I paradossi del rapporto tra moda e identità Tra storytelling, presentazione del sé e coscienza collettiva di Giulia Rossi A seguito del lavoro di ricerca fatto per il volume “Fashion blogger, new dandy? Comunicare la moda online” ho sentito la necessità di approfondire l’aspetto psicologico del rapporto tra moda e identità e delle influenze reciproche dell’una sull’altra, specialmente per un target giovane che passa molto tempo su Internet e sui social network. Una riflessione che parte dall’influenza sociale che la moda può esercitare e su come il sentire collettivo la raccolga e la faccia propria. In parallelo, studiando le sempre cangianti facce della comunicazione, e in particolare della comunicazione e del giornalismo di massa, emerge una sempre maggiore tendenza allo storytelling, un racconto volto ad ammaliare e convincere il lettore/spettatore/utente che si differenzia molto dal reportage, della cronaca nuda e cruda. Non solo parole, ma immagini, rappresentazioni e autorappresentazioni del sé volte a mettere in scena una situazione, un concetto, una persona o meglio un personaggio che trasmette specifici valori. Ad esempio nel mondo della moda, tra le ultime tendenze riscontrate di recente, si è molto parlato del fenomeno degli hipster, ovvero di un “tipo” metropolitano, derivato dalla precedente macrocategoria del tipo metrosexual, che si è affermato a livello soprattutto di immagine sui mass media per specifiche caratteristiche. Tra i gruppi giovanili negli ultimi anni più citati nelle riviste di tendenza, ci sono sicuramente gli hipster, che tutto sono tranne nati ieri, ma che in questo inizio di secolo hanno avuto un revival notevole93. Il termine infatti ha origine negli Stati Uniti negli anni Trenta e Quaranta e nasce nel mondo del jazz a indicare i bianchi del ceto medio che si facevano contagiare dalla cultura musicale nera e non solo, ritenuta cool e fuori dagli schemi. L’immagine viene ripresa e la parola resa nota dai poeti “beat”, anche se poi cambiano i tempi e a prevalere è la cultura hippy. Cosa li riporta agli onori delle cronache? Chi sono gli hipster e come si riconoscono? Prevalentemente nei tempi recenti quando si parla di hipster si intende soprattutto un modello maschile, metropolitano, occhialoni dalla montatura marcata, barba lunga e camicia a scacchi, sneakers falso trasandato (ma un paio di stringate fatte su misura nell’armadio), niente sport, solo bicicletta e un atteggiamento consapevole, informato, ecologico. Per lei look androgino, leggins molto stretti, bigiotteria rétro e capelli artificiosamente spettinati. Non ci sono codici precisi, basta allontanarsi dal mainstream. (Che cosa è un hipster di F. Pacifico, in ilsole24ore.it, 30 luglio 2014) Hipster, a Londra come a Portland, a Milano come a New York, ormai identifica un ventitrentenne estetizzante, dalla sessualità esteriormente incerta, al quale si rimprovera più o meno consapevolmente il lusso di poter buttare via il proprio tempo alla ricerca di un’autenticità che crede esistere solo in oggetti fatti e pensati nel passato.. L. Clausi, Generazione hipster 2.0. Quando la rivolta è estetica, in espresso.it, 26 marzo 2014) ( Si tratta di un racconto che non vuole informare, ma suscitare emozioni, o meglio spesso esso è volto a innescare il desiderio. Le cosiddette soft news di “attualità” sono quindi volte a questo scopo, diffondere nella società alcune abitudini o costumi con il pretesto di informare su di esse o la tendenza reality in televisione che con la scusa di portare dietro lo schermo persone vere, induce le stesse a snaturarsi e a diventare personaggi ad uso e consumo degli spettatori. Oramai la maschera è caduta da tempo e la “verità” di queste produzioni televisive, già denunciate dagli esperti come pura fiction, è palese anche ai più. Un processo di coscienza avvenuto nel corso degli ultimi dieci anni senza troppi scandali o censure, ma per semplice assuefazione passiva di questo tipo di contenuti video. Pensiamo al primo dei reality show Il Grande Fratello e a come dalle prime edizioni ad oggi sia sempre più palese una scrittura delle puntate e dei personaggi che entrano a far parte della “Casa”. Niente è lasciato al caso, niente è reale, ma tutto artificiosamente costruito a beneficio degli spettatori e di ciò che gli strumenti di rilevazione dell’audience e di popolarità attraverso i canali social svelano in tempo reale. Il pubblico ha apprezzato un momento particolare di romanticismo o si è verificata un’impennata di ascolti in corrispondenza di una scena di sesso o di un litigio? ecco che queste saranno le leve su cui agire per le prossime puntate. Il progetto editoriale a monte, forte di alcuni punti fermi, dovrà essere sviluppato lungo il percorso necessariamente in maniera molto elastica e flessibile. Lo stesso vale per tutto ciò che si muove sul web e che può essere misurato in tempo reale in termini di gradimento, notizie comprese. Abbiamo parlato di gradimento, ma in base a cosa una notizia o una tendenza funziona o meno? cosa muove verso o contro qualcosa il pubblico? Il motore di tutto è il desiderio. Difficile fornire una definizione di desiderio. Per sua natura sfuggente, dalla forte carica di alterità, potenzialmente infinito, naturalmente mancanza, il desiderio sfugge a un inquadramento preciso, tanto che in molti tra filosofi e studiosi si sono avvicinati ad esso, senza mai coglierlo completamente, ma solo in parte. “Ciò che rimane impensato al cuore stesso del pensiero” (Foucault, 1966, p-386) Come sostiene Ugo Volli nel testo “Figure del desiderio - Corpo, testo, mancanza” (Raffaello Cortina, Milano, 2002), Il desiderio nasce, nella sua forma più pura e istintiva, come istanza sovversiva e rivoluzionaria, volta a modificare e destabilizzare lo status quo, a innescare cambiamento a partire da una non accettazione, un rifiuto e una volontà di cambiamento rispetto alla realtà esistente. Per potersi definire con queste caratteristiche tuttavia, il desiderio dovrebbe essere lasciato libero di scorrere senza argini che ne delimitino troppo le forme, al contrario di quel che accade oggi. Nella società capitalistiche moderne infatti il desiderio nasce e cresce come anestetizzato, pronto a essere incasellato in un catalogo prodotti sempre più dettagliato e pronto a rispondere a ogni più diversa esigenza. La “grande varietà dei prodotti disponibili” rende l’utente più propenso a non ribellarsi e a convincersi che, dopotutto, la scelta è talmente ampia che perché porsi il problema di andare a cercare altre soluzioni, quando, già pronte, ce ne vengono offerte così tante? Il desiderio come spinta alla realizzazione di sé contrasta con il capriccio o il bisogno immediato che vuole essere soddisfatto subito. Anche nel sistema che riguarda la comunicazione della moda questa tendenza risulta dominante. Si sente spesso dire, di fronte al cattivo gusto o alla pochezza dei contenuti divulgati dalla stampa (o di una certa moda fast fashion, low cost), che è quello che la gente vuole, che gli editori altro non possono fare se non accontentare il loro target di riferimento, come se la ricezione fosse esclusivamente un’operazione passiva. Non sempre è così, anche se in molti casi, per le ragioni enunciate sopra, spesso lo diviene e a chi produce o deve vendere contenuti o prodotti, è molto comodo farlo credere. I mass media, in ogni campo, moda compresa, non sono solo produttori di contenuti che veicolano la realtà sociale, ma possono essere anche considerati essi stessi come “potenti generatori di realtà sociali” (Tropea F., Mode aggressive e aggressioni di moda, saggio all’interno del volume a cura di Grandi R. e Ceriani G., Moda: regole e rappresentazioni, FrancoAngeli, Milano, 1995). L’autore in questo caso contestualizza la definizione parlando del concetto di street styles e di quello di tribù urbane. Nonostante scientificamente ai gruppi giovanili che popolano le metropoli contemporanee manchino molte delle caratteristiche proprie delle tribù in senso classico e quindi sia erroneo accostare questi due termini in senso etnologico, i mass media ne sono rimasti totalmente soggiogati - dal fascino del termine - e parlano con scioltezza di “tribù urbane”, creando una nebulosa semantica non facile da sciogliere. In pratica a forza di disquisire sulle tribù urbane, sulle loro caratteristiche e idiosincrasie, hanno modellato l’esistenza e lo sviluppo di alcuni gruppi e certe tendenze. Sul tema citiamo anche uno degli studiosi che più ha indagato le tendenze sociali contemporanee, Maffesoli (Maffesoli M., Le Temps de Tribus, 1989) che ha sottolineato a livello trasversale la tendenza a conferire da parte dei soggetti un senso più forte alla propria esistenza, colpendo il campo delle rappresentazioni pubbliche dell’identità, regolate dal complesso sistema della Moda. Ci sono stati creativi, in ogni campo, credo si possano definire i veri geni, che hanno prodotto a prescindere dalle regole del mercato o da ciò che in un dato momento veniva richiesto, ma perché sentivano dentro un moto dell’anima che li ha portati in una determinata direzione. Certo seguivano, per concordanza o per opposizione, lo spirito del proprio tempo, ma non ne erano schiavi. Pensiamo a Samuel Beckett (1906-1989), autore fino a pochi anni fa non particolarmente noto, autore di Aspettando Godot. Cosa rendeva così ostica la sua ricezione? Il fatto che nelle sue opere si avvertisse sempre un movimento a spirale di un’intelligenza sempre in vantaggio sul lettore e si sa quanto il pubblico si inalberi non appena dubita che l’autore non abbia bisogno di lui, che non smani per il suo consenso. Beckett non lo rincorre, i suoi personaggi non strizzano l’occhio allo spettatore, non lo cercano, sono creature dalla consistenza di larve che non solo non riescono a trovare se stesse, ma nemmeno ci provano (Carlo Fruttero, introduzione a Aspettando Godot, Einaudi, Torino, 1956). Pensando a un parallelo in ambito moda si potrebbe citare una stilista, o meglio un’artista, Elsa Schiaparelli (18901973), che pur dando vita ad abiti e accessori dalle forme più assurde e insolite seppe conquistarsi un suo pubblico, certo non un pubblico di massa, ma gli intellettuali del suo tempo, un ambiente vicino ai surrealisti, tanto che collaborò con Salvador Dalì, Alberto Giacometti e Leonor Fini. Accanto a questa visione sofisticata del fare moda, “Schiap” (come lei stessa si definisce nella sua autobiografia del 1954 Shocking life) fu una delle prime, insieme a Coco Chanel, a capire che il vero business nella moda sarebbe venuto non dall’alta moda, ma dal pret-a porter. “Dalì era un habitué. Ideammo insieme il cappotto con i cassetti ispirato ai suoi famosi quadri. Un’altra novità nata dalla nostra collaborazione fu il cappello nero con il tacco di velluto Shocking che svettava con una piccola colonna...Jean Cocteau disegnò per me delle teste. Io ne riprodussi alcune alcune dietro a un cappotto da sera e una, con capelli gialli lunghi fino al petto, su un abito di lino grigio”. (Schiaparelli, cit., p. 124, Alet, Padova) Viviamo in una “società del desiderio” (Volli, cit.), desiderio del tipo enunciato sopra, l’unico possibile in una società capitalistica che per il suo mantenimento, non si accontenta di un mantenimento del livello presente, ma necessita di un continuo aumento del desiderio del bisogno, di una costante crescita quantitativa. Ma dove sono collocati i desideri possibili che alimentano questo meccanismo? Nella pubblicità, nei centri commerciali, nelle vie dello shopping, nelle riviste, nei continui messaggi spot che oramai popolano qualsiasi territorio di conoscenza, rete compresa. La rete non è libera e non è gratis, richiede solamente forme di pedaggio diverse rispetto ad altri canali. Ormai la maschera è caduta e la falsa disintermediazione è venuta a galla. Dalla cupidigia di uno deriva l’arricchimento collettivo, come sosteneva Adam Smith, ma anche prima la nota Favola delle api scritta nel 1600 da Bernard de Mandeville. L’alveare (metafora della società descritta dall’autore) funziona perché c’è qualcuno che decide e tutti gli altri che operosamente mettono in pratica quelle decisioni, desiderano il desiderabile secondo le regole costituite. Il movimento nella società odierna, anche in quella virtuale digitale, è solo apparente, a regnare sono cambiamenti vorticosi, ma solo di superficie. Ma come, dopo oltre un secolo di disillusione anticipata, mostrata, vissuta non abbiamo imparato proprio niente? Esatto, la situazione odierna denuncia proprio questo stato delle cose. Le “novità” sono tali non in quanto ricercate da soggetti off e intercettate dal mainstream, ma è lo stesso mainstream a imporle come tali a partire un “Così fan tutte” o almeno tutte/tutti quelli che contano. La moda è linguaggio, ovvero un’azione che parte da un corpo materiale, finalizzata a esprimere qualcosa, un’azione in cui intervengono un emittente e un ricevente/destinatario. Il linguaggio può essere di vari tipi, verbale se prevede l’emissione di suoni, scritto o non verbale in relazione ad esempio alla gestualità e alla prossemica. Per linguaggio/comunicazione si intende quindi il passaggio da una sfera mentale individuale alla sfera comune e questa messa in comune del pensiero avviene attraverso dei segni capaci di instaurare una relazione. La moda può essere intesa in questo modo, come un mettersi in relazione da parte di ciascuno di noi con l’esterno, al pari di quando si parla, si scrive o si disegna. Georg Simmel, in un saggio specifico sulla moda ha analizzato da vicino il fenomeno mettendo l’accento sul duplice aspetto del conformismo e del separatismo, dell’imitazione e della differenziazione. Da un lato la coesione attraverso l’imitazione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, dall’altro l’esclusione e la differenziazione di un gruppo nei confronti degli altri, si può considerare quindi la moda come una forma di chiusura nei confronti dei gruppi esterni attraverso una selezione dei segni di riconoscimento. Questa segmentazione sociale evidenzia da un lato una necessaria coesione interna al gruppo, ma dall’altro anche un elemento di rivendicazione contro un altro gruppo o classe. La moda è un fenomeno pervasivo, tutto è moda nella nostra società, non solo l’abbigliamento, ma più in generale il modo di vivere, anche le idee possono essere o meno di moda e proprio per questo la moda diventa un fatto sociale, che riguarda principalmente il corpo, ma non solo. Ha un carattere fluido, poroso, capace di adattarsi e come non esiste una società senza linguaggio e comunicazione, così non esiste una società che non faccia uso di una moda. La moda diventa strumento espressivo dell’identità sociale, e questo vale soprattutto per gli adolescenti dove la ricerca di identità è fenomeno essenziale e essere come gli altri diventa una strategia per superare le incertezze individuali, utilizzando espressioni non verbali e la sua valenza comunicativa è evidente anche nelle sue negazioni. Celebre l’espressione “l’abito non fa il monaco”, ma certamente lo comunica, potremmo aggiungere e con il sociologo William Thomas precisare che in ogni caso di fronte a una persona vestita da monaco, noi ci comporteremo “come se” fosse realmente un monaco. Nessuno si può dire estraneo alla moda, è un elemento con cui ognuno di noi deve imparare a fare i conti, un “gioco obbligatorio” a cui tutti siamo chiamati a partecipare, come sostiene Ugo Volli. Per quanto riguarda la prospettiva con cui la sociologia osserva il fenomeno moda, è stato sottolineato che essa “studia la moda come tipo di comportamento collettivo, come tratto saliente della cultura di massa e della società di massa; come espressione peculiare della stratificazione sociale; come fenomeno che anticipa e riflette forme più o meno importanti di mutamento sociale e culturale; come processo economico attorno al quale si condensano interessi, organizzazioni, professioni, aziende, modelli di divisione del lavoro e attività dei mezzi di comunicazione di massa” (Gallino L., Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 1978, pp.437-438). Quel che ha sempre attirato la sociologia nei confronti della moda è la sua grande forza di penetrazione, un fascino quasi magico e inspiegabile che per certi versi si può avvicinare a una devozione di tipo religioso. Lo stesso Carl Flugel, autore del testo Psicologia dell’abbigliamento (Franco Angeli, Milano, 1974, p.166) sottolinea la vicinanza del fenomeno moda a quello dei grandi culti nei quali accanto ai credenti si individuano gli officianti, in questo caso i redattori dei giornali di moda, gli stilisti, gli influencer. Di fronte ad essi gli studiosi che se ne pongono erroneamente all’esterno e giudicano il fenomeno come una ridicola e insensata professione di fede. Oltre a questa componente magica che svicola da ogni analisi analitica il fenomeno moda si differenzia dagli altri soprattutto per due elementi, il basso livello di interiorizzazione e l’alto tasso di mutamento (Curcio AM, Franco Angeli, Milano, La moda, identità negata, 2012, p. 23). Grazie a questo elemento del nuovo continuo, la moda sembra adatta a rispondere all’incessante mutamento del sistema dei bisogni, mentre i modelli culturali sono più lenti nel mutare. Nei periodi di crisi, di passaggio da una forma culturale ad un’altra, sorgono una pluralità di mode che costituiscono una forma di compensazione alla quale ricorrono gli individui di fronte agli ostacoli che si frappongono a un reale mutamento. Se moda uguale comunicare, quindi dialogo, la prima regola per aprirsi agli altri è conoscere se stessi e qui si marca uno dei paradossi del rapporto moda identità, come risulta evidente dalle pervasive rappresentazioni e autorappresentazioni a cui siamo sottoposti ormai in ogni momento della nostra vita. Piacere agli altri per piacere a se stessi o piacere a se stessi per piacere agli altri? Certamente un’analisi più approfondita dovrebbe sposare la seconda ipotesi, ma oggi è la prima a prevalere, nel momento in cui si nota la moda di una continua costruzione di rappresentazioni dei momenti che caratterizzano la nostra vita. Questo è stato possibile grazie a internet e ai social network al continuo bisogno di sentirsi apprezzati, di condividere con un potenziale infinito l’attimo finito che stiamo vivendo. Se ci pensiamo storicamente è sempre stato così anche per quei gruppi che si sono sempre dichiarati ai margini della società, in opposizione ad essa, destinati a distruggere il mainstream. A prevalere è sempre stata e continua ad essere una cultura della visibilità che mette in atto i già citati paradossi: persino coloro che rifiutano radicalmente la cultura dominante (per esempio i punk o gli skinhead) si preoccupano di dare a tale rifiuto la forma più visibile possibile attraverso teste rapate, creste scolpite e modellate ad arte, scarponi chiodati, catene, piercing e accessori non comuni ai più. E’ sempre presente, in maniera più o meno evidente, una dialettica tra l’esibire e il nascondere, tra dentro e fuori, ben espressa dall’espressione maschera pubblica, e inscrivibile nella tradizione delle maschere della Commedia dell’Arte (sul tema della maschera e i suoi significati Strauss L, Voies du masque). La maschera nasconde il soggetto reale e lo incarna in un soggetto ideale, come un guscio protettivo, così come l’uniforme del gruppo evita o attenua lo smarrimento dell’individuo e gli permette di uscire dall’anonimato di una maggioranza silenziosa, inerme e passiva. Il gioco obbligatorio della moda, come riportato, è anche un gioco incessante tra l’individuo e il suo aspetto, tra il reale e l’ideale, tra l’essere e il non essere. In alcuni casi, come in quello degli Skinhead, sotto la maschera non c’è nulla o forse come in certe nature morte del 1700, un teschio simbolo di morte, del soggetto che indossa la maschera o della maschera stessa. Come ci vestiamo la mattina, cosa mangiamo a colazione, l’insegna del nuovo locale aperto sotto casa, il cane della vicina, la nuova vetrina della nostra boutique preferita, l’ultimo libro letto, il colore dello smalto all’ultimo grido con applicazioni e strass e così via frammentando in micro immagini statiche e dinamiche le 24 ore della nostra giornata. Questa attività per alcuni, da passione e svago, è diventata professione, forse non per la maggior parte in esclusiva, ma per alcuni sì. Ecco che alla ribalta della società sono saliti i fashion blogger, o fashion influencer, persone capaci di far tendenza attraverso la rete con la propria immagine ad uso e consumo dei brand che la “affittano” come testimonial. La declinazione può essere diversa, da un sito proprietario a un blog condiviso a un canale Istagram, tra le ultime tendenze nel settore moda e lusso. Se non hai un canale Istagram che funziona oggi come brand sei tagliato fuori e quindi la corsa all’arrembaggio del nuovo social è da tempo iniziata, con il risultato di vedere accanto ad esperimenti molto ben riusciti, molti pessimi risultati, scopiazzamenti mal fatti dei canali più noti, senza conoscenza della comunicazione digitale e delle sue regole. Gli esperti di social media content dicono che per funzionare un qualsiasi medium sulla rete deve essere vero e tempestivo, in aggiornamento continuo, e quindi deve partire da un conosci te stesso approfondito, mentre spesso il meccanismo in opera è inverso: l’osservazione di quello che funziona, degli idoli a cui rifarsi, e tuttalpiù una personalizzazione. Se si osservano le interazioni che avvengono sui canali più di successo in Istagram ad esempio si può notare spesso non uno scambio di commenti sul contenuto dei post, ma un semplice mercanteggiare di like, come dire attaccarsi al carro del vincitore e farsi trascinare. Tentativo illusorio di crearsi una strada, che nella migliore delle ipotesi dopo una breve ascesa sarà destinata a precipitare, e al contempo meccanismo diabolico di perdita delle proprie coordinate identitarie, ad inseguire quelle di altri potenzialmente vincenti. La moda come desiderio di apparire, sembrare, voler essere quello che non si è o come espressione più vera del sé? Impossibile trovare delle leggi nella moda, piuttosto qualche vaga linea di tendenza che collega il mutare delle mode al mutare dei valori di una società. L’irrazionalità della moda consiste nell’impossibilità di certificare che la moda successiva sia migliore della precedente e per questo la scalzi dal podio. “Se non esistono verità e certezze definitive l’unico valore che rimane è la capacità di imporsi sugli antagonisti. E la moda è appunto dare il proprio consenso a ciò che è via via capace di imporsi. Un legame profondo unisce moda e potenza” (Perazzi M, E’ l’abito che fa il potente, intervista a Emanuele Severino, in “Moda” supplemento al Corriere della Sera, 21.08.87, citato in Volli, Black Modes, Lupetti, Milano, 1998, p. 137). L’aspetto interessante da indagare quindi è l’efficacia normativa della moda nei confronti degli atteggiamenti e comportamenti dei singoli individui. Molti gli studiosi che ne hanno parlato tra cui Simmel (1895), Veblen (1899), Flugel (1930), Konig (1971), Descamps (1979), Lipovetsky (1987), Davis (1992), affrontando il discorso da due prospettive quella del ruolo svolto dalle elite e quella delle motivazioni individuali. Da entrambe comunque, quel che emerge è una messa in discussione della definizione di Moda data dagli studiosi classici, dato il modificarsi, in certi casi fino al venir meno, di alcune forme di attuazione del fenomeno, in particolare della sua efficacia normativa. Da una parte la necessità dell’industria della moda di definire segmenti sociali omogenei per atteggiamenti, opinioni, comportamenti e valori, dall’altra l’emergere nella post modernità di individualità sempre più fluide, frammentate, ambivalenti. Per quanto riguarda le logiche di consumo che si sono succedute in Italia negli ultimi decenni si individuano due macro fasi: gli anni Settanta in cui gli oggetti erano connotati come simboli di status che facevano riferimento a precisi bisogni, percepiti come tali dagli individui, e gli anni Ottanta in cui si è allargato il processo di connotazione da oggetti di status a stili di vita, in cui il senso di un bene è dato dalla sua relazione con gli altri. Sono gli anni in cui trionfano le griffe e gli stilisti e le case di moda non solo producono moda, ma diventano essi stessi moda. Costretti da se stessi in una spirale vorticosa di continua novità, minano la loro stessa sopravvivenza se non al prezzo di trasgredire sempre e sempre di più, per colpire, per rimanere sempre sulla cresta dell’onda. Ma mantenere alto il livello di trasgressione e pretendere che questo faccia presa sui consumatori diventando moda è sempre più difficile e crea sempre maggior disequilibrio e frammentazione tra gli stili dei consumatori. Per concludere, il paradosso della moda consiste in questo: si tratta di un gioco obbligatorio in cui il soggetto crede di esprimere la sua libertà, ma si muove obbligatoriamente attraverso maglie definite da cui non può liberarsi. Si tratta quindi di un’illusione di libertà che placa l’inquietudine del singolo di sostituire all’ansia di cambiamento la pacatezza di una forma di vestire le idee o le fantasie con il manto di una fittizia identità. Bibliografia Ceriani G. e Grandi R., Moda: regole e rappresentazioni, FrancoAngeli, Milano, 1995 Clausi L., Generazione hipster 2.0. Quando la rivolta è estetica, in espresso.it, 26 marzo 2014 Curcio AM, La moda, identità negata, Franco Angeli, Milano, 2012 “Moda” supplemento al Corriere della Sera, 21.08.87, citato in Volli, Black Modes, Lupetti, Milano, 1998 Flugel C., Psicologia dell’abbigliamento, Franco Angeli, Milano, 1974 Gallino L., Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 1978 Maffesoli M., Le Temps de Tribus, La table ronde, Paris, 1988, trad. it., Il tempo delle tribù, il declino dell’individuo, Armando, Armando, Roma, 1988 Pacifico F., Che cosa è un hipster, in ilsole24ore.it, 30 luglio 2014 Perazzi M., E’ l’abito che fa il potente, intervista a Emanuele Severino, in “Moda” supplemento al Corriere della Sera, 21.08.87, citato in Volli, Black Modes, Lupetti, Milano, 1998 Rossi G., Fashion blogger, new dandy?, Pendragon, Bologna, 2015 Rossi G., Denim, una storia di cotone e di arte, Fashion Illustrated, Milano, 2010 Schiaparelli E., Shocking Life, Alet, Padova, 2008 Strauss L, Voies du masque, Skira, Geneve, 1975 Volli U., “Figure del desiderio - Corpo, testo, mancanza”, Raffaello Cortina, Milano, 2002