AS 00 [2007] 000-000 Schedario/ Libri Massimo Reichlin L’esperienza della vita al centro dell’indagine bioetica Professore associato di Etica della vita nell’Università VitaSalute San Raffaele di Milano Maurizio Chiodi Etica della vita Le sfide della pratica e le questioni teoriche Glossa, Milano 2006, pp. 430, 40 € L’etica della vita è uno degli ambiti cui la ricerca teologica recente ha dedicato maggiore attenzione. Spesso, però, gli autori sono apparsi più interessati a raggiungere specifiche conclusioni etico-normative che a presentare riflessioni teoriche criticamente consapevoli; e le opere, ancor più spesso, sono parse debitrici di un impianto argomentativo tradizionale non privo di problemi. Maurizio Chiodi intraprende invece il tentativo serio e sistematico di sviluppare una nuova prospettiva: oltrepassando le posizioni naturalistiche dominanti nella letteratura teologica, elabora un’impostazione che valorizza assieme il momento filosofico-antropologico dell’inter­pretazione e quello propriamente teologico del compimento di senso offerto dalla rivelazione biblica. Si tratta di superare la tendenza della riflessione credente a prescindere dalla fenomenologia dell’e­spe­rienza effettiva, gravida di variabili emotive e psicologiche potenzialmente ambivalenti e a ricorrere in maniera solo occasionale alla rivelazione © fcsf - Aggiornamenti Sociali biblica, evidenziando invece come quest’ultima proponga una risposta agli interrogativi che sorgono dall’e­spe­rienza universale della vita umana. Il filo conduttore di questo ripensamento dell’etica teologica della vita è costituito dalla dialettica di passività e attività che, sulla scia del filosofo francese Paul Ricœur, l’autore ritiene caratterizzi la strut­tura della coscienza. L’esperienza della vita, in quanto fondata sulle dimensioni fisico-biologiche ma ad esse irriducibile, è esperienza della coscienza e domanda sul senso. Il modo in cui la coscienza e la domanda sul senso vengono originariamente articolate è plasmato da alcune fondamentali esperienze — corporeità, natalità, sofferenza e mortalità — in cui l’uomo si trova senza una sua deliberazione volontaria; proprio in tale passività originaria sono collocati gli indizi di un senso che può essere fatto proprio dalla libertà. Consentire al senso che traspare nelle esperienze originarie della passività significa «volere», ossia dare attivamente corpo alla propria libertà, dare un fondamento al proprio agire in quanto autorizzato da una speranza che merita l’impegno. In quest’ottica, si può dire che l’uomo sia anticipato a se stesso, ossia che nelle esperienze originarie della passività gli venga dischiuso un senso che egli non produce, ma che può coltivare e realizzare accordandogli fiducia; questo è il significato autentico, non puramente retorico, dell’asserto che dice della vita come di un dono, una grazia e una promessa di bene. Dunque, «la vita ha in se stessa una forma costitutivamente morale» (p. 43), in quanto di per sé carica di un’anticipazione di senso che suscita e giustifica la libertà e la disposizione di sé. Tali fondamentali esperienze della passività della coscienza plasmano l’intero cammino umano. La corporeità ne è la forma più radicale: l’uomo, che non è solo un corpo, si apre tuttavia al mondo sempre a partire da un corpo che riceve passivamente e che, con le sue dinamiche biologiche e psicologiche, plasma la sua esperienza prima di ogni deliberazione volontaria. A sua volta, il fatto di nascere da altri due esseri umani segna costitutivamente l’esperienza della coscienza, è un fondamento indeliberato che ci consegna un’immagine originariamente accogliente e promettente dello stare al mondo, costituendoci fin da subito in una relazione in trascendibile al­l’altro. A questo riferimento originario si collegano le esperienze successive dell’amicizia e dell’amore. L’incontro con la sofferenza e con la morte è poi a un tempo il richiamo più radicale alla passività dell’esperienza corporea e la prova più difficile cui questa esperienza grata della vita può essere esposta. La figura della coscienza che emerge da questa ricognizione fenomenologica non è quella, presupposta in tante analisi bioetiche, di un individuo dotato di un’identità pienamente definita a monte di ogni esperienza e di ogni relazione all’altro; è piutto- Massimo Reichlin sto quella dell’«ipseità», ossia di una forma della «presenza a sé» debitrice delle esperienze anticipatrici della vita che sono sempre esperienze della necessità di incontrare l’altro per pervenire a una immagine affidabile di sé. Come afferma sinteticamente l’au­to­re: «La coscienza è questa esperienza di sé, che si scopre preceduta, debitrice di sé a qual­cun altro, e dunque attesa, chiamata, convocata» (p. 47). Il senso della vita umana così articolato si raccoglie poi nell’ethos civile che lo interpreta e lo codifica nelle istituzioni. Esso è altresì a fondamento della dimensione normativa dell’etica, la quale mira a tutelare e promuovere il senso buono della vita che si annuncia nelle esperienze fondamentali, opponendosi a ciò che tradisce la qualità «donata» e relazionale dell’esperienza umana. La norma ha perciò un ruolo centrale, ma pur sempre sussidiario rispetto alla delineazione del senso; in particolare, essa non può essere intesa in modo puramente materiale, cosa che porterebbe a prescindere dall’espe­rienza della coscienza e dalla saggezza pratica individuale e a fare dell’agire morale una pura obbedienza esecutiva. Nel giudizio pratico concreto è invece essenziale l’interpretazione di come, nelle cir­costanze specifiche, meglio si lasci esprimere il senso dell’ami­ci­zia e della reciprocità che la norma intende tutelare. Lo sviluppo del volume segue lo schema delineato. Dopo l’introduzione in cui si presentano lo sviluppo storico dell’etica della vita e il modello di riflessione teologica adottato, il testo è suddiviso in quattro parti: la prima è dedicata al rapporto tra tecnica, ambiente e biomedicina, le altre alle tre grandi esperienze della passività, ossia il L’esperienza della vita al centro dell’indagine bioetica nascere, il morire e il patire. Secondo la consuetudine dei trattati teologico-morali, la parte sul nascere affronta il problema dell’a­borto e dello statuto dell’embrione, ma trascura la questione della procreazione assistita, di pertinenza della morale sessuale; ci si può peraltro chiedere se questa scelta si giustifichi alla luce del progetto di reinterpretazione complessiva dell’etica teologica della vita, nel cui contesto la questione della genitorialità presenta un’indubbia pertinenza e centralità. È interessante, invece, che, nella parte sul morire, accanto ai temi dell’euta­nasia, dell’accani­mento terapeutico e del suicidio, si comprenda un capitolo sulla legittima difesa, che cerca di articolare l’imprescindibile relazione all’altro e il ricorso, talvolta necessario, all’uso della forza. In tutti i capitoli, l’interpretazione delle fonti bibliche rilevanti accompagna il riferimento alla letteratura filosofica e teologica, nella giusta convinzione che il significato teologico inteso dalla rivelazione sia imprescindibile al fine di illuminare il senso dell’e­spe­rienza universalmente umana. Gli esiti di questa riflessione appaiono spesso convincenti, anche se a tratti il rapporto tra l’illustrazione filosofica e teologica dell’esperienza e le dimensioni strettamente normative appare controverso. L’impostazione di Chiodi sembra comunque in grado di raccordare significativamente l’anticipazione etico-antro­po­lo­gica del senso delle esperienze della passività con il compimento teologico di tale senso, quale si delinea nella vicenda di Gesù Cristo; in questo modo, offre un’immagine del sapere teologico che non prescinde dalla domanda di senso che muove l’esperienza umana tout court, ma che solo a partire da essa e in costante rapporto con essa presenta la proposta cristiana. Resta peraltro da chiedersi se il rapporto tra ermeneutica filosofica ed ermeneutica teologica sia davvero circolare e reciproco, o se la seconda non guidi la prima attraverso una chiara precomprensione; con ciò il compimento teologico risulterebbe certo per nulla estrinseco, ma pertinente in quanto esplicitazione dei presupposti antropologici adottati. Questa domanda rende in parte problematico l’intento, giustamente dichiarato dall’autore, di non voler far assumere alla riflessione teologica «il tratto esoterico e dogmatico di una riflessione per “soli credenti”» (p. X). Che non vi sia dogmatismo in queste pagine è fuori discussione; perciò, la prospettiva antropologica adottata appare suscettibile di generare un consenso anche presso i non credenti. Nondimeno, il debito che le riflessioni qui svolte intrattengono con le premesse proprie di una visione specificamente cristiana della vita pone l’interrogativo di quanto esse possano essere riconosciute in effetti come cogenti al di fuori di una prospettiva genuinamente credente.