GEOLOGIA Floriana Pergalani 59 INDICE ELEMENTI DI GEOLOGIA LE ROCCE E LE TERRE ROCCE IGNEE Classificazione delle rocce ignee ROCCE PIROCLASTICHE GIACITURA DELLE ROCCE IGNEE Giacitura delle rocce effusive Attività di emissione di gas e acque termali Attività di emissione di lave e materiali solidi Eruzioni sottomarine Giacitura delle rocce intrusive Giacitura dei filoni ROCCE SEDIMENTARIE E TERRE Rocce clastiche e terre Brecce e Conglomerati Ghiaie e Ciottoli Arenarie e sabbie Argilliti e Argille Rocce carbonatiche Rocce silicee Rocce evaporitiche Rocce ferrifere Rocce fosfatiche Rocce combustibili Diagenesi dei sedimenti GIACITURA DELLE ROCCE SEDIMENTARIE ROCCE METAMORFICHE FACIES, GIACITURE E STRATIGRAFIA LA TETTONICA LE FAGLIE Associazioni di faglie distensive LE PIEGHE LE PIEGHE-FAGLIE E SOVRASCORRIMENTI LA TETTONICA A PLACCHE ELEMENTI DI GEOMORFOLOGIA FORME, PROCESSI E DEPOSITI GRAVITATIVI FORME, PROCESSI E DEPOSITI DELLE ACQUE FORME, PROCESSI E DEPOSITI CARSICI FORME, PROCESSI E DEPOSITI GLACIALI FORME, PROCESSI E DEPOSITI CRIONIVALI FORME, PROCESSI E DEPOSITI EOLICI FORME, PROCESSI E DEPOSITI DI ORIGINE MARINA, LAGUNARE E LACUSTRE FORME ANTROPICHE 60 ELEMENTI DI GEOTECNICA CARATTERISTICHE FISICHE PROVE IN SITU ED IN LABORATORIO PROVE IN SITU PROVE DI LABORATORIO ELEMENTI DI GEOFISICA INDAGINI SISMICHE PERTURBAZIONI ELASTICHE APPARECCHIATURE SISMICHE ONDE SISMICHE - DROMOCRONE SISMOGRAMMI METODO SISMICO A RIFLESSIONE METODO SISMICO A RIFRAZIONE MISURE SISMICHE IN FORO PARAMETRI ELASTICI ANALISI DI STABILITA’ DEI VERSANTI PREMESSA ANALISI AREALI ANALISI PUNTUALI BIBLIOGRAFIA 61 ELEMENTI DI GEOLOGIA LE ROCCE E LE TERRE Una delle parti fondamentali della geologia è il riconoscimento e la classificazione delle rocce e delle terre. Le rocce sono i materiali dotati di elevata coesione, per cui restano compatte anche se sottoposte ad una serie di cicli di immersione in acqua ed essiccamento, le terre sono i materiali del tutto incoerenti o dotati di coesione tanto modesta per cui si disgregano se sottoposte ad una serie di cicli di immersione in acqua ed essiccamento. La classificazione più generica che viene generalmente utilizzata si base sul criterio dell’origine; si possono distinguere tre grandi categorie: rocce ignee, rocce sedimentarie e terre, e rocce metamorfiche. Le rocce ignee derivano dal consolidamento per raffreddamento di masse totalmente e parzialmente fuse (magmi o lave) di origine profonda. Le rocce sedimentarie e le terre hanno origine da processi che si hanno sulla superficie terrestre, per effetto di agenti dinamici esterni e si formano dal disgregamento, alterazione o scioglimento di rocce preesistenti, o da sostanze che hanno attraversato il ciclo biologico. Le rocce metamorfiche derivano da rocce ignee o sedimentarie che hanno subito trasformazioni chimico-fisiche più o meno accentuate, allo stato solido, per effetto di variazioni di temperature o pressioni. ROCCE IGNEE Le rocce ignee sono quelle che provengono dal consolidamento di una massa più o meno fluida, che può contenere anche una fase gassosa. I minerali principali contenuti in queste rocce sono i minerali sialici in cui predominano la silice e l’alluminia (feldspati, feldspatoidi, silice) e i minerali ferromagnesiaci o femici, caratterizzati dalla presenza di ferro e magnesio (olivina, pirosseni, anfiboli, miche). Il magma contiene anche dei componenti volatili che, in seguito alla consolidazione, vengono allontanati. La parte volatile è costituita, per la maggior parte da vapore d’acqua, ed ha il potere di abbassare la viscosità del magna stesso con influenze sulle modalità di consolidazione. Classificazione delle rocce ignee Una prima classificazione delle rocce ignee è data dalle modalità di raffreddamento del magma, alle quali corrispondono strutture diverse, differenti dimensioni dei minerali e differenti gradi di cristallinità. Le rocce ignee possono, infatti, consolidare o all’interno (plutoniti) o all’esterno (vulcaniti) della crosta terrestre. In una massa fusa in via di solidificazione la forma e la dimensione dei cristalli sono condizionate sia dal numero dei centri di cristallizzazione, sia dalla velocità di cristallizzazione. Nelle plutoniti (o rocce intrusive) il raffreddamento è lento, in quanto la perdita di calore è limitata dalle rocce circostanti. I centri di cristallizzazione sono pochi e il loro accrescimento è lento: si forma così un piccolo numero di cristalli di dimensioni 62 relativamente grandi, la roccia sarà olocristallina più o meno equigranulare (struttura granulare). Nelle vulcaniti (o rocce effusive) il raffreddamento è rapido, in conseguenza di una rapida caduta della temperatura. Si formano un gran numero di centri di cristallizzazione che rimangono di piccole dimensioni, a causa della velocità del raffreddamento. La roccia sarà costituita da una massa microcristallina o vetrosa che può inglobare cristalli formati prima dell’eruzione vulcanica (struttura porfirica). In questa fase è importante la presenza dei gas nel magma che producono un abbassamento della viscosità della massa fusa aumentando l’accrescimento dei centri di cristallizzazione. Le strutture granulari caratterizzano, quindi le rocce intrusive, mentre le strutture porfiriche caratterizzano le rocce effusive e le rocce che consolidano in vicinanza della superficie terrestre (laccoliti, filoni, ecc.). Quando si parla di plutoniti e vulcaniti si fa riferimento ad una prima suddivisione delle rocce ignee basata su un criterio che tiene in conto la profondità dell’ambiente in cui è avvenuta la solidificazione, se si tiene in conto anche della giacitura si deve considerare anche un ulteriore tipo di rocce che sono quelle filoniane, quelle che si sono formate in fessure di altre rocce dando luogo ai filoni. Una ulteriore classificazione delle rocce ignee si basa su un criterio mineralogico e chimico. In particolare sulla quantità della silice (SiO2) presente, si possono classificare le rocce ignee in acide e basiche: si chiamano rocce acide quelle in cui la silice è abbondante, basiche quelle in cui la silice è scarsa. La famiglia dei graniti (rocce intrusive) comprende le rocce più acide (quantità della silice intorno al 70%). La grande quantità della silice presente è testimoniata dalla presenza di quarzo, infatti quando la silice è in eccesso si formano prima tutti i minerali saturi in silice (feldspati, miche, anfiboliti e pirosseni) e poi si forma il quarzo. Se la silice è meno abbondante si possono formare rocce senza quarzo, ma con minerali saturi in silice, come nella famiglia delle dioriti (rocce intrusive); se la presenza della silice non è molto forte si formano minerali non saturi in silice (felspatoidi, olivine, corindone, ecc.) tipici di rocce basiche come le peridotiti, essexiti, teraliti (rocce intrusive) e picriti, basalti, monoliti nefriti (rocce effusive). In sintesi si riporta la classificazione di Streckeisen (Fig. 1) che si basa sul contenuto dei costituenti sialici (nei diagrammi Q), dei felpati alcalini (nei diagrammi A), dei plagioclasi (nei diagrammi P) e dei felspatoidi (nei diagrammi F). Questa classificazione racchiude tutte le rocce che hanno un contenuto di minerali ferromagnesiaci minore del 90%, rimangono quindi escluse da questa classificazione le rocce ultrabasiche che contengono una quantità di minerali di ferro e magnesio maggiore del 90% (pietre verdi o ofioliti). ROCCE PIROCLASTICHE Le rocce piroclastiche sono costituite da materiale vulcanico lanciato in aria durante le eruzioni con carattere esplosivo, che poi sedimentano con aspetto stratificato. Possono depositarsi in ambiente subaereo oppure in laghi o nei mari. Si chiamano genericamente brecciole quando contengono brandelli di lava e di scorie con dimensioni superiori ai 3 cm; tufi quando si tratta di materiali più minuti, come i lapilli (da 3 cm a 2 mm); cineriti quando risultano costituite in prevalenza da ceneri vulcaniche (< 2 mm). 63 Il loro aspetto è stratificato e deriva dalle varie esplosioni che si sono succedute e dal fatto che il materiale durante ogni singola esplosione viene classato durante la caduta, cioè i materiali più fini cadono per ultimi e possono essere trasportati anche lontano dalla loro origine. Altri tipi di eruzioni sono le cosiddette “nubi ardenti”, che sono delle sospensioni molto dense di lapilli e ceneri che ricadono al suolo scorrendo verso il basso lungo il pendio del vulcano. Le gocce di lava liquida ed i gas contenuti permangono per un certo tempo dopo la deposizione formando una roccia che ha la compattezza simile a quelle formate dalla lava che prende il nome di ignimbrite. Fig. 1 – Diagrammi doppio-triangolari di Streckeisen per la classificazione delle rocce ignee intrusive ed effusive (da: Trevisan e Giglia, 1974) GIACITURA DELLE ROCCE IGNEE Giacitura delle rocce effusive I diversi tipi di giacitura delle rocce effusive dipendono dal tipo di eruzione vulcanica, dalla natura e quantità dei materiali emessi e dalla durata dell’attività vulcanica. I vulcani odierni ci permettono di osservare le modalità delle eruzioni vulcaniche e le forme degli apparati vulcanici. I vari tipi di attività vulcanica, le forme e le strutture dei vulcani attuali, che verranno di seguito illustrate, ci permettono, anche, di interpretare la giacitura delle vulcaniti del passato. Attività di emissione di gas e acque termali Si possono distinguere quattro tipi di attività: 64 − − − − fumarolica (emissione di vapori caldi da crepacci del terreno); solfatarica (emissione di vapori con idrogeno solforato); geyser (lancio di acqua bollenti e vapori); idrotermale (emissione di acqua calda). Queste attività corrispondono alla fase idrotermale del ciclo vulcanico, quando la solidificazione del magma è quasi completamente avvenuta e solo l’acqua o altri fluidi possono venire a giorno. In altri casi questa fase può essere legata a plutoni non affioranti ed in via di raffreddamento. Attività di emissione di lave e materiali solidi L’attività di emissione di lave è accompagnata da fuoriuscita di gas e possono avvenire in modo continuo oppure con fasi più o meno violente di tipo esplosivo. Le lave nel momento della fuoriuscita possono essere più o meno fluide: generalmente le lave basiche sono più fluide, presentando meno componenti di silice e allumina, che rendono la massa meno viscosa e generalmente presentano una temperatura più elevata di quelle acide. Alla fluidità della lava è connesso anche il tipo di emissione di gas: più tranquilla e continua nelle lave più fluide, con esplosioni nelle lave più viscose. Alla fluidità o viscosità è connessa anche in parte la forma degli edifici vulcanici, dipendendo anche dal rapporto tra lava e materiali incoerenti emessi allo stato solido. I vari tipi di apparati vulcanici possono essere raggruppati in: − coperture di lava (Fig. 2) – si tratta di espandimenti di lave molto fluide per zone molto vaste, senza formazioni di coni vulcanici, generalmente si ha fuoriuscita di lava attraverso spaccature della superficie terrestre. Possono essere a copertura semplice cioè una unica colata con un unico tipo di roccia, o a copertura composta cioè più colate sovrapposte. La giacitura a copertura lavica è nota soltanto per rocce di tipo basaltico (esempi: Dekkan, Siberia, Mongolia, Groenlandia, Arabia, Etiopia); Fig. 2 – Copertura di lava in Arabia Saudita; sopra ricostruzione dell’aspetto al tempo dell’effusione, sotto: aspetto attuale (da: Trevisan e Giglia, 1974) 65 − vulcani a scudo – sono edifici con una larga base e fianchi con bassa pendenza, anche in questo caso si ha la presenza di lave basiche (esempi: Manua Loa nelle Hawai, Islanda); − cupole di ristagno (Fig. 3) – sono lave che a causa delle loro viscosità non possono espandersi e si accrescono a cupola, le loro dimensioni non sono notevoli (esempi: Ischia, Colli Euganei); Fig. 3 – Cupola di ristagno nel cratere del vulcano di Santa Maria del Guatemala (da: Trevisan e Giglia, 1974) − protusioni solide (Fig. 4) – sono obelischi di lava quasi interamente solida che viene estrusa in blocco (esempi: Monte Tabor a Ischia); Fig. 4 – Protusione solida delle Montagne Pelée nell’isola di Martinica, alta quasi 300 m (da: Trevisan e Giglia, 1974) − vulcani strati – sono formati da depositi alternati da colate laviche e materiali incoerenti (piroclastici), possono presentare varie forme a seconda dei rapporti tra i due tipi di materiali (esempi: Vesuvio, Etna, Stromboli); − vulcani a bastione – si formano in conseguenza di una violenta fase esplosiva, che apre un vasto cratere, circondato da un bastione che è il residuo di un precedente cono, oppure rappresenta il deposito di materiali espulsi dall’esplosione; − crateri di esplosione – corrispondono ad una attività di tipo puramente esplosivo, sono formati da materiali piroclastici che riempiono i camini vulcanici (esempio: Dolomiti, Berici). 66 L’attività di un vulcano è spesso intermittente, con periodi di riposo e riprese di attività, che possono essere caratterizzate da materiali diversi dai precedenti: si hanno così i vulcani composti. I vulcani composti possono essere a successione normale, nei quali l’attività evolve da tipi di lave più basiche a tipi con lave più acide; o a successione inversa che sono quelli nei quali a emissioni acide seguono emissioni basiche (esempio: Campi Flegrei, Somma-Vesuvio). Eruzioni sottomarine Tipiche manifestazioni di colate laviche sottomarine sono le lave a cuscino. Si presentano con aspetto sferoidale irregolare di qualche decimetro di diametro. Questo fenomeno è dovuto a scivolamenti di blocchi lavici non del tutto consolidati lungo i pendii sottomarini ed accumulo al piede dei pendii stessi. Presentano un particolare colore verdastro dovuto alla lava con il contatto con le acque marine che produce un silicato di colore verde (caladonite). Giacitura delle rocce intrusive Le giaciture delle rocce intrusive possono essere distinte in: − laccoliti (Fig. 5) – quando le rocce vulcaniche presentano una giacitura lenticolare e sono ricoperte da rocce con segni di metamorfismo di contatto, generalmente sono molto estese e conservano per vaste estensioni spessori pressoché costanti (esempi: Vicentino); Fig. 5 – Laccolite del monte Cornetto in provincia di Vicenza (da: Trevisan e Giglia, 1974) − plutoni (Fig. 6) – sono masse di roccia a struttura granulare, olocristallina talora di dimensioni notevoli (alcune decine di Km), consolidati a profondità notevoli, con un estesa aureola di metamorfismo (esempi: Alpi Centrali, Trentino, Toscana). 67 Fig. 6 – Sezioni di plutoni : 1 - Elba, 2 – Haute-Garonne, 3 – Grosseto (da: Trevisan e Giglia, 1974) Giacitura dei filoni I filoni sono propaggini di masse magmatiche insinuate in fenditure di rocce qualsiasi. Talvolta tagliano la roccia con un andamento rettilineo, in altri casi l’andamento può essere vario e con spessori variabili da punto a punto. I filoni possono essere intrusi in una roccia magmatica oppure in rocce estranee stratificate, che possono presentare un metamorfismo di contatto. Nel caso di rocce stratificate si hanno due tipi di giacitura: il filone-strato quando corre parallelamente alla stratificazione ed il filone comune, che corre indipendentemente dalla stratificazione e che taglia gli strati con angoli diversi (Fig. 7). 68 Fig. 7 – Filoni paralleli alla stratificazione (A), filoni indipendenti dalla stratificazione (B) (da: Trevisan e Giglia, 1974) Dal punto di vista della diffusione delle rocce ignee è da notare che i basalti sono più frequenti dei gabbri, quindi nel caso di magmi basici predominano le rocce effusive; mentre i graniti e le granodioriti predominano sui porfidi quarziferi, rioliti, daciti, quindi nel caso di magmi acidi predominano le rocce intrusive. ROCCE SEDIMENTARIE E TERRE Una prima definizione delle rocce sedimentarie, come già detto, riguarda la genesi che le hanno prodotte: tali rocce derivano dalla disgregazione o, alterazione o scioglimento di rocce preesistenti, o da sostanze che hanno attraversato il ciclo biologico. Per meglio comprendere il percorso formativo di tali materiali è però necessario considerarlo nella sua integrità. Il percorso risulta composta da quattro azioni distinte nel tempo: azione erosiva, cioè quella che forniscono la materia prima per le rocce sedimentarie; azione di trasporto e di deposito (o sedimentazione in senso stretto); azione di trasformazione (o diagenesi) che determinano una lenta trasformazione dei sedimenti originali, spesso sciolti o mobili, in roccia. Le azioni di erosione: le parti superficiali delle rocce si trovano sempre in una situazione instabile e si hanno costantemente fenomeni più o meno forti di erosione, che possono essere preceduti da alterazione chimica. L’alterazione chimica è dovuta ad alcuni componenti presenti nell’atmosfera quali acqua, acidi, sostanze organiche, radici e animali. Generalmente la roccia alterata è più friabile della roccia sana e la variazione di colore mostra, spesso, la profondità dell’alterazione. Altre azioni erosive hanno una causa meccanica e sono dovute al movimento delle acque dei torrenti, dei fiumi e del mare. In questi casi agiscono anche i materiali solidi trascinati dal moto delle acque. Anche i ghiacciai producono un’erosione, dovuta non solo al movimento dei ghiacciai sotto la pressione data dallo spessore del ghiacciaio, ma anche dalla presenza del materiale morenico di fondo che agisce come un abrasivo. Il vento produce un’erosione che può essere intensa in modo particolare nelle regioni aride e deserte, anche a causa dell’abrasione effettuata dalla sabbia. 69 Si ricorda infine l’azione termoclastica dovuta alle variazioni rapide della temperatura, che possono dilatare in modo selettivo le parti più superficiali delle rocce rispetto a quelle più interne, formando fessure e distacco di frammenti. Le fessure inoltre favoriscono le azioni erosive in profondità, in modo particolare se nelle fessure entra l’acqua che può subire frequenti cicli di gelo e disgelo, come nei climi di alta montagna. Le azioni di trasporto: gli agenti principali del trasporto sono le acque correnti, i ghiacciai ed i venti. Le acque correnti possono trasportare materiale in soluzione, in sospensione e mediante rotolamento sul fondo. I materiali sospesi e rotolati subiscono un logoramento, nel senso che i frammenti angolosi diventano rotondeggianti e i materiali più a lungo trasportati sono i più sottili, a parità di altre condizioni. L’acqua quindi seleziona i materiali secondo la granulometria, ma produce anche una selezione chimica, nel senso che i materiali vengono impoveriti dai minerali più instabili, questo vuol dire che i materiali si arricchiscono indirettamente di minerali meno attaccabili dagli agenti esterni. Tra questi si ricorda il quarzo. Il trasporto dovuto ai ghiacciai avviene senza che si producano smistamenti di grandezza dei materiali, infatti il ghiacciaio trasporta ugualmente sia grossi massi che sottili polveri. Durante il trasporto i frammenti che si trovano in fondo al ghiacciaio presentano una particolare striatura dovuta alla frizione che subiscono tra loro e contro il fondo roccioso, ma mantengono il loro aspetto angoloso originario. I venti possono trasportare solo i materiali più fini ed assume importanza quando si tratta di zone aride e quindi senza vegetazione. Anche le acque marine possono produrre un’azione di trasporto, che può portare i materiali al largo o sedimentarli presso la riva. Una particolare azione di trasporto, in ambiente marino, è dovuta alla presenza di scarpate che si possono formare per accumulo di sedimenti costieri. Tali scarpate possono essere instabili a causa delle pendenze che si possono formare per tali accumuli (Fig. 8), che possono produrre un franamento del materiale, che produce un’onda torbida che si può propagare anche per grandi distanze tenendo in sospensione i materiali più fini. Fig. 8 – Formazione di scarpate per accumulo di sedimenti costieri (da: Trevisan e Giglia, 1974) Le azioni di deposito: queste rappresentano la sedimentazione in senso stretto, cioè la deposizione del materiale. Tali materiali hanno di solito un aspetto stratificato, che è facilmente visibile quando si tratta di materiali con diversa composizione. La deposizione dei materiali trasportati avviene quando rallenta o cessa la velocità delle 70 acque che ne determinano il trasporto; analogamente avviene per i materiali trasportati dai venti, che si possono fermare anche quando si incontrano ostacoli. La deposizione dei ghiacciai avviene in corrispondenza del fronte e sui fianchi dello stesso e si originano i depositi morenici. I depositi di origine chimica si formano soprattutto per evaporazione delle acque, con conseguente precipitazione di sostanze disciolte. La sedimentazione in ambiente marino di materiali di origine organica è di tipo sia passivo, nel senso di accumulo di spoglie di organismi sul fondo, sia attivo nel caso di costruzioni operate da organismi diversi come le scogliere coralline. La sedimentazione in ambiente continentale di materiali di origine organica è composta da accumuli vegetali: quelli di origine passata si presentano come giacimenti di rocce combustibili. In generale la classificazione delle rocce sedimentarie avviene adottando sia un criterio genetico, sia un criterio chimico, sia un criterio descrittivo. In questo senso quindi si individuano le seguenti categorie di rocce sedimentarie: − rocce clastiche e terre − rocce carbonatiche − rocce silicee − rocce evaporitiche − rocce ferrifere − rocce fosfatiche − rocce combustibili Fra i caratteri descrittivi, in particolare per le rocce clastiche, assume particolare importanza la tessitura di una roccia, che è intesa come la forma, la disposizione e la dimensione degli elementi che la costituiscono. Rocce clastiche e terre Questo tipo di rocce si formano per accumulo meccanico di particelle preesistenti. Una prima classificazione si può quindi basare sulla grandezza di queste particelle o elementi, che le costituiscono. Una seconda suddivisione può essere effettuata in relazione alla consolidazione che tali materiali presentano, quindi ad una grossa distinzione tra rocce clastiche e terre. Per quanto riguarda la granulometria si possono distinguere diverse classi: − dimensioni dei granuli maggiori di 2 mm − dimensioni dei granuli compresi tra 2 mm e 20 micron − dimensioni dei granuli compresi tra 20 micron e 2 micron − dimensioni dei granuli inferiori ai 2 micron A queste suddivisioni corrispondono termini quali, per le rocce, rispettivamente, brecce (se i granuli presentano spigoli vivi) e conglomerati (se i granuli presentano spigoli arrotondati), arenarie, siltiti ed argilliti; per le terre o depositi, rispettivamente, ghiaie, sabbie, limi ed argille; all’interno del campo delle ghiaie per clasti maggiori di 60 mm si hanno i ciottoli. Brecce e Conglomerati Sono le rocce clastiche più grossolane: i granuli si riconoscono ad occhio nudo e sono immersi in una matrice di natura variabile. Se i granuli presentano spigoli vivi si 71 parla di brecce, se i granuli presentano spigoli arrotondati si parla di conglomerati. Se i granuli sono costituiti da un solo tipo di roccia si parla di brecce e conglomerati monogenici, se i granuli sono costituiti da frammenti di rocce diverse si parla di brecce e conglomerati poligenici. Le brecce e i conglomerati monogenici sono generalmente costituite da clasti derivanti da rocce molto resistenti sia all’azione meccanica che chimica: quarzo, selci ecc.; mentre le brecce ed i conglomerati poligenici presentano clasti che sono sensibili all’alterazione. Il tipo di cemento è importante, i cementi più frequenti sono quelli calcarei, silicei ed argillosi, generalmente esiste una stretta relazione tra composizione dei clasti e quella della matrice. In generale si può affermare che questi tipi di rocce ed i corrispondenti depositi sono quelli che hanno subito un minor trasporto, nel caso delle brecce, la presenza di spigoli vivi testimonia che il trasporto è stato praticamente nullo. Ghiaie e Ciottoli Anche in questo caso sono i depositi più grossolani, se i granuli presentano dimensioni maggiori di 60 mm si parla di ciottoli, tra i 60 mm e 2 mm si parla di ghiaie. Il grado di arrotondamento del clasto si aggiunge come aggettivo al nome (arrotondato, subarrotondato, subangolare, angolare). La disposizione dei granuli in un deposito ha un significato notevole, quando manca la stratificazione e si trovano mescolati senza ordine ghiaie e ciottoli di dimensioni eterogenei, insieme a materiali fini si deve escludere l’azione classatrice delle acque correnti e si deve prendere in considerazione il trasporto glaciale, viceversa si avrà un aspetto stratificato del deposito che dimostrerà l’azione classatrice del trasporto fluviale (Fig. 9). Fig. 9 – Schema della disposizione e delle varie dimensioni dei ciottoli in un deposito morenico (a sinistra); schema dell’aspetto stratificato di un deposito ciottoloso fluviale (a destra) (da: Trevisan e Giglia, 1974) Arenarie e sabbie Le arenarie sono rocce clastiche coerenti a grana media e tra i vari granuli si ha un riempimento o di materiale più fino, o un cemento di precipitazione secondaria. Le sabbie sono i depositi incoerenti a grana media e sono costituite da uno scheletro di frammenti più o meno strettamente in contatto tra loro. Gli elementi clastici possono provenire da rocce intrusive, effusive e metamorfiche o da sedimenti preesistenti. Il contributo delle rocce intrusive consiste principalmente in quarzo e feldspati. 72 Dal punto di vista tessiturale un deposito o una roccia mal selezionata non indica sempre un trasporto breve: nel caso di un’onda di torbida in conseguenza di crollo di scarpate subacque possono esistere granulometrie diverse con scarsa selezione dei materiali, anche se il trasporto è notevole. Nel caso invece di un deposito o roccia ben selezionata il cemento è di origine secondaria e cioè introdotto in un momento successivo alla deposizione o per infiltrazione meccanica o per precipitazione da soluzione. Quando i grani sono compresi tra 20 e 2 micron si parla di Siltiti e Limi. Argilliti e Argille Le argilliti sono le rocce clastiche coerenti a grana fine, le argille sono i depositi incoerenti a grana fine. Le argille possiedono alcune proprietà particolari quali la plasticità, l’attitudine a rigonfiare in presenza di acqua. Sia le argilliti che le argille possono essere distinte in residuali e trasportate, queste ultime possono essere suddivise in continentali e marine in relazione all’ambiente di deposizione. Le residuali sono le argille dei suoli continentali e la loro natura è condizionata dal tipo di roccia madre e dal clima e morfologia, le trasportate, come tutte le rocce clastiche, dipendono dalla costituzione del bacino di alimentazione e dal clima che vi predominava all’epoca della sedimentazione e possono essere continentali e marine. I minerali argillosi sono sensibili agli ambienti e quindi possono evolvere durante il trasporto. Le argille trasportate continentali sono prevalentemente dei depositi fluviali, lacustri e lagunari; un tipo di argille trasportate continentali sono i Loess, un deposito eolico di aspetto non stratificato, friabile, che può mantenere anche pareti verticali. Le argille trasportate marine indicano un ambiente di deposizione con acque poco agitate e con scarse correnti. Rocce carbonatiche Con il termine di rocce carbonatiche si intendono tutti i tipi litologici nei quali i due carbonati più comuni, la calcite e la dolomite, costituiscono almeno il 50% del totale della roccia. Esiste tutta una serie di termini di transizione dalle rocce costituite interamente da CaCO3 (calcari) e da CaMg(CO3)2 (dolomie): calcari, calcari dolomitici, dolomie calcaree, dolomie. La formazione di tali rocce può avvenire o per dissoluzione del carbonato di calcio di un sedimento originariamente costituito da calcio Ca e magnesio Mg o per sostituzione da parte del Mg dal Ca. Esistono termini di miscela anche tra le rocce carbonatiche pure e le rocce clastiche a granulometria più fine (sabbia e soprattutto argilla): quando calcare ed argilla sono mescolati in proporzioni poco diverse dal 50% la roccia corrispondente si chiama marna. In generale i calcari possono essere distinti in autoctoni ed alloctoni: il primo gruppo (calcari organogeni, biochimici e chimici) comprende i calcari formati sul luogo stesso della deposizione, sia dagli organismi viventi (per accrescimento ad opera di organismi costruttori, per accumulo passivo di gusci calcarei), sia i calcari di precipitazione chimica, come travertini, alabastri, ecc. 73 Quando si parla di precipitazione chimica deve essere ricordato l’equilibrio tra carbonato insolubile e bicarbonato solubile: CaCO3 + CO2 + H2O = Ca(HCO3)2 qualunque causa sottragga CO2 all’acqua favorisce la deposizione del carbonato. Le cause possono essere la diminuzione parziale della pressione atmosferica, agitazione delle acque, aumento della temperatura, diminuzione della pressione idrostatica. Si formano così i travertino e gli alabastri, in ambiente continentale, allo sbocco di sorgenti di acque calcaree in conseguenza della perdita di pressione che favorisce la dispersione dell’anidride carbonica e la precipitazione di carbonato, nel primo caso; o, con analogo meccanismo, in grotte e fessure carsiche, nel secondo caso. Il secondo gruppo (calcari alloctoni) comprende i calcari di origine detritica i cui elementi hanno subito un trasporto prima della deposizione. Gli elementi clastici calcarei devono costituire almeno il 50% della roccia. Il cemento originario è generalmente calcareo, la calcite del cemento si distingue da quelle degli elementi per la maggior purezza. Rocce silicee Le rocce silicee rappresentano il prodotto della sedimentazione nei fondi marini o lacustri di gusci silicei di microrganismi, di silice colloidale ed in minor misura di silice in soluzione ionica. Alcuni esempi di rocce silicee sono le diatomiti (depositi silicei a diatomee) che in genere sono coerenti, restando però friabili e i diaspri, dove parte della silice si trasforma in opale o in una microquarzite, dando origine a rocce compattissime. I diaspri sono sempre stratificati talora con interstrati argillosi. Rocce evaporitiche Sono quelle rocce che si formano per precipitazione di minerali dall’acqua di mare per evaporazione. I primi minerali che precipitano sono la calcite e la dolomite, seguono poi il gesso e l’anidrite e poi il salgemma. In generale i depositi evaporitici si susseguono aritmicamente e con irregolarità, ciò significa che la successione tipica viene frequentemente interrotta, sia per nuovi apporti di acqua marina con salinità normale, sia per apporto di acque dolci da parte di corsi di acqua. Le serie evaporitiche possono essere costituite da depositi di sola evaporazione o con intercalazioni di materiali detritici come argille e sabbie. Rocce ferrifere Non considerando i giacimenti di ferro che sono associati alle rocce ignee, una roccia sedimentaria può dirsi ferrifera quando contenga più del 10% di ferro. Il ferro affluisce al mare con le acque fluviali, qui può flocculare e precipitare sostituendo il calcare dei gusci di organismi. In un ambiente ossidante, come quello dei fondi marini in cui l’acqua si ricambia rapidamente, si formano i minerali ferrici, che danno una colorazione rossastra alla roccia; in ambiente riducente, come quello di lagune o depressioni chiuse dei fondi marini, dove non arriva acqua areata, si formano i minerali ferrosi, che danno una colorazione grigiastra o nerastra alla roccia. 74 Rocce fosfatiche Le rocce fosfatiche traggono la loro origine da meccanismi diversi: nell’acqua di mare il fosfato di calcio può precipitare per variazioni di temperatura e diminuzione di anidride carbonica, in ambiente subaereo (grotte e fessure) si formano le fosforiti per precipitazione dopo il dilavamento e dissoluzione di rocce fosfatiche di origine marina. Rocce combustibili Le rocce combustibili sono quelle formate da resti vegetali in diversi stadi di trasformazione dalle torbe all’antracite. Il processo di carbonizzazione è un processo lento ed è dovuto ad un arricchimento indiretto di carbonio a spese di altri componenti che può avvenire quando il processo di ossidazione è molto scarso, in ambiente di acque non aerate. I tipi principali sono: le torbe, originata da piante erbacee, il processo di carbonizzazione è agli stati iniziali; le ligniti, che hanno un contenuto di carbonio che si aggira al 70%; i litantraci, con contenuto di carbonio dell’80%; le antraciti che hanno un contenuto di carbonio che si aggira al 90%. Diagenesi dei sedimenti Con il termine di diagenesi si intende un insieme di cambiamenti chimici e fisici subiti da un sedimento dopo la sua deposizione, che trasformano il deposito o terreno in roccia, a causa del suo seppellimento e quindi dalla pressione esercitata dai sedimenti sovrastanti. La diagenesi comprende essenzialmente: neoformazione di minerali, ridistribuzione e ricristallizzazione di materia nei sedimenti, litificazione. In questi processi può avvenire che i frammenti di dimensioni più piccole possono disciogliersi e rideporsi formando un cemento tra i granuli più grossi. Il tutto è accompagnato da una compattazione, che consiste in una riduzione del volume originario del sedimento, con espulsione dell’acqua. Per esempio la porosità di una argilla, che prima del seppellimento può oltrepassare l’80% del volume totale, già sotto un carico di 500 m si riduce al 30% del sedimento già quasi trasformato in argillite, con una riduzione rispetto al volume iniziale del 50%. GIACITURA DELLE ROCCE SEDIMENTARIE Il carattere strutturale più importante delle rocce sedimentarie è dato dalla stratificazione che si manifesta attraverso l’esistenza di livelli ad andamento tabulare o lenticolare. Per esempio sono frequenti strati alternati di arenarie ed argilliti; calcari e marne; conglomerati, arenarie ed argilliti (Fig. 10). L’accumulo di materiali sedimentari nei mari o nei bacini lacustri, tende a formare superfici piane, di conseguenza gli strati all’atto della loro formazione si possono considerare per lo più in posizione orizzontale; in alcuni casi però la stratificazione è originariamente inclinata, perché i materiali si adagiano su un pendio inclinato, in modo particolare nei depositi più vicini alla superficie. Possono anche esistere alcuni disturbi delle superfici di stratificazione molto accentuate come i cosiddetti “slumping”, dove la stratificazione è obliterata e i materiali si presentano totalmente pieghettati (Fig. 11), dal 75 punto di vista genetico in questo caso si sono verificate delle frane di materiali plastici, nel bacino di sedimentazione. Fig. 10 – Esempi di sequenze litologiche (da: Travisan e Giglia, 1974) Fig. 11 – Un esempio di “slumping” (da: Trevisan e Giglia, 1974) Nei depositi di ambiente fluviale (alluvioni) gli strati hanno generalmente la pendenza dell’alveo del corso d’acqua, spesso si tratta di pendenze minime (Fig. 12). In ambiente aereo i casi di stratificazione inclinata dall’origine sono frequenti: le sabbie di deposizione eolica hanno spesso superfici ondulate (dune), fino ad arrivare al 76 caso in cui gli strati sono variamenti inclinati in tutti i sensi (stratificazione incrociata, Fig. 13). Fig. 12 – Aspetto in sezione di depositi ciottolosi e sabbiosi fluviali (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 13 – Esempio di stratificazione incrociata (da: Trevisan e Giglia, 1974) ROCCE METAMORFICHE Le rocce dopo la loro formazione sono soggette a trasformazioni di vario tipo e per cause diverse: le rocce che sono dovute a temperature elevate, accompagnate o no da pressioni molto forti, si definiscono come rocce metamorfiche. Il metamorfismo consiste quindi nell’adattamento mineralogico e strutturale delle rocce solide a condizioni fisico-chimiche diverse da quelle in cui si trovavano originariamente. I fattori del metamorfismo sono la temperatura e la pressione; in alcuni tipi di metamorfismo influiscono anche gli apporti fluidi di origine estranea alla massa che si sta metamorfosando. La diversa combinazione di questi fattori provocano ricristallizzazioni e neoformazioni di entità diversa e quindi diversi tipi di metamorfismo. 77 Dal punto di vista dell’estensione areale del fenomeno si possono distinguere due tipi di metamorfismo: metamorfismo di contatto e metamorfismo regionale. Il metamorfismo di contatto si produce nelle rocce situate ai margini di un corpo magmatico. La temperatura che è molto elevata nelle vicinanze del corpo magmatico decresce rapidamente all’allontanarsi del corpo magmatico, per queste ragioni il metamorfismo di contatto è limitato alla adiacenze del corpo intrusivo. Il metamorfismo regionale, invece, può interessare anche centinaia o migliaia di chilometri quadrati ed è dovuto a forti pressioni e forti temperature: il metamorfismo regionale viene ulteriormente diviso in metamorfismo di seppellimento e metamorfismo regionale in senso stretto. Generalmente le temperature del metamorfismo regionale in senso stretto sono più elevate di quelle dovute al metamorfismo di seppellimento. Come si può intuire esistono diversi gradi di metamorfismo dovute alle diverse condizioni nelle quali le rocce si formano. In modo schematico la classificazione delle rocce metamorfiche può essere effettuata considerando la classificazione delle rocce originarie, in modo sintetico può essere adottata questa classificazione: − Rocce pelitiche – argilliti danno origine a scisti, micascisti, gneiss; − Rocce basiche, arenarie danno origine a scisti verdi, anfiboliti, quarziti, granuliti; − Rocce carbonatiche e dolomitiche danno origine a marmi. FACIES, GIACITURE E STRATIGRAFIA Dopo aver effettuato il riconoscimento delle rocce si passa all’interpretazione dei vari tipi litologici che tende a ricostruire l’ambiente in cui si sono formati. Con il termine di ambiente si intende l’insieme delle condizioni locali dominanti nel tempo e nel luogo dove le rocce si formavano, per indicare questo concetto si usa il termine di facies. Risulta chiaro come tale concetto di facies assume particolare importanza quando si parla di rocce sedimentarie: si parla di litofacies quando si prendono in considerazione gli aspetti petrografici e strutturali, si parla di biofacies quando si considerano i resti degli organismi e le loro associazioni. L’unità litostratigrafia fondamentale è rappresentata dalla formazione, che può essere suddivisa in unità litostratigrafiche minori, e che rappresenta una unità di paesaggio del passato. Si possono avere variazioni di facies nel tempo, per esempio la Fig. 14 riporta schemi di cambiamento di facies nel tempo: ad un deposito avente una certa facies sta sovrapposto un deposito di facies diversa, le due colonne di sinistra mostrano cambiamenti di facies improvvisi, le due colonne di destra mostrano cambiamenti graduali. Nella Fig. 15 e 16 sono schematizzati cambiamenti di facies avvenuti nello spazio con passaggio più o meno graduale, in questo caso i depositi sono coevi e si parla di facies eteropiche. Diversi possono essere gli ambienti di deposizione: ambienti continentali, lacustri, glaciali, marini e misti. Negli ambienti continentali l’erosione domina per vaste aree, tuttavia in alcuni ambienti si possono avere depositi sedimentari anche di grande spessore; tra questi si ricordano gli ambienti fluviali dove i depositi sono generalmente discontinui per il carattere del trasporto e del deposito fluviale che segue l’andamento delle piogge. Altro ambiente continentale di deposizione è l’ambiente desertico, dove si formano gli accumuli di sabbia eolica, anche questi depositi sono generalmente discontinui e con stratificazione incrociata. Altri depositi sono quelli salini che si formano in depressioni soggette ad inondazioni ed evaporazione. 78 Negli ambienti lacustri, alimentati da corsi d’acqua possono formarsi depositi grossolani vicino alla riva che passano lateralmente a depositi sabbiosi e argillosi, spesso finemente stratificati. Negli ambienti glaciali i tipici depositi sono le morene, alle quali possono associarsi anche depositi fluviali e lacustri. Negli ambienti marini si possono distinguere diversi ambienti: la zona neritica che si estende dal limite della marea più bassa fino alla rottura di pendio che limita verso il mare aperto la piattaforma continentale (Fig. 17), è soggetta ad avere acque agitate, correnti e variazioni di temperatura che sono capaci di muovere e smistare i sedimenti. In questo ambiente la distribuzione granulometrica dei sedimenti non è univoca, dipende da molti fattori, che variano da regione a regione nei diversi continenti e non è sempre vero quello che intuitivamente ci si potrebbe attendere cioè quello di avere sedimenti più grossolani vicino alla riva e sedimenti più fini allontanandosi dalla riva. I depositi formatisi in questo ambiente presenteranno lacune stratigrafiche, cioè mancanza di sedimentazione, a causa degli episodi di erosione. La zona pelagica è importante come sorgente di fanghi organogeni, che si depositano nella zona batiale e abissale. I fanghi di origine organica sono dovuti all’accumulo sul fondo dei resti di organismi che vivono nella zona pelagica e sono costituiti da un guscio calcareo o siliceo. Nella zona batiale e abissale si possono trovare anche i depositi da onde di torbida, provenienti da frane della scarpata della piattaforma continentale. Gli ambienti misti sono le zone di litorale dominate dai movimenti dei materiali dovuti al moto ondoso, gli estuari e le lagune dove le maree determinano movimenti delle acque che si invertono, gli ambienti di delta e quello delle scogliere coralline che comprende le lagune interne agli atolli. Fig. 14 – Schemi di cambiamenti verticali di Facies (da: Trevisan e Giglia, 1974) 79 Fig. 15 – Schemi di cambiamenti laterali di Facies con passaggio graduale (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 16 - Schemi di cambiamenti laterali di Facies con passaggio non graduale (da: Trevisan e Giglia, 1974) 80 Fig. 17 – Zone di sedimentazione dell’ambiente marino (da: Trevisan e Giglia, 1974) LA TETTONICA Analizzando le stratificazioni di un ammasso roccioso è possibile notare che a volte gli strati hanno un andamento orizzontale e monotono, in altre appaiono alquanto movimentati, inclinati, quindi dislocati dallo loro giacitura orizzontale. Con questo elemento è possibile fare una grossa distinzione e classificazione delle strutture della crosta terrestre: strutture tabulari, caratterizzate dalla orizzontalità o quasi degli strati, e strutture corrugate, caratterizzate da indizi di dislocazioni e movimenti intensi, questi tipi di strutture possono variamente presentarsi sia in senso orizzontale che in senso verticale come mostrato nella Fig. 18. Nelle strutture corrugate gli strati sono stati dislocati dalla loro originaria giacitura e si presentano con piegamenti o con associazioni di piegamenti e fratture. E’ da sottolineare che quando si parla di struttura ci si riferisce alla posizione degli strati e non alla forma del terreno: infatti una struttura tabulare può presentare una superficie topografica irregolare e viceversa (Fig. 19). Generalmente uno strato viene identificato con i valori di inclinazione cioè l’angolo che la superficie dello strato forma con il piano orizzontale, il valore dell’immersione cioè l’angolo compreso tra la direzione del Nord e la linea di massima pendenza dello strato e con la direzione cioè l’orientazione rispetto ai punti cardinali della retta perpendicolare all’immersione (Fig. 20). Il valore dell’angolo di inclinazione può essere misurato con un clinometro, mentre il valore dell’angolo di immersione può essere misurato con una bussola. 81 Fig. 18 – Strutture tabulari e corrugate (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 19 – Rapporto tra strutture e morfologia (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 20 – Caratteristiche geometriche di uno strato (da: Trevisan e Giglia, 1974) 82 LE FAGLIE Con il termine di faglia si intende una frattura in una massa rocciosa ai lati della quale siano avvenuti scorrimenti che hanno spostato l’uno rispetto all’altro i blocchi situati da parti opposte alla frattura. In una sezione naturale, come una parete rocciosa, questa dislocazione può presentarsi come quelle della Fig. 21 e l’entità dello spostamento può essere minimo o grandissimo (fino a qualche migliaio di metri). Il movimento tra i blocchi può essere verticale, orizzontale sia verticale che orizzontale. Il dislivello verticale tra i blocchi prende il nome di rigetto ed è facilmente calcolabile, mentre la componente orizzontale del movimento non è sempre misurabile (Fig. 22). Il rigetto di una faglia avrà un valore massimo che degraderà fino ad annullarsi nel punto in cui la faglia termina, oppure potrà avere un valore costante per tutta la lunghezza della faglia se questa finisce bruscamente in un’altra faglia (Fig. 23). Altri elementi geometrici di una faglia sono il muro (la faccia rivolta verso l’alto) ed il tetto (la faccia rivolta verso il basso) (Fig. 24). La classificazione delle faglie rispetta un criterio genetico: osservando la Fig 24 si può vedere che in C e D il tetto si è abbassato rispetto al muro, mentre in A e B il tetto si è sollevato rispetto al muro. Le dislocazioni in C e D si dicono faglie dirette o normali, quelle in A e B si chiamano faglie inverse. Tra questi due tipi di faglie esistono delle differenze sostanziali, infatti nel primo caso si è in presenza di un fenomeno di distensione (i blocchi risultano allungati rispetto alla posizione originaria), nel secondo caso si è in presenza di compressioni (i blocchi presentano un raccorciamnento rispetto alla posizione originaria) (Fig. 25). Esiste anche un terzo tipo di faglie dove il movimento è orizzontale: tali faglie prendono il nome di faglie trascorrenti (Fig. 26), queste, a seconda del movimento relativo tra i due blocchi, si possono suddividere in destre o sinistre: ponendosi su un blocco, con lo sguardo rivolto verso il piano di faglia e guardando il movimento relativo del blocco opposto se questo va verso destra la faglia sarà destra e viceversa. Nelle rocce stratificate le faglie possono suddividersi in conformi e contrarie: si chiamano conformi quando l’immersione degli strati è nello stesso senso del piano di faglia, contrarie nel caso opposto. Se si tiene conto dell’angolo formato dal piano di faglia con l’orizzontale le faglie possono classificarsi in: verticali, inclinate, suborizzontali. In genere si verifica che i piani di faglia più inclinati si hanno nelle faglie dirette che nelle faglie inverse dove i piani di faglia posso avvicinarsi all’orizzontale. Se non esistono differenze di età tra le rocce situate al tetto e al muro, può diventare difficile riconoscere se una faglia è diretta o inversa, a volte si utilizzano le piegature che gli strati hanno subito a causa del movimento di scorrimento, come mostrato nella Fig. 27. Associazioni di faglie distensive Le faglie generalmente non sono mai isolate ma associate a sistemi. Le grandi associazioni di faglie distensive costituiscono alcuni tratti strutturali significativi. Visti in sezione i aggruppamenti di faglie distensive si presentano come gradinate di faglie (Fig. 28), che delimitano alternativamente zolle rialzate (pilastro tettonico - Horst) o ribassate (fossa tettonica - Graben). La profondità di tali faglie dipenderà dai materiali che la faglia stessa incontrerà in profondità: si estingueranno quando si troveranno ad 83 incontrare una zona plastica capace di ammortizzare lo scorrimento, oppure come per esempio in alcune fosse tettoniche un gruppo di faglie si smorzeranno contro quelle del gruppo principale, come mostrato in Fig. 29. In questi graben le faglie con immersione conforme a quelle principali si dicono sintetiche, faglie antitetiche quelle con immersione opposta. Uno dei più grandiosi sistemi di fosse tettoniche è quello dell’Africa orientale che si estende per oltre 3000 Km dall’Africa del sud al Mar Rosso (rift valley). In Europa esempi si hanno nell’Alta Valle del Reno, in Italia alcuni esempi si trovano a Cagliari, nell’Alta e Media Valle del Serchio, nel Medio corso del Tevere. Fig. 21 – Modi di presentarsi delle faglie (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 22 – Schema di una faglia (da: Trevisan e Giglia, 1974) 84 Fig. 23 – Terminazioni di faglie (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 24 – Stereogrammi di faglie: A, B faglie inverse; C D faglie dirette (da: Trevisan e Giglia, 1974) 85 Fig. 25 – Stereogrammi che mostrano la differenza tra faglie dirette (A) e faglie inverse (C) rispetto alla posizione originale (B) (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 26 – Faglie trascorrenti: D destra; S sinistra (da: Trevisan e Giglia, 1974) 86 Fig. 27 – Esempi di faglie con diversa inclinazione del piano di scorrimento (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig 28 – Schema di pilastro tettonico a sinistra (Horst) e di fossa tettonica a destra (Graben) (da: Trevisan e Giglia, 1974) 87 Fig. 29 – Meccanismo di formazione delle faglie antitetiche (da: Trevisan e Giglia, 1974) LE PIEGHE Le pieghe sono il tipo di deformazioni più comuni nelle rocce stratificate sottoposte a compressioni. Una prima classificazione delle pieghe le divide in anticlinali e sinclinali: le anticlinali sono delle pieghe semplici nelle quali il nucleo, cioè la parte concava, è costituito da terreni più antichi, le sinclinali sono quelle nelle quali il nucleo è costituito da terreni più recenti (Fig. 30). In una piega si chiama cerniera la zona dove la curvatura degli strati appare massima, fianchi sono i due versanti degli strati che convergono nella cerniera, i punti che uniscono la massima curvatura si dice linea di cerniera, la superficie che contiene tutti i punti da massima curvatura si dice superficie assiale se essa è piana si parlerà di piano assiale (Fig. 31). Sulla base di questi caratteri geometrici si possono raggruppare le pieghe in diversi tipi: flessura o monoclinale è rappresentata da un’improvvisa piegatura, gli strati hanno una lieve pendenza (Fig. 32 A), ma possono essere anche raddrizzati fino alla verticale, in questi casi si parlerà di pieghe a ginocchio (Fig. 32 B). In dipendenza del piano assiale le pieghe si possono dividere in simmetriche e asimmetriche, si definisce una piega simmetrica quella in cui il piano assiale è verticale (Fig. 33 A), mentre le pieghe il cui piano assiale non è verticale si dicono asimmetriche (Fig. 33 B). Se il fianco più ripido oltrepassa la verticale si ha una piega rovesciata (Fig. 33 C), se il piano assiale è suborizzontale la piega si dice coricata (Fig. 33 D). Se si considerano un pacco di strati sottoposti a compressione si possono avere due meccanismi di formazione delle pieghe: nel caso in cui ogni strato scorrerà sull’altro senza grosse variazioni di spessore si parlerà di pieghe concentriche (Fig. 34 B), nel caso in cui i vari strati rimarranno uniti con variazioni di spessore e forma si parlerà di piega simile (Fig. 34 C), in questo caso gli strati subiranno una laminazione nei fianchi, fino ad arrivare ad una rottura del materiale in senso verticale che viene chiamato clivaggio (Fig. 34 D). LE PIEGHE-FAGLIE E SOVRASCORRIMENTI Tra una piega rovesciata ed una faglia inversa esiste tutta una serie di gradazioni che vanno dallo stiramento, alla laminazione sino alla rottura del fianco inverso di una piega, con trascinamento delle rocce situate sui due lati della faglia; queste deformazioni nelle quali sono associati i caratteri delle pieghe e delle faglie vengono indicati con il nome di pieghe-faglie (Fig. 35). La formazione di una piega-faglia può 88 avvenire in due modi diversi: inizialmente si può formare una piega che può evolvere con una rottura in una faglia; altra spiegazione può essere: la faglia è la deformazione iniziale, durante il trascinamento dei due blocchi della faglia, gli strati vengono piegati. In questa ultima ipotesi quando siamo in presenza di faglie dirette con piano su orizzontale si parlerà di sovrascorrimento (Fig. 36). Fig. 30 – Schemi di anticlinali (a e a’) e sinclinali (b e b’) (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 31 – Caratteristiche geometriche di una piega (da: Trevisan e Giglia, 1974) 89 Fig. 32 – Schema di monoclinale (A) e di piega a ginocchio (B) (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 33 – Classificazioni delle pieghe (da: Trevisan e Giglia, 1974): A - piega simmetrica B - piega asimmetrica C - piega rovesciata D – piega coricata 90 Fig. 34 – Schema di piega concentrica (B), piega simile (C) e meccanismo di formazione del clivaggio (D) (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 35 – Schemi di piega-faglia: a sinistra piega-faglia diretta; a destra piega-faglia inversa (da: Trevisan e Giglia, 1974) 91 Fig. 36 – Due possibili modalità di formazione di sovrascorrimenti (da: Trevisan e Giglia, 1974) LA TETTONICA A PLACCHE Secondo la teoria della tettonica a placche la superficie terrestre può essere suddivisa in un certo numero di placche in continuo movimento relativo. I limiti di tale placche che possono comprendere aree continentali ed oceaniche sono rappresentate da un lato dalle dorsali oceaniche dove si forma nuova crosta, attraverso continue iniezioni basaltiche (Fig. 37) e dall’altro dalle fosse oceaniche, dove i lembi di una placca si immergono al di sotto di un’altra e dove in definitiva si ha consunzione di crosta (Fig. 38). Lungo questi allineamenti si hanno gli esempi dei più forti terremoti e vulcani. Il motore principale di questi movimenti, secondo la teoria, è dovuto alla presenza di cellule convettive poste nella parte superiore del mantello (astenofera) che produrrebbe tali spostamenti della crosta e di parte del mantello (litosfera). Queste placche non si muoverebbero solo allontanandosi o avvicinandosi, ma si sposterebbero anche le une rispetto alle altre a causa di faglie dette trasformi (esempio tipico nella dorsale medio-atlantica, Fig. 39). Questa teoria spiegherebbe l’attuale posizione dei continenti: una possibile evoluzione e riportata in Fig. 40. Inoltre si spiegherebbero anche le orogenesi (formazione delle catene montuose) avvenute. In particolare placche convergenti producono la formazione di catene montuose, se siamo in presenza di una placca con crosta oceanica e una con crosta continentale (montagne rocciose in America, catena alpina-Himalayana), producono fosse oceaniche e consunzione della crosta se siamo in presenza di due placche con crosta oceanica (arco giapponese); placche divergenti producono dorsali oceaniche e formazione di nuova crosta (dorsale medio-atlantica). 92 Fig. 37 – Schema di dorsale oceanica con formazione di nuova crosta e cellule convettive (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 38 – Schema di fossa tettonica con consunzione di crosta (da: Trevisan e Giglia, 1974) 93 Fig. 39 – Schema di faglia trasforme (da: Trevisan e Giglia, 1974) Fig. 40 – Diversi momenti dell’evoluzione della crosta: sono mostrati le dorsali oceaniche, le faglie trasformi, le fosse oceaniche; le frecce indicano i movimenti delle placche (da: Trevisan e Giglia, 1974) 94 ELEMENTI DI GEOMORFOLOGIA La geomorfologia studia le forme della superficie terrestre e le cause fondamentali che le hanno create, nelle quali possiamo citare: il clima, la litologia, le neotettonica, l’uomo, ecc. In generale si possono individuare diverse fasi temporali che costituiscono il processo geomorfologico: la fase di erosione, di trasporto e di accumulo. Tali fasi sono caratterizzate da diversi agenti, che schematicamente possono essere individuati in: − agenti di erosione: acqua, temperatura, vento, ghiacciai, gravità, uomo, organismi, radici, ecc.; − agenti di trasporto: gravità, vento, acqua, ghiacciai, ecc. In considerazione dei diversi agenti che influiscono sui processi geomorfologici, nel seguito si illustreranno le forme, i processi ed i relativi depositi formati dai vari agenti ed in particolare verranno trattati: − forme, processi e depositi gravitativi; − forme, processi e depositi delle acque; − forme, processi e depositi carsici; − forme, processi e depositi glaciali; − forme, processi e depositi crionivali; − forme, processi e depositi eolici; − forme, processi e depositi di origine marina, lagunare e lacustre; − forme antropiche. FORME, PROCESSI E DEPOSITI GRAVITATIVI In questo ambito vengono studiati i movimenti franosi: per analizzare un evento franoso è necessario tener conto di alcuni fattori, che sono la causa dell’evento stesso. I fattori sono sostanzialmente di tre tipi, che possono essere riscontrati in ogni forma della superficie terrestre. Primo fattore sono gli agenti del modellamento, che sono gli elementi propri delle forze esogene. Sono agenti del modellamento la forza di gravità, l’acqua, il ghiaccio, il vento, l’azione dell’uomo; ogni morfologia della superficie terrestre risulta più o meno modificata da essi. Le condizioni climatiche, tra cui l’umidità dell’aria, la pressione atmosferica, le radiazioni solari, le precipitazioni, la temperatura che sono in diversa misura responsabili del modellamento della superficie terrestre. Il clima inoltre ha anche un’influenza indiretta attraverso la vegetazione. Ultimi sono i fattori strutturali che comprendono la tettonica (ivi compresi gli eventi sismici) e la litologia. La Fig. 41 rappresenta sinteticamente tutti i fattori che, direttamente o indirettamente, possono essere causa di eventi franosi. 95 Fig. 41 - Fattori che possono causare eventi franosi La Fig. 42 illustra schematicamente un esempio di fenomeno franoso, la sua suddivisione ed i suoi riferimenti fondamentali: Fig. 42 - Esempio schematico di un fenomeno franoso 1) punto sommitale del coronamento: punto più alto del contatto fra coronamento e scarpata principale 2) coronamento: materiale rimasto in posto e quasi indisturbato, adiacente alle parti più alte della scarpata principale 3) scarpata principale: superficie, generalmente ripida, che delimita l’area quasi indisturbata circostante la parte sommitale della frana, generata dal movimento del materiale spostato. Rappresenta la parte visibile della superficie di distacco 4) zona di distacco: parte della frana dove il materiale spostato giace al di sotto della superficie originaria del versante 5) fianco: materiale non spostato adiacente ai margini del corpo di frana 6) zona di accumulo: zona dove si accumula il materiale franato 96 7) testata: parti più elevate del corpo di frana, lungo il limite fra questo e la scarpata principale 8) punto sommitale della testata: punto più alto del contatto fra scarpata principale e testata 9) scarpata secondaria: ripida superficie presente nel materiale spostato della frana, prodotta da movimenti differenziali all’interno del materiale spostato stesso 10) unghia: margine inferiore, generalmente curvo, del materiale spostato della frana, situato alla maggior distanza dalla scarpata principale 11) piede: porzione della frana che si trova a valle della superficie di distacco 12) superficie di distacco: superficie che forma il limite inferiore del materiale spostato sotto la superficie originaria del versante 13) materiale sposato: materiale spostato dalla sua posizione originaria sul versante a causa del movimento della frana 14) superficie originaria del versante: superficie del versante che esisteva prima che avvenisse il movimento franoso 15) corpo di frana: parte del materiale spostato che ricopre la superficie di distacco A seconda delle caratteristiche del terreno e dei fattori che contribuiscono a darne origine, le frane possono essere suddivise in cinque gruppi: - CROLLI (Fig. 43) Si definisce crollo una frana nella quale la massa coinvolta compie il suo movimento prevalentemente in aria. Tale fenomeno consiste nella caduta libera, nel movimento a salti e rimbalzi e nel rotolamento di frammenti di roccia o di terreno. Fig. 43 - Crollo - RIBALTAMENTI (Fig. 44) Il movimento è dovuto a forze che causano un moto ribaltante attorno ad un punto di rotazione situato al di sotto del baricentro della massa interessata. Qualora il fenomeno non venga frenato, può evolvere in un crollo o in uno scorrimento. 97 Fig. 44 – Ribaltamento - SCIVOLAMENTI O SCORRIMENTI (Fig. 45) Il movimento comporta uno spostamento per taglio lungo una o più superfici. Le frane di scorrimento si suddividono in a) rotazionali: movimento rotatorio attorno ad un punto posto al di sopra del centro di gravità della massa. La superficie di rottura si presenta concava verso l’alto; b) traslativi: il movimento si verifica in prevalenza lungo una superficie più o meno piatta o debolmente ondulata, corrispondente frequentemente a discontinuità strutturali, passaggi tra strati di diversa composizione litologica, contatto tra roccia in posto e terreni sovrastanti. Fig. 45 - Scivolamento rotazionale (a), scivolamento traslativo (b) - COLATE (Fig. 46) Il fenomeno si produce con movimenti entro la massa spostata. Le superfici di scorrimento nella massa che si muove non sono generalmente visibili, oppure hanno breve durata. Il movimento varia da estremamente rapido a estremamente lento. 98 Fig. 46 - Colata - ESPANSIONI LATERALI (Fig. 47) I movimenti di espansione laterale, diffusi in una roccia fratturata, possono verificarsi secondo due modalità: a) non si riconosce né una superficie basale di scorrimento, né una zona di deformazioni plastiche ben definite; b) l’espansione laterale della roccia è dovuta alla liquefazione o alle deformazioni plastiche del terreno incoerente sottostante. Fig. 47 - Espansione laterale I cinque casi di fenomeni franosi citati sono esempi di frane dette non complesse. Vi sono inoltre altri fenomeni (detti complessi) il cui movimento risulta dalla combinazione di due o più frane non complesse. In questi casi, però, generalmente un tipo di movimento tende sempre a predominare, spazialmente e/o temporalmente, sugli altri. I movimenti franosi possono essere classificati anche in base allo loro attività: in particolare si possono avere frane attive, quiescenti ed inattive. Vengono definite frane attive quelle nelle quali i processi che le hanno generate risultano in atto al momento del rilevamento o ricorrono con un ciclo il cui periodo massimo non supera quello stagionale, si definiscono frane quiescenti quelle forme non attive al momento del rilevamento e prive di periodicità stagionale, per le quali però esistono dati che ne dimostrino l’attività passata nell’ambito dell’attuale sistema morfodinamico e che abbiano oggettive possibilità di riattivazione, infine si definiscono 99 inattive le frane che hanno esaurito il corso della loro evoluzione e non hanno la possibilità di potersi riattivare nel presente contesto morfoclimatico. Nella Tav. 1 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme di versante dovute alla gravità, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. 100 Tav. 1 - Forme di versante dovute alla gravità FORME, PROCESSI E DEPOSITI DELLE ACQUE In questo ambito vengono studiate le azioni prodotte dalle acque, principalmente dalle acque superficiali e quindi sia dai fiumi sia dalle acque che scorrono non incanalate lungo i versanti. Le acque producono sia un’azione di erosione, sia una azione di trasporto e quindi un’azione di deposito: l’erosione può essere di tipo chimico, in quanto l’acqua può dissolvere alcuni minerali; di tipo corrosivo, a causa del materiale trasportato; di cavitazione, a causa delle pressioni dell’acqua sulle pareti attraversate ed infine di ruscellamento, dovuto alle acque che scorrono liberamente sui versanti. Importanti sono le azioni di trasporto, che possono produrre sia un modellamento dei materiali trasportati (arrotondamento dei granuli), sia una selezione granulometrica dei materiali stessi in dipendenza della velocità delle acque. Le azioni di deposito sono quelle che formano i depositi stessi, che vengono catalogati in base allo loro granulometria (argilla, sabbia, ghiaia, ciottoli e blocchi) o in base alla loro forma (conoide alluvionale, ventaglio di esondazione). Nella Tav. 2 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme fluviali, fluvioglaciali e di versante dovute al dilavamento, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. 101 102 103 Tav. 2 - Forme fluviali, fluvio-glaciali e di versante dovute al dilavamento 104 FORME, PROCESSI E DEPOSITI CARSICI Il fenomeno carsico si manifesta in presenza di rocce calcaree ed è dovuto all’azione erosiva che le acque possono avere su tali materiali. L’equilibrio chimico che regola tale meccanismo, come già detto nel caso di rocce carbonatiche è legato da: CaCO3 + CO2 + H2O = Ca(HCO3)2 quindi un arricchimento di anidride carbonica nelle acque favorisce la formazione di bicarbonato di calcio solubile e di conseguenza lo scioglimento del carbonato di calcio. Come si è visto è possibile anche il fenomeno opposto: qualunque causa sottragga CO2 all’acqua favorisce la deposizione del carbonato. Le cause possono essere la diminuzione parziale della pressione atmosferica, agitazione delle acque, aumento della temperatura, diminuzione della pressione idrostatica. Si formano così i travertini e gli alabastri, in ambiente continentale, allo sbocco di sorgenti di acque calcaree in conseguenza della perdita di pressione che favorisce la dispersione dell’anidride carbonica e la precipitazione di carbonato, nel primo caso; o, con analogo meccanismo, in grotte e fessure carsiche, nel secondo caso. L’erosione chimica produce forme sia superficiali che profonde: tra le prime si ricordano le doline che sono delle cavità superficiali, generalmente rotondeggianti; i polje che sono un’insieme di doline e i canyon, che hanno l’aspetto di profonde depressioni. Tra le forme profonde si ricordano le grotte e i pozzi. Nella Tav. 3 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme carsiche, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. 105 106 Tav. 3 – Forme carsiche FORME, PROCESSI E DEPOSITI GLACIALI I ghiacciai possono essere classificati, a seconda delle loro dimensioni, a partire da dimensioni maggiori a quelle inferiori, in inlandis o ghiacciai a calotta, calotte minori (es: Islanda), ghiacciai pedemontani (es: Alaska), e ghiacciai vallivi (es: Italia). I ghiacciai producono un’attività di erosione, di trasporto e di deposito. In particolare la loro azione erosiva è concentrata nel fondo del ghiacciaio o nelle pareti laterali se il ghiacciaio è incanalato, la loro azione di trasporto avviene sia nel fondo, sia nel corpo, sia in superficie e l’azione di deposito si produce durante il ritiro o lo scioglimento del ghiacciaio stesso. I depositi dovuti ai ghiacciai, a differenza di quelli fluviali, non sono classati ed i granuli non presentano arrotondamenti, in quanto il ghiacciaio trasporta e deposita il materiale senza produrre cambiamenti. Questi depositi sono classificati in: morene superficiali, se il materiale è stato trasportato dal ghiacciaio nella sua parte superiore; morene interne, se il materiale è stato trasportato dal ghiacciaio nella sua parte interna; massi erratici, quando si ha la presenza di blocchi isolati. Nella Tav. 4 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme glaciali, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. 107 108 Tav. 4 – Forme glaciali FORME, PROCESSI E DEPOSITI CRIONIVALI Vanno sotto il termine di forme, processi e depositi crionivali quelli prodotti dal gelo e dalla presenza della neve. In questo caso si può parlare di fasi di erosione e di deposito: l’erosione può essere sia di tipo meccanico sia di tipo chimico, ed è generalmente accentuata dalla mancanza di vegetazione. Fattori particolarmente importanti, nella fase di erosione, sono i processi di gelifrazione, che si possono avere nelle fratture delle rocce e che portano a fenomeni di gelo e disgelo delle acque, che aumentando di volume producono pressioni alle pareti che favoriscono la rottura dei materiali. Altro fenomeno importante è il ruscellamento delle acque, derivanti dallo scioglimento delle nevi, che produce un dilavamento dei versanti e relative erosioni. Questi processi producono sia forme particolari di accumuli, sia depositi, come le colate di blocchi, le nivomorene e i coni da valanga di detriti. 109 Nella Tav. 5 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme crionivali, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. Tav. 5 – Forme crionivali 110 FORME, PROCESSI E DEPOSITI EOLICI Le forme, i processi e i depositi eolici sono causati dal vento, che opera sia una erosione, sia un trasporto e sia un deposito. Questi processi assumono particolare rilevanza in zone desertiche o in aree costiere. Nella Tav. 6 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme eoliche, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. Tav. 6 – Forme eoliche 111 FORME, PROCESSI E DEPOSITI DI ORIGINE MARINA, LAGUNARE E LACUSTRE In questo ambito vengono prese in considerazione le forme legate alle linee di costa, alle spiagge, alle lagune costiere, considerando sia le azione di erosione delle acque, sia i depositi presenti. Anche in questo caso i depositi sono distinti per granulometrie: argille, sabbie, ghiaie, ciottoli e blocchi. Nella Tav. 7 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme di origine marina, lagunare e lacustre e relativi depositi, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. 112 113 114 Tav. 7 - Forme di origine marina, lagunare e lacustre e relativi depositi FORME ANTROPICHE In questo settore si prendono in considerazione le forme di modellamento morfologico effettuate da attività umane, come ad esempio i muri di sostegno, le cave e miniere, le discariche, i terrapieni, le opere fluviali, le dighe, i canali, le opere marittime. Nella Tav. 8 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme antropiche, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994. 115 116 117 Tav. 8 – Forme antropiche 118 ELEMENTI DI GEOTECNICA La geotecnica considera il comportamento delle terre nella sede naturale e delle terre utilizzate come materiali da costruzione nella realizzazione dei rilevati. Nelle terre la fase solida (particelle o grani) è discontinua ed i pori possono essere occupati o da una fase liquida (in genere acqua), in questo caso si parlerà di mezzo bifase, oppure da una fase liquida e gassosa (in genere aria) e si parlerà di mezzo trifase (Fig. 48). Nelle terre i fattori preponderanti sono la granulometria e la consistenza, parametri che possono essere valutati utilizzando sia le prove in situ, sia le prove in laboratorio. Fig. 48 – Sezione schematica e fasi costituenti di un elemento di una terra (da: Lancellotta, 1987) CARATTERISTICHE FISICHE Al fine di effettuare una prima caratterizzazione delle terre si adottano i seguenti parametri, che dipendono dalle tre fasi presenti (solida, liquida e gassosa): − il volume totale V che è la somma dei volumi delle singole fasi, con Vs volume delle particelle, Vw volume dell’acqua, Vg volume dell’aria: V = Vs + Vw + Vg − la porosità n che si esprime in percentuale ed è pari al rapporto tra il volume dei vuoti (Vv = Vg + Vw) ed il volume totale: n = (Vv / V) 100 − l’indice dei vuoti e che è definito dal rapporto tra il volume dei vuoti ed il volume della fase solida: e = Vv / Vs − la densità relativa D che si esprime in percentuale ed è data dal rapporto tra l’indice dei vuoti e, l’indice dei vuoti nelle condizioni massime emax e l’indice dei vuoti nelle condizioni minime emin: 119 D = (emax – e) / (emax – emin) 100 − il grado di saturazione S che si esprime in percentuale ed è pari al rapporto tra il volume occupato dall’acqua Vw ed il volume dei vuoti Vv: S = (Vw / Vv) 100 con S = 100% si ha un terreno saturo, con S = 0% si ha un terreno asciutto − il contenuto di acqua w che si esprime in percentuale ed è definito come il rapporto tra il peso dell’acqua Ww e quello delle particelle Ws: w = (Ww / Ws) 100 − peso specifico dell’acqua che si esprime in kN/m3: γw − peso unità di volume che si esprime in kN/m3: γ=W/V − peso specifico dei grani che si esprime in kN/m3: γs = Ws / Vs − peso specifico secco che si esprime in kN/m3: γd = Ws / V − peso volume saturo che si esprime in kN/m3: γsat = γs (1 – n) + n γw PROVE IN SITU ED IN LABORATORIO La caratterizzazione geotecnica di una terra comprende la definizione della stratigrafia di dettaglio e l’individuazione delle caratteristiche strutturali, la determinazione delle condizioni della falda, la determinazione delle caratteristiche di permeabilità, la determinazione delle caratteristiche meccaniche. A tal fine ci si avvale di prove in situ ed in laboratorio su campioni indisturbati. I vantaggi delle prove in situ rispetto a quelle di laboratorio risiedono in una maggior rapidità ed economicità, nell’ottenere un andamento continuo delle caratteristiche geotecniche con la profondità, nell’investigare un volume maggiore di terreno, nella maggiore attendibilità dei parametri di deformabilità e di permeabilità. Di contro però è da sottolineare che alcuni parametri possono essere desunti sola da prove di laboratorio, si può concludere che le prove in situ ed in laboratorio devono essere viste come due procedure complementari e solo se praticate in parallelo possono accrescere in modo sostanziale la conoscenza del comportamento delle terre. 120 PROVE IN SITU Rientrano nelle prove in situ gli scavi , che possono essere distinti in: − trincee: scavo a mano o con mezzi meccanici, generalmente si investiga una profondità di 2-4 m, massimo 8 m; − gallerie e cunicoli: generalmente con scavo a mano, con armature o murature di sostegno; − pozzi: generalmente con scavo a mano, con armature o murature di sostegno. Gli scavi hanno lo scopo di consentire l’osservazione diretta della struttura del sottosuolo, di determinare le proprietà geotecniche del sottosuolo anche mediate l’esecuzione di prove in situ, di fornire informazioni sulle acque del sottosuolo, di consentire il prelievo di campioni. Gli svantaggi di queste prove sono dovuti alle difficoltà di esecuzione che crescono molto rapidamente con la profondità, alla necessità di armature e muri di sostegno, ai tempi di esecuzione lunghi, al pericolo di cedimenti e di inquinamento di falde, alla difficoltà di ripristino delle condizioni originarie. Altre prove in situ sono le perforazioni di sondaggio o sondaggi che possono essere classificati in: − perforazione a percussione: l’utensile di perforazione viene infisso nel terreno o per caduta dello strumento o per mezzo di una massa battente, l’impiego di questo metodo è in genere limitato alle perforazioni nelle terre a grana grossa, la profondità massima usuale è di 60 m, date le modalità di perforazione è impossibile prelevare campioni indisturbati; − perforazione a rotazione: la perforazione è eseguita mediante un utensile che ruota sul fondo del foro, può essere adottato su qualsiasi tipo di terreno escluse le terre a grana grossa, per eseguire il foro è spesso indispensabile la circolazione di un fluido, le profondità raggiunte possono essere di 150 m, l’utensile di perforazione più semplice è il carotiere semplice che è costituito da un tubo di acciaio con una corona tagliente alla estremità e la qualità dei campioni è generalmente discreta, altro utensile di perforazione è il carotiere doppio, costituito da due tubi concentrici di cui solo il tubo esterno ruota, il tubo interno raccoglie il campione evitando che esso venga a contatto con la parete rotante e proteggendolo dall’azione dilavante del fluido (Fig. 49), per questo motivo la qualità dei campioni raccolti è buona, nel caso non sia necessario recuperare campioni, si può ricorrere alla perforazione a distruzione utilizzando scalpelli o triconi; − perforazione a trivella: l’utensile di perforazione consiste in una vite senza fine che avanza per rotazione, questo metodo è limitato nelle terre di media resistenza o in strati cementati, le profondità massime raggiungibili sono dell’ordine di 40 m, i campioni raccolti sono fortemente disturbati. I sondaggi hanno lo scopo di ricostruire il profilo stratigrafico, di consentire il prelievo dei campioni, di consentire le misurazioni delle acque sotterranee, di determinare le proprietà geotecniche del sottosuolo anche mediate l’esecuzione di prove in situ. I vantaggi di tali prove risiedono nella possibilità di attraversare qualunque terreno, anche a grande profondità, nei tempi di esecuzione relativamente brevi, nella facilità delle operazioni di occlusione e ripristino del terreno. Gli svantaggi sono nel pericolo di non riconoscere eventuali strati di terreno di piccolo spessore, nella difficoltà di campionamento in terreni incoerenti a grana grossa, nella possibile caduta di detriti 121 sul fondo, nella possibile penetrazione nel terreno del fluido di perforazione, nel possibile dilavamento del terreno a causa dell’acqua immessa nel foro, nell’impossibilità di eseguire tali prove a grande scala. Fig. 49 – Schema di funzionamento di un campionatore (da: AGI, 1977) 122 Per ottenere le proprietà fisiche e meccaniche delle terre devono essere prelevati campioni il più possibile indisturbati. Esiste una classificazione che suddivide i campioni in classi di qualità: Q1, Q2, Q3 sono campioni disturbati o rimaneggiati; Q4 sono campioni a disturbo limitato; Q5 sono i campioni indisturbati. E’ chiaro che in base al disturbo dei campioni diverse possono essere le informazioni che si possono ottenere: una sintesi di tali rapporti è mostrata in Fig. 50. Fig. 50 – Grado di qualità dei campioni e caratteristiche geotecniche determinabili (da: AGI, 1977) Altre prove in situ sono le prove penetrometriche statiche (CTP), queste prove consistono nella misura della resistenza alla penetrazione di una punta conica, infissa a velocità costante nel terreno. In base al dispositivo di misura dello sforzo si distinguono i penetrometri elettrici nei quali lo sforzo è misurato mediante dispositivi elettrici montati sulla punta e i penetrometri meccanici per i quali lo sforzo per l’infissione della punta (Fig. 51) è misurato mediante manometri collegati al martinetto che esercita la spinta. Queste prove di norma non vengono spinte oltre una profondità di 60 m dalla superficie. Le terre che possono essere investigate da tali prove sono tutte quelle comprese tra le argille e le sabbie. I risultati sono espressi sottoforma di resistenza all’avanzamento della punta (Rp), resistenza all’avanzamento laterale (Rl) e resistenza totale (Rt). Da questi dati si possono ricavare alcuni parametri importanti per la caratterizzazione geotecnica delle terre ed in particolare: F = Rp / Rl valore che dipende dalla composizione granulometrica, schematicamente si possono utilizzare tali valori per fornire una prima classificazione granulometrica: Terre Torbe ed argille organiche Limi ed argille Limi sabbiosi e sabbie limose Sabbie e sabbie con ghiaie F < 15 15 - 30 30 - 60 > 60 123 E’ possibile anche avere informazioni della resistenza al taglio (cu) in condizioni non drenate delle terre coesive (limi ed argille) applicando la formula: cu = Rp / Ncp dove Ncp è un coefficiente adimensionale compreso tra 15 e 25. Fig. 51 – Punta di un penetrometro (da: AGI, 1977) 124 Altre prove in situ sono le prove penetrometriche dinamiche (SPT) che consistono nell’infissione a percussione di un campionatore che, penetrando nel terreno, consente di valutarne la resistenza meccanica alla penetrazione espressa come N numero dei colpi di un apposito maglio per un dato avanzamento e di prelevare piccoli campioni. Tale prova risulta significativa nelle terre prevalentemente sabbiose, meno significativa nelle terre limo-argillose ed ha uno scarso significato in terreni ghiaiosi. Le prove penetrometriche dinamiche continue con punta conica, invece, possono essere applicate a tutti in tipi di terreno sia coesivo, sia granulare (dalle argille alle ghiaie). La prova consiste nella misura della resistenza alla penetrazione di una punta conica, infissa per battitura nel terreno, per mezzo di un idoneo dispositivo di percussione. Queste prove vengono chiamate continue in quanto le misure vengono effettuate durante tutta l’infissione. La prova consiste nell’infiggere la punta conica nel terreno per tratti consecutivi di 30 cm misurando il numero di colpi necessari (Np), dopo 30 cm di penetrazione della punta deve essere infisso il rivestimento rilevando ancora il numero di colpi (Nr). Anche le prove scissiometriche sono considerate prove in situ. In questo caso la finalità è quella di ottenere valori di resistenza al taglio non drenata dei terreni coesivi saturi, questa prova viene eseguita nei terreni coesivi da teneri a mediamente compatti, la profondità che può essere raggiunta non supera in genere i 30 m dal piano campagna. La prova consiste nell’infiggere nel terreno una paletta-scissiometro costituita da 4 rettangoli di lamiera (Fig. 52), applicare una torsione fino alla rottura del terreno e misurare gli sforzi necessari. Con queste informazioni è possibile valutare la resistenza al taglio o coesione non drenata (cu) mediante: cu = 6T / 7πd3 dove T è il momento torcente e d sono le dimensioni del cilindro creato dalla paletta. Nel caso in cui si voglia misurare la distribuzione dei valori della pressione dell’acqua contenuta nei vuoti di una terra si devono utilizzare apparecchiature quali i piezometri (Fig. 53). Questi sono costituiti da tubi di metallo o di materiale plastico posti in fori nel terreno. Per la misura del livello dell’acqua nel tubo piezometrico si usano scandagli elettrici. Queste apparecchiature sono valide nel campo di terre permeabili o molto permeabili. Nel caso in cui si voglia misurare il coefficiente di permeabilità di un terreno si devono effettuare prove di emungimento, dove, utilizzando un sondaggio, si emunge, con pompe o altri sistemi, una portata di acqua costante. Durante il pompaggio si misurano il livello dell’acqua nel foro ed i livelli della falda nella zona adiacente il foro stesso. La prova deve essere eseguita in condizioni di regime, per cui la durata delle prove è sempre di alcuni giorni. Il valore del coefficiente di permeabilità può essere ottenuto anche utilizzando prove di immissione, dove, sempre in un sondaggio, si può riempire il foro di acqua per un’altezza nota e si misura la velocità di abbassamento del livello dell’acqua. 125 Fig. 52 – Esempio di scissiometro (da: AGI, 1977) 126 Fig. 53 – Esempio di piezometro (da: AGI, 1977) PROVE DI LABORATORIO Le prove basilari che vengono eseguite su un campione di terreno consistono nelle prove di classificazione che sono riassunte nelle analisi granulometriche e nelle analisi finalizzate alla individuazione dei limiti di Atterberg. L’analisi granulometrica serve a determinare le dimensioni delle particelle che compongono un campione di terra e a stabilire le percentuali in peso delle varie frazioni che rientrano entro i limiti prefissati. L’importanza di conoscere le dimensioni delle particelle deriva dal fatto che nel caso di terreni a grana grossa il comportamento del materiale può essere correlato a tale informazione, ad esempio le caratteristiche di permeabilità, i fenomeni di capillarità, l’angolo di resistenza al taglio sono correlati alla granulometria del terreno. Per ottenere le varie frazioni granulometriche si usano dei setacci con caratteristiche standardizzate e l’analisi granulometrica mediante setacci fornisce la curva granulometrica, dove in un diagramma semilogaritmico, si riportano in ascisse il diametro delle particelle ed in ordinate la percentuale in peso delle particelle con diametro inferiore (Fig. 54). 127 Fig. 54 – Esempio di curva granulometrica (da: Lancellotta, 1987) La pendenza della curva ottenuta fornisce un’idea dell’uniformità del terreno, quanto più la curva è verticale tanto più omogeneo è il campione esaminato. Il grado di uniformità viene caratterizzato da un coefficiente detto coefficiente di uniformità che è dato da: C = D60 / D10 dove D60 è il diametro corrispondente al 60% di passante e D10 è il diametro corrispondente al 10% di passante. Diversi possono essere i sistemi di classificazione granulometriche, in Fig. 55 riporta alcuni di questi sistemi, come si può vedere i limiti tra ghiaie, sabbie, limi ed argille non sono omogenei nei vari sistemi, in Italia generalmente viene adottata la classificazione proposta dall’AGI. Fig. 55 – Sistemi di classificazione (da: Lancellotta, 1987) 128 Un terreno a grana fine (limi ed argille) può presentarsi in quattro differenti stati fisici in dipendenza del suo contenuto di acqua, che chiaramente influisce sulle caratteristiche di compressibilità e resistenza al taglio. La Fig. 56 schematizza i quattro possibili stati fisici e definisce il contenuto d’acqua corrispondente ai vari passaggi (limiti di Atterberg). Fig. 56 – Limiti di Atterberg (da: Lancellotta, 1987) Il limite liquido (wL) è il contenuto d’acqua in corrispondenza del quale il terreno possiede una resistenza al taglio così piccola che un solco, praticato in un campione, si richiude quando il cucchiaio che lo contiene è sollecitato con dei colpi. Il limite plastico (wP) è il contenuto d’acqua in corrispondenza del quale la terra inizia a perdere il suo comportamento plastico, viene determinato formando dei bastoncini dello spessore di 3.2 mm che iniziano a fessurarsi in corrispondenza del valore del limite plastico.Il limite di ritiro (wS) rappresenta il contenuto di acqua al di sotto del quale una perdita di acqua non comporta alcuna riduzione di volume, e viene determinato essiccando progressivamente il campione, da cui vengono misurati di volta in volta il volume ed il contenuto in acqua. Con questi valori è possibile ricavare alcuni indici di consistenza quali l’indice di plasticità definito: PI = wL – wP che indica il campo di variazione del contenuto in acqua entro il quale il terreno ha un comportamento plastico; l’indice di liquidità definito: LI = (wN – wP) / PI dove wN è il contenuto di acqua allo stato naturale, e da un’idea della consistenza di un deposito; l’indice di consistenza definito come: IC = (wL – wN) / PI ad un aumento di IC corrispondono un incremento della resistenza al taglio ed una riduzione della compressibilità. 129 Avendo a disposizione questi parametri e mettendo in relazione il limite di liquidità e l’indice di plasticità e possibile effettuare una classificazione dei terre fini, come mostrato in Fig. 57. Una spiegazione dei simboli presenti nella figura è presentata in Fig. 58, che riguarda la classificazione unificata di tutte le terre. Queste sono divise in 5 gruppi: due a grana grossa e cioè ghiaie (G) e sabbie (S) e tre a grana fine e cioè i limi inorganici (M), le argille inorganiche (C), le argille ed i limi organici (O). Ognuno di questi gruppi è ulteriormente suddiviso in sottogruppi: per le ghiaie e le sabbie se la percentuale di fino è inferiore al 5% e sono ben assortite si aggiunge il simbolo W, viceversa se sono poco assortite si aggiunge il simbolo P, se la percentuale di fine è maggiore del 12% e si ha un indice di plasticità minore del 4% si aggiunge il simbolo M, se l’indice di plasticità è superiore al 7% si aggiunge il simbolo C. I terreni a grana fine sono invece distinti in base alla carta di plasticità (Fig. 57) ed in sottogruppi sulla scorta del valore del limite liquido: se questo valore è maggiore del 50% si aggiunge il simbolo H, se è minore si aggiunge il simbolo L. Fig. 57 – Carta di plasticità adattata al sistema unificato (da: Lancellotta, 1987) Fig. 58 – Classificazione del Sistema Unificato (da: Lancellotta, 1987) 130 Altre prove di laboratorio sono finalizzate a valutare le proprietà meccaniche e quindi le proprietà di resistenza e deformabilità di una terra. A tal fine i campioni vengono sottoposti a tensioni, che possono essere normali (σ) o di taglio (τ), e vengono valutate le deformazioni che anch’esse possono essere normali (ε) o di taglio (γ). Nel caso di tensioni normali questi possono essere applicati nelle tre direzioni dello spazio e quindi si avranno σ1, σ2, σ3, conseguentemente si avranno tre deformazione sempre orientate nello spazio ε1, ε2, ε3. Conoscendo i valori delle tensioni e i valori delle deformazioni si possono calcolare alcuni parametri significativi del comportamento delle terre, quali: − modulo di Young o di deformazione logitudinale: E = σ / ε (kPa) − modulo di deformazione tangenziale: G = τ / γ (kPa) − modulo di compressibilità: K = σ / (∆V/V) (kPa) − coefficiente di Poisson: υ = (ε2 – ε3) / ε1 E’ da sottolineare che il comportamento dei terreni, in presenza di sollecitazioni, è complicato da fatto che essi sono materiali multifase, e quindi la loro risposta in termini di compressibilità e di resistenza al taglio dipende dalla interazione che si sviluppa all’interno della massa tra le varie fasi. In particolare in un terreno saturo si può vale il principio degli sforzi efficaci se segue la relazione: σ = σ’ + u dove σ rappresentano le tensioni totali che sono date dalla somma di u che rappresenta la tensione che agisce sull’acqua e sui grani in ogni direzione con uguale intensità ed è chiamata pressione neutra, σ’ è la tensione che è sopportata interamente dalla fase solida ed è chiamata tensione efficace. Dato che un cambio delle pressioni neutre non produce un cambio di volume né ha influenza sulle condizioni tensionali che provocano la rottura e che i materiali porosi reagiscono ad un cambio della u come materiali incompressibili, ne deriva che gli effetti prodotti da un cambio di tensioni, come una compressione, una distorsione ed una variazione della resistenza al taglio sono dovute interamente ad un cambio delle tensioni efficaci. Ne consegue che per valutare il comportamento di un materiale saturo sotto sollecitazione è necessario conoscere sia le tensioni totali sia le pressioni neutre. Diverse possono essere le rappresentazioni tra tensioni e deformazioni, alcuni esempi sono riportati nelle Fig. 59 e 60, dove in Fig. 59 viene rappresentata la relazione tra tensioni e deformazioni normali, mentre in Fig. 60 vengono rappresentate le relazioni, con due prove, tra le tensioni normali e di taglio. Utilizzando questi grafici, ed in particolare il grafico di Fig. 60 si ottengono due parametri geotecnici importanti quali l’angolo di attrito φ e la coesione c. 131 Fig. 59 – Relazione tensione-deformazione in una prova di compressione triassiale (da: Rossi e Salvi, 1985) Fig. 60 – Stato tensionale e retta di rottura: (a) prova di compressione triassiale; (b) prova di taglio diretto (da: Rossi e Salvi, 1985) 132 Come precedentemente illustrato particolare importanza assume la presenza di acqua nel comportamento del terreno e come la valutazione dei parametri in termini di tensioni efficaci risulta fondamentale. A tal fine le prove di laboratorio sui campioni vengono eseguite sia in condizioni drenate, sia in condizioni non drenate; nel primo caso si avranno valori efficaci dei parametri, mentre nel secondo caso si avranno valori totali dei parametri. La relazione che lega le tensioni, le deformazioni ed i parametri di angolo di attrito e coesione, in termini di tensioni efficaci, nel caso di prove drenate è del tipo: τ = c’ + (σ – u) tan φ’ mentre la relazione che lega le tensioni, le deformazioni ed i parametri di angolo di attrito e coesione, in termini di tensioni totali, nel caso di prove non drenate è del tipo: τ = cu + σ tan φu Di seguito si riporta una descrizione schematica della varie prove di laboratorio che possono essere eseguite. La prova più semplice è la prova di compressione monoassiale verticale, in questo caso al provino viene impressa una tensione verticale. Questa prova può essere effettuata senza impedimenti laterali e prende il nome di espansione laterale libera ed è una prova non drenata. I parametri che si ricavano da tale prova sono la coesione non drenata cu (kPa), il modulo di Young o di deformazione longitudinale in condizioni non drenate E0 (kPa) ed il coefficiente di Poisson υ. La prova di compressione monoassiale verticale può essere effettuata anche imponendo impedimenti laterali, che viene chiamata ad espansione laterale impedita o prova edometrica, ed è una prova drenata. In questo caso i parametri che si ricavano sono il modulo edometrico Eed (kPa), il modulo di compressibilità Ked (kPa) ed il coefficiente di consolidazione cv (m2/s) definito come: cv = K Eed / γw Sempre utilizzando questa prova si possono ricavare informazioni sui valori di permeabilità dei materiali. Tra le prove di taglio si descrive la prova di taglio diretto (Fig. 61). Al provino si applica prima una tensione normale e successivamente una tensione tagliante e si incrementa questo sforzo fino alla rottura. I parametri che si possono ricavare sono gli angoli di attrito φ (°) e la coesione c (kPa). Anche queste prove possono essere effettuate in condizioni drenate e non drenate. La prova sicuramente più completa è la prova triassiale, dove si applica dapprima una tensione di compressione e successivamente si incrementa la tensione verticale fino a raggiungere la rottura (Fig. 62). La prova viene ripetuta su un certo numero di provini (almeno tre) con differenti valori della tensione di confinamento e dall’insieme dei risultati si deduce la curva di rottura. Anche in questo caso è possibile effettuare prove in condizioni drenate e non drenate. I parametri che si ottengono sono l’angolo di attrito φ (°), la coesione c (kPa), il modulo di Young o di deformazione longitudinale in condizioni non drenate E0 (kPa) e in condizioni drenate E’ (kPa). 133 Fig. 61 – Apparecchio per le prove di taglio (da: Rossi e Salvi, 1985) Fig. 62 – Apparecchio per le prove di compressione triassiale (da: Rossi e Salvi, 1985) 134 ELEMENTI DI GEOFISICA Diversi sono i metodi geofisici che possono essere utilizzati per caratterizzare il comportamento dei terreni. Tra i metodi più comunemente utilizzati si ricordano le analisi elettriche, magnetiche, magnetotelluriche, gravimetriche, radiometriche e sismiche. Di seguito si illustreranno le indagini sismiche. INDAGINI SISMICHE La più importante applicazione della sismica concerne la prospezione del sottosuolo al fine di ottenere informazioni sulle strutture geologiche sepolte, ed in particolare la ricerca del bedrock o roccia sotto coperture di terre. Inoltre con le indagini sismiche si è in grado di determinare il comportamento meccanico delle rocce e delle terre. Il meccanismo fondamentale di una indagine sismica consiste nel produrre una perturbazione elastica e quindi onde elastiche che vengono registrate ed analizzate al fine di ottenere informazioni sulle velocità di propagazione nei materiali analizzati e da queste ricavare informazioni sui parametri di resistenza e deformabilità. PERTURBAZIONI ELASTICHE Diversi sono i metodi per produrre perturbazioni elastiche, tra questi si ricordano quelli più comunemente usati che sono i metodi di scoppio di una carica di esplosivo in un pozzo appositamente perforato. Un altro metodo per generare onde elastiche è quello di usare appositi vibratori in superficie, l’inconveniente più grande rispetto al metodo precedente è quello di generare basse energie e quindi può essere utilizzato solo nel caso di esplorazioni di piccola profondità. Altro metodo è quello della caduta dei un peso, che ha il vantaggio di non richiedere la perforazione di pozzetti e di poter sommare l’energia di più colpi inferti al terreno, anche in questo caso però le energie in gioco sono di bassa entità e quindi le profondità investigate sono limitate. APPARECCHIATURE SISMICHE Il primo dispositivo che incontra una perturbazione elastica, artificialmente generata, è il geofono o sismometro che è uno strumento atto a rilevare i piccoli spostamenti del terreno a cui è appoggiato e a trasformarli in impulsi elettrici. I geofoni più usati sono gli elettromagnetici, elettrostatici, meccanici, piezoelettrici, magnetostrittivi. I geofono elettromagnetici sono quelli più usati per i rilievi a terra, quelli piezoelettrici e magnetostrittivi sono usati in pozzo ed i presenza di acqua, mentre i geofoni meccanici attualmente non sono più in uso. I geofoni elettromagnetici (Fig. 63) sono costituiti da una bobina posta tra le armature di un magnete, il magnete è collegato all’armatura del geofono e a seguito di un impulso elastico si muove rispetto alla bobina, il movimento relativo delle due parti provoca una variazione del flusso magnetico generando una corrente che viene inviata all’apparecchio di registrazione. I geofoni piezoelettrici sono costituiti da una batteria di cristalli (quarzo, tormalina, salgemma, ecc.) alternati a piatti metallici, la batteria è 135 sormontata da una massa discoidale. La vibrazione del terreno provoca delle variazioni di pressione nella batteria dei cristalli che provocano variazioni di voltaggio nei piatti metallici. Fig. 63 – Geofono elettromagnetico (1-bobina, 2-magneti, 3-poro, 4-cassa, 5-molle) Ogni tipo di geofono è provvisto di un dispositivo di smorzamento, al fine di ridurre le oscillazioni della massa mobile ad impulso cessato. Lo smorzamento è di tipo elettromagnetico. Caratteristica di ogni geofono è la curva di responso ad un movimento 136 impresso in funzione della frequenza, in Fig. 64 vengono mostrate le curve caratteristiche di un geofono elettromagnetico. Fig. 64 – Curve caratteristiche di un geofono elettromagnetico Gli impulsi elettrici trasmessi dai geofoni vengono amplificati, filtrati ed infine registrati. Un registratore sismico, che è collegato ai vari geofoni attraverso cavi, è suddiviso in un complesso di amplificazione ed un complesso di registrazione. Il complesso di amplificazione è costituito da tutte quelle apparecchiature atte a trasformare i segnali emessi dai geofoni in segnali amplificati, filtrati e di ampiezza quasi costante. Il segnale in uscita dall’amplificatore viene poi registrato dal complesso di registrazione. DISPOSIZIONE DEI GEOFONI - PUNTO DI SCOPPIO SUL TERRENO L’allineamento dei geofoni, i quali sono sempre ad uguale distanza tra loro, prende il nome di stendimento, la lunghezza di uno stendimento può variare tra 200 e 1200 m. I geofoni di uno stendimento sono suddivisi in due semi-basi, ed il punto di scoppio può essere sia centrale, sia laterale, sia in linea, sia spostato dall’allineamento dei geofoni (Fig. 65). Generalmente, per una migliore definizione dei risultati si effettua, su un allineamento sia uno scoppio centrale che due scoppi laterali. 137 Fig. 65 – Disposizione geofoni – punto di scoppio sul terreno ONDE SISMICHE - DROMOCRONE L’energia irradiata da una carica esplosiva o da una caduta di un peso si irradia in tutte le direzioni sotto forma di onde elastiche, che si distinguono tra quelle di volume e quelle di superficie (Fig. 66). Le onde di volume si dividono ulteriormente in: - onde P (primarie o longitudinali o di compressione): si propagano con fenomeni di dilatazione e compressione di masse di terreno, sono le prime che arrivano al geofono; 138 onde S (secondarie o trasversali o di taglio): che provocano spostamenti in direzione ortogonale allo spostamento dell’onda stessa, sono le seconde che arrivano al geofono. Le onde di superficie si propagano solo esternamente alla superficie poiché sono un’interazione delle onde P e S con la superficie, e sono le ultime che vengono registrate. Si dividono in: - onde di Love: provocano spostamenti orizzontali in direzione perpendicolare a quella di propagazione. - onde di Rayleigh: provocano un moto ellittico nel piano verticale contenente la direzione di propagazione. - Fig. 66 – Forme di movimento del terreno in corrispondenza dei diversi tipi di onde 139 I vari tipi di onde si propagano con diverse velocità: tale velocità dipende dalle caratteristiche elastiche e dalla densità del mezzo attraversato. Nel caso di un mezzo isotropo le onde sono rappresentate da sfere concentriche i cui raggi crescono nel tempo. Nel sottosuolo difficilmente si ha la presenza di un mezzo isotropo, per cui quando un’onda sismica incontra la superficie di separazione di due mezzi aventi differenti velocità di propagazione dell’onda, parte di essa viene riflessa e ritorna in superficie, e parte viene rifratta passando sotto l’orizzonte di separazione. Si avranno quindi delle onde riflesse e delle onde rifratte, se nell’analisi si utilizzeranno le onde riflesse si parlerà di sismica a riflessione, se si utilizzeranno le onde rifratte si parlerà di sismica a rifrazione. Inoltre in alcune analisi si considerano le onde longitudinali in altre vengono prese in considerazione le onde trasversali. Se si considerano due strati sovrapposti (Fig. 67) con velocità V1 e V2 dove V2 > V1, separati da una superficie di discontinuità posta alla profondità h e considerando il punto O come il punto di scoppio ed il punto S come posizione del geofono, al punto S arriveranno 3 tipi di onde ed in particolare: − le onde dirette, che percorrendo il tragitto OS con velocità V1 arriveranno dopo il tempo: t0 = OS / V1 − le onde riflesse, che percorrendo il tragitto OAS sempre con velocità V1 arriveranno dopo il tempo: t1 = 1 / V1 (OS2 + 4h2) ½ − le onde rifratte, che incontrando la superficie di discontinuità sotto l’angolo limite i, camminano nel secondo strato parallelamente a questa e quindi percorrono il cammino OBCS arrivando in S dopo il tempo: t2 = OS / V2 + 2h (1 / V12 – 1 / V22) ½ Fig. 67 – Onde dirette, riflesse e rifratte 140 Riportando in un diagramma i tempi di propagazione di un’onda sismica lungo un allineamento di geofoni in funzione delle distanze, misurata a partire dal punto origine della perturbazione elastica, si ottengono le dromocrone (Fig. 68). Fig. 68 – Dromocrone delle onde dirette, riflesse e rifratte SISMOGRAMMI Le tracce delle registrazioni vengono chiamate sismogrammi. In Fig. 69 è rappresentato un sismogramma ottenuto con l’utilizzo di 24 geofoni e punto di scoppio centrato e scostato. Sulla traccia 22 è segnato l’istante di scoppio, mentre sulla traccia 3 e segnato l’istante in cui l’onda raggiunge il geofono posto sulla bocca del pozzetto di 141 scoppio (tempo sul pozzo). Le prime perturbazioni che si notano si riferiscono ai primi impulsi rifratti, mentre le perturbazioni A e B si riferiscono alle onde riflesse. Fig. 69 – Esempio di sismogramma 142 METODO SISMICO A RIFLESSIONE Se nelle analisi si considerano gli arrivi delle onde longitudinali e riflesse il metodo prende il nome di metodo sismico a riflessione. Come si può vedere dalla Fig. 69 se si considerano le perturbazioni A e B si nota che tali perturbazioni non sono allineate ma presentano una curvatura denominata freccia della riflessione. Inoltre si nota come tale freccia presenta una curvatura inferiore con l’aumento della profondità di indagine. Tale situazione è facilmente spiegabile se si considera che allontanandosi dal punto di scoppio i geofoni registreranno tempi di arrivo maggiori perché maggiore è lo spazio percorso, tale differenza sarà meno accentuata andando in profondità. E’ facile anche intuire che se le frecce di riflessioni sono simmetriche si è in presenza di strati orizzontali, se le frecce di riflessioni sono asimmetriche si è in presenza di strati inclinati. Per poter analizzare i tempi di arrivo delle onde riflesse è necessario effettuare una serie di correzioni dei sismogrammi. In particolare la prima correzione che deve essere effettuata è quella di riportare tutti i tempi di arrivo delle onde al tempo dell’istante di scoppio che rappresenta il tempo zero. Inoltre per poter disporre di sismogrammi le cui riflessioni siano tra loro confrontabili e correlabili è necessario ridurre la quota del punto di scoppio e quella dei geofoni ad un unico piano di riferimento. Questa operazioni è semplice se la topografia è pianeggiante, se si è in presenza di topografia accidentata si dovrà tener conto delle differenze delle quote e quindi operare tale riduzione. Altra correzione che deve essere apportata riguarda la differenza di tempi di arrivo alle tracce estreme. Un’ultima correzione che deve essere effettuata riguarda il primo strato che viene investigato denominato aerato, che presenta velocità nettamente inferiori alle successive, in quanto composto da materiale sciolto con presenza di aria e acqua. La velocità di tale materiale ed il suo relativo spessore possono essere calcolate utilizzando i primi impulsi rifratti, come si vedrà in seguito o utilizzando il tempo sul pozzo se si è sicuri che lo scoppio è avvenuto alla base dell’aerato. Una volta effettuate le correzioni dei sismogrammi, con i tempi di arrivo delle onde riflesse ai vari geofoni è possibile valutare sia la velocità dei singoli strati attraversati, che la loro profondità. Schematicamente si può dire che disponendo del tempo di arrivo ad un geofono posto vicino al punto di scoppio (Ts) ed il tempo di arrivo ad un geofono posto ad una certa distanza dal punto di scoppio (Tx) e conoscendo la distanza tra i due geofoni (x), la velocità dello strato attraversato dall’onda riflessa è pari a: V = [x2 / (Tx2 – Ts2)] ½ Conoscendo le velocità ed i tempi di arrivo è immediato calcolare la profondità dello strato. Analizzando le tracce di tutti i sismogrammi registrati è possibile individuare tutte le stratificazioni presenti e le relative velocità. L’analisi delle onde riflesse comunque non è sempre univoca, infatti in queste prospezioni, a volte si registrano alcuni segnali anomali, che se non riconosciuti possono inficiare i risultati ottenuti. Tra questi segnali anomali devono essere riconosciute le riflessioni multiple (Fig. 70) dove il tempo di arrivo registrato risulta essere il doppio a causa del fenomeno della doppia riflessione. Altro segnale anomalo può essere causato da un fenomeno di diffrazione (Fig. 71) dovuto ad un brusco cambiamento morfologico dell’orizzonte, come per esempio lo spigolo di una faglia che 143 diventa un centro di irradiazione di energia in ogni direzione. Ancora segnali anomali possono essere causati da riflessioni diffratte (Fig. 72), quando esiste un punto di discontinuità che viene investito da un onda riflessa ed irradia energia in ogni direzione o da diffrazioni riflesse (Fig. 73) dovute alla riflessione di energie diffratte da un punto di discontinuità. Sono infine da ricordare i segnali anomali dovute a rifrazioni riflesse (Fig. 74), dove anche in questo caso la superficie riflettente può essere costituita da una faglia. Fig. 70 – Esempio di riflessione multipla 144 Fig. 71 – Esempio di diffrazione Fig. 72 – Esempio di riflessione diffratta Fig. 73 – Esempio di diffrazione riflessa 145 Fig. 74 – Esempio di rifrazione riflessa METODO SISMICO A RIFRAZIONE Nel caso in cui nelle analisi si considerino gli arrivi delle onde longitudinali e rifratte si parla di metodo sismico a rifrazione. Come già visto in Fig. 68 riportando in un diagramma i tempi di propagazione di un’onda sismica lungo un allineamento di geofoni in funzione delle distanze, misurata a partire da punto origine della perturbazione elastica, si ottengono le dromocrone relative alle onde dirette ed alle onde rifratte. Analizzando tali curve è possibile ottenere informazioni sulle velocità e profondità degli strati incontrati nell’analisi. Di seguito si riporta un esempio di interpretazione di un caso a due strati orizzontali caratterizzati da velocità V0 e V1 con V1 > V0 e profondità z (Fig. 75). Come già detto i geofoni posizionati dal punto di scoppio alla distanza Xc registreranno come primo arrivo le onde dirette, i geofoni posizionati dal punto Xc alla fine dello stendimento registreranno come primo arrivo le onde rifratte. La dromocrona delle onde dirette forma un angolo ϑ0 con l’asse delle ordinate tale che: tg ϑ0 = V0 mentre la dromocrona delle onde rifratte si allinea con un angolo ϑ1 sempre con l’asse delle ordinate tale che: tg ϑ1 = V1 Il prolungamento della dromocrona delle onde rifratte incontra l’asse dei tempi di arrivo nel punto ti (tempo intercetto) dove si ha: ti = 2z (1 / V02 – 1 / V12) ½ che permette di ricavare la profondità z, conoscendo le velocità V0 e V1. La profondità z può essere ricavata anche considerando il punto P (punto angolare) dove si ha l’arrivo sia dell’onda diretta che dell’onda rifratta e corrisponde alla distanza critica Xc attraverso: z = Xc / 2 [(V1-V0) / (V1+V0)] ½ Analoghi procedimenti possono essere utilizzati in presenza di più strati. Anche nel caso di utilizzo delle onde rifratte possono sorgere problemi di interpretazione. Il caso più frequente di interpretazione errata si ha in presenza di uno strato a velocità più bassa dello strato sovrastante. In questo caso lo strato a velocità più bassa non può essere messo in evidenza dalle onde rifratte, in quanto l’energia incidente, al contatto fra la sommità dello strato e la base dello strato sovrastante a più alta velocità, subisce una flessione verso il basso e non può venire di conseguenza rifratta. Questo comporta come mostrato in Fig. 76 la mancanza dello strato a velocità V1 e ciò può trarre in errore anche nel calcolo della profondità. Altri casi di interpretazione non univoca si ha quando la velocità presenta un aumento lineare con la profondità, in questo caso i raggi d’onda subiscono una rifrazione continua e la dromocrona che si ottiene è una curva e non una spezzata. Come nel caso del metodo a riflessione, la presenza di gradini di faglia può portare ad interpretazioni non corrette. 146 Come mostrato in Fig. 77 un abbassamento di velocità nelle dromocrone indica proprio la presenza di gradini. Nel caso infine di stratificazioni inclinate, la corretta interpretazione può essere effettuata solo disponendo di dromocrone derivanti da punti di scoppio posti in ambedue i lati dello stendimento. Come mostrato in Fig. 78 la non simmetria delle due dromocrone indica proprio la presenza di stratificazioni inclinate. Fig. 75 – Onde dirette e rifratte e relative dromocrone in due strati orizzontali Fig. 76 – Onde e dromocrone nel caso di strato a velocità più basso di quello sovrastante 147 Fig. 77 – Onde e dromocrone nel caso di presenza di una faglia 148 Fig. 78 – Onde e dromocrone nel caso do orizzonte inclinato MISURE SISMICHE IN FORO Nel caso in cui si vogliano avere informazioni sulle velocità delle onde trasversali o di taglio, si possono utilizzare le tecniche precedentemente descritte, ma di gran lunga migliori e più precise sono quelle che prendono il nome di misure sismiche in foro. La prova più completa è senza dubbio la prova cross-hole, che necessita di tre o più fori, uno per la sorgente e gli altri due o più per i ricevitori. La sorgente può essere di varia natura (meccaniche elettromagnetiche, ecc.) e deve essere in grado di generare onde elastiche di compressione e/o di taglio, il sistema di ricezione è composto di due o più ricevitori, costituiti da una terna di trasduttori di velocità orientati secondo le componenti di una terna cartesiana. La valutazione della velocità delle onde P ed S è valutata analizzando le tracce dei tempi di arrivo delle onde registrate dai ricevitori, e dividendo la distanza orizzontale tra sorgente e i ricevitori per tali valori. Altra prova in foro è il down-hole (Fig. 79), che consiste nel produrre sulla superficie del terreno una sollecitazione orizzontale mediante una sorgente meccanica in grado di generare onde di compressione e di taglio. Nel foro sono posti due ricevitori a profondità note, anche in questo caso, costituiti da una terna di trasduttori di velocità orientati secondo le componenti di una terna cartesiana e viene valutato l’istante di arrivo delle onde P ed S, rispetto all’istante in cui vengono indotte le sollecitazioni alla sorgente; dividendo per tali valori la distanza tra sorgente e ricevitori si ricava la velocità delle onde P ed S. In questo ultimo caso l’interpretazione può non essere univoca, come nel caso precedente, in quanto data la posizione della sorgente è necessario correggere i tempi di arrivo stimati per tener conto dell’inclinazione del percorso effettivo, mentre nel caso precedente data la posizione tra la sorgente ed i ricevitori la misura è diretta. 149 Fig. 79 – Esempio di down-hole PARAMETRI ELASTICI Conoscendo la velocità delle onde P (Vp) ed S (Vs) di un materiale che sono definite da: Vp = [(λ + 2 G) / ρ] ½ Vs = (G / ρ) ½ dove G è il modulo di deformazione tangenziale, ρ è la densità (misura della massa espressa in Kg/m3), e λ è uguale a : l = (υ E) / (1 + υ) (1 - 2υ) dove E è il modulo di deformazione tangenziale, υ e il coefficiente di Poisson, è possibile calcolare alcuni parametri elastici utili alla definizione delle caratteristiche meccaniche e di resistenza del materiale. In particolare si possono ricavare: − modulo di Young o di deformazione longitudinale: E = (9ρVs2K / ρVs2) / (3K / ρVs2 + 1) (kPa) dove K è il modulo di compressibilità − modulo di compressibilità: K = ρ (Vp2 – 4/3 Vs2) (kPa) K = E / 3(1 - 2υ) (kPa) − coefficiente di Poisson: υ = 1/2 [(Vp / Vs)2 – 2] / [(Vp / Vs)2 – 1] − modulo di deformazione tangenziale: G = ρ Vs2 (kPa) G = E / 2(1 + 2υ) (kPa) Data la definizione delle velocità delle onde P e S ne consegue che le Vs si propagano meno velocemente delle Vp, inoltre le onde S non si propagano nell’acqua o nell’aria, di conseguenza le Vs sono rappresentative dello scheletro solido. Nel caso delle Vp essendo influenzate dalle diverse fasi (solido, liquido, gassoso) si può dire che se si è in presenza di due fasi (solido-liquido) e le due velocità sono diverse, si registrano le velocità del solido, se le velocità delle due fasi sono simili si registra una velocità intermedia tra le due. In presenza di tre fasi (solido, liquido, gassoso) la propagazione non avviene solo nel solido e di conseguenza se la fase liquida è continua si ottiene la velocità del liquido, se la fase liquida non è continua la velocità che si ottiene si avvicina a quella del gas. 150 ANALISI DI STABILITA’ DEI VERSANTI PREMESSA L’analisi di stabilità dei versanti consiste nella valutazione quantitativa di stabilità di un movimento franoso o di un versante considerando condizioni statiche, quindi senza nessun intervento che possa modificare la situazione in essere, in condizioni pseudostatiche, quindi ipotizzando un fattore aggiuntivo (terremoto rappresentato mediante forze statiche equivalenti, ecc.), ed infine in condizioni dinamiche, quindi ipotizzando l’influenza di un evento sismico (accelerogramma o parametri caratteristici di un accelerogramma). L’accelerogramma è la registrazione di un terremoto attraverso un accelerografo, dove vengono riportate in un grafico i valori delle accelerazioni rispetto al tempo (Fig. 80). Fig. 80 – Esempio di accelerogramma Il primo passo da effettuare è il riconoscimento delle aree instabili, tale riconoscimento passa attraverso uno studio geologico a scala opportuna il cui risultato può essere identificato con la predisposizione di: - una carta geologica, una carta geomorfologia, una carta litotecnica ed in particolare di una carta delle frane e delle aree potenzialmente franose; - schedatura di tali aree al fine di immagazzinare i dati caratteristici (tipologia, attività, geologia, elementi morfologici, ecc.) delle stesse (Scheda IFFI, 2001); - controlli sull’evoluzione dei movimenti franosi sia con tecniche tradizionali quali in clinometri, piezometri, ecc. sia con tecniche innovative quali interferometria SAR, ecc. In seguito alla caratterizzazione ed identificazione dei movimenti franosi si deve procedere alla loro quantificazione, intesa come la valutazione degli indici di stabilità in condizioni statiche, pseudostatiche e dinamiche. In particolare per i movimenti franosi tipo scivolamenti (rotazionali e traslazionali) e colate, lo studio può comprendere: - individuazione delle sezioni geologiche e geomorfologiche che caratterizzano il 151 corpo franoso, la sua geometria, l’andamento della superficie di scivolamento, l’andamento del livello della falda. - individuazione dei parametri geotecnici necessari all’analisi: il peso di volume (γ), l’angolo di attrito (φ) nei suoi valori di picco e residuo, e la coesione (c) nei suoi valori di picco e residuo; - individuazione degli accelerogrammi di input o dei parametri caratteristici dell’accelerogramma (picco di accelerazione, magnitudo, intensità di Arias (Arias, 1970), potenziale distruttivo (Saragoni et al., 1989), intensità spettrale (Housner, 1952) nel caso di analisi dinamiche; - analisi numeriche: diversi sono i modelli numerici che possono essere utilizzati per il calcolo della stabilità, tali codici, più o meno semplificati (es. metodo del pendio indefinito, metodo dei conci, metodo ad elementi finiti, ecc.), forniscono la risposta in termini di valori del fattore di sicurezza (Fs) in condizioni statiche, in termini di valori del coefficiente di accelerazione orizzontale critica (Kc) in condizioni pseudostatiche ed in termini di spostamento atteso in condizioni dinamiche. L’applicazione dei diversi modelli dipenderà chiaramente dalle condizioni geologiche del sito in analisi e dal tipo di analisi che si intende effettuare (Fellenius, 1936; Bishop, 1955; Janbu, 1954; Janbu et al., 1956; Morgernstern e Price, 1965; Newmark, 1965; Spencer, 1967; Sarma,1979; Graham, 1984; Cividini et al., 1991; Cividini e Pergalani, 1992; Ambraseys e Srbulov, 1995; Luzi e Pergalani, 1996; Jibson et al., 1998; Crespellani et al., 1998; Romeo, 1998; Luzi e Pergalani, 1999; Luzi e Pergalani, 2000). ANALISI AREALI In particolare nel caso si debba analizzare un’area vasta potrebbe essere applicato il metodo del pendio indefinito, dove l’analisi viene condotta in due dimensioni considerando la sezione longitudinale della frana. Inoltre si assume che le forze sono presenti soltanto sul piano della sezione (Fig. 81). β z W = peso dell’unità di pendio z = profondità superficie di scorrimento zw = altezza della tavola d’acqua β = angolo del pendio u = pressione dell’acqua c’ = coesione W n W W t zw c' u β Fig. 81 – Forze agenti lungo il pendio 152 In tal caso il calcolo del fattore di sicurezza, in condizioni statiche, è espresso da: c + (γ – m γw) z cos2 β tan φ Fs= --------------------------------------γ z sen β cos β dove c è la coesione (kPa), γ è il peso dell’unità di volume del terreno (kN/m3), m è il rapporto fra l’altezza della falda e lo spessore del corpo di frana (zw/z), zw è l’altezza della falda dalla superficie di scivolamento (m), z è la profondità della superficie di scivolamento (m), γw è il peso dell’unità di volume dell’acqua (kN/m3), β è l’inclinazione della superficie di scivolamento (°) e φ è l’angolo di attrito interno (°). In condizioni pseudostatiche la stabilità viene valutata introducendo una forza orizzontale pari a KcW, dove Kc è il coefficiente di accelerazione critica orizzontale e W è il peso del materiale. Il fattore di sicurezza assume la seguente forma: c + (γ z cos2 β – γ z Kc cos β sen β - γw zw cos2 β) tan φ Fs = -----------------------------------------------------------------------γ z sen β cos β + γ z Kc cos2 β Ponendo Fs = 1, è possibile calcolare il valore di Kc che risulta: c / cos2 β + (γ – m γw) z tan φ - γ z tan β Kc = -----------------------------------------------------γ z + γ z tan β tan φ Utilizzando un Sistema Informativo Geografico, tali formule possono essere applicate ad ogni porzione in cui viene diviso il terreno, denominata pixel. Il limite di questo approccio è che ogni pixel viene considerato indipendente da quelli vicini, tanto che il i valori di Fs e Kc possono risultare sovrastimati o sottostimati. Per ovviare a questo inconveniente può essere applicato il metodo ordinario: il corpo di frana viene suddiviso in diversi blocchi da piani verticali. Il fattore di sicurezza Fs viene espresso come rapporto fra il momento massimo sopportabile dal corpo di frana ed il momento applicato: ∑ R [c b sec β + (W cos β – u b sec β) tan φ] Fs = -----------------------------------------------------------∑ (R W sen β) dove u è il valore della pressione neutra e b è la larghezza del blocco. Questo metodo può essere applicato a tutti i pixel di un’immagine digitale che, in questo caso, possono essere considerati in tre dimensioni. In ogni pixel le forze attive e quelle resistenti vengono espresse tramite il criterio di Mohr-Coulomb. Tutte le forze vengono proiettate lungo le tre direzioni x, y, z in modo tale che si possa ottenere un valore del fattore di sicurezza Fs per ogni direzione. Il fattore di sicurezza totale è dato da: (Fsx2 + Fsy2 + Fsz2)1/2 Fstot = --------------------------153 3 dove Fsx, Fsy, Fsz, sono le sommatorie dei rapporti tra le forze resistenti e attive nelle tre direzioni. Analogo procedimento può essere applicato per determinare il valore di Kc, la cui formula diventa: Kc tot = (Kcx2 + Kcy2 + Kcz2)1/2 con: ∑ S1x – Fsx ∑ T1x Kcx = ------------------------∑ S2x + Fsx ∑ T2x ∑ S1y – Fsy ∑ T1y Kcy = -------------------------∑ S2y + Fsy ∑ T2y ∑ S1z – Fsz ∑ T1z Kcz = ------------------------∑ S2z + Fsz ∑ T2z dove: S1 = c sec β + [(γ – m γw) z cos β tan φ] T1 = γ z sen β S2 = Kc γ z sen β tan φ T2 = Kc γ z cos β Nel caso di analisi in condizioni dinamiche possono essere utilizzate relazioni che legano le caratteristiche di un evento e gli spostamenti. La relazione di tale legame ha solitamente la seguente forma: f (D) = A g(s) + B h(K) + C dove si è indicato lo spostamento con D, il generico parametro sismico con s, il parametro di propensione al franamento con K e con A, B, C delle costanti. Ambraseys e Srbulov (1995) hanno proposto la seguente: log (Dn) = - 2,41 + 0,47 Ms – 0,01 r + log [(1 – q)2,64 (q)-1,02] + 0,58 p nella quale Dn è lo spostamento in cm, Ms la magnitudo superficiale, r la distanza dall’ipocentro in Km, data da (d2 + h2)0,5, dove d è la distanza epicentrale ed h la profondità dell’ipocentro entrambi in Km, q è il rapporto di accelerazione critica, dato dal rapporto fra il coefficiente di accelerazione critica orizzontale ed il picco di accelerazione al suolo (Pga) e p è l’errore. Jibson et al. (1998), considerando l’intensità di Arias, hanno proposto la seguente: 154 log (Dn) = 1,521 log Ia – 1,9931 log Kc – 1,546 dove Dn è lo spostamento in cm, Ia è l’intensità di Arias in m/s, Kc è il coefficiente di accelerazione critica orizzontale. In particolare l’intensità di Arias è data da: Ia = π 2g ∫ tf a 2 ( t )dt 0 dove a è l’accelerazione e g è l’accelerazione di gravità. Recentemente Crespellani et al. (1998), considerando il potenziale distruttivo, hanno proposto la seguente: Dn = 0,021 Pd0,910 Kc-1,202 dove Dn è lo spostamento in cm, Pd il potenziale distruttivo in 10-3 g s3 e Kc è ancora il coefficiente di accelerazione critica orizzontale. In particolare il potenziale distruttivo è definito da: 2π Pd = 2g ∫ tf 0 a 2 ( t )dt n.a . dove n.a. sono il numero degli attraversamenti della linea di zero. Romeo (1998) ha proposto la seguente: log (Dn) = 0,607 (± 0,020) log Ia – 3,719 (± 0,049) log K + 0,852 (± 0,030) dove Dn è lo spostamento in cm, Ia è l’intensità di Arias in m/s, K è il rapporto fra la componente di taglio di Kc e la Pga. Esistono poi due relazioni proposte da Luzi e Pergalani (2000) che pongono in relazione lo spostamento calcolato utilizzando il metodo di Newmark rispettivamente con l’intensità di Arias (Ia) e con l’intensità spettrale (SI): se Kc ≤ 0,01 (RMSE = 0,632) Dn = (0,424 + 0,0818 Ia)2 se 0,01 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 1,34) 2 Dn = (0,292 + 0,0762 Ia) se 0,03 < Kc ≤ 0,06 (RMSE = 1,09) Dn = (-6,794 + 0,46 Ia)2 se 0,06< Kc ≤ 0,1 (RMSE = 1,8) Dn = (-1,09 + 0,07 Ia) se 0,1 < Kc ≤ 0,2 (RMSE = 1,8) Dn = (-0,07 + 0,0049 Ia) se 0,2 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 0,0014) Dn = (-0,0001 + 0,000012 Ia) se Kc > 0,3 Dn = 0 se Kc ≤ 0,01 (RMSE = 0,632) 2 Dn = (0,477 + 0,0750 SI) se 0,01 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 1,05) Dn = (0,362 + 0,0690 SI)2 se 0,03 < Kc ≤ 0,06 (RMSE = 0,68) 2 Dn = (-0,001 + 0,0505 SI) se 0,06< Kc ≤ 0,1 (RMSE = 0,41) Dn = (-0,048 + 0,0190 SI)2 se 0,1 < Kc ≤ 0,2 (RMSE = 0,19) Dn = (-0,041 + 0,0030 SI) se 0,2 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 0,013) Dn = (0,00027 + 0,000074 SI) se Kc > 0,3 Dn = 0 155 Il valore dell’intensità spettrale è definita da: SI = ∫ 2.5 0.1 PVRS ( T , µ )dT dove PVRS è lo spettro di risposta in pseudovelocità e µ è lo smorzamento , T è il periodo di vibrazione; lo spettro di risposta è definito come la risposta massima in accelerazione, velocità e spostamento, di un oscillatore elementare, caratterizzato da diversi periodi di vibrazione, all’applicazione di un accelerogramma. ANALISI PUNTUALI Nel caso invece si debba analizzare un singolo movimento franoso, in condizioni statiche, il metodo più utilizzato è quello dell’equilibrio limite noto come metodo dei conci. Tale denominazione discende dal fatto che, utilizzando dei piani verticali, il corpo di frana, di forma generica, viene suddiviso in strisce di spessore non necessariamente costante, ma comunque sufficientemente piccole da poter ritenere uniformi, lungo la porzione di superficie di scivolamento appartenente ad ogni striscia, la distribuzione di tensioni totali e la pressione interstiziale. Con tali metodi si individua il fattore di sicurezza Fs, dato dal rapporto fra la resistenza a taglio del terreno in esame, definita dal criterio di rottura di Mohr-Coulomb, e la tensione tangenziale mobilitata. Il fattore di sicurezza viene assunto costante lungo l’intera superficie di scivolamento (Fig. 82). Fig. 82 – Schema di suddivisione in conci di un corpo franoso e forze agenti su un concio In particolare il valore del fattore di sicurezza è dato da: 1 (c b + (W - u b) tanφ) secβ Fs = -------- Σ -------------------------------Σ W sinβ 1 + tanβ tanφ -------------Fs dove è necessario determinare per via iterativa la soluzione. E' possibile considerare la presenza di acqua dopo aver determinato la pressione u lungo la superficie di 156 scivolamento oppure è possibile definire la stessa pressione attraverso il coefficiente di pressione neutra ru. In condizioni pseudostatiche, i metodi disponibili consentono il calcolo del coefficiente di accelerazione orizzontale critica Kc: ciò equivale a determinare l'intensità massima delle azioni statiche orizzontali equivalenti al sisma che comportano un fattore di sicurezza unitario lungo la linea di scivolamento e alle pareti interconcio (Fig. 83). Xi Ei Kc Wi Wi Zi Ti δ α Ni bi Fig. 83 – Schema di suddivisione in conci di un corpo franoso e forze agenti Il fattore di sicurezza è definito ancora come rapporto tra resistenza al taglio disponibile e mobilitata. E' anche possibile estendere l'analisi considerando un predefinito fattore di sicurezza maggiore di uno al fine di determinare il corrispondente coefficiente moltiplicativo Kc, dato da: an + an-1 en + an-2 en en-1 + ... + a1 en en-1...e3 e2 Kc = -------------------------------------------------------------------pn + pn-1 en + pn-2 en en-1 + ... + p1 en en-1...e3 e2 dove: Wisin(φi-βi)+Ricosφi+Si+1sin(φi-βi-δi+1)-Sisin(φi-βi-δi) ai = -------------------------------------------------------------------------------cos(φi-βi+φ*i+1-δi+1)secφ*i+1 pi = Wi cos (φi -βi) ------------------------------------cos(φi-βi+φ*i+1-δi+1)secφ*i+1 cos (φi -βi + φ*i - δi ) secφ*i ei = -----------------------------------------cos(φi-βi+φ*i+1-δi+1)secφ*i+1 157 Ri = ci bi secβi - Ui tanφi Si = c*i di - PWi tanφ*i dove U è la risultante delle pressioni neutre alla base del concio, d è la lunghezza della base del concio e δ è l’angolo di inclinazione della parete interconcio, i parametri geotecnici con gli asterischi si riferiscono alle caratteristiche di interconcio. Quando Kc risulta zero, il coefficiente di sicurezza assegnato coincide con quello calcolato in condizioni statiche. Anche in questo caso la pressione dell'acqua può essere considerata definendo il livello della falda o attraverso il coefficiente di pressione ru. In condizioni dinamiche uno dei metodi che può essere utilizzato è quello proposto da Newmark (1965) che approssima la frana ad un blocco rigido che scivola lungo una superficie scabra, con angolo di attrito φ, a causa di una sollecitazione alla base. Le principali caratteristiche del metodo sono riassunte nei punti seguenti (Fig. 84). Ne Te M at y W z x M an Fig. 84 – Schema e forze agenti sul blocco Dato un sistema di riferimento x-y, considerato un blocco di massa M e peso W posto su di un piano inclinato, le equazioni di equilibrio alla traslazione, in un sistema di riferimento locale t-n, consentono di esprimere l'azione normale N e tagliante T all'interfaccia in funzione dell'accelerazione alla base normale an e tangente at e alle forze esterne applicate Ne e Te come segue: N - M an - W n + N e = 0 T - M a t - Wt + T e = 0 L'interfaccia è caratterizzata da un legame di tipo rigido-plastico (Fig. 85), comunemente impiegato per determinare il comportamento di giunti in masse rocciose (Farmer, 1983; Gioda, 1985). Tale legame è definito nel piano N-T da due inviluppi limite legati uno alla resistenza di picco e l'altro a quella residua. La prima, che definisce l'azione limite di primo distacco, è caratterizzata da una spezzata bi-lineare con le seguenti caratteristiche: Tlim = N tg φpk Tlim = Cpk + N tg φr quando N < Nl quando N > Nl 158 dove con φpk è indicato l'angolo di attrito di picco, con φr l'angolo di attrito residuo e con Cpk la resistenza iniziale. La resistenza residua è data dalla retta di equazione: Tlim = N tg φr e valuta la resistenza associata a scorrimenti di grossa entità. L'andamento della resistenza di taglio T in funzione dello spostamento s, per diversi valori dell'azione normale, è schematizzato in Fig. 86. Se la resistenza di picco viene raggiunta con un'azione normale inferiore a Nl, si può produrre uno spostamento relativo accompagnato da dilatanza che si riduce al crescere dell'azione normale N, fino alla situazione limite in cui si ha il tranciamento delle asperità. Il tratto che indica questo tipo di comportamento è orizzontale e la sua lunghezza dipende dallo spostamento limite di picco spk, definito per mezzo di prove di laboratorio. Il tratto inclinato è caratterizzato dalla riduzione progressiva della resistenza, che passa dai valori di picco a quelli residui (raggiunti nel secondo tratto orizzontale), definiti dallo spostamento residuo sr e dall'angolo β, sempre ricavati da prove di laboratorio. Fig. 85 - Inviluppo limite Fig. 86 - Azione tagliante rispetto allo spostamento I risultati, ottenuti per ogni movimento franoso o per ogni area potenzialmente franosa, forniranno livelli di pericolosità a cui è sottoposta l’area in esame, in particolare i valori del fattore di sicurezza danno indicazioni sulla stabilità dell’area non considerando altre possibili cause (pioggia, terremoto, azioni antropiche, ecc); il coefficiente di accelerazione orizzontale critica fornirà invece la soglia superata la quale l’area attualmente stabile diverrà instabile al sopraggiungere di altre possibili cause (terremoti, ecc.); infine lo spostamento atteso e l’area di influenza del movimento franoso daranno una misura di quanto l’accadimento di un evento sismico può modificare la situazione. Per quanto riguarda i movimenti tipo crolli e ribaltamenti le analisi che possono essere effettuate sono di tipo statico e pseudostatico. Le fasi dello studio possono comprendere (Regione Lombardia, 2001): - predisposizione delle schede di campagna per i rilievi geomeccanici e per la definizione del fenomeno franoso; 159 - prove in sito sugli affioramenti (martello di Smidth tipo L, pettine di Barton, spessimetro per apertura giunti etc.) per ogni stesa strutturale e per ogni ambito di ammasso; - prelievo di campioni per esecuzione di Point Load Test e di prove di scivolamento Tilt Test; - inquadramento geologico di un intorno significativo in scala 1:10.000 e esecuzione di sezioni geologiche e topografiche in scala 1:10.000; - classificazione degli ammassi rocciosi (Bieniawski, 1979; Romana, 1991); - descrizione e se possibile rilievo della pista di discesa e della zona di arrivo, rilievo geologico e, ove possibile, statistica dei massi al piede (dimensioni e distribuzione); - esecuzione di modelli di rottura degli ammassi su sezioni tipo; - definizione di metodi di calcolo in condizioni statiche e pseudostatiche; - esecuzione di analisi di stabilità dimensionali ed adimensionali in condizioni statiche e pseudostatiche; - verifiche di caduta massi con vari metodi e statistiche arrivi. I risultati, ottenuti per ogni movimento franoso o per ogni area potenzialmente franosa, forniranno livelli di pericolosità a cui è sottoposta l’area in esame, in particolare, verranno individuate le possibili piste di discesa e le aree caratterizzate dalle diverse percentuali di quantità di materiale crollato. Bibliografia • AGI – Raccomandazioni sulla programmazione ed esecuzione delle indagini geotecniche, (1977) • Ambraseys N., Srbulov M. – Earthquake induced displacement of slopes. Soil Dynamics and Earthquake Engineering, 14: 59-71 (1995) • Arias A. - A measure of earthquake intensity. Seismic design for nuclear power plants. R. J. Hansen ed., Massachusetts Institute of Technology, (1970) • Bieniawski Z.T. - Rock Mass classifications in rock engineering applications. Fourth International Congress on Rock Mechanics, Montreaux (1979) • Bishop A.W. – The use of the slip circle in the stability analysis of slopes. 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