Marco Ammar Band, il conscio delirio che esplode dal Rock

6/20/13
Marco Ammar Band, il conscio delirio che esplode dal Rock
Marco Ammar Band, il conscio delirio che esplode dal
Rock
GIOVEDÌ 20 GIUGNO 2013 12:31 DI VALERIO BRUNER VISITE: 64
Prendere in mano una chitarra nell’era della musica elettronica, delle
basi pre­registrate e dell’ easy­talent­show è davvero una sfida.
Scrivere canzoni vere nel regno della musica usa­e­getta, della hit di
qualche settimana e del cervellotico impegnato, anche questa è una
sfida. Ardua.
E’ un delirio. Un conscio delirio.
PREC.
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SUCC.
Marco Ammar e la sua band sono espressione di quel rock che nasce dal
profondo, di una musica che sgomita per affermarsi nella confusione di
questi anni, scanditi dal ritmo delle promesse di facile successo e dei talenti illusori. Il progetto nasce nel
2010, quando la passione di Marco si interseca a quella di altri tre compagni di viaggio: Manuel Turco,
Valerio Troiani e Fabio Penna. Dopo aver cementato il proprio sound in varie esibizioni live nei locali di
Roma, esce finalmente – nel febbraio 2013 – la loro prima produzione discografica, espressione di ciò che
la band realmente é. Un conscio delirio. Appunto.
Conscious Delirium è composto da 12 tracce, ognuna delle quali è un vivace e impertinente carnevale di
sonorità rock – da quello più puro a quello più melodico – blues, jazzistiche, arricchite da quella hint di
psichedelica che non guasta mai. I brani, interamente composti e cantati in inglese, si inseriscono a pieno
titolo sulla scia dei grandi nomi: David Bowie, Jeff Buckley, Radiohead, Muse, Dave Matthews, la cui
influenza è palpabile nel sound della Marco Ammar Band. Meglio sarebbe, però, parlare di ispirazione più
che di influenza, dal momento che le canzoni dimostrano una prepotente ed autonoma identità musicale
frutto della voce tagliente di Marco, delle chitarre distorte di Valerio, della batteria incalzante di Manuel e
del basso di Fabio.
Ho avuto l’occasione ed il piacere di conversare con Marco e fargli qualche domanda riguardo la sua scelta
– e di tutta la band – coraggiosa e meritevole insieme di voler fare musica oggi, in un paese come l’Italia e
di volerlo fare cantando in inglese e con una Telecaster a tracolla. Allora, prima di tutto: chi è Marco Ammar?
Sono l’autore e compositore del progetto. Ho composto musiche originali per documentari e sigle
televisive (per Orbit e Al­Jazeera). Dopo vari progetti cover ho prodotto insieme a un gruppo di amici
musicisti e audiofili un primo lavoro in home recording nel 2004 (Little things). Poi il progetto
2onthemoon, che propone un repertorio di pop degli anni ‘80 rivisitato in chiave acustica (insieme a
Emanuele Bultrini di Fonderia/Orchestra di Piazza Vittorio). E adesso ho finalmente una band!
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Marco Ammar Band, il conscio delirio che esplode dal Rock
Come e quando nasce la Marco Ammar Band?
Nel 2010 incontrai Manuel Turco (batteria), mio amico di vecchia data, rientrato dall’estero. Gli feci
ascoltare le tracce dei brani nuovi che avevo registrato su sequencer: ne fu entusiasta e mi propose
subito di cercare un bassista e un chitarrista con cui formare una band. Cercavamo persone da
coinvolgere nel progetto. Valerio Troiani (chitarra) lo rintracciammo su un annuncio dopo una mezza
dozzina di audizioni andate male. Poi domandammo a Fabio Penna (basso) se avesse tra i suoi allievi
qualche bassista promettente; gli piacque subito il repertorio e, nonostante la sua fitta agenda, si
propose personalmente a completare la formazione. Nel giro di pochi mesi crebbe l’intesa; a ottobre
2011 iniziammo a suonare dal vivo nei locali romani.
Il vostro è rock, lo si capisce dal primo ascolto. Quali sono le vostre influenze musicali?
Tra le mie raccolte di CD si trova di tutto, ma credo di poter restringere la cerchia dei grandi artisti che
amo e che hanno influenzato il mio modo di scrivere a Jeff Buckley, Dave Matthews, Radiohead, Ani
DiFranco, David Bowie, magari anche Leonard Cohen. Poi ci sono i ragazzi che vengono da esperienze
significativamente diverse: anche Manuel è un fan della Dave Matthews Band, ma ha un’impostazione
prettamente funky; Valerio è un cultore del glam rock degli anni ‘90; poi c’è l’esperienza musicale di
Fabio che, pur avendo una formazione jazzistica di base, possiede una straordinaria sensibilità musicale.
Perché il rock? Nell’era della musica elettronica, di quella artificiosa fatta di basi realizzate davanti ad un
computer, proporre il riff di una Telecaster, una marcata linea di basso e il ritmo incalzante di una batteria
è una sfida che merita di essere lanciata. Sono anch’io molto attratto dalle possibilità che offre l’elettronica: ho ascoltato con estremo interesse il
nuovo lavoro di Thom Yorke con gli Atoms for Peace. Ma non credo che si possa sostituire l’energia che il
“rock analogico” riesce a trasmettere dal vivo con un prodotto elettronico. Sono cose diverse e ciascuna
di esse ha i propri consumatori, magari condivisi!
Spaziate dal rock puro a sonorità più melodiche, sfiorando il blues ed accarezzando elementi jazzistici e
talvolta psichedelici. Come nasce Conscious Delirium? E’ un disco autoprodotto?
I brani del disco sono canzoni che avevo scritto già prima del 2010. Hanno quasi tutti un comune
denominatore contenutistico: che si tratti di stereotipi o pregiudizi, di manipolazione dell’informazione o
di dinamiche umane sclerotizzate, c’è alla base di tutto l’ironica e paradossale consapevolezza di
perseverare nell’errore. Arrangiate con la band le canzoni hanno acquistato groove e potenza
espressiva. La scorsa estate (2012) avevamo deciso di registrarne alcune, con l’intenzione di produrre un
demo. Il buon esito delle prime sessioni ci convinse a produrre un album vero e proprio, pur sapendo che
l’idea era alquanto anacronistica. Dopo aver affidato il mix a Emiliano Rubbi (Piotta) siamo riusciti a
lanciare il nostro primo disco a febbraio di quest’anno, completamente autoprodotto.
Cantare in inglese in Italia è un’ennesima sfida. Perché? Quali le difficoltà e quali i punti di forza?
Per me le parole sono subordinate al ritmo e alla melodia di una canzone, non viceversa. La lingua
inglese è infinitamente più duttile dell’italiano in questo senso. Comunque, son cresciuto ascoltando
musica anglofona e trovo più semplice e diretto scrivere in inglese (in realtà avrei altre argomentazioni
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di carattere linguistico a tale riguardo…) Purtroppo in Italia è difficile anche fare musica originale, se
non si rientra dentro a una serie di cliché. Figuriamoci per il rock originale in inglese! La sfida l’abbiamo
accettata perché non ho ceduto alla tentazione di poter piacere a chi basa il proprio indice di gradimento
sul testo di una canzone (e sono in molti). Ovviamente questa scelta ci penalizza molto in Italia.
Qual è la risposta del pubblico alla vostra musica?
Ci siamo resi conto che è alquanto difficile invitare le persone all’ascolto di qualcosa di nuovo e questo è
senz’altro dovuto anche alla saturazione del mercato. Ma molti di coloro che si sono fermati ad ascoltare
i brani dal vivo ci hanno dato risposte sorprendenti sin dai primi concerti. La Marco Ammar Band è l’esempio di come, seguendo la passione per la musica, si può arrivare davvero in
fondo. Qual è il vostro messaggio a chi, come voi, decide di intraprendere questo percorso?
Conosco molte persone con poco talento che riescono a trasmettere moltissimo dal palco. E conosco
persone con doti musicali innate completamente prive di personalità. Chi vuole fare musica deve cercare
di essere autentico, soprattutto adesso. E poi credo che sia importante conservare sempre la capacità di
ascoltare le idee altrui, senza perdere la determinazione necessaria a non rinunciare alle proprie: ecco,
questo credo che sia davvero un buon consiglio.
La Marco Ammar Band: http://www.marcoammarband.it/#page­1 Pagina Facebook: https://www.facebook.com/marcoammarband Fotografie di Luca Rosetti
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