizzazione nella forma del suo individualismo religioso e del suo orientamento alla riflessione (riferimento alla
parola di Dio, evidente interesse per la preparazione culturale, fondazione di università), attraverso l’esaltazione religiosa del lavoro e
della vocazione professionale, attraverso un’idea del mondo dinamica,
volta al cambiamento (il mondo nel suo stato presente non è che transitorio), attraverso la profanazione del mondo e, infine, attraverso la possibilità, solo minimamente garantita in modo istituzional-sacrale, di af-
300
Karl-Fritz Daiber
frontare collettivamente le crisi, possibilità che ha portato con sé, nel
quadro dell’evoluzione della modernità e delle tendenze distruttive che
la abitano, una più alta predisposizione ad esse9;
2) dal XVI secolo, la Germania è biconfessionale, segnata dal contrasto tra territori evangelici e cattolici. Rispetto alle regioni europee
caratterizzate da una confessione unitaria, questo ha portato a dover
delineare più nettamente il rispettivo profilo confessionale;
3) lo sviluppo tedesco è segnato dall’esperienza della distruttività
dell’opposizione confessionale, particolarmente durante gli scontri
della guerra dei Trent’anni (1618-48);
4) dall’impostazione piuttosto riformistica che rivoluzionaria dell’illuminismo tedesco;
5) dal dissolversi dei territori caratterizzati da una relativa unità
confessionale a favore di singoli stati tedeschi confessionalmente misti, in relazione alla secolarizzazione dei territori di dominio ecclesiastico;
6) dalla trasformazione della chiesa cattolica in cattolicesimo inteso
come sottosistema sociale definito e, al tempo stesso, politicamente
sempre più influente (cattolicesimo delle associazioni, cattolicesimo
politico)10;
7) dall’identificazione, dopo il 1871, del protestantesimo tedesco
con lo stato nazionale tedesco;
8) dal riorientamento, sia religioso sia politico, nella situazione di
crisi successiva alla prima guerra mondiale (anche in questo caso è
particolarmente coinvolto il protestantesimo);
9) dalle esperienze degli anni del nazionalsocialismo: all’epoca, a
parte la relativa distanza dall’idea nazionalsocialista, nei circoli
ecclesiali non si coagula una resistenza politica particolare contro
Hitler, via intrapresa soltanto dai singoli;
10) dalla ripercussione subita dagli orientamenti cristiani di valore
dopo la disfatta del 1945, con considerevoli effetti sulla posizione sociale delle chiese;
11) dalla riunificazione, nel 1990, dei due stati tedeschi sorti dopo
la seconda guerra mondiale, sotto l’aspetto della differente evoluzione
religiosa nei due territori tedeschi.
9 Così argomenta T. Nipperdey, «Luther und die moderne Welt» in Id. Nachdenken über die
deutsche Geschichte, München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1986, in particolare pp. 36 sgg.
10 Si vedano T. Nipperdey, Religion im Umbruch, Deutschland 1870-1918, München, Beck
CH, 1988, pp. 9 sgg.; K. Gabriel Kaufmann e F.-X. Kaufmann (a cura di), Zur Soziologie des
Katholizismus, Mainz, 1980.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
301
Come e in quale misura questi momenti chiave della storia abbiano
segnato il rapporto tra religione e modernità in Germania e abbiano
dato luogo a fenomeni corrispondenti, interpretabili quindi sul piano
teorico, va evidenziato scegliendo dei punti specifici11.
2. Situazione della ricerca empirica sulla religione
La situazione della ricerca empirica sulla religione in Germania durante l’ultimo decennio è stata esaminata con la massima completezza
possibile in due rassegne di Ingrid Lukatis12. Inoltre, Io sfondo teorico
della sociologia religiosa ed ecclesiastica tedesca dopo il 1945 è stato
analizzato complessivamente da Andreas Feige13. Negli ultimi due decenni, in Germania lo studio empirico della religione ha raggiunto un
livello standard, dal punto di vista sia metodologico sia teorico,
equivalente a quello riscontrabile in altre discipline sociologiche
settoriali. Vi sono comunque lavori condotti su basi statistiche con
procedimenti semplici, ma nonostante ciò il loro valore è sovente assai
alto.
L’argomento centrale delle ricerche è costituito indubbiamente dai
fenomeni della religione organizzata e sono soprattutto affrontati problemi particolari nel campo della prassi ecclesiastica. Un altro argomento
chiave è lo studio dell’ecclesialità in generale, e qui sicuramente l’evoluzione teorica della sociologia della religione torna a vantaggio della
ricerca empirica. L’identificazione di chiesa e religione, che si può osservare dopo la seconda guerra mondiale e che ha portato a trascurare i
fenomeni religiosi non ecclesiastici, è superata almeno tendenzialmente:
così anche nelle analisi di sociologia ecclesiastica ci si preoccupa di dare
un’interpretazione nell’ambito di una più estesa sociologia della religione.
Analisi empiricamente precisa di fenomeni relativi a religioni non
cristiane sono disponibili solo in numero assai limitato, e questo vale
ancor di più per lo studio delle chiese cristiane indipendenti e delle sette
cristiane. Domina l’interesse per le due chiese maggiori, l’evange11 Si veda l’analisi del cammino tedesco verso la modernizzazione in R. Münch, Die Kul.tur der
Moderne, Frankfurt a.M., 1986, 2 voll., in particolare il secondo volume; si veda inoltre J. Eiben, Von
Luther zu Kant. Der deutsche Sonderweg in die Moderne, Wiesbaden, Deutscher Universitäts-Verlag, 1989.
12 I. Lukatis, «Empirische Forschung zum Thema Religion in Westdeutschland, Österreich und
der deutschsprachigen Schweiz» in K.-F. Daiber e T. Luckmann (a cura di), Religion in den
Gegenwartsströmungen der deutschen Soziologie, München, 1983 pp. 199-220; Id., «Empírische ReLigionsund Kirchensoziologie in Deutschland in den achtziger Jahren» in Zeitschrift für Evangelische Ethik, 34,
1990, pp. 303-17.
13 A. Feige, Kirchenmitgliedschaft in der Bundesrepublik Deutschland, Gütersloh, 1990.
302
Karl-Fritz Daiber
lica e la cattolica. Questo si spiega non da ultimo con il fatto che la ricerca
empirica sulla religione è svolta anche da teologi e in parte è finanziata dalle
chiese.
3. Il contesto sociale: popolazione, economia, Stato
La Repubblica federale tedesca comprendeva fino al 1990 undici regioni
federate, o Under, compresa Berlino Ovest, che godeva in parte di uno
statuto speciale. Oltre a Berlino Ovest vi erano i seguenti Länder: Schleswig-Holstein, Amburgo, Bassa Sassonia, Brema, Renania SettentrionaleVestfalia, Assia, Renania-Palatinato, Baden-Württemberg, Baviera e Saar.
3.1. Popolazione
Nel 1987, all’epoca dell’ultimo censimento, secondo le indicazioni delle
statistiche ufficiali vivevano nella Repubblica federale più di 61 milioni di
persone: 29,3 milioni di uomini e 31,8 milioni di donne. La quota dei
bambini sotto i sei anni era del 5,9 per cento, quella degli anziani da 65 anni
in su era prossima al 15,3 per cento. Nel corso degli anni la percentuale
degli anziani è cresciuta rapidamente, mentre la percentuale dei bambini è
diminuita. Dal 1971, per quanto riguarda la popolazione tedesca (esclusi
cioè gli stranieri che vivono nella Repubblica federale), il numero delle
morti supera quello delle nascite.
Alla fine del 1988, nella Repubblica federale vivevano più di 4,4 milioni
di stranieri. Il loro numero era cresciuto continuamente fino al 1982: allora
ammontava all’incirca a 4,7 milioni. In seguito a una politica verso gli
stranieri che incentivava il loro ritorno ai paesi d’origine, si giunse a
un’inversione di tendenza, cui a partire dal 1987 seguì un nuovo aumento.
Tra gli stranieri registrati nel 1988, 56 per cento erano uomini e 44 per
cento donne; di questi, il 16 per cento viveva da venti o più anni nella
Repubblica federale e più di un quarto viveva in Germania da più di
quindici anni.
Nella Germania Occidentale la densità di popolazione è relativamente
alta: mediamente, per ogni chilometro quadrato vivono 246 persone. Tuttavia ci sono zone spiccatamente sottopopolate, come ad esempio la costa
del Mare del Nord (80 abitanti per chilometro quadrato), o anche certe
parti del Baden-Württemberg e della Baviera. Per contro si trovano
zone densamente popolate, soprattutto nella Renania SettentrionaleVestfalia (il territorio della Ruhr) e in complesso nelle grandi regioni
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
303
urbane. Si calcola una quota del 36 per cento di popolazione urbana14, ma
nelle città con più di 100.000 abitanti vivrà approssimativamente non più
di un terzo della popolazione tedesca. Il processo tedesco di
urbanizzazione si caratterizza per non essere limitato esclusivamente ai
grandi agglomerati urbani, ma per essere anche decentrato. Le città di
medie dimensioni, fino a 100.000 abitanti, e le piccole città, fino a 20.000
abitanti, definiscono il quadro, ma tuttavia anche negli spazi vitali delle
piccole città si raggiunge la densità di popolazione caratteristica dei
distretti urbani. Per la Germania Occidentale, la densità più alta si registra
a Monaco (3.830 abitanti per chilometro quadrato) o, meglio, Berlino
Ovest, con più di 4.000 abitanti per chilometro quadrato. In ogni caso
anche solo da queste indicazioni risulta chiaro il grado di urbanizzazione
della società tedesca15.
In conformità al grado di urbanizzazione, vi è anche una spiccata mobilità. Tuttavia essa si esaurisce essenzialmente in un ristretto ambito
locale e regionale. Persino la mobilità tra i diversi Länder è limitata: ad
esempio, nel 1987 ogni 1.000 abitanti si sono verificati undici trasferimenti (cioè traslochi) da un Land a un altro, rispetto a trenta trasferimenti
all’interno dello stesso Land. La mobilità europea è ancora minore.
Sempre nel 1987, ogni 1.000 abitanti vi sono stati cinque trasferimenti in
altri paesi europei e otto arrivi da altri paesi europei in Germania. I
trasferimenti verso il mondo extraeuropeo si aggirano intorno ai due ogni
1.000 abitanti. La mobilità è dunque essenzialmente interna alla comunità
locale, più limitata all’interno di ogni singola regione (Land), molto
minore tra i diversi Länder e verso gli altri paesi europei16.
I mutamenti delle abitudini di vita divengono visibili, tra l’altro, nel
fatto che il numero dei nuclei familiari composti da una sola persona,
ossia di coloro che vivono da soli, è chiaramente cresciuto. Nel 1970 il
totale era un quarto dei nuclei familiari, nel 1987 più di un terzo. Che si
tratti di un fenomeno tipicamente urbano si può riscontrare dalla loro
percentuale nelle città con più di 100.000 abitanti, arrivata nel 1987 al 44
per cento17.
Infine bisogna accennare all’indicatore di modernità rappresentato
dal livello d’istruzione. Nel 1987 la popolazione tedesca tra i 15 e i 65
anni si divideva, a seconda del livello di scolarità, nel modo seguente: il
63 per cento aveva terminato le scuole dell’obbligo, il 21,4 per cento
,
14Fischer-Weltalmanach‘91, Frankfurt a.M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1990, p. 151.
15 Si veda Statistisches Bundesamt, Statistisches Jahrbucb, 1989, pp. 45 sgg.
16 Ibid., p. 70.
17Ibid., p. 59.
304
Karl-Fritz Daiber
aveva un diploma di scuola tecnica, il 15,4 per cento aveva un diploma
intermedio parauniversitario o universitario. Tra questi ultimi più della metà
ha completato il corso di studi con il diploma finale (per una quota del 9,7
per cento della popolazione tra i 15 e i 65 anni). Il numero di coloro che
raggiungono i livelli superiori di istruzione è cresciuto negli ultimi decenni.
3.2. Economia
Tra gli «occupati» si annoverano i lavoratori dipendenti, i lavoratori
autonomi, i liberi professionisti e tutti i tipi di collaboratori18. Nel 1987 la
loro quota, rispetto alla popolazione residente, era di 40,4 per cento. La
quota di disoccupazione, ossia la percentuale di disoccupati rispetto ai
lavoratori, o meglio ai lavoratori dipendenti, non contando i soldati,
secondo le statistiche degli uffici di collocamento raggiungeva nel 1985 il
9,3 per cento, nel 1987 l’8,9 per cento ed era perciò incomparabilmente
maggiore rispetto al 1961 e al 1970, ma un poco al di sotto del valore del
1980.
La quota di disoccupazione è molto diversa a seconda dei vari Länder.
Nel 1988 la disoccupazione minima si aveva nel Baden-Württemberg, con
una quota del 5,1 per cento, mentre la quota massima era quella dal Land
Brema con il 15 per cento (crisi della cantieristica). La Saar, con il 12,5 per
cento di disoccupati (crisi dell’industria pesante), si attestava su valori molto
alti, e cosa pure la Vestfalia, anch’essa ricca di industrie pesanti (quota di
disoccupazione: 11,3 per cento).
La distribuzione degli occupati nei diversi settori dell’economia è presentata nella tabella 1.
Il settore primario comprende agricoltura e foreste, pesca e allevamento, il settore secondario le attività produttive (industria, artigianato,
edilizia, miniere) e il terziario l’erogazione di servizi (commercio, affari,
altri servizi). Confrontando i diversi anni si vede come il mutare dei
tempi influenzi la vita economica: sempre, quando si riduce il settore
primario, il terziario registra una crescita evidente; negli ultimi quindici
anni anche il settore secondario ha subito una visibile contrazione.
Un’analisi delle dinamiche occupazionali tra il 1977 e il 1984 mostra
che i settori industriali in crescita, ossia i settori in cui l’occupazione
aumenta, sono solamente, accanto al settore dei servizi, l’industria
automobilistica, l’automazione d’ufficio e l’informatica, l’industria delle
materie plastiche, i settori aeronautico e aerospaziale, l’energia. Tutte
18 Hübner-Rohlfs, Jahrbuch der Bundesrepublik Deutschland, München, 1986, p. 13.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
305
Tabella 1. Occupati nei diversi settori dell’economia (valori in percentuale).
Settore:
primario
secondario
terziario
1950
24,1
42,0
33,9
1961
13,6
47,7
38,7
1970
8,5
48,8
42,7
1984
5,4
41,6
53,0
1987
3,2
41,8
55,0
Fonti: Hübner-Rohlfs, Jahrbuch der Bundesrepublik Deutschland, München, 1986, p. 15; Statistisches
Bundesamt, Statistisches Jahrbuch, 1985, p. 100; Id., 1989, p. 94.
le altre industrie sono segnate da una riduzione dei posti di lavoro. Tra il
1977 e il 1984 sono andati perduti nella Repubblica federale 379.000 posti
di lavoro.
Il prodotto nazionale lordo ammontava nel 1985 a 1.844,3 miliardi di
marchi (1.769,9 miliardi di marchi l’anno precedente). Nel 1988 è giunto a
2.121,5 miliardi di marchi. La tendenza a una leggera crescita19 è proseguita
anche negli anni successivi.
L’economia della Repubblica federale è in gran parte orientata all’esportazione e pertanto risente anche delle dinamiche internazionali.
I contrasti di interesse tra datori di lavoro e dipendenti - prescindendo
dalle eccezioni - sono affrontati con relativa cautela: risulta determinante
l’idea di una «partnership sociale», la cui formulazione era stata resa necessaria in particolar modo dalla situazione presente dopo la seconda guerra mondiale. La maggior parte dei sindacati tedeschi è riunita nel Deutscher
Gewerkschaftsbund (Dgb, Confederazione sindacale tedesca), cui
appartengono diciassette sindacati di categoria, con circa 7,8 milioni di
iscritti nel 1988. Il maggior sindacato di categoria è l’Industriegewerkschaft
Metall (Ig-Metall, Sindacato metalmeccanico), che nel 1988 contava 2,6
milioni di iscritti. Accanto al Deutscher Gewerkschaftsbund con i suoi
sindacati di categoria, vi sono organizzazioni minori, quali il Deutscher
Beamtenbund (Confederazione tedesca del pubblico impiego, poco meno
di 800.000 iscritti nel 1985), la Deutsche Angestelltengewerkschaft
(Sindacato tedesco degli impiegati, poco meno di 500.000 iscritti nel 1988)
e il Christlicher Gewerkschaftsbund Deutschlands (Confederazione
sindacale cristiana tedesca, quasi 307.000 iscritti alla fine del 1988). Il grado
di sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti nella Repubblica federale si
aggirava nel 1980 intorno al 40 per cento; l’83 per cento degli iscritti
appartiene al Deutscher Gewerkschaftsbund20.
19
20
sgg.
Statistisches Bundesamt, Statistisches Jahrbuch cit., p. 542.
D S. Mielke (a cura di), Internationales Gewerkschaftshandbuch, Leverkusen, 1982, pp. 351
306
Karl-Fritz Daiber
3.3. Stato
L’ordinamento politico della Repubblica federale tedesca è dettato dalla
sua costituzione, detta «Legge fondamentale» (Grundgesetz), promulgata il 23
maggio 1949. Si rifà da una parte alla costituzione della repubblica di
Weimar, entrata in vigore nel 1919, ma trae insegnamento dalle esperienze
storiche che hanno portato alla presa nazista del potere (la repubblica
presidenziale è temperata, non è ammesso il plebiscito). Le potenze
occupanti hanno influito sulla stesura della Legge fondamentale e il
principio dello stato federale è stato forse enfatizzato in funzione della
diminuzione della potenza nazionale. Comunque, tale principio
corrispondeva pienamente alla forte suddivisione regionale che aveva
caratterizzato il sistema statale tedesco fino al XIX secolo.
La Legge fondamentale si basa sui «diritti fondamentali», che designano
obiettivi oppure limiti dell’azione statale e si richiamano alle formulazioni
dei diritti dell’uomo proprie delle democrazie occidentali.
Per ciò che riguarda la costituzione dello Stato in senso stretto, la
Repubblica federale è uno «stato federale democratico e sociale» (art. 20.1).
È così enunciato innanzi tutto il principio federale, poi immediatamente il
principio democratico (ogni potere dello Stato emana dal popolo, art. 20.2),
e infine la Repubblica federale è definita come uno stato sociale, in cui
esiste cioè una corresponsabilità dello Stato nel rendere possibile a ognuno
una vita umanamente degna.
Gli organi dell’azione statale sono il Bundestag, il parlamento federale,
elettivo; il presidente federale, in qualità di capo dello Stato, che rappresenta
la Repubblica federale dal punto di vista del diritto internazionale,
svolgendo questo compito nel quadro delle decisioni prese dal parlamento
e dal governo; e, ancora, il governo federale, composto dal cancelliere e dai
ministri federali. Una particolarità della Legge fondamentale consiste
nell’istituzione di una corte costituzionale federale, alla quale è demandato il
controllo della costituzionalità della legislazione in caso di conflittualità.
I Länder hanno costituzioni e governi propri. Ad essi è attribuita
l’autorità di polizia e l’amministrazione della cultura e dell’istruzione. Per il
resto, sono responsabili dell’applicazione delle leggi federali. Cooperano
all’attività legislativa attraverso il Bundesrat (Consiglio federale), che
costituisce a livello federale la seconda camera, formata da rappresentanti
dei Länder.
L’organizzazione della formazione della volontà politica è affidata
dall’ordinamento costituzionale soprattutto ai partiti (art. 21). Essi devono essere organizzati democraticamente e considerarsi tenuti a rispet-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
307
tare le finalità dell’«ordinamento liberale democratico». Oltre ai partiti
rappresentati al parlamento federale, ossia il Partito socialdemocratico
tedesco (Spd), l’Unione democratica cristiana (Cdu), l’Unione sociale cristiana (Csu), il Partito liberaldemocratico (Fdp) e i Verdi, all’inizio del 1988
erano registrati altri cinquantaquattro partiti e organizzazioni di tipo
partitico21. I partiti minori hanno scarsa importanza, dato che la disciplina
elettorale prevede che nel parlamento federale e nei parlamenti dei Under
siano ammessi solo i partiti che abbiano superato la soglia del 5 per cento
dei voti.
Il Partito socialdemocratico tedesco si può ricollegare alla tradizione
socialista del XIX secolo. Anche dopo il 1945 era in primo luogo di orientamento marxista; si è però staccato da questo impianto ideologico con il
programma di Bad Godesberg, del 1949, ed è oggi un partito popolare di
orientamento social-liberale, soggetto peraltro a sempre nuovi contrasti tra
le sue ali: i raggruppamenti che aderiscono più decisamente alla tradizione
socialista scendono in campo contro quelli che promuovono piuttosto un
indirizzo liberal-borghese.
L’Unione democratica cristiana è una formazione costituitasi solo dopo
il 1945. Sostiene quale principio fondamentale un diritto naturale cristianamente concepito e prosegue così la tradizione del cattolico partito del
centro, attivo nel XIX secolo e agli inizi del XX. Oggi è un partito popolare
conservatore, favorevole in politica economica al modello liberale del
mercato, temperato, però, da una prospettiva di stato sociale.
L’Unione sociale cristiana è un partito fratello della Cdu, fortemente
conservatore. Si limita alla Baviera, dove la Cdu non presenta propri
candidati. Al parlamento federale la Cdu e la Csu costituiscono un solo
gruppo parlamentare.
Anche il Partito liberaldemocratico è stato fondato dopo il 1945. Vi si
sono raccolti i diversi partiti borghesi liberali della tradizione antecedente.
Al suo interno vi sono sempre contrasti tra la tendenza liberista e la
tendenza social-liberale, che vanno mantenute in equilibrio. A seconda del
peso relativo delle due ali contrapposte, sono possibili alleanze con la Cdu
o con la Spd.
I Verdi esistono come partito a livello federale dal 1980 e sono entrati
nel parlamento federale nel 1983, con il 5,6 per cento dei voti. Nel 1990
in Germania Occidentale non hanno superato la soglia del 5 per cento.
Nell’arco dei partiti si collocano tra la sinistra social-progressista. Sono
sorti da movimenti di protesta dei tardi anni sessanta e degli anni
21 Der Fischer Almanach’89, Frankfurt a.M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1988, pp. 179 sgg.
308
Karl-Fritz Daiber
settanta, mobilitatisi essenzialmente su temi ecologici. I Verdi esercitano
una particolare attrattiva sui giovani elettori dei ceti più istruiti. L’evoluzione dei Verdi da movimento politico spontaneo a partito con programma di governo anche nel 1990 non era ancora conclusa e i contrasti
tra l’ala realista e l’ala fondamentalista hanno sempre un peso rilevante.
Alla fine del 1987 la Spd contava 910.063 membri, la Cdu 718.590, la
Csu 184.565, la Fdp 64.756 e i Verdi circa 43.50022. Per la Cdu e la Csu
sono disponibili dati sull’appartenenza confessionale: sono cattolici il 58,6
per cento degli iscritti alla Cdu, l’80,8 per cento degli iscritti alla Csu.
Tra i partiti esiste un consenso politico di fondo chiaramente identificabile: l’obbligo di sostenere i diritti di libertà, la tutela dello stato sociale, i
legami con la comunità delle nazioni occidentali e atlantiche, la disponibilità
a offrire sostegno ai paesi dell’Est europeo. Ovviamente ogni partito
attribuisce ai diversi settori un’importanza differente.
I Verdi hanno anche una variante extraparlamentare: il movimento ecologista, organizzato in piccoli gruppi meno visibili, che si manifesta in occasione di dimostrazioni, soprattutto nel quadro della protesta contro le
centrali nucleari. Nella Repubblica federale, il movimento politico extraparlamentare più importante degli ultimi anni è stato il movimento per la
pace, anche questo formato da piccoli gruppi molto diversi e spesso
collegato strettamente con i gruppi ecologisti.
Le mutevoli coalizioni e maggioranze di governo rispecchiano molto
chiaramente le fasi della storia politica della Repubblica federale. La fase
della ricostruzione economica e politica è stata per lo più caratterizzata da
un orientamento conservatore ed è durata sino ai primi anni sessanta. Il
declino del consenso postbellico si è evidenziato durante gli anni sessanta,
quando ci si è volti verso nuovi orientamenti. La Grande coalizione tra Cdu
e Spd (1966-69) ha rafforzato le forze riformiste, anche in ambito
extraparlamentare. Dal 1969 al 1982 la coalizione socialliberale, tra i
socialdemocratici e i liberaldemocratici, ha guidato il corso degli eventi in
parlamento e al governo. E stato un periodo caratterizzato dalla diffusa
volontà di estendere la democrazia sociale e la liberalizzazione.
Crescenti difficoltà economiche e, insieme, il bisogno riscontrabile al
livello sociale complessivo di modelli di valore più conservatori, hanno
offerto l’occasione nel 1.982 per il costituirsi dell’alleanza cristianoliberale. La nascita della coalizione è stata battezzata dalla Cdu la
«Svolta», ed è stata sostenuta anche dagli ampi strati più insicuri della
popolazione. Non è per ora identificabile un indebolimento di questa
22
Ibid., pp. 175 sgg.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
309
tendenza di fondo conservatrice, anzi gli eventi accaduti tra il 1989 e il 1990
l’hanno ulteriormente rafforzata.
Nella popolazione esistono affinità evidenti tra orientamento religioso e
politico. Persone che si sentono fortemente legate alle chiese, si sentono
tendenzialmente vicine ai partiti conservatori e soprattutto alla Cdu-Csu. Il
voto alla Spd corrisponde piuttosto all’orientamento religioso medio, senza
escludere né coloro che sono religiosamente impegnati, né chi è totalmente
disinteressato. I sostenitori del Partito liberaldemocratico e dei Verdi, siano
orientati in senso borghese o alternativo, denunciano un maggiore distacco
dalle chiese: più nettamente tra i Verdi, benché con essi collabori anche una
minoranza di cristiani impegnati23.
4. Orientamenti religiosi nel mondo-della-vita
La situazione religiosa nella Repubblica federale va presentata innanzi
tutto indipendentemente dalle sue relazioni con le chiese. Si presuppone
in merito che la compresenza delle due grandi confessioni cristiane, di
chiese indipendenti e gruppi cristiani, dell’ebraismo, dell’islamismo e di
seguaci delle altre religioni universali, nonché di raggruppamenti religiosi
minori, porti dal punto di vista della società a una presenza generalizzata
della religione, che certo si alimenta delle specifiche tradizioni religiose,
ma ne rende sperimentabile anche un elemento comune. L’espressione
del parlare quotidiano «Abbiamo tutti un unico Dio» mette in luce questo
consenso radicato nel mondo-della-vita, un consenso che cerca di
superare anche le forze esistenti che tendono alla divisione religiosa. Il
formarsi di un concetto filosofico e teologico di religione, una questione
di rilevanza anche politica, mostra in qual modo la necessità di un
consenso sociale tra le religioni sia stata elaborata sul piano semantico. In
Germania si possono situare al più tardi nel XVIII secolo gli sviluppi
corrispondenti: i pastori diventano «servitori della religione», le chiese
«comunità religiose». Chi non si considera esplicitamente cristiano, ha
bisogno di non negare una componente religiosa della propria identità.
Come si è detto, la religiosità in generale viene alimentata dal
contenuto specifico, non si può pensare alla religione in Germania
23 Il rapporto tra confessione religiosa e scelta elettorale è stato studiato da W. Pittkowski e R.
Volz, «Konfession und politische Orientierung. Das Beispiel der Konfessionslosen» in K.-F. Daiber (a
cura di), Religion und Konfession, Hannover, Lutherisches Verlagshaus, 1989, pp. 93-112.
310
Karl-Fritz Daiber
senza la presenza delle due chiese maggiori. Ma occorre cominciare innanzi tutto dalla presentazione di questa religiosità generale, radicata nel
mondo-della-vita e dunque nella società, da come essa per lo più si rispecchia negli atteggiamenti degli individui. In merito ci si riferirà a materiale empirico degli studi Allbus (Allgemeine Bevökerungsumfrage, pubblicata
a partire dal 1980 dall’Archivio centrale per la ricerca sociologica empirica
dell’Università di Colonia), dell’Istituto di demoscopia Allensbach e di
Gallup.
Quanto è importante in generale per i tedeschi la sfera religiosa ed
ecclesiale? A questa domanda cerca di rispondere la tabella 2.
Al paragone di ambiti come «Famiglia e figli» o «Professione e lavoro»,
«Religione e Chiesa» è valutata ben poco importante: è il fanalino di coda,
insieme con «Politica e vita pubblica». Ma un’altra considerazione sembra
più rilevante dell’ordine d’importanza: il settore «Religione e Chiesa» è
quello valutato dagli intervistati in modo particolarmente controverso:
sulla religione la si può benissimo pensare in un modo o nell’altro. Il
campo globale della religione non appartiene più a quelle datità immediate nelle quali si muove la vita. In proposito bisogna comunque tener
conto di come la formulazione che si trova nel questionario («Religione e
Chiesa») rafforzi la connotazione cristiana del concetto di religione. Nel
seguito si vedrà che la valutazione del significato della fede cristiana è
ancora più controversa di quanto non valga per la religione in generale.
Le tabelle 3 e 4 affrontano singoli aspetti della fede in Dio e del senso
della vita. La fede in Dio, almeno nella tradizione occidentale, rappresenta in sommo grado la religione, anche indipendentemente dalla sua specifica variante cristiana. Il concetto di Dio, proprio in quanto non è meglio
precisato, ammette interpretazioni diverse, consente la comunicazione
sociale al di là delle differenze di orientamento religioso. L’adesione maggiore è indirizzata all’affermazione «Credo nell’esistenza di un essere superiore», che naturalmente supera solo di poco l’altra affermazione: «C’è
qualcosa di simile a Dio». Come sempre, una tale formulazione del rapporto con la trascendenza incontra il più vasto consenso. Stupisce decisamente di più che il grado medio di adesione ai diversi enunciati sia vistosamente alto anche quando la concezione di Dio è formulata in rapporto
più stretto con la tradizione religiosa cristiana, anche per formulazioni come «C’è un Dio che vuole essere Dio per noi» e «C’è un Dio che si è fatto conoscere in Gesù Cristo». Nella formulazione della concezione di
Dio rimane dunque comunque dominante la tradizione cristiana. Se questo abbia conseguenze pratiche nella vita, è incerto.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
311
Tabella 2. Importanza attribuita a diversi ambiti di vita (valori in percentuale)*.
1
Famiglia e figli
Professione e lavoro
Tempo libero e riposo
Amici e conoscenti
Parenti
Religione e Chiesa
Politica e vita pubblica
2
4,4
5,5
1,3
1,2
4,6
14,7
7,9
2,6
4,1
2,6
2,7
8,0
11,3
10,9
3
4
2,5
5,9
5,0
6,7
15,1
15,2
16,0
5
4,7
9,9
11,2
14,9
18,2
18,7
21,2
8,2
17,2
22,3
25,0
21,8
14,2
20,8
b
7
11,5
19,3
21,6
22,4
16,3
11,2
12,4
66,1
38,1
35,8
27,1
15,9
14,5
10,8
* Campione = 2.987 frequenze. 1 = privo d’importanza, 7 = molto importante.
Fonte: Allbus, 1982.
Tabella 3. Fede in Dio secondo il livello d’istruzione*.
Totale
C’è un Dio che vuole essere Dio
per noi
C’è un Dio che si è fatto
conoscere in Gesù Cristo
Se c’è un Dio, comunque ne
sappiamo ben poco
In ultima istanza la nostra vita è
determinata dalle leggi della
natura
C’è qualcosa di simile a un Dio
La vita non è che una parte
dell’evoluzione della natura
Credo nell’esistenza di un essere
superiore
Alla domanda se ci sia qualcosa
oltre a questo mondo, non c’è
risposta
Nessun
diploma
Vs/Hs
Rs FhsfHs-R
Fhs/Hs-Ab
3,7
3,6
3,9
3,6
3,3
3,4
3,8
3,5
3,9
3,6
3,5
3,5
2,9
3,1
2,9
2,9
2,9
2,7
3,6
3,8
3,6
3,7
3,6
3,9
3,7
3,6
3,7
3,6
3,6
3,6
3,6
3,6
3,6
3,8
3,7
3,7
3,9
3,6
4,0
3,8
3,7
3,8
3,3
3,2
3,3
3,3
3,1
3,0
* I valori sono in media aritmetica (1 = Non sono assolutamente d’accordo, 5 - Sono pienamente
d’accordo). Campione= 2.950 frequenze. Popolazione globale divisa secondo il livello d’istruzione:
VstHs = Volksschule, Hauptschule (completata la scuola dell’obbligo); Rs = Realschule (scuola
tecnica); Fhs/HsR Fachhochschulreife, Hochschulreife (diploma intermedio di studi parauniversitari o
universitari); Fhs/11s-Ab = FachhochschulabschluB, HocbschulabschluB (diploma finale dei
medesimi studi).
Fonti: elaborazioni di Wolfgang Lukatis, della Pastoralsoziologische Arbeitsstelle, su dati Allbus, 1982.
312
Karl-Fritz Daiber
Tabella 4. Senso della vita secondo il livello d’istruzione*.
Nessun
diploma
V /1-is
4,5
4,6
4,5
4,5
4,3
4,4
2,5
2,6
2,6
2,4
2,6
2,4
4,2
4,2
4,3
4,2
3,8
3,9
1,5
1,7
1,6
1,4
1,3
1,4
3,0
2,6
3,2
2,8
2,4
2,5
3,3
3,3
3,4
3,2
2,8
2,8
2,1
2,1
2,2
2,0
1,6
2,0
2,5
1,7
2,5
2,1
2,5
1,8
2,4
1,6
2,4
1,4
2,3
1,5
4,0
3,8
4,1
4,0
3,6
3,6
Totale
La vita ha un senso soltanto se
le si dà un senso
L’esistenza umana appare
spesso priva di senso
La vita ha sempre un
senso, altrimenti non ci
sarebbe vita alcuna
La vita in sé non ha alcun
senso
La vita ha significato solo
perché esiste un Dio
La vita ha un senso perché
c’è qualcosa anche dopo
la morte
Dubito che la vita abbia un
senso determinato
E difficile dire se la vita
abbia un senso
La vita ha poco senso
L’esistenza umana ha
chiaramente senso e si
svolge secondo un piano
ben determinato
Rs
Fhs/Hs-R
Fhs/1-1s-Ab
* I valori sono in media aritmetica (1 = Non sono assolutamente d’accordo, 5 = Sono
pienamente d’accordo). Campione = 2.990 frequenze. Popolazione globale divisa secondo il livello
d’istruzione: Vs/lis = Voiksschule, Hauptschule (completata la scuola dell’obbligo); Rs = Realschule
(scuola tecnica); Flis/HsR Fachhochschulreife, Hochschulreife (diploma intermedio di studi
parauniversitari o universitari); Fhs/Hs-Ab = Fachhochschulabschlu8, Hochscbulabschltd3 (diploma
finale dei medesimi studi).
Fonti: elaborazioni di Wolfgang Lukatis, della Pastoralsoziologische Arbeitsstelle su dati Allbus, 1982.
Partendo dalla considerazione che la fede religiosa è una forma della
costituzione del senso dell’esistenza umana, si possono rivolgere domande sulla comprensione del senso della vita anche secondo formulazioni
generali, ossia senza una simbolizzazione religiosa, come quelle della
tabella 4. Risulta, innanzi tutto, che nella società tedesca predomina
l’orientamento secondo cui la vita ha un senso. Che la vita sia priva di
senso è sostenuto solo da una minoranza. Che la vita abbia senso fa parte
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
313
della vita, e il senso della vita, nella rappresentazione che molti se ne fanno,
è palesemente una conseguenza del fatto che vi sia un progetto ben
determinato al di sopra della stessa. Evidentemente ciò non significa
disfattismo, è al contrario lo stimolo a un modello di vita attiva. Di gran
lunga l’approvazione superiore va all’affermazione «La vita ha un senso
soltanto se le si dà un senso». Non è da escludere che in questa
formulazione secolare sia incluso il simbolismo religioso della fede in Dio
come fede in un creatore e ordinatore, mentre al tempo stesso il significato,
fondante il senso, dell’esplicita fede in Dio senz’altro non sia più capace di
suscitare consenso. Per questa ragione, il consenso ricevuto da
formulazioni vicine alla religione, quali «La vita ha significato solo perché
esiste un Dio» e «La vita ha un senso perché c’è qualcosa anche dopo la
morte», è chiaramente inferiore: gli uni sottoscrivono un indirizzo più
nettamente religioso, gli altri un indirizzo piuttosto secolare.
Supponendo che col crescere del livello d’istruzione crescano anche la
modernità dell’orientamento di vita degli individui e il loro coinvolgimento
nelle strutture della società moderna, la connessione tra istruzione, senso
della vita e fede in Dio è di particolare interesse.
L’inchiesta Allbus del 1982 mostra, ad esempio, differenze significative
tra coloro che hanno completato le scuole dell’obbligo, ossia il livello
minimo di formazione scolastica, e coloro che hanno terminato un corso
parauniversitario o universitario, ossia i due livelli più elevati raggiungibili
nel sistema formativo. Una concezione cristiana di Dio incontra
palesemente maggior consenso in presenza di una formazione scolastica
più semplice, mentre è valutata più criticamente a un livello superiore
d’istruzione. Anche la fede nell’esistenza di un essere superiore, tra coloro
che hanno un’istruzione elementare, è condivisa in misura superiore che tra
coloro che hanno goduto di un’istruzione superiore.
Al crescere del livello d’istruzione degli individui cala precipitosamente
la plausibilità attribuita alla fede in Dio. Un fenomeno corrispondente si
verifica per le domande relative al senso della vita: se il senso della vita è
posto in relazione con la fede in Dio, o con una formulazione tipicamente
religiosa come «perché c’è qualcosa anche dopo la morte», tra coloro che
hanno una formazione superiore il livello d’approvazione precipita. Per il
resto, le domande sul senso della vita mostrano che in proposito si delinea
un consenso sociale ben più forte che per le domande sulla fede in Dio.
In quale misura gli orientamenti religiosi (dunque l’assenso alla fede in
Dio in senso cristiano, l’assenso alla religione e alla Chiesa nel loro
complesso, ma anche il rispondere alle domande intorno al senso della vita
come domande intorno a Dio) si collegano ad altri modelli di orientamento, risulta dalle tabelle 5 e 6. Nel primo caso si tratta di un’analisi
Tabella 5. Analisi dei fattori secondo differenti indicatori dell’orientamento religioso,
lavorativo, familiare e politico-sociale tra protestanti, cattolici e aconfessionali (struttura a due
fattori)*.
Peso dei fattori
C’è un Dio che vuole essere Dio per noi
Valore: religione
La vita ha significato solo perché esiste un
Dio
È meglio per tutti se l’uomo è pienamente assorbito dal lavoro e la donna resta a occuparsi
della casa e dei figli
C’è qualcosa di simile a un Dio
Valore: parentela
Obiettivo dell’educazione dei figli: operosità
La vita ha sempre un senso, altrimenti non ci
sarebbe vita alcuna
In ultima istanza la nostra vita è determinata dalle
leggi della natura
La contrapposizione tra i diversi gruppi d’interesse
nella nostra società e le loro richieste verso il
governo vanno a detrimento del bene comune
Per un bambino è meglio se la madre
ha un lavoro e non si dedica soltanto ai lavori di
casa
Dubito che la vita abbia un senso determinato
In ogni società democratica vi sono determinati
conflitti che vanno risolti con l’uso della forza
Importante nel lavoro: indipendenza
Valore: tempo libero
Valore: amici
Importante nel lavoro: possibilità di carriera
Importante nel lavoro: aiutare gli altri
Obiettivo dell’educazione dei figli: capacità
critica
Ognuno deve avere il diritto di sostenere la propria
opinione, anche quando la maggioranza è di
opinione diversa
Ogni cittadino ha il diritto, se necessario, di
scendere in piazza per le sue convinzioni
Autovalori
Varianza complessiva: 30,1%
Fattore 1
Fattore 2
0,75
0,75
-0,13
0,01
0,58
0,56
0,74
-0,18
0,58
0,51
0,50
0,49
0,46
-0,15
-0,06
0,27
0,23
0,29
0,25
0,31
0,26
0,45
0,09
0,21
-0,34
0,21
0,16
0,33
-0,13
0,13
-0,33
-0,25
0,22
-0,10
0,15
0,07
-0,12
-0,06
-0,14
0,05
0,12
0,29
-0,02
0,66
0,60
0,59
0,58
0,56
0,02
0,44
0,39
0,35
0,35
0,40
0,06
0,56
0,32
-0,19
0,49
0,27
-0,23
3,53
0,42
2,79
0,22
* Campione .= 1.326 frequente.
Fonte: Ingrid Lukatis e Wolfgang Lukatis, «Protestanten, Katholiken und Nieht-Kirehernirglieder» in
K.-F. Daiber (a cura di), Religion und Konfession, Hannover, Lutherisches Verlagshaus, 1989, p. 62.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
315
316
Karl-Fritz Daiber
dei fattori sulla base dell’inchiesta Allbus del 1982, nel secondo caso di una
lista di coefficienti di correlazione, sempre sulla base di Allbus 1982. Risulta
evidente che un atteggiamento tendenzialmente positivo verso le affermazioni di carattere religioso si accompagna in maniera caratteristica a modelli
tradizionali, orientati all’ordine. Per contro, riguardo all’esigenza di libertà e
di autonomia si costituisce un modello di orientamento che tende al distacco critico dalla religione. Se si parte dal fatto che le esigenze di autonomia
sono caratteristiche in particolare proprio delle società moderne, si può dire
che l’orientamento religioso è piuttosto critico della modernità o, meglio,
che in Germania è vissuto e inteso come critico della modernità o distaccato dalla modernità. E sufficientemente noto che anche tra i fedeli praticanti
ve ne sono non pochi per i quali è importante un orientamento di autonomia, ma è manifesto che in tal modo vivono una forma di religione concepita in maniera antitetica a quella dominante tra la maggioranza, e che in tale maniera richiede pertanto anche di essere vissuta. Se ciò sia una peculiarità del rapporto tra religione e modernità in Germania o abbia valore internazionale non può essere verificato in questa sede, comunque le ricerche
Gallup del 1982 possono offrire qualche punto di riferimento.
I risultati dello studio internazionale Gallup del 1982, documentati nelle
tabelle 7 e 8, sono difficilmente paragonabili con quelli analizzati sinora e
forniscono piuttosto una serie di indicazioni aggiuntive. La ricerca Gallup
ha individuato nella Repubblica federale tedesca una diffusione relativamente ampia della fede in Dio. Con il 72 per cento di risposte positive, la
Germania Occidentale si colloca appena al di sotto della media europea,
mentre la Gran Bretagna si trova leggermente al di sopra e la Francia ben
più in basso. Le quote di consenso sono particolarmente alte in Italia e in
Spagna, ossia in due società relativamente unite dal cattolicesimo. Giacché
quando si paragonano cattolici e protestanti nella Repubblica federale si finisce regolarmente per confermare la maggiore ecclesialità e religiosità dei
cattolici, bisogna supporre che una tradizione cattolica relativamente ininterrotta nei paesi meridionali abbia un effetto sostanziale sulla diversità tra
le varie parti d’Europa. Questo è confermato anche dal fatto che la protestante Danimarca presenta un’adesione alla fede in Dio ben al di sotto della
media (58 per cento). Che la differente appartenenza confessionale e il grado di modernità non siano gli unici fattori per l’evoluzione della religiosità
nella modernità, lo mostra ad esempio l’adesione alla fede in Dio nell’America del Nord, terra connotata essenzialmente come protestante, che rimane come sempre straordinariamente alta (il 95 per cento negli Stati Uniti,
contro il 72 per cento della Germania Occidentale).
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
317
318
Karl-Fritz Daiber
Nel 1982 nelle società europee la fede in una vita dopo la morte si è
assottigliata (è condivisa dal 39 per cento in Germania Occidentale) e simboli
come paradiso e inferno sono percepiti come importanti soltanto da
minoranze. Altre ricerche mostrano che anche nella Germania Occidentale
esistono diversità tra cattolici e protestanti, che si approfondiscono a causa
delle differenze tra le singole regioni tedesche occidentali. Così, ad esempio,
nel Sud e soprattutto in Baviera coloro che credono nell’esistenza di un
inferno sono molto più rappresentati che nel Nord o in Renania o nel
territorio della Ruhr. La valutazione di sé come persone religiose o non
religiose, richiesta agli intervistati e riportata nella tabella 8, dà per la
Germania Occidentale risultati che possono riuscire abbastanza sorprendenti.
Il 58 per cento si ritiene religioso, solo il 22 per cento si giudica non religioso.
Il numero di coloro che si considerano atei convinti è particolarmente basso
e il gruppo degli incerti, con il 16 per cento, è superiore alla media. Il
paragone intereuropeo mostra molte differenze già riscontrate tra le singole
società nazionali. Emerge come in Francia e in Spagna, a confronto con la
situazione della Repubblica federale, il fronte che separa religiosi e non
religiosi sia nettamente marcato, costituendo gli incerti solo una piccola
minoranza. L’Italia si discosta sia dalla Repubblica federale sia da Francia e
Spagna, in quanto in tale paese l’autorappresentazione religiosa delle persone
appartiene ampiamente ai fattori sociali immediati.
Paragonando i valori della ricerca Gallup con i valori della tabella 2
sull’importanza dell’ambito di vita «Religione e Chiesa», si vede che la fascia
di passaggio da «privo di importanza» a «molto importante» è nei primi
decisamente marcata. Ciò potrebbe essere dovuto in realtà al fatto che il
numero di coloro che sono incerti nella valutazione della religione, e
nell’indagine Gallup nella valutazione di sé come persone orientate
religiosamente, rimane relativamente alto. In quest’ottica quadro della
situazione tedesca potrebbe divenire più preciso con l’analisi della religiosità
specificamente ecclesiale.
Delle recenti indagini dell’Istituto di demoscopia Allensbach vanno
esposti soprattutto due risultati: in primo luogo, il diffondersi di interpretazioni religiose della vita che non nascono in un contesto cristiano, il che
è evidenziato in questo caso dalla fede nella reincarnazione; in secondo
luogo, la vitalità di tradizionali rappresentazioni fideistiche del patrimonio
giudaico-cristiano, che da tempo la concezione scientifica del mondo avrebbe
dovuto sostituire. Entrambi gli esempi chiariscono quanto la religione sia
differenziata proprio al livello del contenuto di fede.
Nel dicembre del 1988, nel quadro di un’indagine dell’Istituto di demoscopia Allensbach, è stata posta la domanda: «Crede di aver già vissuto
una volta?» (si veda la tabella 9): il 12 per cento della popolazione
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
319
Tabella 9. Fede nella reincarnazione secondo l’età e istruzione. Domanda: Crede di aver già vissuto una
volta? (valori in percentuale).
16-29 anni
Sì
No
Incerti
30-44 anni
Popolazione
totale
Istruzione
elementare
Istruzione
superiore
Istruzione
elementare
12
74
14
12
67
21
19
69
12
12
74
14
45 anni o più
Istruzione
superiore
18
73
9
Istruzione
elementare
Istruzione
superiore
7
78
15
9
77
14
Fonte: Allensbaeher Archiv, IfD-Umfrage 5015, dicembre 1988.
totale ha risposto con un «Sì» esplicito, gli indecisi sono stati il 14 per cento, gli
altri 74 per cento hanno scelto il «No». Il 12 per cento di consenso all’idea della
reincarnazione è un valore relativamente alto, commisurato al carattere
cristiano del panorama religioso in Germania. Dalle ricerche di detto istituto
risulta chiaro che il consenso alla domanda sulla reincarnazione è diffuso
maggiormente trai giovani che tra coloro che hanno più di 45 anni. Risulta
altrettanto chiaro che l’idea della rinascita dopo la morte ha un significato
maggiore per le persone con un livello di istruzione superiore.
La dimensione effettiva della diffusione dell’idea di reincarnazione nella
Repubblica federale difficilmente si lascia quantificare con precisione. Si può
vedere come le risposte dipendano in larga misura dalle alternative proposte.
In un’indagine dell’Istituto Emnid24 è stata posta la domanda: «Crede nella
reincarnazione?». A questa domanda, all’epoca, il 26 per cento dei cittadini ha
risposto «Sì», il 68 per cento «No» e il 6 per cento non ha preso posizione. Ciò
significa che il grado di consenso è più alto di fronte a una formulazione più
astratta, meno personale dei quesiti. Se si sommano i «Sì» e gli indecisi
dell’inchiesta dell’Istituto Allensbach si ottiene una percentuale che
corrisponde a quella dell’inchiesta Emnid. Se ne può concludere, dunque, che
tendenzialmente, negli anni ottanta, un quarto della popolazione nella
Repubblica federale ha preso in considerazione l’idea della rinascita dopo la
morte come un’idea possibile. Del resto le inchieste Emnid e Allensbach
mostrano concordemente che i più istruiti tendono a prestar fede alla
reincarnazione più di coloro che hanno solo un’istruzione elementare (30 per
cento contro 26 per cento). Secondo l’inchiesta Emnid, tra le donne si
24 Pubblicata in «Emnid befragte die Bundesbürger: 80% glauben an Gott» in epd-Dokumentation, 12, 3
marzo 1980.
320
Karl-Fritz Daiber
riscontra l’idea di reincarnazione con maggior frequenza che tra gli uomini.
In Germania le differenze regionali non sono insignificanti: le regioni
meridionali, caratterizzate esplicitamente dal punto di vista confessionale
come evangeliche o cattoliche, danno quote di adesione differenti25.
Non solo le simbolizzazioni non cristiane della vita e della morte hanno una loro funzione nella situazione tedesca, ma anche elementi consueti
della tradizione biblico-cristiana, come, ad esempio, la fede nella creazione
dell’uomo da parte di Dio piuttosto che nella mera evoluzione da altre forme di vita. Si può riconoscere con chiarezza una sorta di resistenza creazionista contro la concezione del mondo delle scienze naturali. I risultati
dell’inchiesta dell’Istituto di demoscopia Allensbach del 1988 sono riportati nella tabella 10. Più di un quarto della popolazione della Repubblica
federale era allora dell’opinione che l’uomo sia stato creato da Dio, il 20
per cento aveva lasciato aperta l’alternativa tra lo sviluppo da altre forme
di vita e la creazione, il 52 per cento aderiva all’interpretazione scientifica.
Se si pensa che in Germania le tesi creazioniste non hanno spazio alcuno
nei corsi scolastici di biologia, bensì si insegna e si presuppone la concezione del mondo delle scienze naturali, questo risultato acquista una notevole rilevanza. Anche smembrando i dati per fasce d’età si ottengono risultati istruttivi: tra i 16 e i 29 anni solo il 16 per cento crede nella creazione
divina dell’uomo, tra i 30 e i 44 anni si arriva al 19 per cento, tra i 45 e i 59
al 28 per cento e tra i più anziani di 60 anni si giunge al 48 per cento. Il
forte aumento della fede nella creazione tra i più anziani non va spiegato
con il fatto che nella loro socializzazione scolastica l’immagine scientifica
del mondo non avesse alcuna importanza, altri sono i fattori determinanti.
Forse è una situazione simile a quella della fede nella reincarnazione, cioè
anche la fede nella creazione è una formula di identità: per non poche
persone, per la loro autocomprensione in quanto tali, l’immagine scientifica del mondo presente nella spiegazione evoluzionista è troppo poco convincente. Ricorrono dunque alla vecchia fede nella creazione per tematizzare l’umanità dell’uomo. Questa interpretazione non è che una supposizione: indicherebbe come anche nelle società moderne la simbologia religiosa non sia del tutto sostituibile. Se ne può concludere, in via ipotesica, che anche quando la propria posizione è in contrasto con i simboli
religiosi, questi conservano comunque una funzione importante nel
25 Si veda anche K.-F. Daiber, «Reinkarnationsglaube als Ausdruck individueller Sinnsuche » in
H.-J. Becker, E. Einig e P. O. 1.11xich (a cura di), Im Angesicht des Todes, St. Ottilien, 1987, pp. 207-27;
oppure G. Schmied, «Reinkarnation und Zeiterfahrung» in Schweizerische Zeitschrift far Soziologie, 2, 1989,
pp. 321-28.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
321
Tabella 10. Opinioni riguardo alla creazione e all’evoluzione. Domanda: Crede che l’essere umano sia stato
creato da Dio, come è scritto nella Bibbia, o crede che si sia evoluto da altre forme di vita? (valori in
percentuale).
Popolazione
totale
L’essere umano è stato creato da Dio
Si è sviluppato da altre forme di vita
Non so, altre risposte
28
52
20
Uomini
Donne
22
58
20
33
46
21
Fonte: Allensbacher Archiv, IfD-Umfrage 5015, dicembre 1988.
tematizzare la contraddizione. Con ciò si solleva infine la questione della
persistenza della religione nella forma della religiosità cristiana concepita
istituzionalmente.
Le figure 1 e 2 mostrano rispettivamente la dinamica dell’appartenenza
religiosa e la dinamica della frequenza alle funzioni religiose nel corso degli
anni ottanta. La quota di coloro che non sono organizzati religiosamente è
cresciuta verso l’inizio degli anni ottanta e verso la metà del decennio è
nuovamente diminuita. Il fenomeno è da ricondurre a sviluppi nella chiesa
cattolica, e i nuovi acquisti per immigrazione hanno una funzione primaria.
Alla fine degli anni ottanta il rapporto tra la chiesa cattolica romana e la
chiesa evangelica si è nettamente modificato: nel 1988 i cattolici erano la
più forte confessione cristiana mentre la chiesa evangelica denunciava un
arretramento. Le differenze tra cattolici e protestanti dipendono soprattutto
dal fatto che la chiesa cattolica è colpita in misura minore da ondate di
abbandoni rispetto alla chiesa evangelica, il tasso di nascita dei cattolici è
inoltre più alto di quello dei protestanti. E caratteristico dello sviluppo
tedesco che gli slittamenti verso le altre comunità cristiane o religiose siano
ridotti. Le chiese evangeliche indipendenti non sono riuscite ad aumentare i
propri membri nel corso degli anni ottanta e altrettanto vale per altre
comunità cristiane. Le comunità religiose non cristiane hanno tra i cittadini
della Repubblica federale, dal punto di vista quantitativo, una diffusione
scarsamente significativa.
L’evoluzione della frequenza alle funzioni domenicali negli anni ottanta
nella sua tendenza generale non è segnata da alcun mutamento incisivo.
Declina la frequenza domenicale regolare. Coloro che partecipano
raramente oppure mai alle funzioni sono aumentati. Altrettanto in calo
è la prassi di frequenza in chiesa limitata a più volte l’anno. Il gruppo
di coloro che prendono parte alle funzioni domenicali da una a tre
322
Karl-Fritz Daiber
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
323
3. la religiosità cristiana organizzata è tuttora relativamente alta. La
partecipazione religiosa si concentra di regola sulle due chiese maggiori, i
gruppi minori hanno un ruolo subordinato. La prassi ecclesiastica effettiva
(frequenza alle funzioni) è tendenzialmente bassa, nonostante il grado di
organizzazione.
5. Religione organizzata e sfera pubblica
5.1. Presupposti storici e condizioni giuridiche di fondo
Descrivendo la situazione religiosa generale si è fatto riferimento al
significato della biconfessionalità in Germania. Chi parla di chiese cristiane ha in mente di regola la chiesa evangelica e la chiesa cattolica,
intendendo per chiesa evangelica, soprattutto nella chiesa evangelica te-
324
Karl-Fritz Daiber
desca, le chiese territoriali e le loro associazioni. Le chiese territoriali sono
quelle sorte dalle antiche chiese di Stato dei principati tedeschi. Ancor oggi
si definiscono in base al territorio che abbracciano (ad esempio la «chiesa
territoriale evangelica del Württemberg»). Le chiese indipendenti si sono
formate solo nel XIX secolo e si considerano innanzi tutto come unione di
persone. Non vi si appartiene per nascita, né si viene battezzati già da
bambini, ma è necessario prendere una decisione per entrare a farne parte.
Le chiese indipendenti sono in parte sorte da sette (comunità separate)
cristiane. Questo processo di trapasso dalle sette alle chiese indipendenti
oggi non è ancora terminato, come si può osservare ad esempio con molta
chiarezza in Germania nel caso della comunità degli avventisti del settimo
giorno.
Le chiese evangeliche territoriali sono istituite in parallelismo strutturale
con le diocesi cattoliche. Nel secolo XVI, al tempo della Riforma, ne hanno adottato in parte i principi organizzativi, come il sistema delle parrocchie locali, che articola sia le diocesi cattoliche sia le chiese evangeliche territoriali: chi è membro della chiesa è, secondo il luogo di residenza, assegnato
a una comunità ecclesiale locale e alla rispettiva parrocchia. Solo in casi
d’eccezione può diventare membro di un’altra comunità. Questo sistema
organizzativo ha cominciato a svilupparsi in Europa già prima del formarsi
della chiesa di Stato nel IV secolo, ma si è diffuso solo con questa. Da allora l’organizzazione ecclesiale è al tempo stesso organizzazione territoriale.
Le parrocchie assicuravano la cura religiosa della popolazione. A ciò erano
interessate non solo le chiese, ma anche le autorità locali e sovralocali. Il
clero del luogo al tempo stesso trasmetteva norme e valori fondamentali ed
essenziali per la società e controllava che fossero rispettati. Nel protestantesimo tedesco quel sistema è stato ripreso: come nella chiesa cattolica, l’ambito in cui un parroco o un sacerdote svolgeva il proprio servizio era innanzi tutto la comunità del luogo. Solo nel secolo XIX si è giunti alla formazione di comunità ecclesiali locali concepite come unione di persone. Ancora
oggi il sistema delle parrocchie locali e dell’assegnazione ad esse dei fedeli
testimonia dell’organizzazione premoderna in Germania sia della chiesa
cattolica sia della chiesa evangelica.
A livello locale il sistema delle parrocchie era parte di una relazione tra
Chiesa e Stato che si alimentava dell’elevato potere d’integrazione della fede
cristiana. Fino in pieno XVI secolo la chiesa cattolica fu veicolo espressivo
di un’estesa unità culturale e politica. In Germania la Riforma pose fine a
questa fase. Nel corso della seconda metà del XVI secolo, a dire il vero, gli
stati nazionali e ― specialmente in Germania ― i territori delle città e dei
principati ripristinarono spesso l’unità religiosa al proprio interno.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
325
In Germania la pace religiosa di Augusta del 1555 stabilì il principio
«Cuius regio, eius religio». In base a questo principio il signore del territorio decideva della religione nei suoi domini; i sudditi dovevano seguire il credo del
proprio signore. I seguaci di altre confessioni potevano o dovevano emigrare. La polverizzazione territoriale della Germania portò così alla vicinanza di
territori cattolici ed evangelici. Nonostante gli sviluppi del XIX secolo e nonostante le migrazioni di profughi tedeschi dopo il 1945, i quali non di rado
venivano insediati in territori di confessione diversa dalla loro, le più antiche
tradizioni confessionali sono riconoscibili nella distribuzione confessionale
all’interno dei Under della Repubblica federale (si veda la tabella 11).
Dal punto di vista della regolamentazione giuridica dei rapporti tra Stato e
Chiesa, il principio della pace religiosa di Augusta del 1555 ha portato al
rafforzamento della chiesa evangelica quale religione di Stato. Quest’evoluzione si era già avviata con il passaggio delle chiese ai sovrani secolari: poiché
la gerarchia episcopale cattolica non poteva più assicurare il buon governo
delle comunità evangeliche, i sovrani evangelici ne presero il posto come
vescovi provvisori. Gli ordinamenti ecclesiastici erano parte della legislazione
statale territoriale e abbracciavano essenzialmente campi più numerosi che al
giorno d’oggi: l’assistenza sociale e il sistema scolastico rientravano di regola
nell’ordinamento ecclesiastico e solo gli sviluppi politici del XIX del XX
secolo hanno portato in merito a modificazioni sostanziali.
La separazione di Stato e Chiesa si è verificata in Germania con un processo lento. Un momento cruciale è rappresentato dall’inizio del XIX
secolo. Ancora nel 1803 quattro sedi arcivescovili, diciotto sedi episcopali
e circa trecento tra abbazie, monasteri e conventi godevano di diritti di
sovranità. Furono tutti soppressi dalla deliberazione della Deputazione
imperiale del 25 febbraio 1803 e assegnati ai territori secolari. Nel
decennio seguente, sotto l’influsso di Napoleone, si ebbero ulteriori
cambiamenti che, nell’insieme, fecero sì che dal secondo decennio del
XIX secolo in Germania i territori fossero spesso biconfessionali e che
nessuna confessione cristiana potesse rappresentare la religione di Stato
del territorio corrispondente. Solo da allora in poi, definitivamente, la
confessione non fu più determinata attraverso la cittadinanza, e le chiese
confessionali dovettero darsi il carattere di corpi indipendenti26. Dal punto
di vista del diritto ecclesiastico statale e più in generale del diritto
costituzionale, i mutamenti del XIX secolo rappresentano una spinta
26 Si veda in merito B. Schäfers, «Die Moderne und die Säkularisierungsprozeß» in Gegenwartskunde, numero
speciale 5, XXXVII, 1988, pp. 129-44.
326
Karl-Fritz Daiber
Tabella 11. Popolazione residente sul territorio nazionale in data 25 maggio 1987 secondo appartenenza
religiosa e Länder (valori in percentuale)*.
Chiesa
cattolica romana
Sehleswig-Holstein
Amburgo
Bassa Sassonia
Brema
Renanía Settentrionale-Vestfalia
Assia
Renania-Palatinato
Baden-Württemberg
Baviera
Saar
Berlino (Ovest)
6,2
6,3
19,6
10,0
49,4
30,4
54,5
45,3
67,2
72,7
12,8
(6,0)**
(8,2)
(19,6)
(10,2)
(52,5)
(32,8)
(55,7)
(47,7)
(69,9)
(73,8)
(12,5)
Chiese regionali
evangeliche escluse
chiese indipendenti
73,3
50,2
65,2
61,0
35,2
51,7
37,2
40,7
23,9
21,7
48,3
Comunità religiosa
islamica
1,3
3,9
1,4
3,7
3,4
3,1
1,6
2,9
2,0
0,9
6,3
* Risultati del censimento (tedeschi e stranieri abitanti in Germania).
** I valori di confronto per i cattolici sono tratti dal censimento del 1970, per i protestanti non si
possono trarre dati di confronto dall’annuario statistico.
Fonte: Statistisches Bundesamt, Statistisches Jahrbuch, 1989, p. 54.
decisiva verso la modernizzazione. Tuttavia, la separazione di Stato e
Chiesa giunse a provvisorio compimento solo con la normativa stabilita
dalla costituzione di Weimar, ma rimase anche dopo il 1918, anzi fin nel
presente, incompleta.
La Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca, promulgata il
23 maggio 1949, stabilisce tra i diritti fondamentali che nessuno può essere
danneggiato o favorito a causa delle sue opinioni religiose (art. 3). Essa
assicura la libertà della fede religiosa e la pratica indisturbata della propria
religione (art. 4), la cura e l’educazione dei figli sono diritto naturale dei
genitori (art. 6). Tuttavia l’insegnamento della religione nelle scuole
pubbliche, con l’eccezione delle cosiddette scuole non confessionali, è
materia curricolare (art. 7/111). Nei Länder in cui al momento dell’entrata
in vigore della Legge fondamentale vigevano altre regolamentazioni
dell’insegnamento della religione, tali regolamentazioni continuano a
sussistere con valore di diritto regionale.
Lo status di diritto pubblico delle comunità religiose è regolato all’articolo 140 della Legge fondamentale: sono state riprese le formulazioni
della costituzione di Weimar dell’il agosto 1919, articoli 136, 137, 138, 139 e
141. Risulta soprattutto importante l’articolo 137:
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
325
I. Non esiste una Chiesa di Stato.
II. E garantita la libertà di riunirsi in società religiose. La formazione di società
religiose nel territorio statale non è soggetta a limitazioni.
III. Ogni società religiosa ordina e amministra le proprie attività in modo
indipendente, nei limiti delle leggi vigenti per tutti. Essa conferisce le proprie
cariche senza intromissione dello Stato o delle amministrazioni locali.
IV. Le società religiose acquistano capacità giuridica secondo le prescrizioni
generali del diritto civile.
V. Le società religiose rimangono enti di diritto pubblico nella misura in cui lo
sono state sinora. Ad altre società religiose, su propria istanza, saranno garantiti i
medesimi diritti se, per la loro composizione e per il numero dei loro aderenti,
offrono garanzia di durevolezza. Se diverse società religiose di diritto pubblico si
riuniscono, anche la loro unione è un ente di diritto pubblico.
VI. Le società religiose che sono enti di diritto pubblico sono autorizzate, sulla
base dei registri civili delle imposte, a riscuotere tasse secondo la misura fissata
dalle leggi regionali.
VII. Alle società religiose sono equiparate le associazioni che si ripromettono
di coltivare comunitariamente una concezione dei mondo.
VIII. Nella misura in cui l’attuazione di queste disposizioni richiede un’uIteriore regolamentazione, questa è affidata alla legislazione regionale.
Non esiste una chiesa di Stato. Anche per questo la costituzione parla di
società religiose, non di chiese. Le società religiose e quelle che sostengono
una concezione del mondo sono sostanzialmente equiparate. Comunque,
alle società religiose tradizionali, ossia alle chiese, è assicurata priorità,
perché rimangono enti di diritto pubblico nella misura in cui Io erano in
precedenza.
L’articolo 136, in quanto parte dell’articolo 140 della Legge fondamentale,
stabilisce la libertà di religione. Ciò significa che nessuno può essere favorito
o danneggiato a causa di una determinata appartenenza religiosa. Non
occorre rendere pubbliche le proprie convinzioni religiose. L’articolo 138 è
specificamente economico: i contributi statali alle società religiose non vanno
eliminati, ma progressivamente estinti (un processo che non è ancora giunto
a compimento). L’articolo 139 dispone la tutela giuridica del riposo
domenicale, l’articolo 141 garantisce le funzioni religiose e la cura delle anime
negli ospedali e negli istituti di pena, in misura corrispondente al bisogno.
Le disposizioni della costituzione di Weimar registravano Io stadio di
sviluppo giuridico raggiunto all’epoca. La Legge fondamentale, riprendendo
gli articoli della costituzione di Weimar, ha proseguito nell’aggiornamento. La
giurisprudenza, soprattutto della Corte costituzionale federale, continua
questa tradizione con assoluta apertura nei confronti degli sviluppi sociali.
L’affermazione che le società religiose sono enti di diritto pubblico,
328
Karl-Fritz Daiber
ereditata dalla regolamentazione giuridica delle chiese di Stato, è rimasta
valida ma abbisogna di interpretazione: come enti di diritto pubblico si
intendono unità organizzative sociali che al tempo stesso provvedono a
funzioni pertinenti all’autorità statale. In tal senso si trattava di una
descrizione corretta del ruolo delle chiese almeno fino a buona parte del
XX secolo. Oggi le comunità religiose non sono più dei tipici enti di diritto
pubblico. Esse tutelano le funzioni dell’autorità in misura estremamente
limitata, in accordo con la formulazione della loro costituzione interna:
come enti di diritto pubblico, regolano le proprie attività in modo
indipendente. Hanno perciò una competenza legislativa, al tempo stesso
hanno costituito propri organi di giudizio, analogamente al sistema della
giustizia amministrativa. Riscuotono contributi sotto forma di tasse che
possono essere stabilite «sulla base dei registri civili delle imposte»
(costituzione di Weimar, art. 137).
L’incompleta separazione di Stato e Chiesa, ancor più che in questa
forma di organizzazione delle chiese, si esprime attraverso il fatto che
l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche è di regola una materia curricolare. Del resto va anche ricordato che nelle università statali
esistono facoltà o dipartimenti di teologia, nelle cui mani si trova per la
maggior parte la formazione dei pastori.
Il dibattito sulla separazione incompleta di Stato e Chiesa nella Repubblica federale si accende sempre di nuovo, negli ultimi vent’anni in
particolare per gli interventi del Partito liberaldemocratico e dei Verdi (del
Baden-Württemberg). Il dibattito pubblico si impadronisce della
problematica in genere per brevi periodi e in forma assai povera. Non si
può ancora dire se siano in vista nuovi sviluppi costituzionali in seguito
all’unificazione dei due stati tedeschi nel 1990. Nel complesso bisogna
piuttosto attendersi che prosegua la prassi esistente di una linea di
modernizzazione delle disposizioni giuridiche riguardanti le comunità
religiose27.
5.2. Finanziamento delle comunità religiose
Le società religiose, dal punto di vista delle disposizioni costituzionali, possono essere enti di diritto pubblico e, se non lo sono, possono essere riconosciute tali a determinate condizioni. Le comunità religiose
che non sono enti di diritto pubblico nel senso del diritto costituzionale
possono fare perfettamente a meno di una formalizzazione giuridica, op27 Per una discussione critica del rapporto tra Stato e chiese nella Repubblica federale si
veda E. Fischer, Trennung von Staat und Kirche, Franlcfurt a.M., Athenäutn/Vva, 19843
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
329
pure possono organizzarsi come previsto dalle leggi sulle associazioni. Si
incontrano in alcuni casi anche altre forme giuridiche, come l’organizzazione in forma di società a responsabilità limitata (GmbH), scelta
praticata da raggruppamenti che si ispirano al buddhismo tibetano. Alle
comunità religiose che sono enti di diritto pubblico è concesso dalla costituzione un diritto di esazione fiscale analogo a quello dello Stato, alla cui
applicazione deve essere fondamentalmente a disposizione l’aiuto statale.
Non è prescritto come questo aiuto statale debba effettuarsi nei singoli casi
e del resto ciò può essere deciso dalle stesse comunità religiose (esazione di
tasse ecclesiastiche mediante il fisco statale oppure esazione di tasse
ecclesiastiche mediante un apparato fiscale ecclesiastico, rinuncia alla
riscossione di tasse ecclesiastiche e dunque riscossione di contributi
ecclesiastici). Le due maggiori comunità confessionali cristiane, la chiesa
cattolica e le chiese territoriali evangeliche, hanno deciso entrambe per le
tasse ecclesiastiche, la cui esazione avviene di regola attraverso l’ufficio
statale delle imposte, esistendo solo in Baviera un’amministrazione
ecclesiastica indipendente per i proventi della tassazione.
Nel 1988 gli introiti delle diocesi cattoliche della Repubblica federale per
le tasse ecclesiastiche sfioravano i 6,5 miliardi di marchi, mentre i proventi
delle tasse ecclesiastiche delle chiese territoriali evangeliche ammontavano a
6,44 miliardi di marchi. Invece i contributi (offerte alla chiesa) riscossi dalle
due confessioni sono relativamente insignificanti. Le necessità economiche
delle chiese sono comunque largamente finanziate dalle tasse ecclesiastiche.
Le entrate della sede episcopale di Essen per il 1990, ad esempio,
provenivano quasi per il 90 per cento dalle tasse ecclesiastiche28. Le entrate
fiscali delle chiese cristiane maggiori sono continuamente cresciute negli
ultimi anni, anche se con un andamento meno pronunciato di quello della
tassazione statale. Le tasse ecclesiastiche sono riscosse come una
sovrimposta dell’imposta sul reddito, dell’imposta patrimoniale o delle
imposte sulla proprietà fondiaria. I limiti inferiori e superiori sono stabiliti
differentemente da quelli fissati dallo Stato. La sovrimposta ammonta per
entrambe le chiese all’8-9 per cento dell’imposta sul reddito. Singole chiese
rinunciano alla riscossione di tasse ecclesiastiche sul patrimonio e sulla
proprietà fondiaria.
Le tasse ecclesiastiche sono trattenute dall’Ufficio delle imposte poi
versate agli uffici ecclesiastici. Come per le ritenute statali sullo stipendio,
anche nel caso delle tasse ecclesiastiche i datori di lavoro sono tenuti a
mettere a disposizione degli uffici statali le tasse sotto forma di
28
Si veda R. Marré, Die Kirchenfinanzierung in Kirche und Staat der Gegenwart, Essen, 1990, p. 61.
330
Karl-Fritz Daiber
trattenute. L’amministrazione statale delle finanze riceve dalle chiese un
tributo compreso tra il 2 e il 5 per cento dei rispettivi introiti fiscali.
Secondo il parere degli esperti si tratta in questo caso di un sovraindennizzo, benché si faccia al tempo stesso notare che la riscossione
autonoma delle tasse costerebbe alle chiese circa il 10 per cento dei loro
introiti fiscali29
In prospettiva storica l’evoluzione del sistema tedesco delle tasse ecclesiastiche è legato alla definizione di una corrispondente regolamentazione dell’appartenenza ecclesiastica30. Le prime regolamentazioni giuridiche del sistema fiscale ecclesiastico si sono basate fin dall’inizio sul
principio dell’appartenenza. Il dovere di versare le tasse ecclesiastiche era
connesso all’appartenenza alla chiesa, solo chi appartenesse a una chiesa
aveva il dovere di pagare le tasse ecclesiastiche, e così è rimasto sino a
oggi. Dapprima l’appartenenza ecclesiastica concedeva solo l’alternativa
tra le diverse confessioni cristiane. I cittadini erano o membri della chiesa
cattolica o di una delle chiese evangeliche. Lo status di chi non
appartenesse ad alcuna chiesa cristiana era, prescindendo dagli ebrei,
poco chiaro. Prendendo avvio, da una parte, dall’esigenza di dare forma
giuridica al principio della libertà di religione e avendo in vista; d’altra
parte, gli sviluppi che si profilavano in fatto di finanziamento delle
maggiori chiese cristiane, emergeva la necessità di chiarire l’appartenenza
ecclesiastica, per lo meno dal punto di vista della regolamentazione
giuridica delle chiese di Stato. Ciò è avvenuto in modo esemplare nella
legge prussiana sull’«uscita dalle chiese» del 14 marzo 187331. Le leggi
sull’uscita dalle chiese sono regolamenti statali che non ha nulla che fare
con una concezione teologica dell’essere parte di una chiesa. Il fatto che
l’appartenenza alla chiesa sia determinata attraverso norme che
riguardano l’uscita dalla chiesa è dovuto alla prassi del battesimo dei
neonati, attraverso la quale è reclutata ancora oggi la maggior parte degli
aderenti a una chiesa cristiana.
Sin dopo la prima guerra mondiale la possibilità di uscire dalle chiese è
stata regolata secondo modalità fortemente restrittive (così, ad esempio, si
prevedeva un periodo di riflessione, un lasso di tempo in cui le chiese
avessero ulteriori possibilità di influire sulla scelta, era differita
29 Si veda C. Link, «Kirchensteuer» in Evangeliscbes Staatslexikon, Stuttgart, Kreuz Verlag, 19873, vol.
1, pp. 1695-707, in particolare p. 1702.
30 Si veda W. Huber, «Die Kirchensteuer als “wirtschaftliches Grundrecbt”. Zur Entwicklung des
kirchlichen Finanzsystem in Deutschland zwischen 1803 und 1933» in W. Lienemann (a cura di), Die
Finanzen der Kirche, München, 1989, pp. 130-54, in particolare pp. 132 sgg.
31 Ibid., pp. 135 sgg.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
331
l’efficacia dell’abbandono della chiesa dal punto di vista fiscale e così via).
Una tale prassi restrittiva è stata oggi smantellata, benché l’abbandono di
una chiesa in quanto ente di diritto pubblico si configuri tuttora come un
atto giuridico, che va compiuto davanti a un pubblico ufficiale. A questo
riguardo è soprattutto importante che la nascita del sistema della tassazione
ecclesiastica in Germania sia legata essenzialmente a regole di
appartenenza, cioè regole per comportamenti validi appunto per le
organizzazioni. Solo il passaggio delle chiese cristiane da istituzioni con un
riconoscimento sociale a organizzazioni basate sull’appartenenza ha
consentito un diritto fiscale come quello vigente nella Repubblica federale
tedesca.
Il sistema predominante dell’esazione delle tasse ecclesiastiche attraverso gli uffici statali delle imposte, applicato soprattutto dalle chiese
maggiori, non manca di essere sottoposto a critiche nel dibattito pubblico.
La critica al sistema delle tasse diventa abbastanza spesso espressione
simbolica di una più complessiva presa di distanza dalle chiese,
occasionalmente anche di una presa di distanza che non giunge tuttavia al
passo estremo dell’uscita ufficiale dalla chiesa. Nel complesso, peraltro,
l’esazione statale delle tasse ecclesiastiche non incontra una seria resistenza,
è piuttosto sopportata per ragioni pragmatiche. In un’inchiesta del 1990,
per il 49 per cento gli intervistati in Germania Occidentale si sono dichiarati
dell’idea che «la Chiesa dovrebbe incassare da sé le sue tasse» (45 per cento
degli intervistati protestanti e 35 per cento degli intervistati cattolici)32. I
critici più energici si incontrano tra coloro che auspicano una più netta
separazione di Stato e Chiesa33. All’interno delle chiese protestanti si
ripresenta sempre la tendenza a porre in questione la tassazione
ecclesiastica con motivazioni teologiche. Qui trova spazio il seguente
argomento: la Chiesa non può equipararsi a un ordine mondano, è una
comunità di genere particolare. Sono sollevate anche argomentazioni
riprese dalle scienze sociali: attraverso contributi riscossi in forma
impersonale l’appartenenza non è più attivata, l’interesse personale
diminuisce. Un’altra prospettiva è quella dell’equità fiscale: per il legame
tra le tasse ecclesiastiche e l’imposta sul reddito, non sono tenuti a
pagare le tasse ecclesiastiche coloro che non devono pagare la
corrispondente imposta statale. Si calcola che solo dieci milioni circa di
evangelici siano effettivamente contribuenti ecclesiastici, cioè circa
32 Secondo l’agenzia di stampa idea spektrum, 43, 1990, sulla base di un’indagine del gruppo di
ricerca Wahlen commissionata dalla rivista Studio 1 della seconda rete televisiva tedesca (Zdf).
33 Verdi, Unione umanista, ma anche singoli autori, come il precedente rappresentante di diritto
canonico Horst Herrmann nel suo Die Kirche und unser Geld, Hamburg, 1990.
332
Karl-Fritz Daiber
il 40 per cento di tutti i membri della chiesa evangelica. I pensionati sono
tenuti a pagare le tasse ecclesiastiche solo se devono pagare anche l’imposta sul reddito, il che nell’assoluta maggioranza dei casi non avviene34.
Il diritto d’imposizione fiscale che compete alle società religiose in
quanto enti di diritto pubblico, e quindi specificamente alle chiese cristiane maggiori, è l’elemento più importante del sostegno statale alle chiese. Ad esso va aggiunta tutta una serie di finanziamenti statali diretti.
Innanzi tutto le prestazioni statali dirette che hanno il loro fondamento
giuridico nella secolarizzazione del XIX secolo, quando furono stabiliti
degli obblighi statali di sovvenzione in sostituzione dei beni ecclesiastici
incamerati. Di sovvenzioni dirette statali o comunali profittano inoltre
alcune particolari sfere di attività delle chiese, come ad esempio asili e
scuole private a gestione religiosa, la formazione ecclesiastica degli adulti,
l’assistenza sociale gestita dalle chiese nel paese e all’estero. Ricevono
sussidi non solo le facoltà teologiche, ma anche le scuole di formazione
per operatori sociali (assistenti sociali, educatori) e per operatori della
catechesi. Infine, sono gestite dallo Stato le facoltà teologiche nelle
università e singole cattedre teologiche nate in rapporto all’allargamento
dei curricoli di formazione all’insegnamento (preparazione di insegnanti
di religione per le scuole superiori). Non da ultimo anche l’insegnamento
della religione nelle scuole pubbliche è finanziato dallo Stato: in quanto
non è svolto da docenti statali, ma da un corpo insegnante ecclesiastico,
le chiese ricevono un finanziamento corrispondente. Ai compiti delle
chiese finanziati dallo Stato appartengono infine l’assistenza spirituale
all’esercito federale e alla polizia di frontiera, nonché l’assistenza spirituale
in istituzioni quali, primariamente, le carceri.
Un’ultima misura di appoggio finanziario consiste nel sostegno statale
indiretto: donazioni, collette, lasciti testamentari, e le stesse tasse ecclesiastiche godono di agevolazioni fiscali35.
Non c’è dubbio che le disposizioni della tradizione costituzionale tedesca siano il fondamento principale di questa complessiva azione statale
di sostegno alle chiese. Le sentenze della Corte costituzionale federale e il
dibattito giuridico sottolineano, tuttavia, che i principi di uno stato
ideologicamente neutrale non sono violati, avendo comunque i cittadini
la possibilità di preferire alternative non religiose. I principi della
34 Si veda C. Meyer «Das geltende Kirchensteuerrecht im Bereich der Evangelischen
Kirche in Deutschland» in W. Lienemann (a cura di), Die Finanzen der Kirche cit., pp. 173-210,
in particolare pp. 201 sgg.
35 Si veda R. Marré, Die Kirehenfinanzierung cit., pp. 34-42.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
333
costituzione non si muovono soltanto in difesa della libertà di religione, ma
riconoscono al tempo stesso che un importante compito dello Stato
consiste nel sostenere le società religiose, in quanto portatrici di un retaggio
culturale.
Dal punto di vista sociologico è degno di nota che in Germania dopo il
1945 si registri una crescita evidente dell’attività statale in genere. Non vi
sono quasi più settori sociali che siano rimasti indipendenti da misure legislative o da sovvenzioni statali. Un classico esempio è il sostegno offerto
allo sport. Il sostegno all’istruzione, in particolare per quanto riguarda la
formazione degli adulti, va altrettanto menzionato, oppure la politica economica statale finanziaria con le entrate tributarie, e anche l’espansione dell’iniziativa statale sociale, particolare in Germania, che ha avuto un notevole
influsso sulle chiese. Su questo sfondo difficilmente si può interpretare il sistema di finanziamento delle chiese tedesche sostenuto dallo Stato come
un aspetto della separazione incompleta di Stato e Chiesa. Sembrano avere
un peso ben maggiore elementi che hanno potuto costituirsi solo nel corso
del processo di modernizzazione sociale, come l’accresciuta importanza
dell’azione statale con la contemporanea garanzia dell’autonomia di sottosistemi sociali. Proprio quest’ultimo punto, quello della garanzia di autonomia, si può rilevare sul piano finanziario nel rapporto di Chiesa e Stato. Le
chiese non sono meno autonome di altre associazioni della società, al contrario, è concesso loro un diritto all’autodeterminazione ben più ampio di
quanto valga per altre organizzazioni.
La capacità relativamente elevata di prestazioni finanziarie delle chiese
tedesche e al tempo stesso l’essere legate a prescrizioni formali dello Stato
(criteri per la destinazione dei sussidi ecc.) hanno prodotto sin dalla fine
della seconda guerra mondiale caratteristici sviluppi, con un palese
incremento negli ultimi trent’anni:
1) Il grado di burocratizzazione delle chiese è cresciuto, le strutture amministrative si sono espanse, come pure i gruppi di esperti
che coadiuvano l’amministrazione nei diversi settori (assistenza,
formazione, edificazione e così via).
2) Le attività delle chiese si sono differenziate. Vanno nuovamente
ricordati innanzi tutto l’attività assistenziale (compresa la consulenza
psicologica e sociale) il settore dell’istruzione (soprattutto la formazione
degli adulti con un’attività accademica non priva di accenti politici), come
pure l’impegno ecclesiastico nella formazione alle professioni sociali (al
livello delle scuole professionali e parauniversitarie). Ciò ha portato a un
aumento evidente dei collaboratori professionali, non solo nell’am-
334
Karl-Fritz Daiber
bito caritativo e della diaconia, ma anche nella prassi ecclesiale in senso
stretto, insieme con una crescente varietà delle figure professionali operanti
nelle chiese. Gli ecclesiastici stessi vengono oggi destinati, all’interno della
Chiesa, a incarichi diversi. Così, ad esempio, nella chiesa evangelica tedesca
al 1° gennaio 1988 esistevano nel complesso 16.827 ministeri ecclesiastici,
di cui 81,8 per cento erano incarichi di pastore nelle comunità locali, ma
più del 18 per cento erano incarichi per pastori in servizio non parrocchiale
(attività con i giovani, negli ospedali, nella diaconia, in missione, nella
scuola, per la formazione, l’aggiornamento e il perfezionamento di collaboratori ecclesiali, nell’amministrazione centrale ecclesiastica e così via).
3) A causa della burocratizzazione e della differenziazione la Chiesa diventa un sistema sociale parziale, che eroga le proprie prestazioni in modo
relativamente indipendente dalle motivazioni dei propri membri. Di qui
sorge una forma di accettazione delle chiese, quasi esclusivamente in ragione della loro funzionalità sociale, senza che occorra alla base una personale
motivazione cristiana. Le chiese sono intese non solo come comunità religiose ma anche come associazioni sociali con funzioni molteplici e rilevanti, dunque meritevoli di sostegno. Proprio per gli sviluppi provocati dal sistema di finanziamento e dall’incorporazione nel sistema delle organizzazioni finanziate dallo Stato, sorge il dubbio che proprio qui operino, non
tanto i vecchi modelli del rapporto fra Stato e Chiesa, quanto piuttosto le
condizioni di una società moderna, che in questo caso esercitano i propri
effetti sulla religione tradizionale.
5.3. Comunità religiose e scuole di formazione generale
La Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca pone l’intero
sistema scolastico sotto il controllo statale (art. 7). Nello stesso articolo si
stabilisce che l’insegnamento della religione, con l’eccezione delle scuole
non confessionali, è una materia curricolare e che proprio questo insegnamento nelle scuole pubbliche deve essere svolto in accordo con i principi
delle comunità religiose. Gli insegnanti non possono essere obbligati
all’insegnamento della religione. E possibile rinunciare all’insegnamento della religione, scelta affidata ai genitori per i minori di 14 anni,
ritenuti religiosamente minorenni. Anche se l’intero sistema scolastico
è sotto il controllo dello Stato, e la scuola statale in Germania rappresenta la normalità, sono possibili le scuole private nonché le scuole a
gestione ecclesiastica, che possono dare maggior valore all’istruzione
religiosa di quanto avvenga nelle normali scuole statali. Del diritto di
istituire scuole a conduzione ecclesiastica le chiese fanno un uso com-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
335
plessivamente limitato. Per lo. meno altrettanto importanti delle scuole
ecclesiatiche sono nelle città principali le scuole indipendenti Waldorf,
basate sull’antroposofia di Rudolf Steiner. Circoli antroposofici hanno
fondato, negli anni ottanta, anche un’università non statale.
Già negli anni successivi alla seconda guerra mondiale le chiese domandarono scuole confessionali nell’ambito del sistema dell’istruzione
elementare. Comunque già allora si fece strada molto rapidamente l’idea di
una «scuola della comunità cristiana». Nella maggior parte dei Länder della
Germania Occidentale questo tipo di scuola è diventato la norma. Le
eccezioni erano e sono costituite da Amburgo, Brema e Berlino, dove la
norma è costituita da scuole non confessionali. Ad Amburgo, tuttavia, la
religione è materia curricolare, a Brema c’è un insegnamento biblico non
confessionalmente caratterizzato e a Berlino, dove sono le chiese a fornire
l’insegnamento della religione, gli insegnanti possono avere a disposizione
ore e locali nell’ambito dell’orario della scuola36.
Le differenze trai vari Under sussistono perché nel quadro dell’architettura federale della Germania Occidentale le questioni culturali, e
dunque la scuola, sono competenza dei singoli Under federali. La Legge
fondamentale definisce il quadro generale all’interno delle cui prescrizioni
sono possibili diverse accentuazioni, come mostrano gli esempi citati.
Comunque vi sono caratteri relativamente concordanti che superano i
confini regionali. Ad essi appartiene, ad esempio, il fatto che, in una serie di
Under federali tedeschi, nell’ambito della costituzione siano menzionate
anche finalità educative religiose:
L’articolo 12, comma I, della costituzione del Baden Württemberg sostiene
che la gioventù deve essere educata nel timore di Dio e nello spirito dell’amore
cristiano verso il prossimo. Secondo l’articolo 131 della costituzione bavarese il
timore di Dio e il rispetto per le convinzioni religiose sono i supremi scopi della
formazione. Anche la costituzione della Renania Settentrionale Vestfalia, articolo
7, pone al culmine degli scopi educativi principali il timore di Dio. Secondo
l’articolo 33 della costituzione della Renania-Palatinato, la scuola deve educare la
gioventù tra l’altro al timore di Dio e all’amore del prossimo37.
Proprio in quanto scuola di Stato, la scuola per la formazione generale è intesa nella Repubblica federale come una scuola nella quale, dal
punto di vista delle finalità educative, la religione non è esclusa e costituisce anzi un fondamento essenziale. Nelle costituzioni compaiono
36 Si veda W. Geiger, «Kirchen und staatliches Schulsystem» in Handbuch des Staatkircbenrechts, 1975,
vol. 2, pp. 483-502, in particolare p. 497.
37 Ibid., p. 494.
336
Karl-Fritz Daiber
espressioni simboliche religiose generali (il timore di Dio) accanto ad altre
precisate in senso cristiano (amore cristiano del prossimo). Con queste
formulazioni le costituzioni dei Länder si sono evidentemente sforzate di
formulare una sorta di consenso civil-religioso, che come tale è interpretato
di regola cristianamente. La responsabilità di questo consenso non spetta
però alla Chiesa, bensì allo Stato. Quest’ultimo prende comunque in
considerazione per la realizzazione dei fini costituzionalmente prescritti
anche i servigi delle chiese, la loro collaborazione consultiva nel sistema
scolastico statale è prevista e realizzata in diverse forme38. Inoltre esiste
tutta una serie di cooperazioni informali tra la scuola statale e le chiese,
come la celebrazione di un servizio divino nella scuola per l’inizio dell’anno
scolastico, particolarmente per i nuovi alunni; questi possono essere
condotti alla funzione divisi per confessione. Inoltre ci sono funzioni
religiose ecumeniche alla cui preparazione partecipano sovente insegnanti e
allievi. In quale misura invece i fini religiosi prescritti siano perseguiti di
fatto nella scuola, quanto le formulazioni giuridiche siano tradotte nella
realtà, dipende in gran parte dalle singole persone interessate. Questo
chiarisce come, rispetto al momento in cui sono state stese le costituzioni,
la forza della presenza civilreligiosa del cristianesimo sia piuttosto scemata.
Nel complesso, però, in questo panorama risulta chiaro che
l’insegnamento della religione nel quadro del sistema scolastico pubblico
della Repubblica federale, almeno dal punto di vista giuridico, non è un
corpo estraneo, ma piuttosto addirittura un approfondimento all’interno
della scuola della dimensione religiosa secondo la specificità confessionale.
I diritti delle chiese a partecipare alla definizione dell’insegnamento
religioso sono corrispondentemente ampi, sia per la definizione dei
programmi sia soprattutto per la scelta del personale insegnante. Per gli
insegnanti cattolici è richiesta la missio canonica, per gli insegnanti evangelici
la nomina da parte della loro Chiesa. Il controllo dell’insegnamento della
religione spetta d’intesa alle autorità scolastiche statali ed ecclesiastiche; la
regolamentazione varia nei divesi Länder39. AI di sopra della legislazione
statale il rapporto tra Chiesa e scuola è regolato dalle disposizioni dei
concordati e delle intese tra Stato e Chiesa (intese tra le chiese evangeliche
territoriali e singoli Länder federali). Ad esempio, vale tuttora il concordato
del 20 luglio 1933. In Baviera vigono dal 1968 un’intesa con
Ibid., pp. 498 sgg.
Si vedano sull’insegnamento della religione P. Mikat, «Kirchen und Religionsgemeinschaften» in K. A. Bettermann, H. C. Nipperdey e U. Scheuner (a cura di), Die Grundrechte,
Berlin, 1960, pp. 197 sgg.; C. Link, «Religionsunterricht» in Handbuch des Staatskirchenrechts cit.,
pp. 503-46.
38
39
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
337
la Santa. Sede e un’intesa tra lo stato bavarese e la chiesa evangelica luterana
di Baviera a destra del Reno. Esistono intese equivalenti in Assia, Bassa
Sassonia, Renania-Palatinato, Schleswig-Holstein40.
Complessivamente il forte ruolo pubblico delle chiese cristiane si conferma anche nel sistema dell’istruzione, o per lo meno così risulta sul piano
legislativo. Nei fatti non si percepisce una diminuzione del loro influsso.
Nella Repubblica federale, dopo il 1990, la varietà proprio in questo campo
continuerà ad aumentare. Non si intravede ancora quali regole saranno
applicate infine nel territorio della ex Repubblica democratica tedesca,
presumibilmente anche lì si giungerà a regolamentazioni differenti nei
diversi, nuovi Länder. Poiché rifiutare l’insegnamento della religione è
possibile ed è praticato in diversi ambienti, e al tempo stesso nelle scuole
superiori è offerto un insegnamento alternativo sul tema «Norme e valori»,
il dibattito pubblico sul problema dell’insegnamento della religione nelle
scuole pubbliche rimane abbastanza smorzato. Il legame pratico tra Chiesa
e sistema scolastico, nella sua forma attuale, sembra suscitare scarse critiche.
Insieme alla presa di distanza nettissima dalla prassi attuale che alcuni circoli
evangelici sostengono, ciò influenzerà gli sviluppi nella ex Ddr.
L’insegnamento della religione praticato nella Repubblica federale è
d’impronta confessionale, si tratta d’insegnamento cattolico o evangelico
della religione. Le chiese territoriali evangeliche e la chiesa cattolica sono in
sostanza i partner centrali dello Stato nelle questioni relative
all’insegnamento della religione. Le comunità religiose minori, per quanto
riguarda l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, quasi non
compaiono. I figli di genitori che appartengono a una comunità cristiana
minore, a una chiesa indipendente o a una comunità separata, nel senso di
una setta, o non prendono parte alla lezione di religione, oppure
partecipano alle lezioni offerte da una delle due chiese maggiori.
Esisterebbe in linea di principio la possibilità di offrire nell’ambito
scolastico anche l’insegnamento della religione di una comunità cristiana
minore. Un insegnamento non cristiano della religione possibile dal punto
di vista costituzionale, si afferma solo con molta titubanza.
L’insegnamento della religione musulmana ha luogo in genere all’esterno della scuola. Anche qui bisogna mettere in conto dei cambiamenti,
benché il carattere fondamentale cristiano della scuola pubblica, così ben
radicato in una serie di costituzioni dei Länder, leggi scolastiche e intese tra
Stato e chiese, rappresenti piuttosto un fattore ritardante. La caratterizzazione generale della cultura cristiana opera proprio nel senso
40
Si veda W. Geiger, «Kirchen und Staatliches Schulsystem» cit., pp. 487 sgg.
338
Karl-Fritz Daiber
di una conservazione delle tradizioni. Il pluralismo religioso è fortemente
limitato.
5.4. Comunità religiose e mass media
Il rapporto tra religione e mass media è in sé davvero multiforme. Più
un mezzo di comunicazione garantisce funzioni sociali di carattere generale,
come ad esempio la televisione pubblica, tanto più limitato è il pluralismo
religioso che in esso giunge a espressione. Adeguatamente diversa è la
situazione nel campo della produzione libraria, in cui nel corso degli ultimi
quindici anni la varietà di temi religiosi è aumentata considerevolmente. La
letteratura religiosa più recente, soprattutto quando tratta di forme di
religione non cristiane, è sovente accomunata alla letteratura esoterica in
senso stretto, in un unico settore denominato «Esoterismo», che negli
ultimi anni ha conosciuto una notevole espansione. Le trasmissioni
radiofoniche e televisive pubbliche, come si è detto, esibiscono piuttosto il
pluralismo limitato che si è evidenziato nel sistema scolastico. Per quanto
riguarda l’ambito religioso, risulta evidente la concentrazione sulle due
chiese maggiori. Per questa situazione vanno ringraziate non da ultime le
differenti forme di organizzazione dei media nel campo della stampa e della
diffusione radiotelevisiva. In Germania Occidentale la produzione
editoriale è per lo più organizzata in imprese private: questo vale sia per
l’editoria libraria sia per giornali e periodici. L’organizzazione in imprese
private significa orientamento al mercato. Al contrario la diffusione
radiotelevisiva sino all’inizio degli anni ottanta era nella Repubblica federale
esclusivamente un servizio pubblico. Come tale doveva restare nei limiti
delle forme organizzative della radio o della televisione di Stato (su questo
influivano anche le limitazioni poste dalle potenze d’occupazione alla radio
statale dell’era nazionalsocialista). Il carattere pubblico della radio e della
televisione implica che gli enti radiofonici debbano essere indirizzati e
controllati congiuntamente da tutti i gruppi socialmente rilevanti. Così gli
enti radiofonici e televisivi sono enti di diritto pubblico, con il diritto di riscuotere un canone e l’obbligo di ricavare entrate pubblicitarie solo in
misura limitata. La giurisprudenza della Corte costituzionale federale
attribuisce alla radiodiffusone pubblica addirittura una funzione di integrazione (1971). Ciò non significa che i conflitti non vadano trattati o
proprio neppure menzionati, ma che i notiziari e in generale la programmazione corrente vanno progettati in modo che la varietà delle forze
sociali e anche il loro antagonismo possano essere messi a profitto per la
costruzione dell’unità. Solo nel 1981 la Corte costituzionale federale
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
339
ha deciso che radio e televisione possono essere aperte all’iniziativa privata.
Di nuovo ne è un presupposto che le forze socialmente rilevanti abbiano
anche qui possibilità di accesso. Da allora nel campo della diffusione
radiofonica e televisiva esistono istituzioni organizzate corrispondentemente
in forma di imprese private.
Entrambe le chiese cristiane attribuiscono grande valore alla presenza nei
media, il che ha che fare con il loro modo di concepirsi. Soprattutto la chiesa
evangelica definisce se stessa attraverso la funzione di annuncio del Vangelo,
è legata alla parola e concentrata alla trasmissione della stessa. Tenuto conto
di tutte le differenze particolari, questa è comunque una tradizione del
cristianesimo che trascende le differenze confessionali. Perciò non è motivo
di stupore se nell’ambito della produzione editoriale entrambe le chiese sono
presenti sia con proprie case editrici sia con molteplici pubblicazioni, riviste o
giornali41.
Entrambe le chiese maggiori hanno una molteplicità di organi di stampa,
ma è nella stampa cattolica che si riscontra un’evidente concentrazione.
Nell’ambito della stampa evangelica la situazione è più varia, si calcolano
circa 850 riviste. Per la sola stampa cattolica si parte da una tiratura
complessiva di circa 1,6 milioni di esemplari di riviste e giornali tra i più
diversi. Ogni settimana viene raggiunto il 17 per cento della popolazione
cattolica sopra i 14 anni, con una quota femminile pari al 58 per cento dei
lettori e una fascia di lettrici e lettori sopra i quarant’anni che ammonta al 65
per cento. È singolare che giornali e riviste ecclesiastiche raggiungano
prevalentemente persone religiosamente orientate e servano quindi in larga
misura alla comunicazione interna alle chiese, di regola non a un’ampia
diffusione delle aspirazioni ecclesiali nella sfera pubblica42.
Per ovviare a questa carenza, entrambe le chiese maggiori hanno istituito
proprie agenzie d’informazione. Esistono perciò la Katholische Nachrichtenagentur (Kna, Agenzia cattolica di stampa) e il Evangelischer
Pressedienst (Epd, Servizio stampa evangelico). Inoltre, l’organizzazione dei
cristiani fondamentalisti possiede una propria agenzia d’informazioni (idea).
Gli ultimi sviluppi nella diffusione radiofonica e televisiva privata di
recente istituzione si possono paragonare alle attività ecclesiastiche nel
campo della stampa: si giunge ormai alla partecipazione ecclesiastica
41 Si veda H. Glässgen, «Kirchlichen Medienpräsenz» in Medienpolitik: Bürger im
Staat, vol. 1077, a cura della Landeszentrale für politische Bildung Baden-Wihttemberg,
Kohlhammer Stgt, 1987, pp. 71-84. Per la chiesa evangelica si consulti: Publizistischer
Gesamtplan der Evangelischen Kirche in Deutschland, Gütersloh, Gütersloher Verlagshaus,
1979.
42 H. Glässgen, «Kirchlichen Medienpräsenz» cit., pp. 77 sgg.
340
Karl-Fritz Daiber
in emittenti private di recente fondazione o in corso d’allestimento. La
radiodiffusione suscita nelle chiese un interesse preferenziale. Non è da
escludere che le capacità finanziarie delle chiese rendano possibile di fatto
solo con difficoltà una partecipazione alla diffusione televisiva.
Nel campo della radio pubblica, nella Repubblica federale tedesca
esistono più emittenti radiofoniche regionali (Bayerischer Rundfunk, Suddeutscher Rundfunk, Norddeutscher Rundfunk ecc.). Per la televisione, le
diverse emittenti sono collegate al programma Ard (primo programma);
per il secondo programma esiste un’emittente nazionale (Zweites
Deutsches Fernsehen).
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, gli alleati hanno attribuito
alle chiese una funzione significativa per la ricostruzione spirituale. Perciò
sono state coinvolte sin dall’inizio nella ricostruzione del sistema della
radiofonia. Questa situazione iniziale successiva al 1945 contrassegna
ancora oggi la posizione delle chiese nella radio pubblica. Che oggi come
ieri esse appartengano a quei gruppi socialmente rilevanti che devono
indirizzare e controllare congiuntamente la radiofonia, rimane indiscusso,
ma si moltiplicano le opinioni in favore di una minore presenza delle chiese
nella radio e nella televisione.
Le chiese cristiane maggiori sono presenti in tre modi. Innanzi tutto
negli organi di controllo. Un numero preponderante di emittenti radiofoniche consente alle chiese di inviare rappresentanti nei rispettivi Consigli
per le trasmissioni radiofoniche. In secondo luogo, nelle emittenti
radiofoniche esiste una redazione specializzata per le notizie di argomento
religioso. I redattori non sono responsabili verso le chiese, bensì nei confronti del direttore, e questi a sua volta di fronte al Consiglio per le trasmissioni radiofoniche. Questa struttura produce altresì sempre e comunque tensioni tra le chiese e le redazioni specializzate; tanto più che le
redazioni non si considerano come ecclesiastiche in senso stretto, ma sono
piuttosto orientate a presentare l’ambito ecclesiastico in senso molto ampio
e ad affrontare in forma giornalistica temi appartenenti all’ambito «religione
e società» che siano rilevanti per il pubblico.
Infine ci sono le trasmissioni di evangelizzazione gestite dalle chiese,
per le quali le emittenti concedono spazi nella programmazione, ma che
sono sotto la responsabilità delle chiese stesse. L’opportunità è offerta
gratuitamente alle chiese. Le trasmissioni più importanti di questo genere
sono brevi funzioni di preghiera, o riprese televisive e radiofoniche del
culto divino. La più importante trasmissione televisiva di questo tipo va
in onda ogni sabato sera sul primo programma, subito dopo il notiziario
(Das Wort zum Sonntag, La Parola della Domenica). Mutamenti nella
struttura della programmazione influiscono attualmente an-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
341
che sulla configurazione delle trasmissioni di diffusione del messaggio
ecclesiastico.
AI presente questo diritto a trasmissioni di evangelizzazione nelle radio
e nelle televisioni private è particolarmente discusso. Si tratta soprattutto
della questione se per tali trasmissioni le emittenti private possano
richiedere un compenso alle chiese. Nel complesso pare affermarsi un
dovere di pagamento da parte delle chiese. Questo sottolinea il mutato
clima rispetto alla prima fase di consolidamento del sistema radiofonico
dopo il 1945.
Nei Consigli per le trasmissioni radiofoniche sono in genere rappresentate entrambe le chiese maggiori, la chiesa cattolica e la chiesa evangelica. Poiché il diritto costituzionale prevede un trattamento paritario di
tutte le comunità religiose, in quanto enti di diritto pubblico, anche le
comunità israelitiche sono di regola presenti con un rappresentante nei
Consigli per le trasmissioni radifoniche. Altrettanto vale per il Consiglio per
le trasmissioni del secondo programma televisivo. Un rappresentante delle
chiese indipendenti o delle comunità religiose riconosciute e di quelle che
sostengono una concezione del mondo, riconosciute in quanto enti di
diritto pubblico, è previsto solo nel Consiglio del Süddeutsche Rundfunk43.
I cambiamenti determinati dalla crescente importanza dell’Islam nella
Repubblica federale non hanno prodotto alcuna conseguenza nella
legislazione sulla radiofonia. Lo si può osservare in forma corrispondente
anche per quanto riguarda la programmazione.
Nel quadro delle inchieste a campione tra i protestanti vi sono anche
domande sulle abitudini di utenza radiotelevisiva rispetto alle trasmissioni religiose. La quota maggiore di spettatori la ottiene Das Wort
zum Sonntag: il 13 per cento degli intervistati dichiara di guardarla regolarmente (1982). Comunque il 60 per cento dei protestanti intervistati
ha sostenuto di guardarla occasionalmente. Per quanto riguarda la radio,
le preghiere messe in onda quotidianamente hanno una quota di ascolto
regolare del 6 per cento44. Non sorprende che tutte le trasmissioni
ecclesiastiche siano viste o ascoltate tendenzialmente da persone
43 Si veda K. HoIzamer, «Positionen, Erfahrungen und Erwartungen im Verhältnis der Kirchen
zu den öffentlich-rechtlichen Rundfunkanstalten in der Nachkriegsentwicklung» e l’appendice
«Rechtsgrundlagen der öffentlich-rechtlichen Rundfunkanstalten, die sich auf die
Religionsgemeinschaften beziehen» in J. Krautscheidt e H. Marré (a cura di), Essener Gespräche zum
Thema Staat und Kirche, Münster, 1978, pp. 55-65 e 141-49. Sui recenti sviluppi nella disciplina delle
emittenti private si veda C. Link e A. Pahlke, Kirchen und privater Rundfunk, München, 1985.
44 j. Hanselmann, H. Hild e E. Lohse (a cura di), Was wird aus der Kirche?, Gütersloh, Gütersloher
Verlagshaus, 1984, pp. 226 sgg.
342
Karl-Fritz Daiber
religiosamente orientate: al crescere della partecipazione alle funzioni
religiose aumenta anche l’interesse per l’ascolto o la visione di trasmissioni
religiose, radiofoniche o televisive. Quanto detto a proposito della stampa
ecclesiastica vale corrispondentemente per le trasmissioni di evangelizzazione in radio e televisione: le trasmissioni religiose contribuiscono
in modo essenziale alla comunicazione interna al sistema ecclesiastico.
Anche quando si tiene conto di ciò, la quota di persone indifferenti nei
confronti della religione è sempre più alta tra coloro che si sintonizzano
sulle trasmissioni religiose televisive o radiofoniche che tra coloro che
prendono parte agli eventi della chiesa locale.
Le diocesi cattoliche e le chiese territoriali evangeliche hanno nominato
dei responsabili di trasmissione per le emittenti situate nel rispettivo
territorio; altrettanto vale per il Deutschlandfunk, la Deutsche Welle, e lo
Zweites Deutsches Fernsehen, mentre ci sono responsabili televisivi
ecclesiastici a livello statale. Compito dei responsabili e dei loro collaboratori è prendersi la responsabilità e stabilire il carattere delle trasmissioni radiotelevisive di evangelizzazione e curare a tal scopo i rapporti
con le emittenti, soprattutto con le redazioni specializzate. Al lavoro dei
responsabili radiofonici evangelici prendono parte anche le chiese
evangeliche indipendenti.
Nel campo dell’attività e della politica massmediatica delle comunità
religiose si nota nuovamente che la differenziazione, al livello della società
nel suo insieme, del sistema di comunicazione produce nelle chiese
organizzate una differenziazione interna. I rapporti che il diritto prevede,
possono acquistare significato pratico solo se sono definiti i punti di
partenza delle chiese nell’ambito della stampa e della radiotrasmissione.
Essendo le chiese nella Repubblica federale associazioni di grandi
dimensioni, sono coinvolte nel processo di differenzazione sociale e
subiscono il corso della modernizzazione, anche se sul piano programmatico dell’ecclesiologia non mancano le obiezioni.
Rimane notevole la scarsa capacità di mediazione delle esigenze delle
chiese al livello della società nel suo insieme. Questo ha che fare forse con il
fatto che a quel livello la religione non è proprio più comunicabile nella sua
forma specifica, com’è ovviamente il caso, invece, all’interno del sistema
religioso. Mentre nell’ambito interno alla religione si giunge addirittura a un
aumento della complessità, al livello della società nel suo insieme, per la
generalizzazione che necessariamente si produce, avviene una riduzione di
complessità a causa della quale non si può trasmettere con precisione
sufficiente né lo specifico cristiano né tanto meno lo specifico di una
singola confessione cristiana.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
343
5.5. Comunità religiose e stato sociale
La Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca caratterizza
l’apparato statale come stato federale sociale (art. 20). Con questa
definizione si prendono le distanze da una concezione dello Stato che veda
in esso solamente un’istituzione atta a garantire la sicurezza rispetto
all’esterno e la pace giuridica all’interno.
La concezione dello Stato alla base del concetto di «stato sociale» ha
preso forma soprattutto nella legge federale sull’assistenza sociale del 1961
e nei suoi aggiornamenti. Vi è indicata anche la funzione delle chiese nella
struttura dello stato sociale, come pure la funzione delle associazioni
assistenziali indipendenti. L’assistenza sociale è un pubblico dovere (§ 9),
ma l’attività sociale delle chiese e delle società di beneficenza è riconosciuta
espressamente nella sua indipendenza (§ 10). Si stabilisce che l’assistenza
sociale statale deve effettuarsi in accordo e mutua cooperazione con le
associazioni assistenziali indipendenti e con le chiese e le altre associazioni
religiose, e al tempo stesso si accorda un ruolo primario agli operatori
indipendenti. Se si considerano inoltre due altri principi essenziali della
statalità realizzata nella Repubblica federale, ossia il principio della
democrazia rappresentativa e, in campo economico, il principio
dell’ordinamento economico nelle forme di mercato, la Repubblica
federale si presenta come una formulazione possibile dello stato sociale
europeo occidentale e nordamericano, intendendo con stato sociale quella
forma di organizzazione sociale «caratterizzata dall’unione della forma
statale democratica e della forma economica capitalistica privata con un
solido settore sociale statale regolato centralmente, alle cui prestazioni vige
per ciascuno un diritto garantito dallo Stato secondo criteri di bisogno
definiti giuridicamente»45.
Quando la legge federale sull’assistenza sociale, al fine della realizzazione dei benefici dello stato sociale, oltre alle chiese richiama le associazioni assistenziali indipendenti, intende le sei associazioni maggiori nel
campo dell’assistenza volontaria formatesi nel corso del XIX e all’inizio del
XX secolo in Germania:
1) l’Assistenza ai lavoratori, fondata nel 1919, vicina ai partiti socialisti
nelle loro varie sfumature;
2) la Croce rossa tedesca, fondata nel 1863;
3) l’Associazione paritetica tedesca di assistenza, fondata nel 1924,
indipendente sia dall’autorità statale sia sul piano confessionale, che ri45
F.-X. Kaufmann, Religion und Modernität, Tübingen, 1989, p. 94.
344
Karl-Fritz Daiber
spetta le motivazioni particolari delle singole organizzazioni che ne fanno
parte;
4) il Centro di assistenza agli ebrei in Germania, fondata nel 1917 e
rifondata nel 1951;
5) la Caritas tedesca, fondata nel 1897;
6) l’Opera diaconale della chiesa evangelica tedesca, la cui forma attuale
è sorta nel 1976 dall’unificazione della Commissione centrale per la
missione interna della chiesa evangelica tedesca (fondata nel 1848 per
iniziativa di Johann Hinrich Wichern) e dell’Opera assistenziale evangelica
(risalente al 1946). Forme preliminari di unificazione erano già state avviate
sin dal 1957.
Nelle associazioni di questo gruppo si raccolgono i più diversi operatori
e le più diverse strutture di assistenza sociale o di intervento sociale nei
rispettivi campi d’azione. Le associazioni stesse hanno funzioni di
rappresentanza verso l’esterno, coordinamento e direzione verso il proprio
interno. Nell’ambito della legislazione sociale partecipano alla stesura delle
nuove proposte di legge. Le associazioni assistenziali non confessionali si
sono costituite durante la repubblica di Weimar, dunque dopo la prima
guerra mondiale. Vi era allora la tendenza, soprattutto nella socialdemocrazia tedesca, a limitare l’attività sociale d’impronta confessionale come fattore sociale pubblico. Queste aspirazioni non si avverarono, tuttavia portarono a una rappresentanza indipendente dell’attività sociale non confessionale in Germania.
L’intervento e l’assistenza sociali effettivamente erogati nella Repubblica
federale tedesca si appoggiano soprattutto alle strutture delle associazioni
assistenziali private, ma gli operatori confessionali prevalgono all’interno
delle associazioni private. L’associazione maggiore in Germania è la
Caritas, che conta circa 250.000 collaboratori in rapporto con la sede
centrale, seguita dall’Opera diaconale con poco più di 200.000 collaboratori
e collaboratrici professionali. Le organizzazioni assistenziali delle chiese
seguono immediatamente lo Stato nell’elenco dei maggiori datori di lavoro
della Repubblica federale46. Nel dettaglio, le statistiche relative all’Opera
diaconale registravano all’inizio del 1988 circa 4.000 strutture per
assistenza di lungo periodo, più di 9.000 strutture d’assistenza
giornaliera, 400 strutture di formazione, aggiornamento e
perfezionamento per incarichi sociali, 5.800 consultori e servizi mobili,
più quasi 7.000 gruppi di appoggio e di autosostegno, associati tra
46 Si veda P. Tbinnes, «Sozialstatistik zum kirchlichen und religiösen Leben in der Rundesrepublik
Deutschland» in Gegenwartskunde, numero speciale 5, 1988, a cura di F’.-X. Kaufmann e B. Schäfers,
Opladen, 1988, pp. 203-17, in particolare p. 216.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
345
di loro, nel complesso più di 26.000 strutture con 900.000 posti letto,
196.000 collaboratori e collaboratrici professionali e 84.000 occupati a
tempo parziale47.
Le strutture collegate alle associazioni assistenziali confessionali
hanno gestioni di carattere molto differente: nel 1970, da parte
evangelica, si partiva dal fatto che tra le strutture collegate all’Opera
diaconale i120 per cento fosse gestito da enti di diritto pubblico come le
comunità ecclesiali locali, i decanati, le associazioni ecclesiali. La
gestione avveniva nel 40 per cento dei casi sotto forma di associazione,
per il 23 per cento attraverso fondazioni e il resto era affidato a enti in
base a concessioni ecclesiastiche e società di pubblica utilità. Questo
evidenzia, per quanto riguarda le forme legali, un accentuato pluralismo
interno, che si presenta in modo analogo sul versante cattolico.
Il finanziamento delle spese di esercizio della diaconia, che all’inizio
degli anni ottanta ammontava a circa 10 miliardi di marchi l’anno, nel
1982 ha avuto luogo nel modo seguente:
― attraverso le assicurazioni obbligatorie (prestazioni delle casse malattia e
altro): 34 per cento;
― col contributo delle strutture pubbliche di assistenza sociale e per i
giovani: 27 per cento;
― attraverso sovvenzioni pubbliche: 11 per cento;
― attraverso contributi di donatori privati: 17 per cento;
― con fondi propri: 11 per cento.
Relativamente bassi sono i contributi diretti delle chiese (con il 10
per cento del costo complessivo di esercizio nel 1970). Ancora minore è
la quota proveniente da offerte volontarie e collette (circa 1’1 per cento), anche se nel 1979 si raccolsero intorno a 300 milioni di marchi tra
collette, raccolte e offerte48.
Dal punto di vista delle uscite, la maggior parte del volume dei finanziamenti copre i costi del personale. L’attività sociale richiede personale numeroso. I collaboratori dell’Opera diaconale, come pure quelli
della Caritas, sono pagati secondo tariffe che di regola corrispondono a
quelle dei servizi pubblici della Repubblica federale. L’espansione delle
associazioni assistenziali indipendenti e del loro lavoro che si può rilevare nella Repubblica federale è riconducibile, da una parte, alle disposizioni giuridiche nel quadro dello stato sociale, cioè a una concezione
47 Diakonie 88/89, Jahrbuch des Diakonischen Werkes
48 Si veda J. Degen, «Finanzentwicklung
der Ekd, Stuttgart, 1989, pp. 330.
und Finanzstruktur im Bereich der
Diakonie. Ein Üherblick» in W. Lienemann (a cura di), Die Finanze der Kirche cit., pp.
250-72.
346
Karl-Fritz Daiber
dello stato sociale che coopera appunto con gli operatori indipendenti,
dall’altra, alla prontezza delle chiese cristiane a impegnarsi secondo queste
disposizioni, partecipando alla realizzazione delle prescrizioni generali dello
stato sociale, e con ciò a tener conto delle tendenze dello stato sociale dal
punto di vista dell’organizzazione interna, cioè della crescente burocratizzazione, della professionalizzazione dei servizi, della riduzione del volontariato
e di crescenti esigenze finanziarie che derivano anch’esse dagli standard
previsti dallo Stato. Del resto bisogna anche notare che la diaconia delle
chiese indipendenti partecipa normalmente alla cooperazione tra associazioni
assistenziali e stato sociale. Essa è in misura preponderante inserita nell’Opera diaconale della chiesa evangelica tedesca. Per quest’intreccio così stretto
sorgono continuamente questioni giuridiche di non facile soluzione a
proposito dei rapporto tra Stato e Chiesa49; altrettanto difficile è ottenere un
profilo cristiano che possa caratterizzare le strutture della diaconia e della
Caritas. Quest’ultimo problema dipende in particolare dal fatto che i collaboratori hanno un orientamento fortemente pluralistico, non nella stessa misura
in cui lo sono le chiese stesse, ma comunque in modo analogo50.
Il forte coinvolgimento delle chiese e delle loro associazioni assistenziali
nell’azione dello stato sociale non è uno sviluppo recente o specifico della
Repubblica federale. Trova dei precedenti nella repubblica di Weimar, nelle
tradizioni del XIX secolo, dei XVII e del XVIII secolo, e in particolare
naturalmente dell’epoca della Riforma. All’interno del regime ecclesiastico
proprio delle chiese territoriali, nel corso del XVI secolo negli stati tedeschi
evangelici furono varati ordinamenti ecclesiastici che solitamente comprendevano anche la regolamentazione giuridica del matrimonio, della scuola e
dell’assistenza ai poveri. La supervisione dell’assistenza ai poveri spettava alle
autorità ecclesiastiche. Così tra le autorità di pubblica sicurezza e le strutture
di assistenza ai poveri prese rapidamente forma una collaborazione, si
percepì la pericolosità per lo Stato di strati di popolazione non integrati, e la
povertà fu considerata sempre più un potenziale di disgregazione.
Più la società organizzata per ceti perdeva di significato, più le strutture di
una società industriale prendevano forma, meno avevano effetto gli
ordinamenti prescritti dalla tradizione preindustriale, anche nell’ambito
dell’intervento sociale. Così, soprattutto nel XVIII e nel XIX secolo sono
nati nuovi impulsi sulla base di iniziative individuali.
49 Si veda A. von Canapenhausen e H. J. Erhardt, Kirche, Staat, Diakonie, Hannover, Verlag des
Amtsblattes, 1982.
50 Si veda K.-F. Daiber, Diakonie und kirchliche Identität, Hannover, Lutherisches Verlagshaus, 1988.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
347
L’Illuminismo si sentiva vincolato in parte anche a ideali filantropici. I
circoli pietistici hanno percepito chiaramente la responsabilità sociale
(August Hermann Franke a Halle ne è un esempio ragguardevole). Le
iniziative individuali hanno portato soprattutto nel XIX secolo alla
formazione di diverse associazioni con compiti sociali in senso caritativo,
dando così vita a un’attività sociale non statale su vasta scala. I motivi erano
molti, l’intervento sociale era ad esempio legato, tra l’altro, all’interesse per
una ricristianizzazione del proletariato che allora si stava formando
(Missione interna). Una prima unificazione di questo movimento avvenne
nel campo protestante grazie a Johann Hinrich Wichern (dal 1848).
L’intervento sociale della chiesa cattolica proseguiva nelle mutate
condizioni la tradizione medievale, e poteva sempre contare sull’attività
degli ordini religiosi. Le associazioni operaie cristiane non furono prive di
rilevanza, soprattutto a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo. La
particolare situazione politica del cattolicesimo nella Germania, paese
prevalentemente protestante, portò nel 1870 alla fondazione di un nuovo
partito: il Centro, che divenne sempre più l’organizzazione politica di tutti i
cattolici. Suo interesse era di far valere nello Stato i principi cristiani
cattolici. Nonostante tutti i contrasti dell’epoca, emergeva qui un
avvicinamento al protestantesimo conservatore, che da parte sua si sentiva
tenuto a sostenere l’idea di uno stato cristiano. C’erano ragioni di un certo
peso per l’introduzione foriera di una legislazione sociale complessiva
(assicurazioni contro la malattia, la vecchiaia, la disoccupazione) nel 1881.
Tentativi precorritori dello stato sociale si potevano registrare del resto sin
dalla fine del XVIII secolo51. La formazione dello stato sociale in Germania
è stata però sempre accompagnata dall’attività delle associazioni, degli
istituti e di altre istituzioni d’assistenza nonché dei loro raggruppamenti.
Perciò non è sorprendente che anche dopo il 1918 non si potesse giungere
alla piena statalizzazione di tutto l’intervento sociale. Solo al tempo del
nazionalsocialismo emersero più forti tendenze a includere l’assistenza e
l’intervento sociale, ossia l’intera attività assistenziale, nell’intervento statale
controllato dal partito (Ns-Volkswohlfahrt).
L’ordinamento della Repubblica federale si è riallacciato alla tradizione
precedente e ha rafforzato addirittura la funzione delle attività
assistenziali indipendenti in rapporto alle misure statali. Gli influssi della
dottrina sociale cattolica, soprattutto del principio di sussidiarità, operano
qui in modo inconfondibile. Per Franz-Xaver Kaufmann la forma
51 Particolarmente importante in questo contesto è la prima legge prussiana di protezione
dei fanciulli del 1839.
348
Karl-Fritz Daiber
odierna dello stato sociale tedesco è in continuità evidente con le concezioni sociali e politiche del cattolico Partito del centro52.
Grazie al loro intervento sociale le due chiese cristiane maggiori hanno
guadagnato un considerevole influsso all’interno dell’apparato complessivo
della Repubblica federale. Certo, sostanzialmente le persone bisognose di
aiuto possono scegliere sempre tra più organizzazioni assistenziali, ma
sovente non possono che ricorrere alle strutture confessionali. Anche
nell’ambito sociopolitico l’influsso delle associazioni confessionali maggiori
è considerevole, il che non dipende in ultima istanza dalle loro effettive
dimensioni.
Il sostegno statale alle iniziative sociali degli operatori confessionali,
come di altri, rappresenta un evidente potenziale di modernizzazione.
Così, ad esempio, l’aumento del tasso di disoccupazione negli anni ottanta ha comportato una varietà di iniziative corrispondenti in favore dei
disoccupati o da parte dei disoccupati. Anche le prescrizioni statali hanno
effetti di modernizzazione. Un recente esempio è l’allestimento di reparti
di assistenza ambulatoriale a livello locale. AI posto delle infermiere
comunali, solitamente religiose, si sono formate delle équipe di cura più
complesse alle quali cooperano le diverse associazioni assistenziali. La
differenziazione delle équipe di collaboratori doveva diventar possibile,
ed è quanto di fatto si è raggiunto, insieme comunque a un incremento
della burocratizzazione dell’assistenza, che è vincolata a direttive
predeterminate. Nonostante il vasto raggio di attività assistenziali
indipendenti, è cresciuto nel complesso l’influsso dello Stato. Questa
potrebbe essere una ragione per cui negli ultimi anni sono sorte libere
iniziative nell’ambito dell’assistenza. Va osservato comunque che le libere
iniziative, non appena richiedono un impegno finanziario maggiore, ad
esempio per i costi del personale, richiedono di essere integrate
nell’attuale sistema dell’intervento sociale. Si evidenzia così il processo
evolutivo iniziatosi: accresciuta professionalizzazione, accresciuta
burocratizzazione, accresciuta necessità di finanziamento, relativamente
irreversibili. Questo è problematico, quanto meno per le chiese, nella
misura in cui alla crescente differenziazione della diaconia e della Caritas
sul piano dell’intervento sociale è collegata al tempo stesso una equiparazione sul piano del settore specificamente religioso. Sul piano del
52 F.-X. Kaufmann, Religion und Modernität cit., p. 14. Per Ie dinamiche storiche si veda
anche T. Nipperdey, Religion im Umbruch cit. Per le associazioni di beneficenza in generale si
veda R. G. Heinze e T. 0lk, «Wohlfahrtsverbände» in H. Eyferth, Orto e H. Tiersch (a cura
di), Handbuch zu Sozialarbeit-Sozialpädagogik, Neuwied-Darmstadt, Luchterhand Verlag, 1984,
pp. 1262-77.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
349
consenso cristiano dei collaboratori si può raggiungere solo un livello
relativamente generalizzato: forme specifiche di cristianesimo non si possono né supporre né conseguire. La diaconia e la Caritas evidenziano così
di essersi adeguate, se non pienamente certo in misura elevata, alla generale
normalità sociale.
5.6. La religione come elemento della cultura politica
La religione civile, come è stata descritta da Robert Bellah, e da altri e
che a lui si richiamavano, soprattutto a proposito degli Stati Uniti d’America, in Germania non esiste quasi più. Prendiamo qui il concetto di
religione civile in senso stretto, come un’espressione che indica tutti i
fenomeni di simbologia religiosa che servono alla formulazione dell’identità
nazionale o statale e quindi a un tempo all’integrazione sociale e alla
legittimazione statale53. Che nella Repubblica federale esista solo in misura
limitata una simbologia religiosa in funzione di legittimazione dello Stato, lo
si deve alla storia tedesca degli ultimi settant’anni, in particolare
all’esperienza delle due guerre mondiali. Sin dal tempo della guerra di
liberazione antinapoleonica, all’inizio del XIX secolo, ci si trovò
chiaramente di fronte a un approfondimento religioso della nascente
autocoscienza nazionale, connesso a orientamenti del romanticismo
tedesco ed espresso soprattutto nella predicazione protestante. La
fondazione religiosa dell’idea nazionale, e in seguito anche del nazionalismo, si sviluppò ulteriormente sulla scorta dell’esperienza della guerra
franco-tedesca del 1870-71 ed ebbe il proprio culmine all’inizio della prima
guerra mondiale, nel 1914.
La significatività religiosa di nazione e Stato era sostenuta in prima linea
dai protestanti. I cattolici si comportavano nel complesso con maggior
cautela, l’internazionalità della chiesa cattolica poneva in secondo piano
l’elemento nazionale. Ma tra il 1871 e il 1914 anche i cattolici aderirono al
nazionalismo, cosicché nel 1914 pure il cattolicesimo tedesco sosteneva in
modo inequivoco la causa nazionale, formulando questa difesa anche in
linguaggio religioso54. L’orientamento nazionale delle chiese cristiane sin dal
secondo terzo del XIX secolo rese possibili modelli di interpretazione civilreligiosi che andavano ben oltre la religione istituzionalizzata.
Dopo la prima guerra mondiale iniziò, trai protestanti, un prudente
53 Il dibattito sulla religione civile si limita, in lingua tedesca, a H. Kleger e A. Müller (a cura di),
Religion des Bürgers, München, 1986.
54 Si veda T. Nipperdey, Religion im Umbruch cit., pp. 46 sgg.
350
Karl-Fritz Daiber
distacco da una prassi che metteva a disposizione la simbologia religiosa
per la fondazione dell’identità nazionale. Comunque questi accenni, ispirati
soprattutto dalla teologia di Karl Barth, rimasero marginali, e ancora
predominò la disponibilità all’interpretazione religiosa della nuova situazione tedesca e anche alla formulazione di speranze nel superamento
della sconfitta, magari in forma di attesa di una grande personalità guida.
Ampie cerchie del protestantesimo erano ancora pervase da questa
atmosfera nel 1933, cosicché la presa di distanza dalla nuova ideologia
avvenne solo gradatamente, in parte per motivazioni ecclesiali e teologiche,
in parte per ragioni politiche.
La fase di riconsolidamento dopo il 1945 fu caratterizzata dall’intenzione di porre saldi elementi morali a fondamento dell’agire politicostatale. Si verificò dunque un ritorno al diritto naturale come fondamento
del diritto, intendendo sovente l’ordine del diritto naturale come ordine
della creazione divina. Il preambolo della Legge fondamentale, e in
particolare poi i preamboli delle costituzioni dei Länder federali, sono
informati a tale concezione, come anche le prescrizioni delle finalità del
sistema scolastico, che risalgono appunto a quell’epoca (si veda il paragrafo
5.3). I testi più esplicitamente civil-religiosi delle costituzioni rispecchiano le
esperienze di quegli anni, si rifanno essenzialmente all’idea e alle finalità di
una politica di orientamento cristiano, e trovarono naturalmente un
sostegno esplicito nelle due chiese cristiane maggiori. Nondimeno, si
faceva strada la tendenza a evitare una simbolizzazione religiosa della
situazione statale e soprattutto nazionale. Non si doveva più arrivare
all’abuso civil-religioso della fede cristiana. Lo si è visto nettamente, ad
esempio, tra il 1989 e il 1990: non hanno praticamente avuto luogo
funzioni religiose di ringraziamento per la fine della divisione della
Germania, i predicatori si sono straordinariamente trattenuti dall’affrontare
in termini religiosi le nuove esperienze. Se il 3 ottobre 1990, il giorno
dell’unificazione statale, è stato festeggiato suonando le campane, ciò è
avvenuto tra fortissime discussioni. Ma, indipendentemente dalla prassi
delle chiese, i politici hanno usato anche formulazioni religiose
nell’interpretare la nuova situazione: l’esperienza della riunificazione è stata
considerata come un dono di Dio. In parte ciò è avvenuto in affermazioni
del tutto spontanee, nate in un contesto immediato di esperienza vissuta.
Quest’ultima osservazione rimanda al fatto che anche quando la simbologia religiosa non è più coinvolta nel sostenere l’identità nazionale, o lo
è solo raramente, si può giungere a situazioni in cui un’esperienza collettiva
predominante all’interno di uno stato deve essere discussa in quanto
esperienza che si compie incondizionatamente, come è stato do-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
351
po la seconda guerra mondiale per l’esperienza collettiva del crollo nazionale
e dei nuovi obblighi morali che ne risultavano, un’esperienza, come si è
detto, ancora simboleggiata in modo esplicitamente religioso, e come è
avvenuto recentemente con l’esperienza dei travolgenti effetti della riapertura
dei confini tra i due stati tedeschi nel 1989. Esperienze nazionali elementari
possono dare luogo, sotto forma di commemorazione, a rituali nazionali di
fondazione dell’identità e di espressioni di nuovi obblighi. Una simile
occasione è stata rappresentata dal quarantennio della capitolazione tedesca
del 1945, celebrato 1’8 maggio 1985. Dal 1950, nella seconda domenica di
avvento si celebra regolarmente la giornata di lutto nazionale istituita nel
1922. Le forme rituali della giornata di lutto nazionale sono tuttora le
cerimonie di impronta più fortemente civil-religiosa. Ciò vale anche per i
discorsi che si tengono quel giorno al parlamento federale, alternativamente
da parte di rappresentanti dell’Associazione nazionale per la cura dei cimiteri
di guerra, del governo, del mondo scientifico, ma anche di rappresentanti
ecclesiastici. Tendenzialmente in questi discorsi scarseggiano le formulazioni
esplicitamente religiose, sono i vescovi di regola a scegliere un linguaggio
marcatamente cristiano. Le formulazioni nazional-religiose non sono usuali,
sono anzi evitate molto scrupolosamente.
Altre occasioni in cui si giunge tuttora all’impiego di formulazioni
religiose in dichiarazioni pubbliche sono Natale e Capodanno. In questi
casi il presidente federale, il cancelliere federale e in parte i capi dei governi
dei Länder si rivolgono al «popolo della nazione». Anche qui, comunque,
va osservato un estremo ritegno nell’adoperare simboli religiosi.
L’esposizione precedente si basa su una concezione della religione civile
quale è rappresentata ad esempio da Hermann Lübbe. Egli definisce così la
religione civile:
Si tratta di un patrimonio di cultura religiosa che è integrato nel sistema politico e
che in tal. modo non resta affidato alle comunità religiose come una questione
interna; così esso lega i cittadini alla collettività politica anche nella loro esistenza
religiosa e rende visibile questa stessa collettività, nelle sue istituzioni e nei suoi
rappresentanti, come in ultima istanza religiosamente legittimata55.
Lübbe riscontra la presenza di una religione civile di tal fatta soprattutto in certe parti del sistema giuridico e in dichiarazioni di titolari di
uffici pubblici56. Ma al di là dei fenomeni che si possono raccogliere
55 H. Lübbe, «Staat und Zivilreligion» in H. Kleger e A. Müller (a cura di), Religion des
Bürges cit., pp. 195-220, in particolare p. 195.
56 Ibid., p. 198.
352
Karl-Fritz Daiber
sotto questo concetto, naturalmente la religione è un elemento della
cultura, e perciò un elemento della cultura politica, anche in un senso
molto più ampio. Nella Repubblica federale, nonostante il distacco
crescente dalle chiese cristiane, la religione è presente in forma pubblica in molteplici modi e proprio nella sua forma tradizionale cristiana.
È tutelato il riposo domenicale. E consentito e, salvo eccezioni, ampiamente tollerato, suonare pubblicamente le campane. L’insegnamento della religione cristiana è prassi normale nelle scuole pubbliche e a
Natale il patrimonio cristiano prende il sopravvento su tutte le altre
materie, anche quando rimane presente solo in forme minime (recite e
canti natalizi, buone azioni per Natale ecc.). I rituali che scandiscono il
ciclo vitale sono in misura preponderante rituali cristiani. Ai funerali di
personalità politiche le cerimonie statali e quelle religiose si intrecciano. Nonostante le proteste di singoli gruppi, questa presenza della religione nel mondo-della-vita è in gran parte immediata, sovente tanto
immediata che non giunge a coscienza come una particolarità religiosa
cristiana. È sorprendente che questa religione radicata nel mondo-della-vita rimanga determinata cristianamente contro ogni pluralismo
delle concezioni del mondo, a partire dalle strutture organizzative temporali fondamentali (la domenica, il ritmo annuale scandito dalle feste
cristiane ecc.) per arrivare agli edifici simbolici della tradizione cristiana, le chiese delle città e dei villaggi. Si riconferma nuovamente l’osservazione di un’estensione limitata del pluralismo delle concezioni del
mondo. Questo è presente negli orientamenti vitali acquisiti personalmente, e per ciò stesso privati, piuttosto che nelle simbolizzazioni che
operano pubblicamente. Resta degno di menzione che la critica al fenomeno della religione civile e della religione culturale sia espressa,
certo, anche da coloro che sostengono una posizione umanista e illuminista, ma ancor più, soprattutto nel protestantesimo, da teologi e
gruppi ecclesiali che ritengono essenziale che la Chiesa si concentri sul
proprio contenuto cristiano e respingono come problematica ogni
forma di trapasso da una stretta ecclesialità a interpretazioni di senso
più genericamente religiose57.
57 Per il proseguimento del dibattito sulla religione civile in Germania si veda H. Lübbe,
Religion nach der Aufklärung, Graz-Wien-Köln, Verlag Styria, 1986; per la discussione sui valori
fondamentali negli anni settanta si veda N. Luhmann, «Grundwerte als Zivilreligion» in H. Kleger e
A. Müler (a cura di), Religion des Bürges cit., pp. 175-94.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
353
6. La situazione delle due grandi chiese cristiane
6.1. La chiesa cattolica
Struttura. Il territorio della Repubblica federale si articola in ventidue
diocesi o arcidiocesi.
Le diocesi sono coordinate a livello nazionale dalla Conferenza episcopale tedesca. Essa si riunisce o in seduta plenaria della conferenza
episcopale o come consiglio permanente, al quale appartengono solo i
vescovi residenti. Nelle dieci commissioni della Conferenza episcopale,
accanto ai vescovi e agli ausiliari, operano esperti, alla preparazione dei
lavori cooperano anche uffici.
Le organizzazioni cattoliche laiche sono anch’esse riunite in una organizzazione su scala federale, il Comitato centrale dei cattolici tedeschi,
che dispone di una commissione permanente, con funzioni consultive,
articolata a sua volta in diversi settori58.
Statistiche. Nell’ambito della Repubblica federale in occasione del censimento del 1987 sono stati registrati 26,2 milioni di cattolici, una quota di
popolazione pari al 42,9 per cento. Nel 1986 si stimava che 6,4 milioni di
fedeli praticassero le funzioni, vale a dire il 23,3 per cento del totale dei
cattolici59. Benché viga tuttora il dovere di partecipare alla messa
domenicale, l’assiduità dei fedeli è in declino. Nel 1946 la quota dei fedeli
che partecipavano alla messa tra i cattolici ammontava al 42,9 per cento e
nel 1950 raggiungeva un massimo del 50,4 per cento. Questo livello di
partecipazione superava persino quello raggiunto tra il 1927 e il 1929 (40,9
per cento) e nel periodo compreso tra il 1933 e il 1938 (oscillante tra il 44 e
il 49 per cento). Tra il 1950 e il 1954 la frequenza alla messa è rimasta quasi
costante sul limite del 50 per cento, in seguito è scesa continuamente, a
volte con balzi repentini: come tra il 1966 e il 1971, periodo in cui è scesa
dal 44,2 al 35,8 per cento.
All’interno delle diocesi tedesche la frequenza alla messa domenicale
non è affatto omogenea. Ad esempio, nel 1958 il tasso di partecipazione
nella diocesi di Treviri giungeva al 56 per cento, mentre nella dio58 Si veda P. M. Zulehner, «Die katholische Kirche» in Deutschland: Portrait einer Nation, vol. 2,
Gesellschaft, Staat, Recht, Gütersloh, Bertelsmann Lexikothek Verlag, 1985, pp. 114-25, in particolare, p.
125.
59 Kirchliches Handbuch, a cura del Segretariato della Conferenza episcopale tedesca, Meckenheim,
1989, vol. 29, 1976-86, p. 14.
354
Karl-Fritz Daiber
cesi di Essen si attestava al 35 per cento. Sia il grado di urbanizzazione sia il
grado di industrializzazione di una regione geografica, come pure l’omogeneità confessionale, svolgono un ruolo evidente. Comunque, la partecipazione alla messa domenicale è diminuita in tutte le diocesi, mentre i dislivelli si sono complessivamente mantenuti tali. Nel 1975 Essen è scesa al
22,8 per cento, mentre Treviri è scesa al 40,9 per cento. Nel 1984 a Essen
la partecipazione alla messa è calata sino al limite del 17,4 per cento60. La
partecipazione ai rituali del ciclo della vita (battesimo, prima comunione,
cresima, matrimonio, funerale), nonostante il declino della frequenza
domenicale, resta stabilmente elevata. Le differenze regionali, nelle quali, di
nuovo, si riflettono soprattutto il grado di urbanizzazione e l’omogeneità
dell’ambiente cattolico, si individuano chiaramente.
Nel 1979 si contavano nella Repubblica federale tedesca 23.842 sacerdoti, dei quali 17.827 appartenenti al clero secolare e 6.015 agli ordini
religiosi61. Il numero dei sacerdoti è in calo, nel 1967 si contavano ancora
27.519 sacerdoti, e dal confronto con il 1979 emerge un evidente declino.
Per contro, il numero degli studenti che frequentano l’insegnamento della
teologia cattolica nelle università della Germania Occidentale è
considerevolmente aumentato. Questo non ha influito in misura
corrispondente sul numero degli aspiranti al sacerdozio. Comunque, anche
questi ultimi registrano nuovamente un incremento (ad esempio, nella
diocesi di Essen, un aumento del 40 per cento dal 1978 al 1984).
Secondo l’ Annuarium statisticum ecclesiae del 198362, al 31 dicembre 1981
nella Repubblica federale esistevano 11.893 parrocchie, a 2.802 delle quali
non era assegnato un sacerdote. Accanto alle parrocchie si contavano altri
1.686 centri religiosi. L’Annuarium statisticum calcolava che nel 1981 vi
fossero 22.175 sacerdoti nella Repubblica federale, constatando perciò un
ulteriore calo rispetto al 1979. Inoltre risultavano 893 diaconi, 2.717
membri laici di ordini religiosi, 60.578 religiose. Nell’ Annuarium non sono
compresi i laici che svolgono un servizio continuativo per la Chiesa. Ciò
vale anche per i laici che hanno una completa preparazione teologica e
operano nelle diverse diocesi come incaricati o assistenti alla pastorale.
Uno sguardo più preciso alla situazione dei collaboratori delle diocesi
tedesche è consentito, ad esempio, dalle statistiche ecclesiastiche della
diocesi di Essen. Nel 1984 vi si contavano 958 sacerdoti e, alla stessa
epoca, 3.450 laici con compiti di responsabilità. Essi operano nelle co60 Dati dell’Institut für Kirchliche Sozialforschung Essen per il 1984.
61 Dati del Segretariato della Conferenza episcopale tedesca.
62 A cura della Segreteria di Stato, Rationarium Generale Ecclesiae, Roma.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
353
munità locali, negli istituti scolastici e nelle scuole speciali a gestione
ecclesiastica o nelle istituzioni caritative o assistenziali. Nell’ambito della
diocesi di Essen esistono, ad esempio, 393 istituti scolastici e scuole speciali e 685 istituzioni caritative e assistenziali63.
Profilo della chiesa cattolica tedesca. Si può parlare solo limitatamente di un
profilo unitario, perché emergono chiaramente differenze regionali. Il
cattolicesimo della Germania settentrionale, che di regola rappresenta una
confessione minoritaria, è fortemente influenzato dall’ambiente
protestante. In zone di cattolicesimo omogeneo può preservarsi, anche in
misura elevata, la validità di forme propriamente cattoliche di devozione
tradizionale (devozione mariana, pellegrinaggi). Nelle zone agricole della
Baviera la chiesa cattolica è radicata in massimo grado nelle molteplici
forme di devozione popolare.
Con i sinodi generali dei vescovi tenutisi a Würzburg tra il 1971 e il
1975 si è cercato di tradurre nella prassi pastorale i forti impulsi provenienti dal Concilio Vaticano IL Forme di gestione democratica (consigli) hanno preso forza, anche se come sempre la corresponsabilità dei
laici nel dominio spirituale è limitata. Tanto più stupisce, in questo panorama, che la partecipazione alla vita religiosa sia diminuita in misura
elevata. Ciò vale soprattutto per la frequenza alla messa domenicale, meno, per non dire niente affatto, per il ricorso ai rituali che scandiscono il
ciclo vitale. Le cause che hanno prodotto il calo della partecipazione alla
vita ecclesiale sono molteplici. L’estensione crescente del processo di
inurbamento delle zone agricole ha portato anche all’assunzione di modi
di comportamento urbani: rifiuto degli orientamenti collettivi, individualizzazione degli orientamenti di vita. È diminuita la rassicurazione
offerta dai costumi ecclesiastici, mentre sono nate forme svariate di
organizzazione del tempo libero, soprattutto è cresciuto l’influsso dei
mass media (televisione). Presumibilmente influisce soprattutto il fatto
che proprio orientamenti e comportamenti religiosi si siano nel
complesso individualizzati e perciò anche privatizzati. Le sanzioni sociali,
quando si interrompe la partecipazione alla vita ecclesiale e religiosa,
vengono largamente a mancare. L’abbandono della propria chiesa è
ormai da anni accettato pubblicamente, non è più sanzionato
negativamente, anche se proprio in questo ambito permangono
differenze regionali e le cifre delle uscite dalla chiesa cattolica sono
decisamente inferiori a quelle delle chiese territoriali evangeliche (nel 1986
si sono avute tra i cattolici 76.000 uscite ufficiali, pari allo 0,28 per cento).
63 Dati dell’Institut für Kirchliche Sozialforschung Esseri per il 1984.
356
Karl-Fritz Daiber
La struttura interna della chiesa cattolica tedesca è divenuta proteiforme.
La critica alla «chiesa burocratica», più precisamente alla gerarchia, si è
articolata. In questa critica si comprende sovente anche l’organizzazione laica
ufficiale, il Comitato centrale dei cattolici tedeschi.
In merito, i nuovi interessi, organizzati eventualmente in gruppi di base,
sono diversamente schierati. Accanto ai gruppi carismatici fanno parlare di sé
anche gruppi che si sentono tenuti a propugnare una teologia «politica»,
cercando di riprendere istanze della teologia della liberazione proveniente
dall’America del Sud. Questi gruppi si impegnano per la realizzazione della
giustizia per i poveri e i diseredati. Prendono parte attivamente al movimento
per la pace o si schierano in difesa dei diritti umani e dell’ambiente. Dal
punto di vista numerico rimangono naturalmente più importanti le
associazioni cattoliche tradizionali. Il sinodo cattolico che si tiene ogni due
anni rappresenta un forum delle molteplici forme di espressione dei mondo
cattolico, ed è frequentato persino da membri delle chiese evangeliche, così
come viceversa il sinodo della chiesa evangelica solleva interesse anche tra i
cattolici. Al congresso cattolico del 1986 ad Aachen sono stati dichiarati quasi
40.000 partecipanti all’intero incontro e altri 100.000 visitatori giornalieri64.
Proprio sul piano della prassi ecclesiale vissuta, l’incontro tra le confessioni è intenso e va anche oltre i confini posti dalle gerarchie. Tuttavia i
contatti «ecumenici» stanno diventando tendenzialmente più difficili,
soprattutto nelle diocesi con vescovi conservatori.
Il declino della partecipazione alla messa domenicale sembra aver
portato a un grande senso d’insicurezza tra i sacerdoti. Si pone la questione
del futuro della Chiesa e, insieme, la questione dei suo cammino. Deve
orientarsi con maggior vigore alle strutture esistenti o deve ricercare nuove
forme di vita ecclesiale? Il principio dell’assistenza religiosa distribuita
geograficamente deve continuare a valere o bisogna indirizzarsi a
raccogliere, dove se ne ha la possibilità, i cristiani impegnati? La discussione
«chiesa popolare (Volkskirche) o chiesa di comunità (Gemeindekirche)» non è
giunta ancora a un esito. Al di là delle diverse posizioni emerge comunque
il tentativo di valorizzare maggiormente il carattere di comunità
territoriale della parrocchia: la fede cristiana dovrebbe dar prova di sé
anche nella comunione che nasce dal cercare comune, dalla comune
percezione dei compiti che si pongono. Questo programma è inteso
sovente al tempo stesso come strategia missionaria e i confini posti dalle
attuali strutture ecclesiastiche non sono sempre considerati realistici.
Poiché l’allentarsi dei vincoli ecclesiali non ha semplicemente cau64
Statistisches Bundesamt, Statistisches jahrbuch cit., p. 86.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
357
se interne alla Chiesa, ma si basa su processi che interessano la società nel suo
insieme, non bisogna mettere in conto svolte di direzione fondamentali, ad
esempio per quanto riguarda il coinvolgimento nella vita ecclesiale.
A lungo termine va considerata particolarmente grave la «permanente
interruzione del processo di trasmissione della fede di generazione in
generazione»65. Ne risulta un invecchiamento delle comunità locali.
La chiesa cattolica in Germania concepisce se stessa all’interno della
società come una forza politica. Oppone particolare resistenza all’attuale
legislazione e prassi sull’aborto. L’interruzione legale della gravidanza
dovrebbe essere, nella sua concezione, un caso assolutamente eccezionale.
Questa istanza non è riuscita a imporsi neppure nella Cdu, per non dire degli
altri partiti sociali. I Verdi e, di recente, anche settori della Confederazione
sindacale tedesca (l’Ig-Metall nel 1986) si sono schierati in favore di una
totale liberalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza. Per
quanto riguarda la politica di difesa, la chiesa cattolica si esprime in senso
piuttosto conservatore, mentre è alquanto cauta sull’energia nucleare,
prendendo prudentemente posizione in favore delle energie alternative.
Questo indica già che almeno la gerarchia cattolica e i laici di rilievo sono
vicini piuttosto ai partiti conservatori, ossia alla Cdu e alla Csu. Ovviamente i
cattolici votano anche per la Spd e alcuni sono persino attivi tra i Verdi, ma
qui si esprimono piuttosto posizioni minoritarie. Ben più forte e di più
ampio effetto è di certo l’affinità tra fede cattolica e orientamento politico
conservatore.
6.2. Chiese evangeliche territoriali
Struttura. Nel territorio della Repubblica federale, compresa Berlino
Ovest, esistono diciassette chiese evangeliche territoriali. I loro confini si
rifanno in generale a quelli dei Under tedeschi, come si sono definiti nel
XIX secolo. Di recente costituzione è la chiesa del Nordelbien, nell’area
di Amburgo e dello Schleswig-Holstein. Corrispondentemente alle
situazioni confessionali predominanti nei singoli Under, si incontrano
nella Repubblica federale chiese luterane, che si basano sulla tradizione
dottrinale di Martin Lutero, chiese riformate, che si rifanno alla riforma
svizzera, nonché chiese unitarie, che risalgono a riforme del XIX secolo,
cioè ai tentativi di riunire le chiese protestanti di uno stesso stato per lo
meno in un’unione amministrativa. Tali unioni si perseguirono
65 K G. Kaufmann e F.-X. Kaufmann, «Der Katholizismus in deutschsprachigen Lädern» in
Gegenwartskunde, numero speciale 5, XXXVII, 1988, pp. 31-57, in particolare p. 47.
358
Karl-Fritz Daiber
particolarmente al tempo del Giubileo della Riforma, nel 1817, ad
esempio in Prussia.
Le chiese territoriali evangeliche si sono riunite il 31 agosto 1945 nella
Chiesa evangelica tedesca (Ekd, Evangelische Kirche in Deutschland). La
Ekd è una lega di chiese luterane, riformate e unitarie, che cura necessari
compiti comuni.
Le chiese territoriali luterane si sono inoltre riunite nella Chiesa unita
evangelico-luterana tedesca (Velkd, Vereinigte Evangelisch-lutherische
Kirche Deutschlands), alla quale comunque non appartengono le chiese
luterane di Oldenburg e Württemberg. Sul versante riformato esiste la Lega
riformata. Le chiese unitarie dell’antica Prussia che si trovano nell’ambito
della Repubblica federale tedesca e di Berlino Ovest costituiscono la Chiesa
evangelica dell’unione. Le chiese evangeliche territoriali della Repubblica
federale, ognuna per sé o attraverso la Chiesa evangelica tedesca, sono
chiese facenti parte del Consiglio ecumenico delle chiese e delle rispettive
unioni mondiali confessionali, ossia l’Unione mondiale luterana e l’Unione
mondiale riformata. Grazie alla riunificazione dei due stati tedeschi si
avranno alcune novità, che in parte però si ricollegheranno alla situazione
precedente alla divisione.
Statistiche. Alle chiese territoriali evangeliche appartenevano al 25
maggio 1987 25,4 milioni di membri, il che corrisponde al 41,6 per cento
della popolazione totale della Repubblica federale, inclusi dunque gli
stranieri che vi abitano. Il numero dei fedeli evangelici è andato rapidamente calando dal 1961. Nel giugno 1961 si contavano ancora 28,4 milioni di protestanti, corrispondenti a una quota della popolazione tedesca
superiore al 51 per cento. Bisogna attendersi un calo ulteriore, giacché le
uscite dalle chiese ammontano annualmente a circa 140.000 membri;
inoltre il tasso d’incremento demografico tra gli evangelici è inferiore a
quello dei cattolici.
In rapporto al numero complessivo dei fedeli, nel 1983 partecipavano
al servizio divino mediamente il 5,5 per cento dei protestanti. Analogamente alla chiesa cattolica, anche nelle chiese evangeliche territoriali
la frequenza alla funzione domenicale è cresciuta negli anni seguenti la
seconda guerra mondiale ed è oscillata sino al 1968 intorno a un limite di
circa 7 per cento. Tra il 1968 e il 1973 la frequenza è sensibilmente calata
e da allora ammonta al 5 per cento circa dei membri della chiesa
evangelica. Nella tabella 12 si osservano notevoli differenze regionali.
Nelle chiese territoriali della Germania meridionale (Baden, Baviera,
Württemberg) la partecipazione alla funzione domenicale è visibilmente
maggiore che nella Germania settentrionale: vi è evidentemente l’in-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
359
Tabella 12. Frequenza al servizio divino nel 1983 dei membri della chiesa evangelica tedesca
(valori in percentuale).
Partecipanti al servizio divino
Valori medi di tre
domeniche:
Vespri e
Invocava (1’ di
messe
Venerdì
santo
quaresima),
della vigilia di
16’ dopo la Trinità
Natale
e 1’ di Avvento
Baden
Baviera
Berlino-Brandeburgo (Ovest)
Braunschweig
Brema
Hannover
Hessen e Nassau
Kurhessen-Waldeck
Lippe
Nordelbien
Germania nordoccidentale
Oldenburg
Palatinato
Renania
Schaumburg-Lippe
Vestfalia
Württemberg
Totale per la Ekd
7,9
7,6
1,9
4,4
2,7
4,2
5,2
6,0
5,0
2,6
7,8
3,1
5,8
4,3
5,5
4,6
8,5
5,1
8,2
7,9
2,2
5,2
3,6
5,9
7,4
7,4
8,6
3,4
8,0
3,3
6,2
6,3
8,2
6,3
9,4
6,4
29,5
32,1
16,9
34,7
20,9
34,5
28,4
33,3
32,9
27,4
28,2
22,9
25,7
24,4
44,1
28,4
29,6
28,7
Fonte: Arnisblatt der Evangelischen Kirche in Deutschland, supplemento statistico, 85, 15 giugno
1989, p. 32.
fluenza di antiche tradizioni regionali. La maggiore ricorrenza religiosa
protestante è il Venerdì santo e anche in questo caso la tabella 12 evidenzia
notevoli disparità. Nel frattempo ha acquistato importanza la frequenza al
servizio divino della vigilia di Natale, per il quale si può notare una partecipazione
vistosamente elevata anche in una chiesa metropolitana come Berlino. Negli
ultimi anni la partecipazione alla funzione domenicale è ulteriormente diminuita.
Si è fermata la crescita della partecipazione alla funzione natalizia (della vigilia). La
partecipazione è nuovamente cresciuta per il Venerdì santo.
È caratteristica della situazione del protestantesimo tedesco la forte
propensione, oggi come un tempo, a battezzare i neonati. Ogni 100
bambini tedeschi nati nel 1983, 42 hanno ricevuto il battesimo evangelico,
con una percentuale di evangelici del 45 per cento rispetto alla popola-
360
Karl-Fritz Daiber
zione tedesca66. A partire dalla metà degli anni ottanta il numero dei
battesimi di neonati ha ripreso a salire leggermente.
Il 68 per cento delle coppie sposatesi nel 1983, e nelle quali entrambi i
coniugi erano evangelici, ha celebrato religiosamente il proprio matrimonio.
La quota delle celebrazioni religiose risulta decisamente minore tra i
matrimoni in cui uno dei coniugi non era evangelico o non era cristiano67.
Tra i fedeli defunti nel 1983, il 94 per cento ha avuto un funerale
religioso; peraltro nel territorio della chiesa di Berlino-Brandeburgo (Ovest)
si è raggiunto solo il 77 per cento e una tendenza equivalente si riscontra in
grandi città come Amburgo e Brema. Se ne può ricavare la considerazione
che tra i protestanti tedeschi la partecipazione alle funzioni religiose è
orientata in grande misura secondo ricorrenze della vita (battesimo,
matrimonio, esequie) e ricorrenze annuali (Natale).
Le uscite dalla Chiesa sono nuovamente diminuite rispetto all’inizio
degli anni settanta, ma il loro ammontare supera nettamente le 100.000
unità annuali (140.638 nel 1987, cioè lo 0,6 per cento dei fedeli). Anche qui
appaiono considerevoli diversità: nelle grandi città il numero dei fuorusciti
raggiunge a volte 1’1 per cento, in chiese i cui membri vivono per lo più in
zone rurali e in piccole città, la quota di abbandono scende a 0,3 per cento;
per le chiese territoriali della Germania meridionale, Baden, Baviera e
Württemberg, essa giunge a 0,4 per cento. Nella seconda metà degli anni
ottanta le uscite dalla Chiesa hanno ripreso a salire rispetto alla prima metà
del decennio.
Nell’ambito delle chiese evangeliche territoriali tedesche, al primo
gennaio 1985 esistevano 10.668 comunità locali indipendenti e quasi al 19
per cento di esse non era stato assegnato un pastore.
All’inizio del 1985 erano 16.696 i pastori in servizio attivo. Dal 1964 il
numero dei pastori è sensibilmente aumentato (13.452 pastori al 31
dicembre 1964). L’aumento del numero di pastori donne significò notevoli
mutamenti. La percentuale dei pastori donne ammontava al 9,4 per cento
nel 1985, rispetto all’1,9 per cento del 196468.
La dinamica di crescita del numero dei pastori presumibilmente continuerà, tra l’altro perché il numero di studenti di teologia evangelica è
visibilmente aumentato. Nel semestre invernale del 1966-67 si contavano
nella Repubblica federale 4.138 studenti di teologia evangelica, men66 Arntsblatt der Evangelischen Kirche in Detaschland, supplemento statistico, 76, 15 febbraio
1985, p. 7.
67 Ibid., p. 29.
68 Ibid., p. 9.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
361
tre nel semestre invernale del 1983-84 erano 13.253. L’aumento degli
studenti di teologia va ricondotto agli anni di maggiore crescita
demografica e al fatto che attualmente un numero maggiore di giovani
cerca di ottenere un diploma universitario. Se nel 1966-67 la quota di
studenti di teologia evangelica rispetto a tutti gli studenti tedeschi era
dell’1,25 per cento, nel semestre invernale del 1983-84 era dell’1,05
per cento69. Nello stesso periodo la quota delle studentesse di teologia
è cresciuta dal 13 al 37 per cento70. A partire dalla fine degli anni
ottanta il numero degli studenti di teologia ha ripreso a diminuire.
Profilo delle chiese evangeliche territoriali tedesche. Per definire la propria
situazione, le chiese evangeliche della Repubblica federale adoperano
sovente l’espressione «chiesa popolare» (Volkskirche). Essa racchiude un
programma preciso: in quanto la chiesa è una chiesa popolare, vuole essere
una chiesa per tutti. Tutti i ceti sociali devono trovarvi spazio, tutti i gruppi
politici devono potersi incontrare al suo interno. Pertanto, la chiesa
popolare è concepita come chiesa aperta, che consente diversi stili di
devozione e non esclude al proprio interno opzioni politiche contrapposte.
Al tempo stesso, con il programma della «chiesa popolare» si rivendica il
diritto della chiesa alla cogestione della sfera pubblica. La corresponsabilità
pubblica significa a sua volta un programma che ricerca piuttosto la
comprensione reciproca che una delimitazione orientata al conflitto.
Ciò che è programmaticamente descritto dal concetto di «chiesa popolare», si incontra frequentemente nella realtà ecclesiastica, in particolare
proprio tra i suoi membri. Nell’indagine «Che ne sarà della Chiesa?», svolta
su incarico della chiesa evangelica tedesca, il pluralismo interno si manifesta
chiaramente. La tabella 13 mostra la distribuzione delle risposte alla
domanda, posta durante l’inchiesta, «Che cosa comporta, secondo Lei,
essere evangelico?». Ne risulta che l’appartenenza ritual-istituzionale,
trasmessa attraverso il battesimo e la confermazione, e una concezione
morale dell’essere cristiano sono particolarmente caratterizzanti. Un
impegno ecclesiale particolare, come la frequenza alla funzione domenicale
e la lettura della Bibbia, non riesce a raccogliere consenso. Soltanto chi si
sente molto legato alla chiesa evangelica valuta l’importanza della frequenza
alle funzioni religiose e della lettura della Bibbia ben diversamente da chi se
ne sente piuttosto distaccato.
La differenziazione per vicinanza o distacco nei confronti della Chiesa
69 Ibid.,
70 Ibid.
p. 3.
362
Karl-Fritz Daiber
Tabella 13. Essere evangelici. Domanda: Che cosa comporta, secondo Lei, essere evangelico?
(valori in percentuale)*.
Attaccamento alla Chiesa
Ciò comporta assolutamente che
Si sia battezzati
Si sia confermati
Ci si sforzi di essere una persona per
bene e degna di fiducia
Si segua la propria coscienza
Si viva consapevolmente da cristiano
Si viva secondo i dieci comandamenti
Si sia partecipi di ciò che avviene nella
Chiesa e nella comunità locale
Si paghino le tasse ecclesiastiche
Si vada in Chiesa
Si legga la Bibbia
Sul totale
degli
intervistati
Molto
Discreto
Poco
Scarso
Nullo
85
80
92
87
90
87
88
83
81
73
64
57
79
76
65
55
83
83
92
83
84
84
81
71
81
78
62
50
75
66
48
43
67
60
36
24
41
35
26
25
73
54
66
67
53
38
36
34
37
33
17
15
24
29
10
11
21
23
9
14
* Campione = 1.523 frequenze.
Fonte: Johannes Hanselmann, Helmut Hild e Eduard Lohsa (a cura di), Was wird aus der kirche?, Gütersloh,
Gütersloher Verlagshaus, 1984, pp. 91-93.
(si veda la tabella 14) si riscontra dappertutto nella Repubblica federale.
Oltre a ciò vi sono differenze nell’orientamento ecclesiastico che dipendono almeno indirettamente, dalla struttura d’insediamento; le differenze regionali, come quelle tra settentrione e meridione, sono particolarmente marcate e sono già state richiamate all’attenzione del lettore. Le
differenze tra Nord e Sud sono forse legate al fatto che le correnti pietistiche del XVIII e del XIX secolo attecchirono più facilmente nella
Germania meridionale, riuscendo a stabilirsi più solidamente anche nel
quadro delle chiese territoriali esistenti. Comunque anche tra le chiese
territoriali della Germania settentrionale vi sono differenze evidenti;
l’influenza della predicazione del movimento del risveglio, nel XIX secolo e agli inizi del XX, si rintraccia ancora oggi.
Attualmente colpisce quanto gli organi direttivi ecclesiastici, i pastori
e gli attivisti delle chiese siano insicuri sulle prospettive future della
Chiesa. Le uscite da quest’ultima sono valutate come il segnale dell’esaurirsi della chiesa popolare. In parte i gruppi ecclesiali sperano che una
chiesa che si rimpiccolisce diventi più attiva, capace di prese di posizione non ambigue e quindi più caratterizzata. Gruppi del genere, che
confidano nella fine della chiesa popolare, appartengono sovente piut-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
363
Tabella 14. Atteggiamento dei protestanti rispetto alla Chiesa. Domanda: Il sentimento di
attaccamento alla chiesa evangelica può essere più o meno forte. Com’è per Lei? La prego di
definire, sulla base di questa classificazione e considerando solo il sentimento, il suo attaccamento
alla chiesa evangelica (valori in percentuale).
Si considerano
molto attaccati
abbastanza attaccati
poco attaccati
scarsamente attaccati
del tutto distaccati
1972
1982
12
25
31
20
12
14
22
32
22
10
Fonti: per il 1972, Helmut Hild (a tura di), Wie stabil ist die Kirche?, Gelnhausen-Berlin,
Burckhardthaus Verlag, 1974, p. 184; per il 1982, Johannes Hanselmann, Helmut Hild e
Eduard Lohse (a cura di), Was wird ars der Kirche?, Gütersloh, Gütersloher Verlagshaus, 1984,
p. 149.
tosto allo spettro dell’impegno sociale che al campo conservatore. In
quest’ultimo schieramento sono soprattutto i gruppi fondamentalisti a
inclinare verso atteggiamenti analoghi.
Da circa quindici anni i fondamentalisti tedeschi si sono schierati in
misura crescente in una sorta di «partito» politico-ecclesiastico, che
s’impegna massicciamente per acquisire influenza sull’organizzazione
complessiva della vita ecclesiale. A sostenere l’affermazione di tali
interessi è soprattutto la presidenza dell’Alleanza evangelica in Germania.
I fondamentalisti dispongono di una propria agenzia di stampa («idea») e
di propri uffici missionari e di aiuto allo sviluppo. Gli organi direttivi delle
chiese territoriali, come pure il Consiglio della chiesa evangelica tedesca,
cercano di favorire l’integrazione e di limitare le polarizzazioni per quanto
è possibile. Questo conduce a usare molte precauzioni, non da ultimo
nelle prese di posizione etico-politiche.
Di grande importanza, anche per i cristiani più giovani, impegnati
per la pace, per l’ambiente e a sostegno del Terzo Mondo, è il sinodo
che si svolge ogni due anni. Dopo che nel 1973 si era toccata la punta
più bassa di partecipazione (7.500 partecipanti stabili), da allora viene
registrato un incremento costante. L’ultimo raduno ha visto la presenza
di più di 100.000 partecipanti stabili71. Tra i partecipanti al sinodo prevalgono i ceti istruiti e i giovani: di solito provengono dalle comunità
locali, ma non di rado si sentono in quest’occasione «spaesati»72. Non
Ibid., 85, 15 giugno 1989, p. 22.
Si vedano T. Schmieder e K. Schumacher (a cura di), Jugend auf dem Kirchentag, Stuttgart,
Kreuz Verlag, 1984; A. Feige, I. Lukatis e W. Lukatis, Kirchentag zwischen Kirche and Welt, Berlin,
Wichern Verlag, 1987.
71
72
364
Karl-Fritz Daiber
da ultimo, il sinodo è espressione di una chiesa che si sente politicamente
corresponsabile.
Da parte degli organi direttivi ecclesiastici, la corresponsabilità politica è
esercitata mediante la pubblicazione di «promemoria», elaborati da
commissioni incaricate dal Consiglio della chiesa evangelica, relativi a
questioni particolarmente importanti e controverse. Negli anni successivi
alla condusione della seconda guerra mondiale sono nate, in una serie di
chiese evangeliche territoriali, le «Accademie evangeliche». In esse la
Chiesa si confronta con i gruppi politicamente rilevanti. Le Accademie
evangeliche vogliono inoltre rappresentare un luogo di confronto che
favorisca nella società la soluzione dialogica dei conflitti.
Per quanto riguarda l’orientamento politico dei membri della Chiesa,
tutte le opzioni politiche sono e possono essere rappresentate. La
maggioranza degli attivisti inclina nel complesso verso i partiti conservatori. Questo vale meno per i pastori, anche per quelli più giovani. Costoro si possono ritenere più vicini nella maggioranza alla Spd. Negli ultimi
anni non sono più nate gravi tensioni per ragioni politiche.
7. Le comunità religiose cristiane accanto alle due chiese maggiori
Il costante predominio in Germania della chiesa cattolica e delle chiese
territoriali evangeliche ha le sue radici storiche nell’antica tradizione della
chiesa di Stato, che in tal modo influisce ancora oggi. Accanto alle due
chiese maggiori sono rappresentate però altre comunità religiose, quand’anche siano minoranze con scarse possibilità di essere tutelate nella sfera
pubblica. Si tratta, innanzi tutto, di chiese di altre confessioni cristiane, di
chiese nate nel contesto protestante soprattutto durante il XIX secolo e
organizzatesi in Germania come chiese indipendenti in contrapposizione
alle chiese territoriali, delle diverse sette cristiane, che qui saranno citate
come comunità separate per evitare il concetto peggiorativo di setta,
oppure di comunità religiose che, in contrasto con la tradizione cristiana,
intendono praticare forme di religiosità umanistico-illuministiche o magari
sincretistiche.
7.1. Le chiese ortodosse nella Repubblica federale
Le chiese ortodosse, più precisamente le chiese russo-ortodosse, esistono in Germania sin dall’inizio del XVIII secolo. Sono nate dapprima
come chiese di legazione, più tardi nei luoghi di cura frequentati da russi.
Le comunità russo-ortodosse si sono rafforzate a partire dalla
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
365
prima guerra mondiale grazie agli emigrati. Durante la seconda guerra
mondiale furono deportati in Germania cittadini dell’Urss come forza
coatta. In parte sono rimasti in Germania. Dopo la seconda guerra
mondiale il numero dei cristiani ortodossi viventi in Germania è
decisamente aumentato a causa del flusso di lavoratori stranieri, in
particolare greci.
Il cristianesimo ortodosso è limitato sostanzialmente a stranieri che
vivono in Germania, o a cittadini tedeschi le cui famiglie originariamente
appartenevano a territori ortodossi dell’Europa orientale e meridionale. Le
conversioni di tedeschi alla fede ortodossa sono complessivamente rare.
Le chiese ortodosse godono in parte dei diritti degli enti di diritto
pubblico, sono cioè equiparate alle chiese evangeliche territoriali, alle
diocesi cattoliche e alle chiese indipendenti. Per il sostentamento dei
sacerdoti ortodossi nella Repubblica federale esiste una commissione ecumenica, che è appunto un ente di diritto pubblico. Un contributo finanziario sostanziale per il sostentamento delle chiese ortodosse in Germania
proviene dalla Chiesa evangelica tedesca.
Le due maggiori chiese ortodosse sono:
― la chiesa metropolitana greco-ortodossa di Germania ed esarcato
dell’Europa centrale, con 4 vescovi, 48 sacerdoti, 3 diaconi e circa 290.000
membri;
― la chiesa serbo-ortodossa di Germania, con un vescovo, dieci sacerdoti e circa 140.000 membri.
7.2. Le chiese cristiane indipendenti
Per chiese indipendenti s’intendono organizzazioni o gruppi religiosi
che si sono staccati dalle chiese maggiori esistenti, sia perché non potevano
condividerne l’evoluzione dottrinale, sia perché intendevano accentuare,
secondo forme particolari, la devozione personale dei propri membri. In
contrapposizione alle comunità cristiane separate, le chiese indipendenti
sono almeno parzialmente interessate al lavoro ecumenico con la chiesa
cattolica o con le chiese territoriali evangeliche. In Germania ciò si esprime
nella loro partecipazione alla Comunità di lavoro delle chiese cristiane della
Repubblica federale tedesca e Berlino (Ovest), che è un’associazione
registrata. Le chiese indipendenti di questo tipo sono equiparate, dal punto
di vista giuridico, alle chiese evangeliche territoriali e alle diocesi cattoliche,
sono cioè enti di diritto pubblico. Il loro influsso nella sfera pubblica è,
come già accennato, relativamente scarso, giacché qui predomina l’azione
delle chiese maggiori.
366
Karl-Fritz Daiber
Nella Repubblica federale tedesca esistono le seguenti chiese indipendenti:
1) chiese indipendenti che risalgono al tempo della Riforma:
― l’Unione delle comunità mennonite tedesche, che nel 1983 contava
1.700 membri battezzati raccolti in 22 comunità;
― l’Unità dei fratelli dell’Europa continentale ― Comunità dei fratelli di
Herrnhut, diffusa nella Repubblica federale tedesca, nella ex Ddr, in
Danimarca, in Olanda, in Svezia e in Svizzera, con 30 comunità e 20.000
membri (i loro caratteri attuali risalgono all’apostolato del conte
Zinzendorf, 1700-1760);
2) chiese indipendenti sorte nel XIX secolo da controversie dottrinali
con le chiese maggiori:
― la chiesa evangelico-luterana indipendente (Selk, Selbständige
Evangelisch-lutherische Kirche), i cui punti di forza sono
territorialmente la Bassa Sassonia, la Renania, l’Assia settentrionale e il
Palatinato: 150 comunità che comprendono 39.000 membri;
― la chiesa evangelica antico-riformata, sorta per l’influenza di sviluppi
olandesi, il cui baricentro territoriale è al confine tedesco-olandese: 13
comunità con 6.500 membri;
― la chiesa dei vecchi cattolici, appartenente all’Unione di Utrecht, nata
come movimento di opposizione all’evoluzione del ruolo papale culminata
con il Concilio Vaticano I: un vescovo, 63 sacerdoti, 49 comunità e 30.000
membri;
3) chiese indipendenti sorte dai movimenti devozionali del XVIII e
XIX secolo, a loro volta basati su movimenti più antichi (pietismo,
movimento battista):
― la Federazione delle comunità di chiese evangeliche indipendenti
(i battisti), con 364 comunità, 244 comunità affiliate e 68.900 membri;
― la Federazione delle comunità evangeliche indipendenti, con 280
comunità locali, 300 comunità affiliate e 23.000 membri;
― la chiesa evangelica metodista, con 450 comunità, 250 luoghi di
predicazione e 53.000 membri;
― l’Unione della comunità cristiana di Mülheim (Ruhr), con 180 comunità locali e 11.000 membri;
― l’Esercito della salvezza tedesco, con 48 corpi (comunità) e 10.000
membri;
la chiesa dei nazareni, con 18 comunità e 1.000 membri;
― la Federazione delle chiese pentecostali indipendenti, con 153
comunità, 105 comunità affiliate e 16.000 membri (la Federazione
coopera con il Foro delle chiese pentecostali indipendenti, cui
appartengono 40.000 membri);
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
367
― la Società religiosa degli amici (i quaccheri), che raccolgono in
Germania e in Austria 400 aderenti in 7 distretti e 25 gruppi.
Per lo più il numero dei membri delle chiese indipendenti è stabile; in
parte appaiono modiche tendenze all’espansione, soprattutto tra i battisti.
Parte delle chiese indipendenti godono di importanti contatti internazionali.
7.3. Il panorama religioso al di fuori delle chiese cristiane maggiori e
indipendenti
Per la maggioranza dei gruppi che costituiscono il panorama religioso al
di fuori delle chiese classiche è caratteristico concepire se stessi come
gruppi cristiani. Solo una piccola parte, soprattutto nell’ambito delle
religioni di nuova istituzione (religioni dei giovani), si rifà a tradizioni non
cristiane, soprattutto a quella induista.
Un primo gruppo di movimenti religiosi minori può essere ravvisato
nelle comunità separate vicine alla Chiesa. I loro membri di regola non
abbandonano le chiese maggiori o le chiese indipendenti, ma accentuano la
tradizione biblico-cristiana in modo indipendente e curano tradizioni
proprie, sviluppando funzioni religiose particolari.
Un secondo gruppo è formato dalle comunità cristiane separate antiecclesiastiche. Si tratta delle sette classiche del XIX secolo. La maggior
parte delle comunità separate di tal genere presenti in Germania è di origine
anglosassone. I raggruppamenti di maggior consistenza numerica sono la
chiesa neoapostolica, i testimoni di Geova, la Comunità degli avventisti del
settimo giorno (con accenni di formazione a una chiesa) e i mormoni.
Siffatte comunità si richiamano normalmente alla tradizione biblica e la
interpretano in maniera discordante rispetto alle chiese maggiori,
accentuando determinati elementi in modo diverso da quanto è usuale nelle
chiese maggiori. Tracciano netti confini rispetto alle chiese maggiori.
Un terzo gruppo è costituito dalle comunità di libera religione. Il richiamo al concetto di religione serve generalmente a caratterizzare la
propria autocomprensione in opposizione alle chiese cristiane. Sono distinte da un atteggiamento antidogmatico, cercano di intendere la religione come un’autonoma ricerca di senso da parte del singolo. Non sempre
si ricorre all’idea di Dio come simbolo capace di generare consenso,
alcuni raggruppamenti si professano atei. Caratteristica è una formulazione come la seguente: «La religione significa per noi l’orientamento
dell’esistenza al fine di dare un senso alla vita (...) La libera religione è il
confronto personale con la realtà. La libertà di fede e di coscienza è
368
Karl-Fritz Daiber
il presupposto del suo dispiegamento »73. Anche qui si presenta una delimitazione netta rispetto alle chiese. Negli ultimi anni si riscontra l’inclinazione a non concepirsi come gruppi «di libera religione», ma come
gruppi «umanistici».
Un quarto raggruppamento è formato da gruppi religiosi di tipo sincretistico più antico, che vengono occasionalmente descritti anche come
«comunità che sostengono concezioni del mondo esoterico-neognostiche»74. Questi gruppi si rifanno pienamente alla tradizione cristiana,
sovente persino in varianti che la tradizione occidentale ha considerato
come eresie. Singoli gruppi sono anche influenzati dalla filosofia dell’Illuminismo e dall’idealismo tedesco. Si giunge poi, inoltre, a forme di
sincretismo in cui rientrano anche tradizioni religiose non cristiane.
Un quinto e ultimo gruppo, che si richiama con particolare vigore e in
parte in maniera addirittura predominante a tradizioni religiose non
cristiane, è costituito dalle nuove formazioni religiose dell’ultimo
decennio. Si tratta anche in questo caso di gruppi di orientamento
esplicitamente sincretistico, sorti di regola all’esterno della Germania.
È straordinariamente difficile valutare la consistenza numerica di
questi gruppi. I dati relativamente più precisi riguardano le comunità
separate cristiane, per le quali si calcola una consistenza di più di 500.000
membri. Presumibilmente la loro cerchia è ancora maggiore, tenendo
conto dei parenti che vengono coinvolti spiritualmente, soprattutto i
bambini. Per le comunità di libera religione non esistono dati complessivi.
L’insieme dei simpatizzanti dei nuovi movimenti religiosi è valutato
intorno ai 200.000, ma il numero di componenti stabili è naturalmente
minore. Le comunità religiose cristiane esterne alle chiese maggiori hanno
potuto affermarsi solo a partire dal XIX secolo. Si sono consolidate nei
primi decenni del XX secolo. Oltre ai nuovi movimenti religiosi, ossia ai
raggruppamenti sincretisti o di nuovo tipo, sono pochi i gruppi nati negli
ultimi anni75.
La delimitazione nei confronti delle chiese è particolarmente marcata
nel caso delle comunità separate cristiane appartenenti al tipo classico
della setta e altrettanto vale per le comunità di libera religione. Per il resto
è sovente possibile una doppia appartenenza, i membri del gruppo
possono essere al tempo stesso membri di un’altra organizzazione
religiosa, ad esempio di una chiesa.
Punti 1-2 delle «Direttive» della Comunità di libera religione della Bassa Sassonia.
H. Reller e M. Kiessig (a cura di), Handbuch religiöse Gemeinschaften, Gütersloh, Gütersloher Verlagshaus, 19853, in particolare pp. 371 sgg.
75 È, il caso dell’Opera del ritorno a Gesti Cristo, nata all’inizio degli anni settanta tuttora in espansione.
73
74
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
369
I diversi raggruppamenti si distinguono nettamente a seconda del loro
grado di organizzazione. Ci sono gruppi che hanno una struttura sociale
estremamente vaga, tanto che non si può parlare di organizzazioni in senso
stretto. Questo è ad esempio il caso dello spiritismo. Ci sono d’altro canto
anche gruppi fortemente organizzati, che addirittura concedono alle
comunità locali solo un’autonomia limitata (gli avventisti del settimo giorno e
altri).
Quando questi raggruppamenti sono organizzati in forme riconosciute
giuridicamente, si tratta in genere di associazioni registrate. Le comunità di
libera religione sono, come pure la loro federazione, enti di diritto pubblico,
vale a dire che sono equiparate alle chiese cristiane, maggiori e indipendenti:
come queste hanno il diritto di riscuotere tasse ecclesiastiche e in parte si
avvalgono a tal scopo dell’opera del fisco statale. In Bassa Sassonia il
rapporto tra il Land e le comunità di libera religione presenti è regolato
giuridicamente da un’intesa, dunque in analogia alla corrispondente
regolamentazione giuridica del rapporto con la chiesa evangelica o cattolica76.
È stato già osservato che le comunità religiose minori presenti in Germania in molti casi hanno un’origine anglosassone e perciò collegamenti
organizzativi a livello mondiale con i gruppi corrispondenti, particolarmente
in Inghilterra e nell’America del nord. Gruppi religioso-ideologici,
caratteristici soprattutto dell’area linguistica tedesca, sono l’antroposofia, che
risale a Rudolf Steiner (1861-1925), e la Comunione dei cristiani, che vuole
mettere a frutto gli impulsi dati da Steiner a una ricomprensione della vita
cristiana e alla costituzione della comunità cristiana77. L’antroposofia ha un
notevole peso nella vita pratica, perché educa a condurre la propria vita in
una prospettiva globale. I concetti pedagogici corrispondenti sono stati
sviluppati appunto da Steiner. Sono praticati oggi nelle scuole private
Waldorf. Il loro programma pedagogico è avvincente anche per genitori che
non si riconoscono pienamente nel- l’ antroposofia.
Dal punto di vista della sociologia della religione i gruppi religiosi
minori sono poco studiati, per cui non è possibile fare valutazioni precise
sui ceti sociali cui appartengono i loro membri78. Nelle comunità se76 «Gesetz zu dem Vertrag zwischen dem Land Niedersachsen und der freireligiösen
Landesgemeinschaft vom 11. Dezember 1970» in Niedersächsisches Gvbl, 41, 15 dicembre
1970.
77 Si veda E Reller e M. Kiessig (a cura di), Handbuch religiöse Gemeinschaften cit., pp. 239
sgg.
78 La ricerca condotta da G. Schmidtchen può essere utilizzata solo limitatamente, perché
egli usa un concetto di setta non chiaro, tanto da mettere insieme i testimoni di Geova e i
nuovi movimenti religiosi: Gerhard Schmidtchen, Sekten und Psychokultur, Freiburg i. B.,
Herder Verlag, 1987. Esistono ricerche specifiche sulla Chiesa dell’unione: si veda G. Kehrer
(a cura di), Das Entstehen einer neuen Religion, München, 1981.
370
Karl-Fritz Daiber
parate cristiane del tipo della setta con ogni probabilità predominano i
ceti piccolo borghesi, benché anche in questo caso si profilino alcuni
cambiamenti. Poiché questi gruppi nel frattempo sono giunti ad avere
membri che appartengono alla seconda generazione della relativa associazione religiosa, vi sono tra loro in misura crescente anche dei laureati.
Non si registrano cambiamenti di gruppo finalizzati a un’ascesa sociale o
fenomeni simili, quali si possono osservare nell’America del Nord. Chi
abbandona una comunità separata difficilmente giunge a impegnarsi
attivamente in una delle chiese maggiori. I gruppi esoterico-gnostici
incontrano piuttosto il favore dei ceti istruiti, il che vale soprattutto per
l’antroposofia e, corrispondentemente, per la Comunione dei cristiani.
Prevalgono qui i ceti medio borghesi, con un livello d’istruzione superiore. I membri dei nuovi movimenti religiosi sono invece più giovani.
Anche in questo caso è marcata la quota di coloro che dispongono di un
diploma di scuola superiore79. Un interesse pubblico, tra i nuovi movimenti, è sollevato soprattutto dall’antroposofia. Non si osservano strategie aggressive di proselitismo, ciò vale persino per i testimoni di Geova,
che svolgono come sempre un’attività di propaganda porta a porta
(azione missionaria nelle case e vendita di opuscoli). Proprio per questo
sono conosciuti pressoché ovunque. Oltre a loro risponde a queste caratteristiche anche il movimento Bhagwan80.
8. Altre religioni universali nella Repubblica federale tedesca
8.1. Ebraismo
Le comunità israelitiche nel territorio della Repubblica federale tedesca
e Berlino (Ovest) censivano al 31 dicembre 1985 in totale 27.538 membri.
Disponevano di 65 sinagoghe, 22 locali di preghiera e 55 biblioteche. In
quel periodo nella Repubblica federale erano attivi 13 rabbini. La
massima presenza territoriale s’incontrava a Berlino ― la locale comunità
contava alla fine del 1985 più di 6.000 membri ―, in Baviera, con 12
comunità e 5.500 membri, e a Francoforte sul Meno, con 4.800 membri.
Dal 1981 l’andamento quantitativo presenta ridotte variazioni. L’età
media degli appartenenti alle comunità israelitiche della Repubblica
federale (inclusa Berlino Ovest) al primo gennaio 1986 ammontava a
44,3 anni. Colpisce che nel Württemberg, suddivisione del Land
79
80
G. Schmidtchen, Sekten und Psychokultur cit., p. 21.
Così nel 1986, si veda ibid., p. 19.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
371
Baden-Württemberg, l’età media fosse allora di 33 anni, mentre in Baviera risultava di 41,8 anni.
Le comunità israelitiche esistenti sono raccolte nel Consiglio centrale
degli ebrei in Germania, ente di diritto pubblico e quindi equiparato alle
chiese cristiane.
A Heidelberg si trova un Istituto di preparazione teologica per i rabbini; esiste inoltre un Centro di assistenza agli ebrei in Germania che ha
sede a Francoforte sul Meno.
Il Consiglio centrale degli ebrei in Germania calcola una presenza
totale di circa 30.000 ebrei nell’ambito della Repubblica federale e di
Berlino (Ovest), corrispondente a una quota di popolazione che non
raggiunge lo 0,05 per cento. A metà degli anni venti, nel territorio dello
stato tedesco vivevano 564.379 ebrei, che corrispondevano allo 0,9 per
cento della popolazione. La percentuale di ebrei negli Stati Uniti era a
quell’epoca di 3,4 per cento, in Austria di 5,4, in Francia di 0,4 e in Gran
Bretagna di 0,7. Dopo il fortissimo calo della popolazione ebrea in
Germania, a causa della feroce politica nazista, che intraprese l’eliminazione sistematica della popolazione ebrea costringendola a emigrare, solo alla fine degli anni ottanta si è avuta una leggera ripresa del numero di ebrei viventi nella Repubblica federale. L’aumento è da ricondurre all’emigrazione nella Repubblica federale di ebrei sovietici. Non si
può ancora valutare se questa tendenza diventerà stabile81.
Tra gli ebrei in Germania sono rappresentati sia gruppi ortodossi
sia gruppi liberali. Attualmente non si costituiscono comunità sulla base dei rispettivi indirizzi teologici. Si parla perciò in proposito di «comunità unitarie». Vi si trovano riunite persone di tradizioni religiose
differenti. In pratica solo all’interno della comunità unitaria di Berlino
Ovest si trovano gruppi differenti, che celebrano separatamente le
proprie funzioni. Prima del periodo nazionalsocialista in Germania era
rappresentato anche l’ebraismo liberale. Nelle funzioni religiose di
queste comunità trovavano posto i canti corali e la musica d’organo.
Nelle comunità ebraiche tedesche era diffusa anche l’usanza della
confermazione, in analogia alla prassi protestante di introduzione delle
nuove generazioni alla piena partecipazione alla comunità religiosa.
Non sono più avvenute innovazioni del genere.
81 I dati relativi alla situazione attuale si basano su una comunicazione del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, mentre i dati di raffronto sono ripresi dall’ American Jewish Year
Book, vol. 28, 1926 citato in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, Tübingen, 1929, vol. 3,
articolo «Judentum II B», colonna 491.
372
Karl-Fritz Daiber
8.2. Islamismo
All’epoca del censimento del 1987 nell’ambito della Repubblica federale
tedesca vivevano 1,65 milioni di musulmani. Per la grande maggioranza
erano e sono lavoratori stranieri con le loro famiglie. A causa del rimpatrio
dei lavoratori immigrati, rispetto all’inizio degli anni ottanta il numero dei
musulmani è sceso leggermente. Prima dell’inizio della grande ondata di
lavoratori stranieri (1969), nella Repubblica federale abitavano circa
250.000 musulmani82.
Il numero dei musulmani di lingua tedesca era stimato all’inizio degli
anni ottanta di 6.500 persone. Anche in questo caso si tratta per lo più di
stranieri che hanno in seguito ottenuto la cittadinanza tedesca. Gran parte
risale all’« immigrazione » musulmana successiva al 1945: in particolare
individui appartenenti a gruppi etnici non russi, islamici, dell’Unione
Sovietica, i quali durante la seconda guerra mondiale avevano simpatizzato
con la Germania, talvolta erano stati addirittura arruolati nelle armate
tedesche, e poi sono rimasti in Germania83.
Il numero dei musulmani di origine tedesca è stimato intorno a 1.500.
Presumibilmente è una stima troppo elevata. Appena il 43 per cento delle
cerchie di musulmani sono organizzate in associazioni islamiche84. E perciò
necessario usare prudenza nei confronti di questi dati, perché considerano
anche persone convertitesi all’Islam per aver contratto matrimonio con un
fedele islamico, conversioni che sono sovente passeggere. Nonostante Io
scarso numero di musulmani tedeschi, nei ceti intellettuali tedeschi s’incontrano diffuse simpatie per l’Islam, per lo meno a partire dall’Illuminismo,
giustificate dallo stringato edificio dogmatico, dall’orientamento etico e dall’assenza di una gerarchia.
I musulmani tedeschi sono organizzati in una serie di associazioni, nelle
quali si tengono regolarmente incontri e conferenze. Se oggi l’Islam è divenuto per dimensioni la terza comunità religiosa della Repubblica federale
(accanto alla chiesa cattolica romana e alla chiesa evangelica), ciò va fatto
risalire principalmente all’immigrazione di lavoratori stranieri. Tra i musulmani che vivono nella Repubblica federale i turchi rappresentano la maggioranza (1,4 milioni); gli iugoslavi erano presenti nel 1980 con circa
120.000 musulmani, circa 80.000 erano all’epoca gli arabi, 40.000
provenivano dall’Africa e dall’Estremo Oriente, 20.000 dall’Iran.
82
p. 75.
83
84
Si veda M. S. Abdullah, Geschichte des Islams in Deutschland, Graz-Wien-KöIn, Verlag Styria, 1981,
Ibid., 162., pp. 36 sgg.
Ibid., p. 42.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
373
Alla fine degli anni ottanta nel territorio della Repubblica federale
esistevano circa 1.000 comunità, o associazioni equiparabili, con altrettante
moschee. Peraltro solo in un numero assai ridotto di casi si tratta di edifici
riconoscibili come destinati al culto divino: ciò avviene solo a Berlino,
Aachen, Amburgo e Monaco. Di regola si tratta di sale allestite in
capannoni industriali in disuso o in edifici analoghi.
Data l’altissima quota di turchi, la maggioranza dei musulmani in
Germania aderiscono all’Islam sunnita, gli sciiti sono circa 90.000.
Il grado di organizzazione dei musulmani in Germania è relativamente
basso: appena il 20 per cento è assistito dalle comunità religiose e solamente il 5 per cento è iscritto nelle liste dei membri di queste ultime,
dunque non più di 340.000 persone. La partecipazione alla preghiera del
venerdì è naturalmente elevata. Si considera che vi partecipi il 58 per cento
dei musulmani, il 30 per cento dei quali regolarmente. Nei primi anni
ottanta si è osservata una diminuzione tendenziale nella pratica della
devozione musulmana85. Questo dipende dai differenti indirizzi di fede. Si
possono distinguere l’Islam «popolare», con il suo centro a Colonia, l’Islam
fondamentalista, i cui centri sono Aachen e Monaco, nonché i musulmani
«secolarizzati»86.
La ghettizzazione dei musulmani turchi che in parte si riscontra nella
Repubblica federale è da ricondurre non tanto a differenze religiose quanto
a differenze culturali più generali. La grande maggioranza dei musulmani
turchi proviene, dal punto di vista linguistico, culturale e politico, dalle «più
remote periferie dell’Europa», ossia dalle regioni periferiche della Turchia,
dalle sue zone sottosviluppate.
Fattori etnici, politici e specialmente religiosi portano anche a un grado
elevato di dispersione dei musulmani in Germania. Un Consiglio islamico
per la Repubblica federale tedesca e Berlino Ovest è stato fondato soltanto
nel 1986; esistono inoltre circa quindici associazioni minori, nonché
ulteriori associazioni politiche musulmane. Il Consiglio islamico sembra,
negli ultimi anni, essersi nuovamente ristretto ai più liberali tra i gruppi
membri87. Le difficoltà organizzative non nascono solo dalla dispersione
politica e religiosa, sono bensì motivate da presupposti religiosi
fondamentali dell’Islam, che non riconosce un’organizzazione religiosa
distinta dalla comunità politica. Rispetto ai princìpi teologici baIbid., pp. 78 sgg.
F. Kandil, «Der Islam in der Bundesrepublik Deutschland» in Gegenwartskunde cit., pp.
89-105, in particolare pp. 93 sgg.
87 Si veda S. Balie «Der Islam im europäichen Umfeld» in Aus Politik und Zeitgeschichte,
supplemento al settimanale Das Parlament, 22, 25 maggio 1990, pp. 30-39, in particolare p. 32.
85
86
374
Karl-Fritz Daiber
silari, le forme organizzative sono pertanto sempre secondarie. Questa circostanza fa sì che, tra l’altro, le associazioni islamiche nella Repubblica federale
non siano ancora riconosciute come enti di diritto pubblico. L’Islam, nella
Repubblica federale, è organizzato secondo le forme previste dalla legge sulle
associazioni, ossia si muove giuridicamente sul piano del diritto privato, non
dei diritto pubblico. In effetti da parte di alcune associazioni islamiche è stato
chiesto il riconoscimento come enti di diritto pubblico, ma finora senza
successo.
All’interno delle chiese cristiane si possono osservare sforzi per suscitare e
approfondire un atteggiamento di comprensione verso i concittadini musulmani. Nella questione del riconoscimento dell’Islam come ente di diritto
pubblico, le chiese sono rimaste negli ultimi anni in disparte. Ciò è legato alla
chiara percezione della problematica dell’integrazione di religione e politica,
di organizzazioni religiose e Stato, proprio nei termini di un orientamento
che si oppone ai principi fondamentali del patrimonio cristiano occidentale, i
quali prevedono la separazione di Stato e Chiesa; anche in ambito politico
vengono sollevate perplessità analoghe. Al tempo stesso è comunque certo
che il diverso riconoscimento giuridico nei confronti dell’Islam, da una parte,
della fede ebraica e delle confessioni cristiane, dall’altra, rinvia a un problema
irrisolto, che a lunga scadenza andrà chiarito89.
8.3. Buddhismo e induismo
In Germania esistono circoli buddhisti sin dall’inizio dei secolo. Li
hanno preceduti tentativi di accostamento al mondo spirituale buddhista in
ambito filosofico, attraverso Arthur Schopenauer, ma non solo. Durante
gli anni venti il panorama del buddhismo tedesco si è differenziato, le sue
diverse correnti hanno portato a risultati corrispondenti nella costituzione
delle comunità (Movimento neobuddhista, Comunità antica buddhista). Al
tempo del nazionalsocialismo i gruppi buddhisti sono stati sciolti, nel
dopoguerra è iniziata la rifondazione. Nel 1955 sette gruppi hanno dato
vita alla Società buddhista tedesca, ribattezzata nel 1958 Unione buddhista
tedesca. A metà degli anni ottanta appartenevano all’Unione diciotto
gruppi, ma comunque non tutti i gruppi buddhisti della Repubblica
federale. Mentre i primi buddhisti in Germania erano quasi soltanto
seguaci dell’hinayana, il buddhismo tibetano e quello zen hanno
guadagnato influenza a partire dagli anni cinquanta e sessan89 Si veda anche The Religion of Islam and Its Presence in the Federal Republic of Germany, Islam
Archiv Deutschland e.V., Postfach 1528, D-4770 Soest (14 agosto 1989).
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
375
ta. Nel 1985 è stata fondata ad Amburgo la Comunità religiosa
buddhista di Germania, che comprende trentacinque gruppi partecipanti e aspira allo status di ente di diritto pubblico. Essa conta più di
60.000 buddhisti in Germania, ma comunque si basa su proprie stime
e il numero è difficilmente verificabile. I picchi regionali si incontrano
ad Amburgo e Berlino, ma si trovano gruppi buddhisti anche in altre
grandi città, come Colonia, Monaco e Stoccarda.
Se a questi gruppi riesca di integrare i membri delle minoranze etniche
buddhiste presenti in Germania, è difficile a dirsi. Presumibilmente
nascono difficoltà già per il solo fatto che i seguaci tedeschi provengono
dai ceti più istruiti. Il buddhismo tedesco si presenta come una religione
libera da dogmi, razionale, tollerante e antropocentrica89. Risulta chiaro che
esistono forti affinità con una concezione filosofica della vita, anche se si
sottolinea il carattere religioso del buddhismo e guadagnano importanza
pratiche come la meditazione.
L’influenza dell’induismo è ben più difficile da determinare. Ciò è
dovuto sicuramente alla mancanza di ogni sorta di organizzazione e al fatto
che le forme del culto induiste non hanno preso piede in alcun modo in
Occidente. Si trasmette essenzialmente attraverso personalità carismatiche,
intorno alle quali si raccolgono seguaci. Il grado di organizzazione formale
di tali gruppi è molto diversificato. Che emanazioni dell’induismo in
Occidente siano divenute possibili si può far risalire non da ultimo alla
riforma dell’induismo avvenuta nel XIX secolo, e inoltre, naturalmente, al
fatto che le carenze della cultura occidentale hanno cominciato a
manifestarsi apertamente. La perdita e la nuova ricerca di un «centro della
vita», l’anelito dell’individuo a riuscire a comprendere se stesso nelle
profondità dell’essere, sembrano potersi affrontare meglio all’interno delle
religioni orientali.
All’inizio del secolo l’induismo ha influenzato la teosofia e l’antroposofia, naturalmente secondo un adattamento occidentale, soprattutto per
quanto riguarda la dottrina del karma. Dagli anni sessanta i più energici
influssi dell’induismo vanno rintracciati sotto le spoglie dei nuovi
movimenti religiosi (Ananda-Marga, Bhagwan, Missione della luce divina,
Movimento Hare Krishna, Meditazione trascendentale).
È notevole che nella Repubblica federale tedesca i cosiddetti nuovi
movimenti religiosi, sette o religioni giovanili, incontrino una grande
attenzione da parte dell’autorità pubblica. Questo viene spiegato sostenendo che i giovani ― in parte anche a motivo di interessi commerciali
89 Si veda K.J. Notz, Der Buckihismus in Deutschland in seinen Selbstdarstellungen, Frankfurt
a.M.-New York, 1984, pp. 213 sgg.
376
Karl-Fritz Daiber
― sono condotti e mantenuti in una condizione di dipendenza
autoritaria nei confronti di certi maestri religiosi con una conseguente
«minaccia» per la gioventù stessa, che spinge i competenti uffici pubblici a
intervenire90. Solo poco alla volta si fa strada l’idea che in questo caso si è
sopravvalutato ampiamente l’influsso del carisma religioso. Presumibilmente l’atteggiamento di difesa che si constata dipende anche dal
fatto che il pluralismo religioso difeso nella sfera pubblica resta in buona
misura limitato al quadro della tradizione cristiana, e perciò le forme di
religione straniere, non europee, sono percepite come un pericolo per il
consenso. Forse la religiosità d’impronta oriental-asiatica, per la sua
accentuazione della ricerca di sé nella meditazione, è vissuta come distruttiva per il sistema, come alternativa alla realizzazione di sé nella
professione, nel lavoro e nelle attività sociali91.
9. La rinuncia all’appartenenza a una comunità religiosa
Nel quadro dell’inchiesta Allbus del 1988 sono state proposte le seguenti
alternative di appartenenza a una comunità religiosa. Secondo le loro stesse
dichiarazioni, gli intervistati appartengono (valori in percentuale):
alla chiesa evangelica (escluse le chiese indipendenti)
a una chiesa evangelica indipendente
alla chiesa cattolica romana
a un’altra comunità religiosa cristiana
a un’altra comunità religiosa non cristiana
a nessuna comunità religiosa
43
3
46
1
0,2
8
Dal punto di vista meramente quantitativo, l’alternativa all’appartenenza
a una delle chiese maggiori non risulta essere l’appartenenza né a una chiesa
indipendente né a un’altra comunità religiosa, bensì la mancanza totale di
una relazione di appartenenza a una comunità religiosa. Chi non appartiene
ad alcuna organizzazione o gruppo religioso può essere in linea di principio
pienamente religioso. Comunque, in base alle ricerche empiriche, bisogna
piuttosto supporre che ove non si verifichi l’adesione organizzativa a una
comunità religiosa, sia presente anche un distacco interiore verso la
religione.
90 Si veda per il diffuso atteggiamento di difesa verso i nuovi movimenti religiosi, G.
Schmidtchen, Sekten und Psychokultur cit., pp. 29 sgg.
91 Per la descrizione dei gruppi religiosi asiatici in Occidente, si veda L. Schreiner e M.
Mildenberger (a cura di), Christus und die Gurus, Stuttgart-Berlin, 1980.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
377
Il numero delle persone non organizzate religiosamente è
sensibilmente cresciuto negli ultimi anni; nelle grandi città esisteva
già da tempo una simile tendenza e anche in questo caso Berlino e
Amburgo rappresentano il culmine di questa dinamica.
Alcuni chiarimenti sugli orientamenti esistenziali di coloro che nel
corso dell’ultimo decennio hanno lasciato la Chiesa, benché fossero
battezzati e avessero frequentato le lezioni di religione, sono
apportati, almeno per quanto riguarda coloro che sono usciti dalla
chiesa evangelica, da un’analisi secondaria dell’inchiesta Allbus
198292. Il gruppo dei fuorusciti dalla Chiesa è nettamente più giovane
della maggioranza dei membri della stessa, comprende persone con
un buon reddito e una formazione qualificata. Si ritengono
politicamente più impegnati di quanto non lo sia la maggioranza dei
membri della Chiesa. Si collocano piuttosto all’ala sinistra dello
spettro politico, si considerano dunque socialmente progressisti. Se
si domandano quali siano per loro gli scopi dell’educazione,
enfatizzano preferibilmente i modelli più libertari, conta per loro la
capacità di giudizio dei bambini. L’importanza della famiglia è
scarsamente sottolineata, comunque meno dell’autorealizzazione anche per la donna. I fuorusciti dalla Chiesa, si potrebbe dire i non
organizzati religiosamente, si differenziano dunque dai membri della
stessa non solo dal punto di vista religioso, ma anche per il loro
orientamento generale di vita. Ovviamente l’orientamento religioso
ha un ruolo preminente ed è qui che i fuorusciti dalla Chiesa si
differenziano dai membri della stessa in modo particolarmente
chiaro: chi ha abbandonato la Chiesa si considera piuttosto non
religioso. Anche tra i non organizzati c’è una minoranza di persone
che sanno di essere interessate alle problematiche religiose, ma nella
maggior parte dei casi si è verificato un distacco dalla religione
proprio nella forma in cui le chiese la rappresentano. Tuttavia anche
in questo caso non bisogna partire dall’idea che si tratti di persone
per le quali interrogarsi sul senso della vita, sui valori e sulle norme
fondamentali, non abbia significato. Sovente è tutto l’opposto.
Soltanto, a questa interrogazione rispondono senza fare ricorso alla
simbologia religiosa. Nonostante il distacco dalla Chiesa, si deve
dunque adoperare prudenza nel parlare di indifferentismo a
proposito di questi gruppi.
92 I. Lukatis e W. Lukatis, «Protestanten, Katholiken und Nicht-Kirchenmitglieder» in K.-F.
Daiber (a cura di), Religion und Konfession cit., pp. 17-71
378
Karl-Fritz Daiber
10. Religione organizzata e mutamento sociale in Germania: osservazioni
esemplari
All’inizio degli armi novanta, nella Repubblica federale, benché esista
una notevole varietà di gruppi religiosi, il pluralismo della religione
organizzata è estremamente limitato e il predominio delle chiese cristiane maggiori non è stato intaccato in alcun modo, anche se la loro consistenza numerica è in leggero declino, soprattutto per i protestanti. Le
chiese cristiane minori organizzate come chiese indipendenti ristagnano,
vale a dire che all’interno del protestantesimo non è in vista alcun
riorientamento. Tra le grandi religioni universali non cristiane si può
ipotizzare un aumento dei seguaci dell’islam, anche se per ora ciò è dovuto in primo luogo a una crescente presenza di lavoratori stranieri nella Repubblica federale. Il numero dei non organizzati religiosamente è
decisamente cresciuto negli ultimi anni e con ogni probabilità crescerà
ancora.
Sul piano dell’appropriazione personale della religione si può partire
dal fatto che il soggettivismo religioso ha acquistato e tuttora sta acquistando maggiore rilievo, le interpretazioni della vita specificamente personali hanno più rilevanza che i simboli religiosi della tradizione cristiana, protetti dal dogma. Nondimeno nelle chiese cristiane vi è un gran
numero di persone che aderiscono alle tradizioni dogmatiche
fondamentali delle confessioni cristiane e, anzi, tendono in parte a un
atteggiamento fondamentalista, proprio per distinguersi dal
soggettivismo religioso all’interno e all’esterno delle chiese. Tutte queste
dinamiche di sviluppo qui descritte non sono nuove, ma hanno
determinato la situazione della religione nel moderno sin dal XIX
secolo, quando dal punto di vista della struttura sociale si è prodotta
questa situazione. Se di fatto, come sembra, questa tendenza globale si
sia rafforzata nell’ultimo decennio, è difficile affermarlo con certezza.
Alcuni aspetti rilevanti per gli sviluppi futuri della situazione religiosa
in Germania saranno esaminati a titolo di esempio nelle pagine seguenti,
per valutare con maggior precisione le tendenze evolutive a venire.
Bisogna innanzi tutto affrontare il rapporto tra chiese e lavoratori.
La questione è se lo strato di popolazione tipico della moderna società
industriale abbia oggi un rapporto con la religione e la fede simile a
quello che si poteva osservare nel XIX secolo e all’inizio del XX secolo,
oppure se si presentino delle novità.
Una seconda questione riguarda il rapporto tra giovani e religione.
Non si può escludere che la giovane generazione precorra sviluppi futu-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
379
ri, tanto che partendo dall’analisi dei giovani si possono delineare i
processi di mutamento sociale e religioso nei loro punti chiave.
La terza problematica concerne il rapporto delle donne con la religione,
in particolare alla luce del rapporto delle donne con la chiesa evangelica.
Con questa problematica si tenta di riflettere su alcuni sviluppi che ormai
da anni hanno prodotto alcuni mutamenti nella coscienza comune.
Il passo successivo consiste nell’analisi di un fenomeno che in Germania, sia nel dibattito pubblico sia nel dibattito interno alle chiese, è
considerato come l’indicatore più importante di un mutamento nel rapporto tra le persone e le religioni organizzate: l’abbandono formale della
Chiesa, che, seppur già affrontato in diversi contesti, va ancora riassunto e
chiarito.
L’ultimo riferimento è agli eventi che hanno avuto luogo in Germania
tra il 1989 e il 1990. La situazione religiosa nella Repubblica democratica
tedesca era molto diversa da quella presente nella Repubblica federale. La
situazione religiosa nella Repubblica federale tedesca dopo il 1990,
considerata a livello globale, sarà segnata proprio da questa diversità.
10.1. I lavoratori
Sono lavoratori coloro che lavorano come salariati specializzati, salariati
non qualificati o formati sul lavoro. I passaggi a posizioni professionali
paragonabili, come quella di semplice impiegato o di funzionario di livello
inferiore, non presentano discontinuità. Una classe di lavoratori risultante
dall’insieme di tali prestatori d’opera che si trovino in posizioni sociali
paragonabili, una classe che si distingue per uno specifico insieme di
interessi e che incarni uno stile di vita pubblicamente riconoscibile, in
Germania non esiste più. Questo non significa che non esista un
ambiente sociale specifico dei lavoratori, ma che non si tratta più di uno
stile di vita pubblico, bensì dello stile di vita privato di un sottogruppo
sociale. Così non stupisce che nell’indagine Was wird aus der Kirche? [Che
ne sarà della Chiesa?] si sia potuto stabilire che i lavoratori si scostano ben
poco nel loro modo di pensare dalla media degli intervistati, cioè non
hanno un rapporto con la chiesa evangelica diverso da quello che ha la
maggioranza della popolazione. Proprio questa indagine intendeva
studiare l’atteggiamento dei lavoratori verso la Chiesa con un sondaggio
specifico. Oltre ai lavoratori, un interesse particolare si indirizzava
alle persone con un reddito più elevato, quelle con istruzione
superiore e universitaria, ai ragazzi e ai giovani tra i 14 e i 24 anni e
agli abitanti delle grandi città. I risultati sono formulati con la massi-
380
Karl-Fritz Daiber
ma generalità: «I giovani, le persone con un’istruzione superiore, gli abitanti delle grandi città manifestano di regola un distacco dalla Chiesa più
marcato rispetto alla media degli intervistati. I lavoratori e le persone
con un reddito più elevato si scostano invece meno frequentemente
dalla media»93. Il resoconto dell’indagine rinuncia ad allegare risultati più
ampiamente dettagliati. Ma altre ricerche offrono conferme. I lavoratori
sono per l’assoluta maggioranza membri della Chiesa, la loro partecipazione al servizio divino è inferiore alla media. Sono rappresentati
molto al di sotto della media nei gruppi della comunità locale e negli
organi direttivi, la loro partecipazione si organizza di regola intorno alla
frequenza alle funzioni che scandiscono il ciclo della vita (battesimo,
cresima, matrimonio, funerale)94. Ciò che risulta proprio della maggioranza dei tedeschi vale in modo particolare per i lavoratori: essi
partecipano alla vita della comunità ecclesiale locale, ma non se ne occupano personalmente. La loro tendenza a lasciare la Chiesa è inferiore
alla media, fatta eccezione per alcune regioni industriali.
Dal punto di vista storico si sono verificati cambiamenti considerevoli. Mentre nel XIX secolo era soprattutto il proletariato industriale a
manifestare tendenze comuniste e critiche nei confronti della Chiesa,
rappresentando una tradizione di libero pensiero ― e ciò fino all’epoca
della repubblica di Weimar ―, oggi l’anticlericalismo aggressivo ha ceduto il passo a un atteggiamento di disinteresse, non privo di aspettative
nei confronti della Chiesa, ma che resta limitato a quei contatti che
fanno apparire la religione importante in rapporto alla vita95. Con maggior compattezza delle chiese evangeliche, la chiesa cattolica ha cercato
sin dal XIX secolo di rappresentare politicamente anche gli interessi dei
lavoratori. Per tali ragioni, ma anche in base alla condizione generale del
cattolicesimo in Germania, non si potrebbe giungere a una radicalizzazione del distacco dei lavoratori verso la chiesa cattolica nella stessa
misura in cui ciò è avvenuto per i protestanti.
In ogni caso oggi i lavoratori non sono più i portavoce principali di
una critica alla religione e alla Chiesa, essendo essi piuttosto rivolti a
modelli conservatori. Del resto ciò si osserva persino in occasione delle
elezioni politiche: il Partito socialdemocratico riesce a fatica a illustrare
sufficientemente ai lavoratori i propri obiettivi.
J. Hanselmann, H. Hild e E. Lohse (a cura di), Was wird aus der Kirche? cit., p. 21.
Una rassegna di ricerche specifiche si trova in G. Wegner, Alltägliche Distanz. Zum
Verhatnis von Arbeitern und Kirche, Hannover, Lutherisches Verlagshaus, 1988, pp. 15 sgg.
95 Si veda per le associazioni di libero pensiero tra il proletariato dell’impero tedesco e
della repubblica di Weimar, J.-C. Kaiser, Arbeiterbewegung und organisierte Religionskritik, Stuttgart
1981.
93
94
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
381
Il rapporto tra lavoratori e religione della chiesa cristiana analizzato in
relazione alla situazione attuale si è sviluppato in Germania, secondo questa
forma, in particolare dalla fine della seconda guerra mondiale. Sotto la
pressione della sconfitta del 1945 e della necessità di una ricostruzione
sociale, la società tedesca è andata verso l’integrazione sociale e il
superamento dei conflitti di classe. Questa tendenza continua ha
contribuito alla deproletarizzazione dei lavoratori tedeschi.
10.2. I giovani
Le ricerche empiriche sul rapporto dei giovani con la religione, di cui si
riferisce qui sommariamente, definiscono «giovani» gli appartenenti alla
fascia d’età compresa tra i 14 e i 30 anni. Nonostante tutte le difficoltà di
definizione, è fuori discussione che con tale concetto si intende una fase
socioculturale di passaggio nella vita dei componenti delle moderne società
industriali, e il mondo giovanile rappresenta proprio un fenomeno sociale
tipicamente moderno, anche se all’interno del raggruppamento
complessivo degli appartenenti alla fascia d’età in questione occorrono
ulteriori differenziazioni per consentire un’analisi dettagliata96. Le ricerche
empiriche degli anni ottanta mostrano che la gioventù tedesca in generale,
vale a dire per la maggior parte, ha un atteggiamento positivo nei confronti
della Chiesa e del cristianesimo, caratterizzato da un consenso eticocristiano di fondo, relativamente indeterminato, che non riposa
assolutamente sull’adesione ai dogmi di fede ecclesiastici. È sorprendente
che anche tra i giovani che si definiscono «non di fede cristiana» appena un
quarto sia favorevole a ridurre l’importanza della Chiesa nella sfera
pubblica e uno scarso 30 per cento respinga il cristianesimo97. La
maggioranza dei giovani manifesta dunque tendenzialmente un
generico assenso verso la Chiesa e il cristianesimo, insieme con un certo
distacco verso la dogmatica cristiana. Le ricerche di Feige si riferiscono
a giovani appartenenti alla chiesa evangelica, non esistono ricerche
corrispondenti sulla chiesa cattolica. Se si considerano altre ricerche, se
ne può ricavare che il rapporto dei giovani con la chiesa cattolica può
essere descritto in modo del tutto analogo, anche se pre96 Si veda A. Feige, «Kirche auf dem Prüfstand. Die Radikalität der 18-20 jährigen. Biographische
und epochale Elemente im Verhältnis der Jugend zur Kirche. Ein Vergleich zwischen 1972 und 1982»
in J. Matthes (a cura di), Kirchenmitglieischaft im Wandel, Gütersloh, 1990, pp. 65-98.
97 A. Feige, Erfahrungen mit der Kirche, Hannover, 1982, p. 472, tabella 68 e p. 475, tabella
74.
382
Karl-Fritz Daiber
sumibilmente il livello di adesione nei confronti della Chiesa e del cristianesimo risulta, tra i cattolici, leggermente più alto.
Alla maggioranza dei giovani si contrappongono due gruppi, ossia
coloro che sono orientati esplicitamente in senso non ecclesiale, rifiutano
tutte le forme di partecipazione ecclesiale e sono usciti dalla Chiesa o
progettano di farlo, e il piccolo gruppo di quei giovani che prendono parte
attiva alla vita della stessa. Tra questi ultimi, i giovani con un livello
d’istruzione superiore sono rappresentati in una percentuale ben superiore
alla norma. Anche tra di loro sembra emergere una certa contrapposizione
con la simbologia offerta dal cristianesimo, l’appartenenza alla Chiesa non
è semplicemente accettata ma è rielaborata attraverso la riflessione.
10.3. Le donne
Sul rapporto delle donne con la Chiesa esistono indagini empiriche
dettagliate, soprattutto in campo evangelico98. Il maggior coinvolgimento
ecclesiale delle donne è documentato empiricamente già all’inizio del
secolo. Si può però ritenere che si tratti di un’antica tradizione di comportamento, prolungatasi quasi senza interruzione sino a oggi. Anche se i
materiali disponibili sono relativi soprattutto ai protestanti, si può parlare in
questo caso di un modello sovraconfessionale, e singole ricerche in ambito
cattolico confermano ampiamente questa situazione di fatto. Se guardiamo
all’inizio degli anni settanta, in Germania possiamo constatare,
sintetizzando, che in generale le donne sono più partecipi alla vita della
Chiesa degli uomini99. Perciò non stupisce che le donne svolgano una
funzione chiaramente superiore quali portatrici della socializzazione
religiosa di quanto non facciano gli uomini, e anche ciò vale in misura
equivalente per le due confessioni maggiori100.
I risultati dei primi anni settanta sono riconfermati dall’inchiesta svolta
tra i protestanti all’inizio degli anni ottanta: le donne risultano legate alla
Chiesa in numero ancora maggiore e frequentano più spesso le funzioni
religiose e altri eventi o gruppi ecclesiali. Diversa è l’immagine se si
considera l’assunzione di funzioni direttive. Qui tornano a predominare
gli uomini, anche in questo caso conformemente alle vecchie
tradizioni101. Si può comunque constatare che negli organi direttivi del98I. Lukatis, «Frauen und Männer als Kircheninitglieder» in J. Matthes (a cura di),
Kirchenmitgliedschaft im Wandel cit., pp. 119-47.
99 Ibid., p. 119.
100 Ibid., p. 121.
101 Ibid., p. 122.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
383
le comunità ecclesiali evangeliche e nei sinodi delle chiese territoriali e
delle unioni delle chiese territoriali, la presenza delle donne è notevolmente cresciuta. Questo vale soprattutto per gli organi direttivi delle
comunità locali.
Tra i risultati riferiti da Ingrid Lukatis, soprattutto due meritano di
essere posti in evidenza. Le recenti inchieste degli anni ottanta mostrano che con la crescente integrazione delle donne nella vita professionale
la specificità dei comportamenti del sesso femminile di fronte alla Chiesa si riduce. Le donne e gli uomini che lavorano non evidenziano più
alcuna differenza per quel che riguarda il loro coinvolgimento nella
Chiesa102.
Il secondo risultato da menzionare si riferisce all’atteggiamento delle
giovani donne. Nel 1982 le donne tra 21 e 39 anni segnalavano un
distacco dalla Chiesa ben maggiore rispetto al 1972. Nella generazione
più giovane sembra che si possa constatare il medesimo processo di
assimilazione tra uomini e donne descritto per le donne lavoratrici. Si
constata invece una diffusa partecipazione femminile alla vita religiosa
soprattutto tra le donne anziane e che non svolgono un’attività lavorativa103.
Si può notare, inoltre, che le specificità femminili nel rapporto con la
Chiesa sono molto più diffuse nei villaggi e nelle piccole città che nelle
medie e grandi città. In situazioni di villaggio o piccola città la forma
tradizionale del mondo-della-vita, alla quale appartiene anche un coinvolgimento religioso maggiore della donna, può conservarsi sino a oggi
sensibilmente più forte di. quanto non avvenga nelle zone urbane.
Caratteristico del protestantesimo tedesco è in questo contesto il
fatto che a partire dall’introduzione dell’ordinazione femminile per
l’ufficio di pastore (all’inizio degli anni sessanta) la quota di donne tra i
pastori è rapidamente salita. Tra le persone ordinate pastori e che
fossero state incaricate all’ufficio, la componente femminile raggiungeva
1’1,8 per cento nel 1964, il 4 nel 1975, il 9,6 nel 1987 e il 10,3 nel
1988104. Tra il 1964 e il 1987 la percentuale di teologhe che abbiano
superato l’esame di teologia di secondo livello è passata da 4,1 a 32,2
per cento105. La quota femminile tra gli studenti di teologia evangelica in
Germania era alla fine degli anni ottanta ancora superiore, sfiorando il
limite del 50 per cento.
102 Ibid., p. 126.
103 Ibid., p. 137.
104 Amtsblatt der Evangelischen Kirche cit., 84, 15 febbraio 1989, p. 14.
105 Ibid., p. 6.
384
Karl-Fritz Daiber
Poiché nella chiesa cattolica le donne non possono aspirare alla dignità
sacerdotale, in questo la differenza con i protestanti è netta. La
differenziazione dei compiti nella pastorale della chiesa cattolica ha però
aperto alle donne anche qui un campo d’azione che qualche anno prima
restava per loro inaccessibile. Nel complesso, guardando alla chiesa
cattolica si può dire che il numero di donne, non solo tra i collaboratori
professionali, ma anche tra i membri dei consigli pastorali a livello locale e
diocesano, è sensibilmente aumentato. La critica al tradizionalismo
ecclesiastico, che in non pochi casi è ritenuto misogino, si può osservare in
entrambe le chiese. Le posizioni femministe costituiscono però una
minoranza, e questo vale anche per le donne che sono interessate o che
sostengono le posizioni della teologia femminista.
Se rendere possibile la parità di diritti tra donne e uomini è inteso come
un potenziale di modernizzazione, non si addice alle chiese, né
all’evangelica né alla cattolica, il titolo di precorritrici. Lo detengono
piuttosto i liberali di sinistra o i sostenitori dei Verdi. Sono costoro, ad
esempio, a sostenere più di tutti una completa liberalizzazione dell’aborto,
mentre entrambe le chiese assumono in merito una posizione nettamente
contraria, sebbene la chiesa cattolica si esprima con maggiore inflessibilità e
univocità106.
10.4. Abbandono ufficiale della Chiesa
Uscire dalla chiesa cattolica o dalle chiese territoriali evangeliche era
possibile, in linea di principio, già dal XIX secolo. In singoli territori
dell’impero germanico ci sono state un tempo modiche ondate di defezioni, che hanno in parte condotto alla fondazione di comunità «di libera
religione». Inoltre bisogna tenere a mente che l’ingresso formale in una
delle chiese indipendenti che allora nascevano, di norma comporta va
comunque la corrispondente uscita dalla chiesa territoriale, in quanto chiesa
di Stato. Nonostante ciò, le defezioni rimasero complessivamente rare.
Prima del 1918 la loro quota annuale nelle chiese territoriali
evangeliche rimaneva ben al di sotto dello 0,1 per cento dei fedeli. In
Germania se n’è registrata un’ondata ingente solo dopo il 1918 (0,8
per cento dei fedeli), perché proprio allora fu condotta da gruppi di liberi pensatori una campagna di propaganda in favore dell’abbandono
della Chiesa. Una seconda impennata si ha intorno al 1930, e una terza
106 Si veda su questo problema H.-W. Eichelberger «Konfession und Ethik am Beispiel
der Einstellung zum Schwangerschaftsabbruch» in K.-F. Daiber (a cura di), Religion und
Konfession cit., pp. 75-92.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
385
prima dell’inizio della seconda guerra mondiale (0,9 per cento dei
fedeli). Dopo la seconda guerra mondiale e sino alla fine degli anni
sessanta, la quota annuale tra i protestanti è rimasta leggermente
superiore allo 0,1 per cento. Alla fine degli anni sessanta e all’inizio degli
anni settanta si è verificata una nuova ondata di defezioni, che è rifluita
verso la fine degli anni settanta, a metà degli anni ottanta ha raggiunto
nuovamente lo 0,4 per cento annuo e alla fine degli anni ottanta è
cresciuta sino a toccare lo 0,5 per cento.
Ovviamente esistono consistenti differenze regionali. I maggiori
centri di abbandono delle chiese sono le grandi città, come Berlino e
Amburgo, ma anche altre.
La percentuale è minore nella chiesa cattolica che nelle chiese territoriali evangeliche, ma resta notevolmente alta: nel 1986 si è raggiunto
lo 0,28 per cento dei membri. Anche in questo caso assistiamo a scostamenti regionali: nella diocesi di Essen (distretto della Ruhr) la quota
ammontava allo 0,35 per cento, a Berlino raggiungeva la punta massima
dell’i per cento. Per contro nella diocesi di Treviri si raggiungeva una
quota dello 0,1 per cento e nella diocesi di Regensburg soltanto una
quota dello 0,07 per cento107.
Secondo il sondaggio svolto tra gli evangelici nel 1982, il 60 per
cento dei fedeli protestanti dell’epoca non prendeva in considerazione
l’abbandono della Chiesa e il 33 per cento lo rifiutava decisamente,
comunque più di un quinto lo considerava una possibilità da tenere
presente. Rispetto al 1972, il numero di coloro che dal punto di vista
personale consideravano l’abbandono della Chiesa come una scelta
possibile era evidentemente cresciuto. Questo valeva, inoltre, in egual
misura per tutti i livelli d’istruzione108. Come si è detto, rimane sempre
una percentuale elevata di fedeli per i quali l’appartenenza alla Chiesa è
un fatto assolutamente ovvio, che non viene messo in questione. Alla
domanda sulle motivazioni dell’appartenenza alla Chiesa, nel 1982 più
del 52 per cento degli intervistati ha risposto: «Sono nella Chiesa perché
sono cristiano»; il 45 per cento ha scelto la risposta «Sono nella Chiesa
perché approvo la dottrina cristiana». Se ne deduce che per molti la
Chiesa è ancora del tutto un elemento di un mondo-della-vita
immediato, cristianamente caratterizzato109.
Attualmente facilita l’abbandono della Chiesa soprattutto il fatto che,
nella maggior parte delle società locali e naturalmente in modo partico107
108
109
Kirchliches Handbuch cit.
J. Hanselmann, H. Hild e E. Lohse (a cura di), Was wird aus der Kirche? cit., p. 146.
Ibid., pp. 154 sgg.
386
Karl-Fritz Daiber
lare nelle grandi città, la non-appartenenza a una delle chiese maggiori
non è più sanzionata negativamente. Ciò avviene ancora, in parte, nelle
piccole comunità, soprattutto quando una delle confessioni maggiori
esercita un evidente dominio sulla vita pubblica.
A uscire dalla Chiesa sono soprattutto i giovani. Da più di diciassette
anni, il 50 per cento delle uscite annuali avvengono tra il 16° e il 32°
anno di età, la quota di uomini è superiore alla norma. Nelle famiglie
sovente l’appartenenza della donna consente di mantenere un legame
con la Chiesa anche quando l’uomo ne è uscito. Risulta chiaro che con
l’abbandono della Chiesa non si intende contestare il ruolo delle chiese
come aggregazioni d’importanza sociale, tuttavia si nega loro il proprio
sostegno: in generale questo è quanto avviene quando si compie un lungo processo di distacco interiore dalla Chiesa e dalla religione. Mentre
nei decenni passati l’appartenenza alla Chiesa veniva conservata anche
quando era sopravvenuto un distacco dal cristianesimo, attualmente la
si sottopone (secondo l’evoluzione degli ultimi decenni) anche a un’analisi dei costi e dei benefici: la presa di distanza conduce anche al passo
estremo dell’uscita dalla Chiesa. È degno di nota in questo contesto che
una minoranza di coloro che hanno abbandonato la Chiesa, nonostante
la separazione organizzativa, si sentano ancora legati al cristianesimo110.
L’alto numero di uscite da entrambe le chiese evidenzia nel complesso
che, almeno per una minoranza, esse non fanno più parte delle istituzioni religiose riconosciute e indiscusse della società, ma palesemente
sono intese sempre più come organizzazioni. Con ciò esse si trovano
sempre più di fronte al compito di guadagnare nuovi membri e di
motivarli a rimanere tali.
10.5. La nuova situazione in Germania alla scomparsa della Repubblica
democratica tedesca
Con la nascita di due stati tedeschi dopo il 1945, nella Germania
Occidentale e nella Germania Orientale la situazione religiosa si è evoluta
in forme completamente diverse. Nella Ddr, dal punto di vista giuridico, lo
status tradizionale di enti di diritto pubblico di cui godevano le chiese è
stato via via minato. Comunque, il diritto alla libertà religiosa e
all’istituzione di comunità religiose è rimasto radicato a livello di
110 Si vedano in proposito A. Feige, «Kirchenentfremdung, Kirchenaustritte» in Theologische
Realenzyklopädie, Berlin-New York, 1989, vol. 18, pp. 530-35, soprattutto pp. 533 sgg.; inoltre le
accurate analisi di Id., Kirchenaustritte, Gelnhausen-Berlin, 19772 e A. Kuphal, Abschied von der Kirche,
Gelnhausen-Berlin-Stein, 1979.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
387
diritto individuale, mentre alle comunità religiose sono stati in parte
garantiti diritti già riconosciuti un tempo: così, ad esempio, nelle
università statali sono rimaste sempre sei sezioni di teologia
evangelica, nelle quali si è formata circa la metà degli studenti di
teologia della Ddr.
Nella Ddr le due chiese maggiori hanno sempre mantenuto un atteggiamento critico verso Io Stato. In proposito l’azione della chiesa cattolica
è stata più coperta, meno politica, mirante innanzi tutto a difendere i diritti
religiosi, e questo perché nella Ddr i cattolici sin dall’inizio hanno avuto
una posizione minoritaria. Anche il distacco critico dallo Stato che la chiesa
cattolica aveva in parte sviluppato nel corso del XIX secolo potrebbe aver
avuto delle ripercussioni. Le chiese evangeliche si sono confrontate con lo
stato socialista della Ddr ponendosi più chiaramente all’offensiva, ma
mostrandosi comunque più disposte a un compromesso. Hanno
intensificato il proprio ruolo secondo la formula: «Chiese nel socialismo».
Sulla base di una sostanziale accettazione dell’ordinamento statale è stato
possibile, in misura limitata, farsi anche carico di una funzione di
opposizione politica, che negli ultimi anni della Ddr si è espressa
nell’ospitalità che gruppi alternativi e di opposizione trovavano sotto il
tetto della Chiesa, benché la loro identificazione con la stessa in quanto
istituzione fosse notevolmente diversificata111.
Per quanto riguarda l’appartenenza a una delle chiese maggiori, si può
parlare di una costante diminuzione della loro consistenza numerica a
partire dagli anni cinquanta. Nel 1990 un’inchiesta pubblicata dal
settimanale amburghese Der Spiegel ha dato i seguenti risultati: nel territorio della ex Ddr, alla domanda sul suo «atteggiamento nei confronti
della Chiesa» il 35 per cento degli intervistati ha risposto: «Non sono mai
appartenuto a una chiesa»; il 31 per cento: «Sono uscito dalla Chiesa»; il 26
per cento: «Sono nella chiesa evangelica»; il 4 per cento: «Sono nella chiesa
cattolica»; il 2 per cento: «Appartengo a un’altra comunità religiosa».
I dati dei sondaggi di opinione sono leggermente inferiori a quelli comunicati dalle chiese e rispecchiano grosso modo la stessa situazione. Anche in questo caso bisogna rilevare la presenza di differenze regionali. Ci
sono zone di recente edificazione, ad esempio a Berlino Est, in cui meno
dell’1 per cento della popolazione appartiene alla chiesa evangelica,
111 Sulla situazione complessiva negli anni ottanta si veda il mio articolo «Kirche und
religiöse Gemeinschaft in der Ddr» in Gegenwartskunde, numero speciale 5, XXXVII, 1988, pp.
75-88. Inoltre: D. Pollack (a cura di), Die Legitimität der Freiheit. Politisch alternative Gruppen in der
Ddr unter dem Dach der Kirche, Frankfurt a.M., 1990; W. j. Grabner, C. Heinze e D. Pollack (a
cura di), Leipzig im Oktober. Kirchen und alternative Gruppen im Untbruch der Ddr. Analysen zar
Wende, Berlin, 1990.
388
Karl-Fritz Daiber
mentre in certe zone della Sassonia l’appartenenza alla Chiesa è tuttora
abbastanza diffusa. Inoltre ci sono zone cattoliche, come Eichsfeld
(presso Göttingen), con un’elevata quota di popolazione cattolica112.
Dal punto di vista strutturale le chiese della Ddr hanno continuato a
rifarsi ai modelli tradizionali. È stato conservato il sistema parrocchiale,
ossia un sistema di assistenza religiosa con diffusione territoriale. Questo
è stato possibile solo perché le chiese tedesche occidentali sostenevano
con ingenti mezzi finanziari le chiese tedesche orientali. Le spese
necessarie non avrebbero potuto essere coperte con i contributi che
queste ultime riuscivano a raccogliere. Ciò ha avuto naturalmente per
effetto che non si sono potute istituire strutture ecclesiastiche adeguate
alla situazione.
Dalla fine dei 1990, con la riunificazione dei due stati tedeschi, il
quadro statistico della religione in Germania è considerevolmente
mutato. La quota di coloro che non sono organizzati in una chiesa o di
coloro che appartengono a una comunità religiosa non cristiana è passata
dal 16 al 29 per cento, i cattolici sono diminuiti dal 43 al 34,5 per cento e
gli evangelici dal 41 al 36,5 per cento.
Per quanto concerne i futuri rapporti tra lo Stato e le chiese, si può
presumere che i vescovi cattolici della Germania Orientale opereranno
perché siano garantiti i diritti ecclesiastici così come si sono configurati
nella Repubblica federale sino al 1990. Bisogna supporre che costoro
vedrebbero volentieri una riproduzione dei tratti fondamentali del sistema religioso della Repubblica federale nella Germania Orientale. Il
dibattito pubblico sulla questione è tuttavia estremamente reticente. Le
tendenze all’interno delle chiese territoriali evangeliche possono esser
descritte con maggiore chiarezza. Nelle stesse chiese esistono
controversie. Mentre vi sono gruppi che propugnano la trasposizione del
sistema tedesco occidentale, altri gruppi aspirano a una migliore tutela
dell’indipendenza organizzativa e giuridica delle chiese rispetto allo Stato.
Nel merito, si accendono discussioni sul sistema delle tasse ecclesiastiche,
sull’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e sull’assistenza
spirituale nell’esercito. In parte vengono anche sollevate delle critiche alla
diaconia per la sua integrazione nel sistema dello stato sociale, benché
anche nella Ddr la diaconia ecclesiastica fosse sostenuta dallo Stato113.
Quale influsso reale possa derivare a medio e lungo termine
112 Per i dati dell’inchiesta dei settimanale Der Spiegel, si veda l’agenzia di stampa idea
spektrum, 47, 1990.
113 Per i dati in percentuale sull’appartenenza religiosa nella Germania unita si veda ibid.,
39, 1990.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
389
dalla differente situazione religiosa ed ecclesiastica nella Germania
Orientale e Occidentale, resta per il momento difficile da valutare.
Poiché le chiese della Ddr hanno conservato elementi essenziali della
tradizione religiosa tedesca più antica, bisogna comunque attendersi
piuttosto un adeguamento della Germania Orientale alla Germania
Occidentale. Non si può prevedere un incremento apprezzabile della
consistenza numerica delle chiese nella Germania Orientale.
11. Religione e modernità in Germania: sistemazione teorica degli esiti
dell’indagine
Nel discutere via via gli aspetti particolari del problema, sono riecheggiate continuamente le prospettive teoriche sviluppate nell’introduzione. Il paragrafo conclusivo discuterà più sistematicamente di quanto
fosse possibile nel corso dell’analisi fenomenologica gli esiti dell’indagine,
tenendo conto appunto delle premesse teoriche.
11.1. Pluralismo limitato
La descrizione della situazione attuale della religione nella Repubblica federale tedesca evidenzia un quadro tipico di molte società moderne, ossia la pluralizzazione degli orientamenti esistenziali e dunque
anche delle opzioni religiose possibili. La struttura religiosa unitaria delle
società tradizionali si è dissolta: il processo è iniziato in Germania al
tempo della Riforma e si è rafforzato, come dappertutto in Europa, con
l’apparire dell’Illuminismo. La formulazione istituzionale del pluralismo
religioso è proseguita nel XIX secolo con l’accettazione ufficiale di comunità cristiane minori in qualità di chiese indipendenti o di sette. Il
quadro degli ultimi decenni è caratterizzato soprattutto dal fatto che
l’appartenenza a una delle chiese cristiane maggiori è sempre più a discrezione di colui che la cerca: non solo può esserci una decisione indipendente sul modo di intendere l’appartenenza, come da tempo avveniva, ma persino la possibilità di decidere in generale la partecipazione a
un gruppo religioso. Dalla fine del secolo scorso, soprattutto, le religioni
non europee si sono diffuse in Germania, la loro equiparazione alle
chiese cristiane, dal punto di vista del diritto costituzionale, è ormai
predisposta e in linea di principio possibile.
Il pluralismo religioso tuttavia non va considerato solo come il pluralismo di opzioni religiose possibili oltre alle chiese cristiane, ma riguarda
anche il quadro interno alle chiese stesse. In generale avviene che meno
390
Karl-Fritz Daiber
i membri delle chiese partecipano alla vita ecclesiale, più si staccano dalle
norme della Chiesa nella scelta dei loro simboli religiosi. Tra i membri
delle chiese cristiane che ne reggono l’organizzazione esistono da tempo
differenze di interpretazione della tradizione cristiana. Ciò che è accaduto
dapprima nell’ambito del protestantesimo, si verifica oggi anche per la
chiesa cattolica: accanto a un indirizzo liberale ve n’è uno di stampo
conservatore, ed entrambi a loro volta si presentano sotto forme diverse.
All’interno del protestantesimo, negli ultimi anni si è generato un
fondamentalismo attivo su temi di politica ecclesiale, che cerca coerentemente di far valere le proprie posizioni. Orientamenti cristiani conservatori analoghi sono rappresentati all’interno della chiesa cattolica da
singoli gruppi.
All’esterno delle chiese maggiori e, al loro interno, nella cerchia dei
componenti maggiormente distaccati, esiste un relativo disinteresse per le
controversie teologico-religiose: la religione è ritenuta un affare privato.
Bisogna supporre che nella sfera privata siano vissuti una varietà di
progetti di vita che in parte si attengono ai precetti della Chiesa, in parte
hanno un orientamento sincretistico-religioso o illuministico-umanista,
non di rado accompagnati dalla rinuncia alla simbolizzazione religiosa.
Sovente non si cerca neppure un’intesa sui tentativi di interpretazione.
Quando la si cerca, può risultarne la formazione di gruppi religiosoideologici, che nel complesso rimangono però marginali e non
influenzano la religione nelle sue forme fenomeniche pubbliche se non
limitatamente. Nonostante tutte le differenze nella scelta, da parte degli
individui, di sistemi simbolici per sistemi interpretativi fondamentali,
esiste un diffuso consenso sociale sui valori, al quale non si sottraggono
neppure coloro che sono più strettamente legati alla Chiesa. Anche
quando la religione, nel senso della religione cristiana, rimane controversa
e rappresenta perciò un fattore sociale di integrazione solo in forma
estremamente generalizzata (l’idea di Dio), esiste un’integrazione nella
forma di un accordo sui valori fondamentali. Il dibattito sui valori fondamentali che si è svolto negli anni settanta rendeva in fondo manifesta
questa presenza latente.
Proprio questa circostanza mostra che il pluralismo osservato è limitato. Ciò vale non solo per i valori fondamentali dell’orientamento di vita,
ma anche per l’orientamento nei confronti delle forme di religione
prescritte. Le chiese indipendenti e le sette cristiane del XIX secolo non
hanno potuto svilupparsi in Germania sino a fare seriamente concorrenza
alle due chiese maggiori. I seguaci delle religioni non europee si limitano a
costituire piccoli gruppi. Neppure la presenza dell’Islam, rap-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
391
presentata soprattutto dai lavoratori stranieri e dalle loro famiglie, ha
potuto modificare realmente la coscienza della società tedesca in senso
multireligioso. L’isolamento sociale dei musulmani, tuttora esistente, può
essere dovuto da una parte alla loro condizione di stranieri, ma dall’altra
anche alle persistenti differenze culturali. Per quanto riguarda queste
ultime, si può dire che da tempo la società tedesca ha evitato di trasformarsi in una società multiculturale e si stringe invece con forza, nel
proprio orientamento, alla tradizione europea e quindi cristiana che ha
ereditato. La situazione potrebbe cambiare solo se i lavoratori immigrati
rimanessero a lungo termine nella Repubblica federale oppure difendessero, in quanto sottogruppo della popolazione, la propria indipendenza
culturale. Sullo sfondo dell’evoluzione di una società multiculturale, i tratti
multireligiosi della società tedesca potrebbero rafforzarsi e solo così dare
origine a un pluralismo religioso esteso.
Per quanto concerne in generale lo sviluppo di orientamenti pluralistici
nei sistemi interpretativi, la società tedesca della fine del nostro secolo si
distingue nettamente rispetto alla situazione di inizio secolo. Allora il ruolo
delle chiese cristiane era così forte e incontrastato che lo si combatteva sul
piano ideologico, ad esempio nella forma di movimenti di libero pensiero.
Anche oggi avviene occasionalmente che si pubblichino interventi di
questo genere, ma nel complesso non emerge l’esigenza di un dibattito.
Esiste piuttosto la tendenza ad ammettere con tolleranza la spiegazione
cristiana del mondo e della vita come una possibile interpretazione. Una
devozione cristiana vissuta con convinzione invece incontra tuttora
disapprovazione quando sfocia in un orientamento meramente rituale,
senza che vi si accompagni una condotta di vita corrispondente. Questo
genere di disapprovazione viene proclamata solitamente in maniera
informale in quella sfera semipubblica rappresentata dai discorsi da caffè o,
soprattutto, in circoli privati.
L’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche è ampiamente
tollerato, perché esiste un’effettiva possibilità di non prendervi parte. La
presenza delle chiese nei mezzi di comunicazione di massa, che con le
nuove programmazioni si è persino rafforzata, è accettata. Perciò si deve
parlare, nel complesso, di un pluralismo limitato da un’ampia presenza
pubblica delle chiese cristiane. Tale pluralismo limitato è reso possibile
dalla spoliticizzazione dei contrasti di genere religioso. Quanto più le
religioni si inseriscono in un sistema basilarmente pluralista, tanto più
vengono tollerate, e la religione cristiana è addirittura sostenuta in quanto
elemento della cultura e della tradizione occidentali. Alla spoliticizzazione è
associata la rinuncia a veder soddisfatta un’esigenza di verità religiosa,
rinuncia che sola consente la compresenza tollerante di gruppi
392
Karl-Fritz Daiber
religiosi. Un’intesa sulle questioni religiose non è più ricercata, perché
si esclude la possibilità di trovarla. Gli atteggiamenti postmoderni
sembrano avere proprio nel campo della religione una lunga preistoria.
11.2. Formazione di sistemi ecclesiali organizzati nel quadro della
differenziazione dei livelli sociali
La teoria sociologica ha variamente descritto il processo di modernizzazione delle società come un fenomeno di differenziazione, connesso a
sua volta con la specializzazione funzionale. Per il sistema religioso, come
per altri sottosistemi sociali, questo significa una riduzione funzionale, un
processo che è stato descritto non da ultimo come la secolarizzazione della
società.
Niklas Luhmann, come abbiamo accennato nel primo paragrafo, considera il processo di differenziazione sociale connesso al costituirsi di un
tipo del tutto nuovo di forma sociale, ossia all’organizzazione impostata
razionalmente che persegue finalità parziali esplicitabili. Così, per quanto
riguarda la società nel suo insieme, si perviene a una differenziazione dei
livelli sistemici, a una distinzione tra sistemi sociali semplici e quelli della
società nel suo complesso e del nuovo livello di organizzazione. Non c’è
tra questi livelli una separazione completa, benché si assista a un’evidente
autonomizzazione. Jurgen Habermas parla in proposito di uno
sganciamento del livello dei sistemi dal livello del mondo-della-vita114.
All’interno di tale sistema sociale differenziato, la religione non è affatto
presente solo al livello della società nel suo insieme, né solo al livello delle
interazioni semplici, ma in egual misura al livello delle organizzazioni. È
esattamente una specificità delle società moderne che il livello delle
organizzazioni si costituisca, anzi si espanda, in maniera particolare.
In Germania la biconfessionalità ha contribuito molto presto all’evoluzione delle chiese da istituzioni della società nel suo complesso, l’appartenenza alle quali non aveva bisogno di essere definita, a organizzazioni,
l’appartenenza alle quali andava definita. Per tale ragioni si è giunti molto
presto, com’è noto, a formalizzare giuridicamente la registrazione
dell’appartenenza religiosa nella regolamentazione dei rapporti tra Stato e
Chiesa. L’appartenenza alla Chiesa poteva così essere descritta e trattata
indipendentemente da premesse teologiche. L’uscita dalla Chiesa,
impossibile secondo la concezione religiosa, andava effettuata giuri114 Per l’applicazione alla religione del concetto di organizzazione da parte di Luhmann, si veda il
suo Funktion der religion cit., pp. 272 sgg
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
393
dicamente. In questo modo si creavano i presupposti per poter
concepire le chiese come organizzazioni.
Gli ultimi due decenni, con la manifesta tendenza all’uscita dalle chiese,
e proprio da entrambe le chiese maggiori, hanno portato a coscienza in
modo chiaro il carattere di organizzazione delle chiese come forme sociali
della religione. L’appartenenza alla Chiesa non è più, come lo Stato è
invece ancora ampiamente, una specie di dono del destino, ma è sottoposta all’attiva decisione dei singoli. La Chiesa diventa così sempre più,
anche nella coscienza dei suoi membri, un’organizzazione. Ad essa si può
appartenere, ma si può anche non appartenere. Le uscite dalla Chiesa, con
la simultanea possibilità del passaggio a un’altra, a lungo termine hanno
contribuito a questa percezione.
In questo contesto sono significative due osservazioni sul comportamento di coloro che non sono membri di una chiesa. Chi ha abbandonato
la chiesa evangelica o la chiesa cattolica, può ritenersi come prima evangelico o cattolico. Evidentemente la Chiesa, più precisamente la chiesa evangelica e la chiesa cattolica, è per la coscienza di molte persone ancora qualcos’altro dalla chiesa come organizzazione. Può essere, ad esempio, un’istituzione immediata di un mondo-della-vita locale, alla quale si intende appartenere proprio per contrasto con l’organizzazione della chiesa territoriale, anche se si è usciti da quest’ultima. Inoltre, coloro che sono usciti dalla
chiesa come organizzazione prendono parte, in singoli casi, ad attività all’interno della comunità ecclesiale. Ciò significa che il sistema dell’organizzazione non è senz’altro identico alla religione presente nel inondo-dellavita, alla religione dei sistemi sociali semplici di comunicazione immediata.
Generalizzando queste osservazioni risulta chiaro che la Chiesa, all’interno
della Repubblica federale, si è costituita sì in organizzazione, ma al tempo
stesso rimane presente agli altri livelli sistemici in modo peculiare e comunicativo. Lo conferma che il distacco dalla Chiesa, che eventualmente porta
all’uscita ufficiale, non si accompagna affatto necessariamente a un atteggiamento nei suoi confronti che contesti il suo ruolo pubblico o ne auspichi la diminuzione. Simili osservazioni portano a ritenere che nella società
tedesca il carattere di organizzazione della Chiesa si sia rafforzato in modo
costante e risulti più chiaro nelle coscienze, senza che perciò le chiese cristiane vengano intese esclusivamente come organizzazioni. Tuttora sono
considerate non solo come organizzazioni, ma anche come istituzioni della
società nel suo insieme, presenti al tempo stesso nei sistemi semplici d’interazione di persone che comunicano in forme religioso-cristiane o che agiscono in base a motivazioni cristiane.
Come organizzazioni, soprattutto le chiese cristiane maggiori sono
394
Karl-Fritz Daiber
saldamente integrate nel livello sistemico delle organizzazioni, osserva
Luhmann115, dal momento che erogano prestazioni specifiche, nella forma
dell’assistenza sociale o spirituale, ad altre organizzazioni. Il coinvolgimento
delle chiese come organizzazioni nel corrispondente livello sistemico della
società ha effetti considerevoli sulle chiese stesse, soprattutto in direzione
della differenziazione interna dei loro gruppi di collaboratori. I teologi, i pastori, i parroci, i sacerdoti, non sono che una minoranza tra i collaboratori
professionali delle chiese tedesche. Accanto a loro opera un ampio ventaglio di gruppi professionali: esperti di diritto e amministrazione, esperti di
arte e di edilizia, pedagogisti, psicologi, sociologi e altri ancora. Inoltre già le
analisi specifiche hanno evidenziato la varietà di incarichi che teologi,
pastori, parroci, sacerdoti, possono occupare nel sistema ecclesiastico.
Mentre l’assistenza religiosa è tuttora prestata attraverso il sistema delle
parrocchie o delle comunità locali, delle diocesi e delle chiese territoriali,
restando quindi orientate al più antico principio di una differenziazione
segmentale, fin dalla seconda guerra mondiale e, in forma embrionale, anche
prima, si è rafforzata la differenziazione funzionale all’interno delle chiese
stesse. Tutti gli ambiti di azione della Chiesa che consistono nell’erogazione
di prestazioni ad altre organizzazioni sono stati istituiti e poi ampliati secondo
il principio della differenziazione funzionale. Classici esempi sono la diaconia
e la Caritas. Le chiese hanno creato proprie organizzazioni, almeno in parte
provviste di autonomia giuridica, che si assumono compiti di carattere
pubblico nel quadro legislativo dello stato sociale. Le prestazioni di queste
strutture di assistenza sociale e spirituale sono sostenute mediante
controprestazioni dalle organizzazioni che le percepiscono, ad esempio
attraverso il rimborso dei costi da parte degli enti assistenziali in caso di
malati, portatori di handicap o simili. I sottosistemi ecclesiastici come la
diaconia o la Caritas pongono le chiese in una situazione non solo di
dipendenza dallo Stato, ma anche di dipendenza verso un insieme di
organizzazioni: le chiese non possono stabilire autonomamente i propri
scopi, bensì devono agire cooperativamente. Viceversa, le organizzazioni che
richiedono le prestazioni, come gli enti assistenziali, o l’amministrazione
statale, non decidono dal canto loro autonomamente, ma sono tenute a una
concertazione con la diaconia e la Caritas, come con le altre associazioni
caritativo-assistenziali. Lo Stato che si intende come stato sociale, dotato
di crescenti responsabilità e diritto d’intervento, dipendeva e dipende
per la realizzazione delle proprie finalità sociali da operatori non
115
Ibid., p. 56 sgg.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
395
statali, ha bisogno di prestazioni che non è in grado di erogare e deve
perciò tenere in considerazione anche le chiese.
La situazione si evolve in modo strutturalmente simile, anche se di certo
non con le stesse proporzioni, in altri ambiti sociali, come nelle
comunicazioni (mass media) o nel sistema scolastico. Le conseguenze per
le chiese, in quanto forme sociali della religione, sono manifeste: i sottosistemi organizzativi necessari specificamente per l’erogazione di prestazioni ad altre organizzazioni acquistano autonomia, il loro grado di
differenziazione porta a fenomeni di sganciamento all’interno del rispettivo
sistema generale di chiesa. In parte la qualità dell’azione svolta subisce
mutamenti radicali, l’elementare aiuto cristiano diventa un’azione
organizzata, referente di chi cerca aiuto non è il fratello cristiano, ma la
burocrazia ecclesiastica o statale, l’organizzazione assistenziale.
La Chiesa si costituisce dunque, come organizzazione, fondamentalmente su due piani. Il primo è il piano dei comportamenti relativi all’appartenenza, con la pratica di un’uscita cosciente, o anche di un ingresso
cosciente; il secondo è quello dell’assunzione dei principi dell’agire
organizzato, in connessione sistemica con altre organizzazioni il cui
vicendevole legame è dato dalle reciproche prestazioni. Mentre sul piano
dei comportamenti dei membri la Chiesa rimane presente sia al livello
sistemico della società nel suo insieme sia al livello dell’interazione
semplice, e a questo livello riceve sovente adesione in contrapposizione alla
chiesa come organizzazione, come erogatrice di prestazioni sociali essa
presenta la medesima evoluzione sociale che emerge dai molteplici processi
di differenziazione funzionale all’interno della società. Proprio in questo
carattere di grandi organizzazioni, le chiese cristiane diventano
relativamente indipendenti dalle motivazioni dei singoli membri della
Chiesa e, al tempo stesso, diventano dipendenti dal sistema globale di una
società di organizzazioni funzionante. Non sono in grado di compiere ―
sembra documentare chiaramente l’esempio della Repubblica federale ―
pressoché nessuna evoluzione autonoma, indipendente dall’evoluzione del
sistema globale contestuale.
11.3. L’opposizione alle forme sociali della religione cristiana come chiesa di
gruppi
Nel dibattito riformatore tra i teologi, sia cattolici sia protestanti, nella
Repubblica federale tedesca, e un tempo anche nella Repubblica
democratica tedesca, viene sempre espressa la speranza che in futuro le
chiese cristiane possano avvicinarsi maggiormente a una forma sociale in
cui l’intera comunità dei fedeli viva e realizzi la chiesa come popo-
396
Karl-Fritz Daiber
lo di Dio. In queste affermazioni programmatiche è evidente la critica alla
«chiesa popolare», come si è sviluppata dalla vecchia chiesa di Stato. Le chiese
istituzionali, sia del tipo dell’istituzione sia del tipo dell’organizzazione,
dovrebbero evolversi. in chiese plasmate come chiese di gruppi, che realizzino
maggiormente elementi di ciò che Ernst Troeltsch ha chiamato «setta» o
«chiesa della libera adesione». Che esistano chiare tendenze a un graduale
dissolvimento degli elementi della chiesa istituzionale è inequivocabile. Una
nuova ricerca sull’evoluzione e sulle prospettive del cattolicesimo nel mondo
occidentale ha preso avvio, ad esempio, dalle tesi seguenti: «Dopo il Concilio
vaticano II la chiesa cattolica nell’Europa Occidentale, e in ogni caso nella
Repubblica federale tedesca, si è spostata, nello spazio compreso tra tipi ideali
o tipi estremi dell’organizzazione religiosa definiti da Troeltsch, dal polo
“chiesa” in direzione del polo “setta” »116. Basandoci sulla tipologia di chiesaistituzione, chiesa-organizzazione e chiesa di gruppi, che abbiamo sviluppato a
partire da Troeltsch, consideriamo questa tesi nella prospettiva di una
valutazione critica. Per rispondere alla domanda sui possibili sviluppi in
direzione della chiesa di gruppi partiremo dalle seguenti ipotesi:
1) un orientamento più forte in favore della chiesa di gruppi si presenta
quando all’interno della vita ecclesiale le convinzioni cristiane soggettive sono
sperimentate come importanti per l’azione sacramentale delle chiese, cresce la
partecipazione alla vita ecclesiale almeno nelle comunità principali, aumenta il
reciproco controllo tra i membri della comunità sull’orientamento spirituale, e
perciò nel complesso il profilo spirituale della comunità diventa più netto e
l’ingresso e l’uscita sono compiuti come coscienti decisioni di orientamento
religioso;
2) tendenze alla chiesa di gruppi si presentano inoltre quando il significato
dell’attività pastorale diminuisce, diventano più rilevanti i piccoli gruppi, si
possono osservare iniziative di base per la fondazione di comunità, il
significato dell’assistenza religiosa parrocchiale da parte di un detentore
dell’ufficio diminuisce a favore della vita di comunità orientata ai gruppi,
l’influsso della burocrazia centrale concistoriale o diocesana si riduce a favore
degli spazi di movimento delle singole comunità, il finanziamento della chiesa
come organizzazione si basa maggiormente sui contributi offerti liberamente
dai membri delle comunità;
3) forme sociali della chiesa come chiesa di gruppi si presentano infine
quando la differenza tra chiesa e società aumenta, la chiesa come organizzazione inizia a entrare in un rapporto conflittuale con lo Stato e con
la società, oppure la rilevanza pubblica della chiesa diminuisce a
116
G. Schmied, Kirche oder Sekte?, München, Piper, 1988, p. 14.
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
397
tal punto che non se può o deve più discutere pubblicamente, quando al
tempo stesso a livello dei membri della chiesa sono rappresentati valori
d’importanza quotidiana che contrastano con quelli della società in
generale, o comunque non sono conformi con essi, e inoltre l’appartenenza
alla chiesa si evolve in modo tale da non essere più rappresentativa di una
maggioranza della popolazione.
Se la maggioranza di questi punti trovasse positivo riscontro, e il riscontro si distribuisse equamente nelle tre dimensioni del problema, si
dovrebbe parlare apertamente di un’evoluzione verso la chiesa di gruppi, o
proprio di un passaggio dalla chiesa come istituzione e come organizzazione alla chiesa di gruppi. La varietà di circostanze di fatto che
andrebbe analizzate mostra anticipatamente che non è complessivamente
possibile rispondere a un tale quesito. Considerando i vari criteri ci sono
tendenze diverse, che inoltre sono estremamente diverse o su base
regionale o perché dipendono dai rispettivi diversi sistemi sociali locali.
Vanno inoltre considerate le differenze confessionali: nel complesso la
chiesa cattolica, per i suoi presupposti normativi, ha più il carattere della
chiesa-istituzione di quanto non avvenga per il protestantesimo.
Anche tenendo conto di queste differenziazioni, nel quadro definito
dalle tre dimensioni menzionate si possono delineare, in base al materiale
disponibile, le seguenti circostanze che influenzano la situazione attuale.
1) Per il tipo di chiesa predominante nella Repubblica federale, sia
tra i protestanti sia tra i cattolici, l’azione sacramentale della Chiesa ha
tuttora valore costitutivo. Questa non è del resto senz’altro disponibile
al mutamento, essendo radicata in entrambe le confessioni anche dal
punto di vista teologico-normativo. Nella prassi ecclesiale questa
circostanza risulta soprattutto evidente nella fedeltà alla prassi del
battesimo dei neonati. Non è la fede del singolo che costituisce
l’appartenenza alla Chiesa, bensì è prima ancora l’azione di grazia della
Trinità divina, simboleggiata nell’atto del battesimo, ad accoglierlo.
Questa premessa teologica della prassi corrente è ampiamente accettata
dai fedeli. Si possono osservare solo deboli tendenze a modificare la
valutazione positiva del battesimo dei neonati.
2) Per la vita della Chiesa è di importanza fondamentale, sia nella
tradizione protestante sia in quella cattolica, la figura del parroco o del
pastore e quindi l’azione pastorale. Nel sistema delle parrocchie, distribuito geograficamente, la garanzia della competenza pastorale è il contrassegno permanente della struttura. Le comunità non nascono normalmente dal basso, come comunità di base, bensì per disposizione conci-
398
Karl-Fritz Daiber
storiale, sinodale, vescovile, e tuttora nascono come comunità definite
non dalle persone, ma da un territorio. La comunità ecclesiale è un
raggruppamento di cristiani che vivono in un luogo delimitato e per i
quali la Chiesa mette a disposizione un parroco o un pastore, oppure
più d’uno, oppure un gruppo di collaboratori. Segno predominante
dell’organizzazione ecclesiastica è finora rimasta la parrocchia, e il suo
inserimento in una diocesi o in una chiesa territoriale. I primi accenni
di comunità di base, all’interno o all’esterno della Chiesa, non sono
che una struttura secondaria della vita ecclesiale. Nel protestantesimo
avviene cose sin dai primi tempi del pietismo. Nella chiesa cattolica gli
ordini hanno un’antica tradizione. Negli ultimi decenni non si sono
verificati cambiamenti sostanziali di questo meccanismo.
3) Nella Repubblica federale le chiese cristiane maggiori non sono
chiese di Stato, ma approvano il sistema statale vigente. I membri delle
chiese concordano in grande misura con altri gruppi di popolazione negli
orientamenti fondamentali rispetto ai valori. Si distinguono dagli altri
soprattutto per il loro orientamento religioso. I conflitti socialmente efficaci
non sono quelli religiosi, in sostanza, ma quelli etico-politici. Per tale
motivo nascono multiformi legami e coalizioni tra gruppi interni alla
Chiesa e organizzazioni politiche. Gli atteggiamenti di critica radicale allo
Stato di gruppi ecclesiali non si spingono oltre gli orientamenti della critica
di gruppi politici.
Dove nella Repubblica federale affiorano tendenze alla chiesa di gruppi,
forse collegate con una nuova concezione dell’essere cristiano nella forma
di una fede personale e di una cosciente condotta di vita cristiana, dove
vengono enfatizzate esigenze di autonomia delle comunità e dei laici, dove
vengono elaborate e vissute differenze fondamentali in fatto di
orientamento sociale generale secondo lo schema chiesa-mondo, si tratta
nel complesso dell’emergere di minoranze ecclesiali che non riescono ad
affermare la propria rilevanza strutturale. Questo vale in fondo persino per
i fondamentalisti, influenti nella politica ecclesiastica all’interno del
protestantesimo.
Se ci si interroga sulle tendenze evolutive che si possono constatare
muovendo dalla situazione presente, bisogna dire che nel complesso si
delineano scarse tendenze al mutamento. Ciò vale forse per il rapporto tra
Chiesa e Stato, più precisamente per la collocazione pubblica delle chiese.
Vale anche per altri elementi: la forma di organizzazione salvaguardata
burocraticamente e gerarchicamente della Chiesa è altrettanto stabile di
ogni altra burocrazia, non si può certo contare su un suo autoscioglimento. Il primato dell’azione sacramentale è, come detto, teolo-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
399
gicamente garantito. Ciò significa che l’attuale forma sociale del
cristianesimo nella Repubblica federale è relativamente resistente al
mutamento. Anche se la consistenza numerica delle comunità si
assottiglia e le chiese rimpiccioliscono, il passaggio a tutt’altro tipo di
socializzazione religiosa, come la chiesa di gruppi, ben difficilmente
può aver luogo. Le chiese più piccole eventualmente ipotizzabili
restano, secondo ogni probabilità, chiese del tipo istituzionale, così
come si erano costituite sinora in forma di chiesa-istituzione e, oggi,
secondo la forma dominante della chiesa-organizzazione.
Anche le scissioni, cui occasionalmente accennano gruppi fondamentalisti o pietisti all’interno del protestantesimo, hanno scarse probabilità di
affermarsi. Questo vale ancor di più per i raggruppamenti ecclesiastici di
orientamento liberale o di sinistra, che finora hanno mostrato scarse
capacità di dar vita a forme organizzative stabili. Si torna sempre all’idea di
una struttura a rete, ci sono anche tentativi embrionali, ma non si giunge
mai a forme di organizzazione paragonabili per la loro efficacia a quelle dei
gruppi fondamentalisti. Per cui da tali raggruppamenti ci si può attendere
un distacco interiore piuttosto che un esodo dalla Chiesa, probabilmente
con il mantenimento dell’appartenenza ecclesiastica formale.
In questo contesto bisogna invece sottolineare l’importanza del cristianesimo, della religiosità, o addirittura della ricerca di senso, distaccati
dalla Chiesa. In confronto alla situazione descritta all’inizio del secolo da
Ernst Troeltsch117, una tale ricerca di senso ha acquistato nuovamente
valore: l’attrattiva di interpretazioni non cristiane, o almeno non
dogmatiche, influenzerà certamente anche in futuro il quadro fenomenico,
anche se in modo accentuatamente ineguale, a ondate.
Per una valutazione complessiva ci si può rifare proprio a Troeltsch, il
quale constatava all’inizio del XX secolo, per il protestantesimo tedesco, un
intreccio crescente di tipo della chiesa, tipo della setta e misticismo118.
Queste tendenze sono proseguite visibilmente in entrambe le confessioni:
la forma fenomenica dominante della Chiesa resta la chiesa-organizzazione
del tipo istituzionale. In essa appaiono in ogni caso forme embrionali di
chiesa di gruppi, che possono consolidarsi diventando parti in campo
nella politica ecclesiale o anche solo assumere la forma di movimenti
che determinano di quando in quando l’immagine della Chiesa. La
chiesa-organizzazione si sente costantemente confrontata al proprio
interno con una religiosità e un orientamento di senso distacca117
118
E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen cit., pp. 929 sgg.
Ibid., p. 982.
400
Karl-Fritz Daiber
ti dalla Chiesa. I confini dell’organizzazione, da questo punto di vista,
perdono i loro contorni, diventano fluidi, soprattutto in ambiti dove nel
complesso le persone rinunciano a legami di socialità tra i loro orientamenti
religiosi cristiani, o anche solo di ricerca di senso. Accanto a tutte le resistenze
nei confronti dei primi accenni di una chiesa di gruppi, emergono anche
tendenze al mutamento, non tali da far cambiare al cristianesimo la sua
forma sociale, ma in una direzione per cui si è attribuito maggior peso a
elementi del tipo della chiesa di gruppi, all’interno del tipo della chiesa
istituzionale. Proprio negli ultimi vent’anni queste tendenze, almeno in
quanto spinte iniziali, si sono rafforzate.
11.4. Aumento della contingenza nel campo della religione vissuta
In Germania, nonostante i mutamenti degli ultimi decenni, la religione
cristiana è ancora solidamente radicata nel mondo-della-vita. Ciò include la
presenza simbolica degli edifici ecclesiastici in tutte le città, i quartieri e i
villaggi, l’elevata partecipazione della popolazione ai rituali del ciclo della vita,
l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, l’assistenza sociale
altamente specializzata erogata dalle chiese che si può incontrare anche nelle
situazioni quotidiane, le trasmissioni di evangelizzazione curate dalle chiese e
diffuse dai mezzi di comunicazione di massa. Altre forme di religione, per
contro, sono preponderantemente non pubbliche, sostenute da piccoli
gruppi, o del tutto private.
Nonostante l’elemento cristiano sia radicato nel mondo-della-vita, gli
apporti cristiani all’orientamento, come in generale i modelli religiosi di
orientamento, dipendono palesemente dalle decisioni dei singoli. Questo è
visibile, ad esempio, per la frequenza alle funzioni religiose. Una prassi di
frequenza alle funzioni religiose regolata dal costume sociale non esiste ormai
se non in poche regioni della Repubblica federale, di regola agricole,
caratterizzate da una forte unità confessionale. Accanto alle tradizioni locali,
la famiglia svolge un ruolo particolare nella trasmissione della tradizione
religiosa. La formazione a essere chiesa è strettamente legata all’aver ricevuto
una socializzazione religiosa nella prima infanzia. Più la socializzazione
religiosa si allontana dalla famiglia, meno diventa sicura la formazione di un
rapporto positivo con la Chiesa e le convinzioni cristiane. La socializzazione
religiosa nelle lezioni di religione e nella comunità religiosa locale non è priva
d’importanza, ma può compensare solo limitatamente le carenze della
socializzazione religiosa familiare. E notevole in merito che anche un orientamento religioso genericamente spirituale consegue piuttosto a esperienze
infantili di socializzazione cristiana che ad esperienze di socializza-
Religiosità, Chiesa e Stato nella Repubblica federale tedesca
401
zione in cui la religione non ha alcun ruolo, quantomeno esplicito. In ogni
caso, un orientamento religioso della vita, si tratti di un orientamento che
modella un’intera vicenda biografica, o semplicemente un’impronta
religiosa in singole fasi della vita, dipende fortemente dalle prestazioni del
singolo soggetto. Non solo dalle prestazioni del singolo soggetto nel senso
dell’interesse per la formazione di una comprensione del mondo e di sé
specificamente personale, ma da variabili ambientali come la famiglia, il
milieu circostante, la comunità cristiana locale, i gruppi dei pari, il grado di
coinvolgimento nella vita lavorativa e così via. Mentre nelle società più
antiche, oppure nelle società locali odierne, gli elementi religiosi della
cultura assicurano un orientamento più decisamente tradizionale
dell’orientamento religioso del singolo, tali elementi dipendono oggi da
occasioni di esperienza altamente contingenti e dal processo di costituzione
dell’identità che ne risulta. Il radicamento della religione cristiana nel
mondo-della-vita produce tuttora un milieu disposto cristianamente, ma
comunque in forma talmente generale da essere aperto a forme molteplici
di orientamento cristiano, religioso o filosofico della vita. L’essere chiesa
come forma di religione vissuta non è più prescritta culturalmente ma è un
progetto di vita estremamente soggettivo. Nel mondo-della-vita è
predeterminata, come si è detto, soltanto una disposizione cristiana di
fondo, che spinge a una corrispondente prassi etica e comunque si
estrinseca nella partecipazione a rituali cristiani interpretabili in modi
differenti. Il non essere chiesa, come alternativa all’essere chiesa, si presenta
in rari casi nella forma di un progetto alternativo esplicito. Ciò è
confermato dal fatto che l’uscita dalla Chiesa coincide solo in casi rari con
l’ingresso o l’impegno in un’altro raggruppamento religioso-ideologico.
Come per i membri della Chiesa più distaccati, per i non organizzati
religiosamente resta presente una disposizione cristiana indeterminata, che
può vitalizzarsi in singole situazioni della vita, ma per il resto non si esplica
né sul piano di un progetto cognitivo, né sul piano dello sviluppo di
perspicue massime dell’agire. E palese che nella società tedesca il
generalissimo radicamento dell’elemento cristiano nel mondo-della-vita è
sufficiente perché non solo si tolleri il ruolo nella vita pubblica delle chiese
maggiori come organizzazioni, ma addirittura lo si sostenga. Sono
altrettanto palesi, al tempo stesso, i punti deboli di questa generalissima
presenza del cristianesimo: uno scarso contributo alla riproduzione
dell’essere chiesa. Questa è infatti dipendente dal soggetto, secondo una
tendenza sempre più pronunciata, e quindi soggiace alla necessità della
decisione. Quali siano gli effetti a lungo termine di questa situazione sulle
forme sociali della religione, in particolare sulle chiese cristiane maggiori,
non è facile prevederlo.
402
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Modernizzazione e Chiesa: l’esperienza dell’Ungheria
comunista e postcomunista
Miklös Tomka
Premessa
Se in Ungheria gli ultimi cinquant’anni sono stati travagliati per le
parti in causa, essi rappresentano una miniera d’oro per i sociologi.
Con ciò non si vuole in alcun modo sottolineare cinicamente che la
sociologia è indipendente dai destini individuali. Al contrario, l’analisi
della società permette nello stesso tempo di interpretare destini
individuali secondo un contesto più ampio e di evidenziare tratti
comuni e regolarità. Tutto quanto è stato intrapreso sotto le
«aggravate condizioni» di questo periodo è di particolare interesse:
l’umano e il sociale, con i loro limiti, sono qui facilmente riconoscibili.
Durante la seconda guerra mondiale la società ungherese cadde in
modo preoccupante sotto l’influenza culturale e politica straniera di
provenienza nazista. La fine della guerra significò sconfitta politica e
occupazione russa per più di due anni. In realtà quest’ultima fu
prolungata, anche dopo il trattato di pace, per più di quarant’anni, pur
se sotto altra forma giuridica. Il controllo dall’esterno ―
manifestazione di una politica mondiale, ma esercitato nel paese stesso
con la forza militare ― stabilì e garantì il sistema comunista a dispetto
delle inequivocabili espressioni della volontà popolare. Le libere
elezioni del dopoguerra registrarono soltanto una piccola parte di
elettori a favore dei comunisti, ai quali tuttavia su richiesta sovietica
furono affidati il Ministero degli Interni, la Pubblica sicurezza e la
polizia di Stato. I comunisti poterono così via via denunciare,
arrestare, condannare, costringere all’esilio i propri oppositori. Forze
politiche non comuniste furono in parte vietate e soppresse con la
diretta collaborazione russa. La popolazione si oppose al sistema che
ne era derivato con la rivoluzione del 1956, ma non poté nulla contro i
carri armati russi. Il comunismo doveva deteriorarsi al suo interno
prima che in Ungheria si potesse giungere a un mutamento fondamentale.
Quarantun anni di comunismo devono essere considerati, da un punto
410
Miklós Tomka
di vista sociologico, come un esperimento sociale. I processi sociali «normali» furono in gran parte interrotti. Le condizioni di vita individuale e
sociale furono modificate forzatamente, dall’oggi al domani, in momenti
precisi. Nel 1948, con la presa di potere comunista, la società ungherese,
come una «cavia», fu trasportata in un labirinto di esistenza sociale fino
allora a lei ignoto. Se voleva sopravvivere, vi si doveva orientare. Inoltre,
il labirinto stesso poteva essere modificato in alcuni punti vitali, ciò che
avvenne ripetutamente dopo il 1956 e durante gli anni settanta. Ma la
storia non finisce qui. La cavia ― o meglio la sua discendenza, nata già
nell’evidenza dell’innaturale ―, sconvolta, abituata a limitazioni e a
condizioni di vita impossibili, ha infine roso le pareti del labirinto e
trovato scampo nella libertà. Anche quest’ultima è per lei un mondo
insolito, che ancora una volta richiede adattamento e trasformazione.
Non si può contestare che sia disumano eseguire sulle persone e sulle
società esperimenti che ne mettano in pericolo la vita. Ma se ormai il
misfatto è avvenuto, non è concesso alla sociologia tralasciare di trarne
insegnamento. L’esperimento sociale «comunismo», in tutte le sue
varianti, appartiene al patrimonio scientifico dell’umanità, anche se non
può che stare a indicare un vicolo cieco.
Il comunismo aveva due avversari sociali ben noti: i partiti, movimenti
e gruppi non comunisti, nell’ambito dell’organizzazione sociale; la
religione, ovvero l’istituzione della Chiesa, in ambito culturale. Il primo
poté essere annientato con relativa rapidità e quasi del tutto. Il secondo,
invece, rimase una spina nel fianco, un’alternativa, una provocazione. Il
confronto attivo ebbe una conseguenza importante: i mutamenti di
direzione nell’evoluzione comunista trovarono il loro corrispondente
nella politica ecclesiastica. E inoltre: nel sistema religioso si svilupparono
di volta in volta, in corrispondenza delle diverse fasi, forme tipiche. Infine
si possono allora riferire alla religione e alla Chiesa le stesse domande:
come hanno reagito alle trasformazioni del labirinto? Come hanno
contribuito ad abbatterne le mura imprigionanti? Come reagiscono ora,
dall’interno del proprio sistema e nel loro comportamento socioculturale,
alla rovina dell’apparato repressivo e al nuovo mondo della libertà?
Da ultimo deve essere menzionato un altro fattore. L’Europa da più
di mille anni era la patria culturale, politica, economica, religiosa dell’Ungheria. Bisanzio, i mongoli, i turchi cercarono sempre di congiungere
questo paese al mondo orientale. L’Ungheria oppose resistenza. L’ultimo
tentativo fu intrapreso dai nuovi zar dell’impero sovietico per ben
quarantun anni. La storia dell’Ungheria, orientata verso Occidente e legata all’Europa, richiede una valutazione dei decenni passati secondo
L’esperienza dell’Ungheria comunista e post-comunista
411
criteri europei. Le aspirazioni contemporanee del paese muovono nella
stessa direzione. Lo sviluppo della società borghese, della democrazia, della
diversificazione dei sistemi, del pluralismo che caratterizzava tutta l’Europa,
in Ungheria è stato fermato nel 1948 e sostituito con altro. In che relazione
sta l’esperimento sociale comunista con il processo di modernizzazione di
durata secolare dell’Europa? L’ultima fase di questo processo potrebbe
essere definita, in un significato ancora da chiari. re, come tempo della
modernità: nelle società borghesi altamente sviluppate, ma anche in
Ungheria? Nondimeno, modernizzazione e modernità restano concetti di
arrivo senza i quali non è pensabile il nuovo e totale inserimento in
Europa. Una tale convinzione in Ungheria e per l’Ungheria è un luogo
comune. Ciò che deve essere chiarito ― ed è quanto si cercherà di fare in
questo saggio ― è se in questo processo la religione e la Chiesa hanno
svolto e svolgono una funzione propria, oppure se sono state e sono
costrette da esso a un mutamento interno.
1. Modernizzazione e modernità: i concetti nel contesto dell’Ungheria
comunista
Innanzi tutto, il termine «modernizzazione», o «modernità», non
faceva parte del precedente vocabolario comunista e nemmeno di
quello degli ideologi o dei sociologi. I messia non vogliono
assolutamente essere moderni. Essi promettono un mondo nuovo,
senza difetti e per tutti i tempi. Bisogna essere già disillusi per
diventare più realistici. Soltanto nel caso in cui il tempo finale debba
essere differito per l’ennesima volta, la questione dell’immediato
domani acquista di nuovo rilevanza. La promessa non deve rimanere
priva di contenuto. Essa viene legata alle fatiche quotidiane degli
uomini e ai processi storici. I successori dei profeti tentano di
dimostrare il significato e il successo del messaggio, guardando al
passato e al futuro. A partire dagli anni settanta, in Ungheria l’epoca
comunista è stata considerata come una via particolare di
modernizzazione1. (L’intenzione propagandistica è evidente. Si voleva,
mettendo a tacere la misantropia e la contraddittorietà di questo
sistema, giungere a una valutazione finale positiva)2. Prima però di
1 La definizione è usata dai sociologi (K. Kulcsár, A modernizdció és a magyar társadalom
[Modernizzazione e società ungherese], Budapest, Magvetö, 1986), ma presto sarà adottata
anche in politica e dai mass media (A. Ágh, «Szocializmus és modernizácio» [Socialismo e
modernizzazione] in Mozgó Világ, 6, 1986.
2 Questa unilateralità ideologica è tipica soprattutto degli scritti per l’università e per
l’azione politica: si veda, ad esempio, K. Kulcsár, Szociologia, Budapest, Kossuth, 1986.
412
Miklós Tomka
poter decidere dell’adeguatezza di questo concetto, è necessario determinare l’identità culturale del comunismo e del comunismo ungherese.
Secondo la dottrina marxista la storia si svolge, in una dialettica di
lotte di classe, secondo un processo fondamentalmente continuo e
lineare, dato da una successione di modi di produzione, che a loro volta
sono determinati dallo sviluppo dei mezzi di produzione. Quest’ultimo
è diretta conseguenza del desiderio di razionalità dell’uomo.
Prescindendo dalla ragione umana, la tecnica ― ed eventualmente la
scienza ― diventa fattore di riscatto, misura e simbolo dello sviluppo
sociale e culturale. Lo sviluppo segue quindi una logica meccanicistica e
deterministica di leggi sociali facilmente comprensibile. Le leggi non
possono essere modificate, bensì riconosciute e utilizzate. Lo sviluppo
porta, al di là della vittoria della classe operaia, a una fase in cui vengono
abolite la proprietà privata dei mezzi di produzione e, di conseguenza, le
fonti dei contrasti sociali. Anche se ciò accade nei vari paesi in momenti
diversi, la superiorità di principio garantisce ai paesi «all’avanguardia »,
cioè socialisti o comunisti, una rapida crescita, con il sorpasso in breve
tempo di tutti gli altri sistemi, in particolare di quelli capitalistici. Seppur
in un primo momento geograficamente limitato, nel sistema comunista
il tempo finale viene raggiunto, un cielo in terra senza miseria e privo di
conflitti strutturalmente condizionati. Se si prendono sul serio le affermazioni conclusive, non ci si può meravigliare del pathos seducente di
questa argomentazione.
Tuttavia, è legittimo limitare a questa forma una scuola di pensiero
complessa e non priva di contraddizioni? Per rispondere bisogna individuare con chiarezza lo scopo di questo saggio. Le divergenze scientifiche all’interno del marxismo sono state discusse ampiamente in altra
sede3. Ma se si indaga sull’identità culturale di un sistema, assumono
importanza proprio quelle brevi formule e quelle definizioni di cui chi è
al potere può farsi scudo a scopo di legittimazione e che possono essere
recitate a memoria dai successori e impresse in tutti come una sorta di
catechismo4.
La teoria sociale marxista offre un’interpretazione particolare del pro3 Al riguardo si devono tener presenti unicamente due fonti di larga diffusione anche in
Ungheria, l’estesa monografia di L. Kolakowski, Die Hauptströmungen des Marxismus, MünchenZürich, R. Piper, 1979, 3 voli., e la riuscita analisi di T. Hanák, Die Entwicklung der marxistischen
Philosophie, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1976.
4 L’unione di consenso e critica si ritrova nel libro dell’allora presidente dei ministri stalinista A. Hegedüs, A szocialista társadalom strukturájáról [La struttura della società socialista],
Budapest, Akadémiai, 1966.
L’esperienza dell’Ungheria comunista e post-comunista
413
cesso storico e della modernizzazione possibile. Merita indagarla sistematicamente. Inoltre vale la pena di scoprire in che misura la
rivendicazione teorica viene mantenuta e attuata nella prassi politica o,
altrimenti, come la teoria reagisce alla critica della prassi.
1.1. Interpretazioni della modernizzazione, dimensioni della modernità
Secondo un’affermazione di Lenin più volte ripetuta, il comunismo
è «volontà del popolo più elettrificazione». Il potere del proletariato è
per definizione garantito a partire dal primo momento della presa di
potere comunista. Uno sviluppo ci può essere ancora soltanto in
ambito tecnico o economico. Non del tutto a caso la sfera culturale fu
sempre più ignorata. Secondo la dottrina della struttura e della
sovrastruttura, la seconda è determinata dalla prima.
Lo sviluppo, o secondo l’uso linguistico degli anni settanta e ottanta, la modernizzazione, consiste allora nell’espansione della ragione
strumentale, nel crescente dominio sul mondo, nella «rivalutazione
tecnico-scientifica». A questo modo il progresso è assicurato, un
sistema o una società possono raggiungere una posizione
d’avanguardia sul piano internazionale e si manifesta non solo la
capacità ma anche la superiorità competitiva. Più precisamente, non vi
è competizione vera e propria, tutt’al più si può parlare di confronto
tra interpretazioni e utilizzazioni giuste o errate delle leggi sociali.
Queste devono essere imposte a ogni costo. Non è la capacità di
adattamento a condurre allo scopo, ma un’osservanza coerente della
riconosciuta verità.
Si tratta evidentemente di un messianismo non diverso da alcune manifestazioni del periodo illuminista. Nel suo rigido sistema la tecnica viene
considerata il motore dello sviluppo, il cui scopo è la messa in moto dell’economia. Modernizzazione è allora semplicemente crescita economica.
Il persistere nell’idea di una struttura sociale costrittiva, meccanicisticamente determinata, in sostanza armonica e che si attiene a un’unica
logica, spiega il perché siano trascura