Paolo Masullo Professore di Etica Deontologica della

Intervento
Paolo Masullo
Professore di
Etica Deontologica
della Comunicazione
e di Antropologia
filosofica
presso l’Università
degli Studi
della Basilicata
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Ringrazio Renato Cantore di avermi dato la parola e Silvano Micele che
ha avuto la cortesia di invitarmi, e ringrazio tutti i presenti che avranno
la cortesia di ascoltarmi così come gli altri oratori che sono fin qui
intervenuti o che interverranno dopo.
L'intervento di Renato Cantore teso sul filo della memoria della sua
fanciullezza, mi ha fatto pensare ad un argomento che intendevo
affrontare nel tematizzare il problema dei diritti dei minori. Quando,
cioè, parliamo di diritti dei minori, ho sempre più l’impressione che
dovremmo parlare di doveri dei maggiori. I diritti dei minori sono gli
stessi che hanno tutti i cittadini che nascono nel nostro tempo e nelle
nostre comunità statuali democratiche con l’unica differenza che fra
un maggiore ed un minore, in termini di diritti, gli atti dei minori non
hanno valenza giuridica se non sono in qualche modo accompagnati
dalla tutela di chi fa le veci, genitori o altri. Sono dunque i maggiori
ad avere il dovere di tutelare i diritti dei minori.
Ma i diritti sono esattamente identici e maggiori e minori hanno tutti dei
diritti, perché sono persone. Ciò che distingue i maggiori dai minori, sono
invece i doveri, tanto quelli in senso morale, quanto quelli in senso
giuridico-istituzionale, dai primi derivati, nel vasto progetto di
organizzazione e gestione di una comunità sociale, nato almeno a partire
dalla modernità.
Ho l'impressione che noi parliamo spesso dei diritti dei minori, perché
veniamo molto frequentemente meno ai nostri doveri di adulti, di noi
adulti colpevoli di comportarci sempre di più, nella nostra cultura della
comunicazione, da minori, qualche volta persino da minorati, nel senso
letterale del termine, riferito a chi non è in grado di raggiungere quella
maturazione psichica di un comportamento responsabile.
Quando il dottor Andria ricordava la trasmissione televisiva dedicata alla
danza, non mi sono sentito fino in fondo d’accordo con la sua analisi
perché mi pare che in televisione si vedano cose di gran lunga peggiori
di quella. Se quella trasmissione può essere definita una trasmissione
con un sapore un po’ vecchio per le sue forme, non pare però così
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aggressiva nei confronti dei minori, a differenza di molte altre trasmissioni
televisive che esplicano la cultura della violenza attraverso la sua
spettacolarizzazione in modo talvolta palese, talvolta, il che è peggio,
in modo subdolo. E' il caso, ad esempio, di tutti i realities di cui per altro
vengono trasmessi quotidiani resoconti "in diretta" in fasce orarie, come
quella tra le 18.00 e le 20.00, che dovrebbero essere teoricamente
protette. Proprio in queste fasce "protette" è molto forte la presenza di
trasmissioni gravemente distorsive per la maturazione emotivo affettiva
dei giovanissimi. Penso anche a trasmissioni di informazione "truccate"
da intrattenimento in cui parlare di un dramma familiare o di un incidente
in fabbrica che ha sconvolto la vita di una persona, oppure parlare della
velina Tizia che è stata lasciata - o che dolore! - dal calciatore o attorucolo
Caio, appare, in termini psicoemotivi, dello stesso peso: è lì che realizza
il degrado distorsivo della gerarchia valoriale degli affetti. Quando, cioè,
l'intrattenimento si maschera da informazione - rendendosi così "autorevole"
- e l'informazione viene "degradata" a intrattenimento. Così la "cattiva
maestra" - secondo la ormai famosa espressione popperiana - celebra se
stessa nella diffusione della confusione dei piani, nella svalutazione degli
affetti e nella mistificazione dell'informazione.
Quest’ultima, infatti, io credo che sia forse la forma di comunicazione
più dannosa, laddove trasmissioni, mettendo insieme le cose radicalmente
più lontane, le fanno apparire tutte dello stesso valore, non solo perché
sono dette da persone che spesso rappresentano il mondo dell’informazione,
ma soprattutto perché utilizzano l’informazione, la comunicazione e la
comunicazione pubblicitaria su un piano valoriale identico, veicolandone
i contenuti con identico grado di potenza persuasiva.
Questo è, secondo me, un vero e proprio abuso sui minori, perfino sui
maggiori, poiché degrada ogni possibile serietà della vita, trasformata
in notizia, in un affare senza valore.
In termini di etica della comunicazione sappiamo bene quanto l’utilizzo
dei mezzi tecnologici enormemente sviluppati cambi profondamente il
rapporto fra noi cittadini in genere e la comunicazione. A un tratto è
sembrato che, dopo decenni in cui non c’era stata, ci si sia trovati improvvisamente calati nel mondo della comunicazione, come se questa non
fosse la prima funzione dell’essere umano. Tutti sappiamo che non è
possibile non comunicare, cioè non essere in rapporto con il mondo, dal
momento stesso in cui nasciamo. Siamo dei comunicatori nati e la nostra
comunicatività è la condizione della nostra sopravvivenza: senza comunicazione non sopravviveremmo.
Solo che ad un certo punto si è scambiato per comunicazione quello che
non è altro che un enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione, cioè
di quegli strumenti che, a mo’ di "protesi", - secondo la celebre espressione
di Mc Luhan - prolungano o facilitano o estendono, ma pure rendono più
complessa, la nostra capacità e possibilità comunicativa al di là delle
tradizionali forme e dei consolidati limiti spazio-temporali.
Ciò che è cambiato profondamente con lo sviluppo della tecnologia della
comunicazione è la nostra percezione del mondo che ha comportato ciò
va sotto il nome di “riconfigurazione somato-sensoriale”. Il che significa
che da quando ci sono mezzi di comunicazione tanto veloci e potenti, il
nostro percepire la realtà si trasforma a seconda della capacità che i
mezzi stessi hanno di farci cogliere distanza, tempo, spazio, sulla base
delle loro potenzialità di realizzazione tecnica.
Ora, il problema nei confronti dei bambini, e spesso anche degli adulti,
è che l’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione muta profondamente
la percezione del mondo, della differenza tra la dimensione effettuale,
concreta, reale e quella virtuale. La realtà virtuale - espressione ossimorica
- si badi, non è una mera finzione ma una simulazione di una possibile
realtà: in pratica si fa vivere al bambino l’idea che ciò che lui fa nella
dimensione virtuale - cioè semplicemente simulata - possa essere fatto
anche nella dimensione reale, anzi, che tra simulazione ed effettualità
non vi sia alcuna differenza o perché "tanto, è tutto finto", o perché
"tanto, è tutto vero"!
Questo è un problema reale, concreto e noi stessi adulti siamo stati un
po’ "vittime" dell’enorme diffusione dei mezzi di comunicazione di
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massa, noi stessi non li sappiamo usare, noi stessi ne siamo profondamente
condizionati, noi stessi talvolta ne siamo profondamente avviliti o illusi,
proprio perché il loro potere è di spingerci a pensare che o è tutto vero
o è tutto finto.
Dunque, anche la nostra configurazione somato-sensoriale si è modificata
profondamente con la nascita dell'ICT (Information Comunication
Technology) e non siamo ancora in grado di capire, o almeno ci stiamo
arrivando solo ora, quanto, in particolare la televisione ma anche internet,
i cellulari e altri mezzi di comunicazione, siano capaci di modificare la
nostra percezione del mondo, quanto essi siano pervasivi.
Allora, quando noi parliamo di problemi molto più seriamente configurati,
nei termini in cui questa sera il tema ci impegna, non posso fare a meno
di richiamare una bella espressione nata dalla contaminazione linguistica
italo-anglosassone che dice: “etica forte soft law”. Ciò significa che noi
certamente continuiamo a costruire leggi, norme, iniziative, che sono
ben articolate da un punto di vista burocratico ed estremamente necessarie
dal punto di vista di una necesaria convivenza civile, ma non riusciamo
spesso a tradurre il piano dell’intenzione normativa, nel piano della
pratica, della realizzazione effettuale.
Questo accade perché l’intenzione ordinativa, essendo fortemente
complessa ed anche inevitabilmente burocratizzata, finisce col non riuscire
a trovare una vera dimensione di applicazione nella pratica vivente, la
quale è altrettanto complessa ma mai riducibile a norma. "Etica forte e
soft law" significa, dunque, che dobbiamo invertire la proporzione tra
etica e diritto, privilegiando l'etica, cioè l'educazione a comportamenti
corretti, alleggerendo la funzione normativa e coattiva delle leggi.
Sentendo parlare il dottor Strumendo della sua esperienza in Veneto, mi
sembrava molto interessante la sottolineatura della questione del rapporto,
non soltanto fra le persone, ma fra la sensibilità collettiva e la funzione
di garanzia.
Anche nel caso dell’etica si può dire che ormai non c’è argomento - gli
affari, la medicina, la politica, l'economia, etc. - in cui essa non venga
considerata come un necessario principio ispiratore, ma in realtà spesso
l’etica viene ridotta a essere solo una "foglia di fico" che si mette su una
buona rappresentazione di marketing di una buona pratica da vendere
che non è poi esercitata.
L’etica, così, rischia, nella "pubblicitarizzazione" di tutto, di diventare
essa stessa un logo, un marchio, una label. Il problema è che una cosa
è etica non se ha scritto sopra che lo è, ma se si sforza di praticare una
corretta relazione fra soggetti, ugualmente intesi e parimente considerati.
Una cosa è etica se cioè si sforza innanzitutto di riconoscere l’alterità,
se si sforza innanzi tutto di riconoscere se stessa come agente rispetto
ad un progetto condiviso e condizionato ad un vincolo di valore tra il
dichiarato e il realizzato: l'etica, insomma, non si vede ma si "sente".
Allora è chiaro che il tema della relazione, il tema della garanzia e la
figura del Garante, appaiono molto interessanti perché sono un primo
passo reale, concreto, verso un processo di spoliticizzazione - intendendo
in questo caso la politica in senso negativo, cioè paradossalmente, come
quell'attività che spesso esercita il potere, e non solo in Italia, esclusivamente in nome e con il linguaggio di una generale mercificazione e che
considera gli altri, i cittadini, in quanto mercato così da rivolgere ad essi
attenzione solo nella misura in cui essi possono rappresentare un mercato:
qualcuno cui vendere qualcosa.
Spesso si sente dire che oggi i bambini non sono abbastanza considerati:
io non sono d’accordo su questo punto. Mi pare, invece, che siano
consideratissimi, ma lo sono finché sono un mercato. A Scampia, zona
di massimo degrado della periferia napoletana, ad esempio, dei bambini
non interessa niente a nessuno, nonostante il serio impegno di persone
che singolarmente o in piccoli gruppi si sforzano di tentare di porre
rimedio agli scempi che l'azione omissiva della politica produce.
Non vorrei fare la parte del moralizzatore, sapendo di avere una platea
e una serie di persone accanto che del mondo politico sono rappresentanti
autorevoli e che conosco per responsabilità e per serietà di impegno,
ma vorrei ricordare che molto spesso è proprio la politica che manca,
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lasciando tutto lo spazio al mercato o mentalità di tipo mercantile.
Viviamo in un mondo in cui tendiamo ad assumere sempre di più
comportamenti "neotenici", cioè comportamenti infantili. Se ciò significa
mantenere la leggerezza e la piacevolezza dell'esistenza, perfino estetica,
della fanciullezza, la "neotenia" non è necessariamente un male. Ma se
i comportamenti "neotenici", cioè infantili, significano atteggiamenti
sempre meno responsabili, allora ci avviamo a passi veloci alla perdita
della dimensione comunitaria, alla perdita del sentimento di cittadinanza
e ci avviamo verso un conflitto di tutti contro tutti o, il che è peggio,
a una ristrutturazione di tipo feudale della sociatà
Per questo ho richiamato all’inizio non tanto i diritti dei minori, quanto
i doveri dei maggiori o almeno l’esercizio responsabile da parte di tutti
noi del rispetto e della considerazione delle differenze, dell'obbligo della
tutela nei confronti delle differenze, perché certamente noi possiamo
giocare a fare bambini quanto vogliamo, ma certamente bambini non
lo siamo più e altrettanto certamente, invece, il bambino è bambino, e
ciò che caratterizza irriducibilmente un bambino è la sua emergenza, il
suo essere figura sociale emergente.
Non c’è niente di più emergente, anche in termini bioantropologici, di
un bambino: il bambino è un’emergente, cioè un processo che si viene
formando, rispetto a cui noi siamo già formati. L'avere, in quanto adulti,
assunto una forma, ci conserva relativamente stabili nel cambiamento,
pur talvolta irrigidendoci e qualche altra volta istupidendoci. Ma questa
condizione di relativa stabilità, l'età adulta, corrisponde al tempo della
responsabilità verso gli emergenti, verso i minori, verso coloro che non
hanno ancora una forma e che possono diventare ogni forma.
Cerchiamo allora di mantenere le nostre cellule nervose quanto più
possibile attive - stabili e plastiche allo stesso tempo - per essere in grado
di decidere quale forma dobbiamo cercare di dare a chi emerge, poiché
da questa decisione, dipenderanno le sorti della forma del mondo di
domani, abitato dagli emergenti, i minori di oggi, che io auspico sia più
umano, cioè più giusto, più pacifico, più libero - in una parola - più felice.
Renato Cantore
L’intervento del professor Masullo è stato particolarmente utile proprio
per introdurre la parte finale del nostro incontro, quella dedicata appunto
agli esponenti della politica, perché se vogliamo passare dalle enunciazioni
di principio alle realizzazioni serve appunto la politica, per cui passo la
parola all’assessore Colangelo.
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