Cosa c’entra la nozione di figura [forma dotata di significato e valore iconografico] con la
nozione di dimensione? C’entra, giacché nella sua formulazione più essenziale e generale
(cioè quella insegnata nei manuali di fisica e accettata in quelli di psicanalisi) il concetto di
dimensione è strettamente legato a quello di spazio di una rappresentazione; dimensione è il
numero di parametri necessari e sufficienti a rappresentare in un dato modo un dato
oggetto.
Evidentemente le figure, secondo quel processo che i linguisti chiamano
referenzializzazione, fanno riferimento a elementi del mondo naturale; poi, nel tessuto del
discorso o dell’immagine, le figure si combinano con altre figure che selezionano e
confermano la consistenza virtuale delle figure di partenza. Le immagini che diciamo
figurative e i discorsi fatti per figure sono quelle e quelli che più di tutte e tutti ricorrono
alla referenzializzazione, ottengono un effetto credibile di realtà accrescendo e raddensando
la rete dei rimandi tra le figure. Le figure attuano così quella vasta rete di relazioni
costituente la sedimentazione semantica che, sotto gli occhi di un lettore o di uno spettatore,
diviene, come dicono i semiologi, attualizzazione del senso.
Dunque, come l’adagio vuole della bellezza, anche la dimensione sta …negli occhi di chi
guarda, o meglio, nella mente di chi legge giacché la dimensione è, prima di tutto, un fatto
semiosico; almeno se si crede, come voleva Peirce, che sia già semiosi la stessa percezione.
Tuttavia non occorre scomodare l’ingombrante semiotica cognitiva di Peirce per constatare
banalmente che l’ambiente costruito – tramite il suo funzionamento gestaltico e prossemico
– è intrinsecamente illusivo; nel senso che v’è differenza tra le dimensioni (spaziali,
luministiche, acustiche, temporali …) rilevabili metricamente e quelle che si ritengono
percepite (otticamente, acusticamente, tatticamente) da chi vive in quell’ambiente costruito.
E per constatare che ogni rappresentazione di quell’ambiente è a sua volta e nuovamente
illusiva nel senso anzidetto.
Mentre al malcapitato monsieur de Lapalisse è fatto constatare che tutto ciò che è provato
dal soggetto è soggettivo, possiamo invece chiederci come certe figure inducano
(intersoggettivamente), per effetto di certi segmenti del loro significato, un particolare uso
della dimensione.
Scopo di questa memoria è proprio quello di richiamare attenzione su una certa specificità
storica del soggetto Venezia nella questione del concetto fisico e geometrico di dimensione,
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
436
entrato nel dispositivo di alcune rappresentazioni che hanno coinvolto direttamente la città
lagunare come soggetto o come allegoria. Una specificità dovuta al fatto che Venezia,
celebrata miticamente come realizzato equilibrio [teleonomico] di natura e artificio, di
misura e invenzione, si è fatta emblema della metafora incarnata nella figura topologica
dell’arcipelago, una figura declinata particolarmente in alcuni episodi dal teatro musicale
veneziano.
“Cento profonde solitudini formano insieme la città di Venezia – questo è il suo incanto.
Un’immagine per gli uomini del futuro.”
Così il tratto essenziale della simbolicità di Venezia è colto dal Nietzsche dei Frammenti
postumi ed è citato da Manfredo Tafuri nel 1985 ad apertura del suo Venezia e il
Rinascimento, il primo libro che filologicamente faceva piazza pulita delle vulgate visioni
credenti al rispecchiamento risolutivo di un’armonia mundi in un’armonia urbis; un
rispecchiamento che molti architetti interpretano ancora attraverso il culto del continuum
(spesso letto come organicità del tessuto urbano o ripetizione di stilemi) e insieme del
tracotante superamento del passato, credendo di “presentificandolo” nel carnevale
postmoderno inaugurato dalla Via Novissima (1980).
Se si voleva leggere nella Venezia rinascimentale di Pacioli, dei proti magistri, di
Sansovino, … l’harmonia tra tradizione e renovatio per fare della città lagunare
l’exemplum di un equilibrio teleonomico, la filologia di Tafuri richiedeva un ascolto
tecnico, analitico, rivelante quell’equilibrio come intrinsecamente insoluto (aperto), giacché
conteso tra diverse istanze tecniche, artistiche, e differenti istanze politiche che si
contendono contenendosi. Venezia è tanto più exemplum (e simbolo) quanto più la si
ascolta come problema, come “opera aperta”, pluralità simultanea di tempi resistenti.
Così l’ascolto filologico delle tecniche avanzato da Tafuri nei primi anni ‘80 entrava in
risonanza (politica ed estetica) con un altro invito veneziano all’ascolto: il Prometeo,
Tragedia dell’Ascolto, opera di Luigi Nono su testi curati da Massimo Cacciari, la cui
437
Fabrizio Gay
prima è eseguita il 25 settembre 1984 presso la chiesa di San Lorenzo a Venezia,
nell’impianto scenico progettato da Renzo Piano.
Per comprendere i nessi con la Venezia rinascimentale di quest’opera, profondamente
antisimbolica e antimetaforica, non basta richiamare l’interesse del compositore per la
tradizione madrigalistica e polifonica veneziana, per la tecnica dei cori battenti adottata
nella liturgia marciana; occorre innanzitutto ricordare che il teatro musicale è un rituale
celebrante un’affermazione di identità politica della cittadinanza nella città. In questo senso
il rito teatrale è mitologico giacché celebra l’identificazione dei cittadini in una storia e in
un sito che di quella storia fa giustificazione, fondazione. Mito, sito e rito devono dunque
intendersi come tre reciproci interpretanti.
Basta al riguardo considerare (fig.1) una tra le tante testimonianze delle coreografie dei riti
pubblici veneziani: la veduta pubblicata nel 1610 che illustra piazza San Marco “…per la
quale passa il Sereniss. Principe in processione con la Signoria il giorno solenne del Corpo
di Cristo Sacratiss., e in altre occasioni, ò di pace, ò di guerra, alla quale interviene (…)
tutto il clero, e tutte le Religioni e le Sei Scole Grande, le quali veggono all’infinito ordine
che sogliono a gara Rapresentar Misteri della nostra Sanctiss.a Religione,…”
La complessa processione del Corpus Domini è parte di una consuetudine liturgica ove non
c’è alcuna distinzione effettiva tra rito sacro (della Chiesa) e cerimoniale di Stato. I riti
religiosi sono riti politici: la celebrazione dell’Ascensione coincide con quella dello
Sposalizio del mare, l’Annunciazione s’identifica alla festa della fondazione della Città,
ecc… E questo poiché, nella Venezia fedele all’Origine e immersa nel mito irenico, la
Chiesa è sempre Chiesa di Stato.
La chiesa di San Marco è a tutti gli effetti cappella dogale (non è sede patriarcale); è
letteralmente basilica, luogo in cui risiede il basileus, sul modello istituzionale della Chiesa
Imperiale di Costantino.
Da Costantinopoli è tratta come testimone la
quadriga trionfale di rame dorato, ostesa
sulla terrazza del nartece basilicale, tribuna
d’onore della platea ora simbolo di una
Terza Roma tra Oriente e Occidente. Quella
quadriglia, ch’era posta sulle torre
Figura 1 ANONIMO, Processione
del Corpus Domini in piazza San
Marco, da, Habiti … , Giacomo
Franco, Venezia 1610 (Venezia,
Museo Correr, Stampe E9 bis).
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
438
dell’ippodromo di Bisanzio, ora testimonia che è la platea marciana il vero analogon
dell’Ippodromo costantinopolitano dove nell’agone sportivo si contendevano le tifoserie
politiche.
Il rito marciano celebra dunque la composizione dei conflitti tra le parti politiche (e,
secondo il mito irenico, le diverse Religioni) sotto l’egida del basileus. Celebra una
composizione figurata coreograficamente e con il concorso della musica: letteralmente
chorós, danza accompagnata dal canto.
Coreograficamente, come mostra l’incisione, il corteo si dispone secondo un’evidente
similitudine del tessuto edilizio: un interminabile velario-baldacchino fa da eco ai porticati
della piazza snodandosi tra la porta da mare del palazzo ducale e il nartece della basilica
secondo la figura di un labirinto che viene ulteriormente tessuto dal concorso di molte altre
fila affiancate e intersecate.
Il meandro dei cortei ricuce fisicamente uno spazio conteso tra edifici linguisticamente
stranieri uno all’altro. Costruzioni linguisticamente contrapposte come personaggi nei ruoli
assegnati loro dal programma iconografico e prossemico della Venetia Triunphans: il
sapere (la biblioteca Marciana, custode in forme romane del lascito librario
Costantinopolitano) che legittima il potere (il Palazzo Ducale), il tempo delle mercature (la
torre dell’Orologio e le Mercerie) che misura lo spazio delle alleanze (la loggetta dei
Nobili, la scala dei Giganti, …).
Questo spazio conteso è rappresentato nell’incisione con una prospettiva distorta, una vista
che compone, rifratte liquidamente, più prospettive, come se anche il punto di vista fosse
soggetto a un percorso che asseconda la rotta prescritta del rito scenico.
Pur nell’epoca del dominio della prospettiva, alla rappresentazione di questo spazio urbano
ad arcipelago si presta meglio il portolano, o una figurazione che diremmo quasi topologica
(cioè non rigidamente topografica e proiettiva), che si limita a evocare lo spazio come
costellazione di luoghi deputati, dove le architetture si mostrano come i personaggi scenici
(le garitte) di una Sacra Rappresentazione medievale.
439
Fabrizio Gay
Nonostante sia stata la città topologica, la città arcipelago, per antonomasia anche la
Venezia del tardo ‘400 ha conosciuto in diretta le sue celebrazioni figurative in prospettiva.
Mentre con apporti fiorentini si completava il suo coronamento gotico nella basilica di San
Marco (tra 1486 e ‘93) si costruisce la nuova sacrestia i cui dossali offriranno viste urbane
realisticamente ideali. Si tratta di una serie di tarsie lignee di accurato disegno prospettico secondo la tecnica inaugurata nella fiorentina sacrestia delle messe (1436-64) di Santa
Maria del Fiore - dove figurano diversi edifici, già codussiani e lombardeschi, rappresentati
frontalmente. Queste tarsie lignee, rievocando le regolarità geometriche (i rapporti di
partizione) delle tarsie marmoree delle coeve superfici architettoniche veneziane, attestano
l’applicazione del lascito tecnico fiorentino-urbinate della prospettiva e della proportio, se
non altro attraverso i nomi di Antonio Degli Abati e Gian Marco Canozzi che riportano alla
celebre famiglia di intarsiatori lendinaresi, legati a Piero della Francesca da un’amicizia
testimoniata da Luca Pacioli. Ed è ovviamente proprio l’importanza della presenza
veneziana di Pacioli, l’autore della Summa di Arithmetica, Geometria, Proportioni e
Proporzionalità (il primo a stampa), e della celebre Divina Proportione, (1496-1509), a
sottolineare il peso crescente dell’aritmetica e della geometria pratica nel sistema delle
tecniche artistiche, tanto da indurci a sospettare gli effetti della sua proportio [teoria dei
rapporti] nelle opere d’alto artigianato iscritte nel rito pubblico.
Non so quale fosse il coro veneziano per il quale Pacioli loda l’opera di Gian Marco
Canozzi; ma del matematico francescano si potrebbero documentare gli apporti alla chiesa
francescana di Santa Maria Gloriosa dei Frari dove il coro ligneo resta - navicella, chiesa
nella chiesa - come unica vestigia dell’insediamento originario, attorno al quale l’edificio è
riedificato nelle forme che ha definitivamente nella metà del XV secolo.
Se si pensa al coro, come oggetto edilizio e insieme strumento musicale, a come si
disponga solitamente coronando l’asse longitudinale della chiesa, dove viene talora
identificato allo stesso santuario o al presbiterio, o dove diviene capitolo, si comprende
anche la peculiarità delle sue occorrenze rinascimentali a Venezia. Fin dal primo sguardo
sul rito musicale veneziano risultano evidenti le dimensioni spaziali della polifonia
veneziana i cui intrecci sono talora descritti proprio attraverso l’analogia all’agone o alla
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
440
battaglia (battaglia designa talora la stessa pratica responsoriale per i due organi della
basilica Marciana).
Come vediamo ancora attraverso gli occhi di Carpaccio o di Gentile Bellini, nelle
celebrazioni dell’ormai compiutamente policroma San Marco della fine del ‘400
s’introducono gli strumenti musicali, compresi i violini e in particolare gli ottoni. Che ciò
avvenisse anche all’interno della chiesa è fatto notissimo e ampiamente apprezzato,
soprattutto attraverso l’opera di Andrea e Giovanni Gabrieli, organisti di San Marco, che
testimonia quanto la musica, segnando una grande espansione e autonomia della polifonia
strumentale, fosse parte decisiva della liturgia marciana del XVI secolo. Proprio nella San
Marco dei due Gabrieli si sviluppa la pratica polifonica detta dei cori battenti. Ancora oggi
coro battente o spezzato, indica un complesso composto da distinti gruppi corali, coinvolti
in un’esecuzione accentuatamente polifonica con particolari effetti di spazializzazione del
suono: risposte, echi, spostamenti delle fonti, battimenti e contrappunti a distanza. Battente
in origine [coro con battente] connota anche il coro come luogo architettonico, riferendosi
all’usanza di battere il tempo, a evidente similitudine marinara, sulla piattaforma lignea
delle cantorie isolate e sospese sul pavimento della basilica, il cui riquadro centrale in
marmo greco venato era detto mare.
Con l’aumentato piacere spaziale della vis polemica tra le parti in concerto si accentua
anche un sostanziale ruolo significante della musica nel rito pubblico come
rappresentazione di un’armonia che sussume i conflitti.
“Armonia est concordia discors”: la celebre epigrafe nel frontespizio del trattato di Gaffurio
(1520) è metafora comune a tutta la letteratura politica classica, solo che nel Rinascimento
sembra rivestirsi degli abiti tecnici della proportio, e di fatto si arma di una formidabile
tecnica contabile. La quasi totalità della letteratura tecnica
architettonica e musicale del Rinascimento, dove lo stesso
linguaggio aritmetico descrive tanto i rapporti tra le
frequenze dei suoni musicali quanto i rapporti tra le
estensioni spaziali delle membrature architettoniche, invoca
proprio come principio regolatore la concordia discordante
nell’accezione numerologica. Tuttavia, al di là di una
minima condivisione della tecnica numerica della
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commodulatio, questa formulazione della concordia discors non consente di per sé alcuna
sovrapposizione significativa tra musica e architettura o politica. L’armonia (euritmia come
effetto della proportio) è soltanto una fortunatissima metafora che non riguarda
principalmente né la musica, né l’architettura o l’arte politica; riguarda sostanzialmente il
fondamento metafisico della mentalità analogica del Rinascimento che trae principi
dall’ermeneutica del testo biblico (specie nei suoi exempla numerologici: il tempio di
Salomone, l’Arca dell’Alleanza, l’arca di Noè, …) e dal mito Pitagorico e Platonico della
legalità numerica e geometrica del cosmo per leggere, attraverso il linguaggio aritmetico
dei rapporti e delle proporzionalità, l’analogia (che letteralmente significa uguaglianza di
rapporti) tra microcosmo e macrocosmo.
È questa un’idea che non si può astrarre dalla mentalità magico ermetica che permea buona
parte del prescientismo cinquecentesco, ricordando che la concordia discorde, o la discordia
concorde, è solo un espediente retorico, un ossimoro, un paradosso conciso, una
proposizione composta da due termini che si contraddicono e che per alludere a un senso
non possono che rinviare allusivamente a un superamento della logica sancendo quella loro
contraddizione.
Per quanto l’armonia, attraverso la proportio, appaia effabile e realizzabile, non può
considerarsi definita, ma solo simbolizzata. Come la tradizione neoplatonica e mistica
aveva ormai insegnato, l’idea di harmonia è al più e soltanto circoscritta negativamente dal
linguaggio, attraverso esclusioni e metafore - cose che parlano sempre d’altro -, magari per
totale dissomiglianza, oppure per ossimoro ( “caligine luminosissima”), per tramite di una
figura che afferma sempre la compresenza del suo contrario.
L’idea di armonia è dunque in bilico tra similitudine e metafora: tanto irriducibilmente
metaforico è il suo senso quanto concretamente tecnici sono i tentativi di definirla
attraverso similitudini geometriche e aritmetiche. Notoriamente la stessa idea di scala
musicale è costruita sul dispositivo dell’intervallo naturale tra i suoni, espresso come
rapporto fra le frequenze dei suoni in frazioni semplici: 2/1 (ottava), 3/2 (quinta), 4/3
(quarta), 5/4 (terza maggiore), 6/5 (terza minore). Dunque a questi tentativi dobbiamo, ad
esempio, i modelli strutturali delle scale musicali fondate sugli intervalli cromatici e
diatonici, nonché gli analoghi modelli strutturali delle scale del colore fondate sul principio
della tricromia.
Figura 2 Quadrato magico, particolare della
Melancolia di Albrecht DÜRER, 1514.
Oltre alla consueta proprietà per cui la somma
di ogni riga, colonna e diagonale è = 34,
questo quadrato gode anche delle seguenti: i)
la somma delle 4 cifre angolari, come quella
delle 4 cifre centrali, è ancora uguale alla
costante 34; ii) si scompone in quattro quadrati
in cui la somma delle cifre diagonali è = 34,
, inoltre si constata che l’identità 3n + 5n + 12n + 14n = 2n + 8n + 9n + 15n
è vera per n = 1, 2, 3; iii) la somma dei quadrati delle cifre della prima
riga è uguale a quella dei quadrati della quarta riga, così come accade
per la somma dei quadrati della seconda e della terza riga, della prima e
della quarta colonna, della seconda e della terza colonna. Per n = 1 e 2
sono vere le identità:
2n + 3n + 13n + 16n = 1n + 4n + 14n + 15n
5n + 8n + 10n + 11n = 6n + 7n + 9n + 12n
4n + 5n + 9n + 16n = 1n + 8n + 12n + 13n
3n + 6n + 10n + 15n = 2n + 7n + 11n + 14n
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
442
Tecnicamente non si tratta d’altro che di definire le parti di un’unità coerentemente alla
struttura profonda (essenzialmente numerica e geometrica) dell’unità; quanto più
strutturalmente coerente è la partizione, tanto più probabilmente armonica sarà la
composizione di quelle parti in un’opera d’arte.
La nozione di armonia si sovrappone dunque a quella di modello, mostrando tutta la sua
convenzionalità.
Sebbene l’armonia non possa essere rigorosamente definita in sé, tuttavia essa è imitabile:
ars imitatur naturam in sua operatione; ecco la novità rinascimentale che fa dell’armonia
un principio (regolativo) teleonomico. Un principio che evidentemente informa tuttora le
concezioni ecologiche.
Ciò che si dice armonia come discordia concorde è dunque sostanzialmente un principio
teleonomico (come quello che oggi si crede misurabile attraverso la dimensione della
sintropia); ma la sua ostensione rituale nel XVI secolo è solo il risvolto teatrale del potente
metalinguaggio della geometria e dell’aritmetica pratica (insegnate principalmente nelle
scuole d’abaco) ormai in grado di misurare diverse dimensioni fenomeniche. Nel
prescientismo cinquecentesco quello aritmetico e geometrico è un metalinguaggio che ha
molti linguaggi oggetto, quelli praticati dalle tante tecniche che stanno ritagliando la loro
autonomia e dignità. Dalla musica alla metallurgia, dalla meccanica all’architettura, alla
prospettiva …, è proprio la quantità di contenuto matematico nella loro letteratura che
misura l’emancipazione di questi saperi da abbandonata esperienza a tecnica in grado di
potere, giacché prodotta da un “ragionare per cause”.
Il termine analogia s’appresta allora a significare tecnicamente la corrispondenza tra due
fenomeni di natura diversa allorché i loro modelli sono in qualche modo isomorfi, sono retti
dalle stesse equazioni. E per rendere lecito a una mentalità medievale l’uso di quelle
equazioni come leggi di fenomeni empiricamente verificabili, occorreva postulare
estaticamente un ordine cosmico “Scritto …” in [meta]linguaggio matematico.
Fuori da quella visione estatica (puramente regolativa) la proportio insegnata nelle scuole
d’abaco non è otium ma, al contrario, strumento di negotium [nec-otium], congegno
giuridico, realisticamente contrattuale, per regolare interessi di una parte nei rapporti con
gli interessi di altre parti.
443
Fabrizio Gay
Nei trattati d’abaco l’ampio spazio dedicato alle prove di correttezza delle divisioni e delle
moltiplicazioni, attraverso diversi algoritmi, ci ricorda quanto proprio dall’esattezza dei
calcoli dipendesse l’assenza di conflitti giudiziari. Non si trattava dunque dell’aritmetica
come pura speculazione delle proprietà dei numeri, ma di una teoria delle operazioni
razionali che risultava enormemente semplificata dall’introduzione del sistema numerico
posizionale indo-arabico. La teoria delle operazioni razionali, oltre a garantire la correttezza
del calcolo, permetteva il difficile lavoro di comparazione tra unità di misura e tra sistemi
monetari che non erano su base decimale e si diversificavano in ogni città.
Certo la teoria delle proporzioni [delle uguaglianze di rapporti a:b = c:d] era impiegata nei
rudimenti di prospettiva, nelle tecniche di rilevamento indiretto, nella pratica metallurgica e
musicale, ma il suo impiego più raffinato spettava ai problemi finanziari quali la
ripartizione degli utili di una società in base al capitale versato dai componenti, o il calcolo
degli interessi semplici e composti. Qui l’uso della teoria delle proporzioni era
principalmente un’alternativa alla risoluzione algebrica di equazioni e di sistemi di primo
grado: quest’uso si riduceva alla determinazione del quarto proporzionale - regola delle tre
cose o del tre semplice – dalla quale discendevano anche le regole di [semplice o doppia]
falsa posizione.
L’introduzione del sistema numerico posizionale indo-arabico nell’insegnamento abacistico
aveva notoriamente semplificato gli algoritmi della moltiplicazione e della divisione
permettendo di dare un assetto grafico figurale alla tabula da calcolo. Della moltiplicazione
di due numeri ad almeno due cifre era insegnato l’attuale e abituale algoritmo già detto a
scaletta, ma anche a scacchiere, a bericuocolo o a organetto. Della moltiplicazione
s’insegnava anche la soluzione con algoritmi scritti alla francese, a castelluccio, a crocetta
e a gelosia. Il nostro metodo di scrittura della divisione era detto talora a danda, ma ne si
insegnava anche una soluzione a galera; nomi che evocano ovviamente le figure grafiche
d’ausilio visivo, mnemotecnico, per l’organizzazione di complicati procedimenti aritmetici.
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
444
La tecnica delle tabulae da calcolo rafforza anche l’antico dispositivo dei quadrati magici:
tabelle quadrate di n2 numeri naturali progressivi disposti in modo tale che la somma dei
numeri di ciascuna riga, come quella di ciascuna colonna e come quella di ciascuna
diagonale, dia sempre uno stesso numero [costante magica] come risultato.
Ereditati dalla cultura cinese (come testimonia lo stesso Pacioli) e indiana, i quadrati
magici, attraverso l’uso astronomico, divengono celeberrimi nell’eccitazione magico
ermetica del Rinascimento prescientista. Celebrati fin dalla Melancolia di Duerer (fig. 2) e
soprattutto dal De occulta philosophia (1531) di Cornelio Agrippa, i quadrati magici
richiamano procedimenti della gematrìa cabalistica: l'interpretazione aritmetica
(permutativa) o geometrica della scrittura letterale della Torah.
Sostanzialmente lo schema tabulare a due dimensioni per il calcolo delle partizioni di una
quantità data, e tale da far figurare queste parti in una distribuzione strutturata spazialmente
secondo l’addizione, continua a essere usata nell’ars combinatoria come tecnica di
definizione delle parti di un’unità, coerentemente alla struttura aritmetica elementare della
quantità di partenza, e soprattutto come tecnica di variazione compositiva di quell’insieme
di parti nel rispetto della coerenza e comprensibilità del tutto.
Rispondendo tecnicamente alla suggestione originaria di una parte
della mistica ebraica che concepisce appunto la Torah come la
partitura sulla quale il Creatore ha tratto l’armonia del cosmo, i
quadrati
magici,
mutando
significato,
ispirano
già
all’enciclopedismo immaginifico barocco della Musurgia
Universalis … (1650) di Athanasius Kircher, procedimenti
automatici di composizione musicale (fig. 3).
Fuori dall’antico pensiero allegorico e figurale, secolarizzata da
ogni mistica del testo, nasce la vera e propria teoria matematica
dei quadrati magici che, rubricata nel genere delle matematiche
ricreative, si giova fino al ‘900 inoltrato di raffinatissimi sviluppi
disciplinari.
E al ‘900 giunge anche l’applicazione artistica dei quadrati magici
come strumento automatico di composizione musicale
(specialmente nel Webern della sinfonia op. 21, ma già
Figura 3 Tabula Mirifica, da A.
KIRCHER, Musurgia Universalis, sive
Ars Magna consoni et dissoni... ,tomo I,
fol. 363, ed. eredi Francesco Corbelleti,
Roma 1650.
445
Fabrizio Gay
variamente presenti nel serialismo a partire da Schönberg) e di composizione pittorica (in
particolare nell’opera pedagogica di Paul Klee).
Qui è importante soffermarci a notare come nell’idea di armonia delle parti nel tutto il
senso mistico-ermetico abbia ceduto il passo a quello strettamente fenomenologico.
La tecnica dei quadrati magici è usata dai compositori seriali come metalinguaggio
ausiliario. Essa non è scrittura musicale, non è partitura, né figurazione pittorica; non è,
come la notazione musicale, o quella metrica, coreografica o coloristica, una semia
sostitutiva, cioè una scrittura che impartisce direttamente (diremmo per traslitterazione) le
istruzioni della sua esecuzione. È invece metalinguaggio combinatorio (meta-partitura o
meta-disegno), e come tale si presta a trattare tutti i diversi linguaggi oggetto suscettibili di
una strutturazione aritmetica seriale (in quanto originariamente partitiva) e semplice, come
ogni sistema di composizione musicale fondato sull'impiego di una prestabilita e invariabile
successione di suoni, oppure ogni sistema di composizione cromatica basato su una
struttura relazionale del colore essenzialmente unitaria. Non si tratta altrimenti che di
tabulare l’unità del fenomeno nelle sue parti, farne partita; così, seguendo l’esempio,
ciascuna delle dimensioni del suono musicale - tono, timbro e volume – o del colore – tono
cromatico, saturazione e luminosità – sono misurate in diverse strutture partitive le cui
proprietà numeriche e geometriche rappresentano precise proprietà constatabili nella
fenomenologia empirica.
Nella composizione contemporanea, fuori dai casi di ingenua e banale credenza semantica,
l’unitarietà della struttura del suono o del colore è fondata su una fenomenologia (più o
meno empirica) e non postulandone un significato extrafenomenico, un riferimento
giustificativo dell’impressione psicologica. La pittura mette in discussione il tema stesso
della composizione del colore riproponendo in tutt’altro senso la distinzione tra colori
fondamentali e derivati, così come il serialismo musicale ridiscute radicalmente
l’importanza della scansione tonale dello spazio sonoro.
Su questo punto dobbiamo soffermarci constatando che, nel momento in cui si propone una
spiegazione fenomenologica elementare del prodursi del colore e del suono come eventi
fisici, il tema stesso dell’unità dello spazio cromatico o dello spazio sonoro, come lo stesso
tema della semplicità e della composizione di suoni e di colori, acquista un nuovo senso.
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
446
Ovviamente essendovi suoni che consuonano e colori che emergono per addizione devono
logicamente esistere suoni e colori composti e semplici, e soprattutto deve esistere una
struttura relazionale tra questi che si rivela nella stessa esperienza empirica del fenomeno
della transizione da colore a colore e della transizione da suono a suono. Così strutturati
suono e colore si possono immaginare (topologicamente) come spazi, giacché le differenze
tra colore e colore, e tra suono e suono si possono rappresentarsi come distanze tra le fasi di
percorsi cromatici o sonori.
Ecco dunque che la struttura dello spazio cromatico, come quella modellizzata dalla sfera di
Runge, si verifica nell’esperienza fenomenica come ritmo della transizione continua
(sfumata) da colore a colore, da tono a tono. L’esperienza c’impone che transitando dal
rosso al verde si passi necessariamente per il grigio, e ciò non è fatto della psicologia della
percezione, ma della logica stessa del colore; ciò dipende dal fatto che, come afferma lo
stesso Runge “… non possiamo rappresentarci un verde che tende al rosso, un arancio che
tende all’azzurro, un violetto che tende al giallo proprio come non possiamo rappresentarci
un occidente orientale o un nord meridionale”.
È decisivo notare come in queste considerazioni strutturali e fenomenologiche dello spazio
cromatico è priva di qualsiasi vero appiglio simbolico e psicologico la questione
dell’armonia come concordia discors espressa in termini di concordanze e discordanze
cromatiche. Nella sfera di Runge l’opposizione tra due colori (tra due punti dello spazio
cromatico) è banalmente la relazione di opposizione diametrale, la relazione di antipodalità;
come dirà Itten, “…due colori sono armonici se la loro combinazione dà un grigio neutro”.
L’armonia diviene una questione aritmetica in sé priva di interesse; ciò che il modello dello
spazio cromatico offre è la possibilità di differenziare tipi di accostamenti cromatici, è solo
il materiale aperto a una possibile grammatica del colore.
Analoghe considerazioni strutturali valgono per il modello dello spazio sonoro.
Dal fatto che è possibile disporre i suoni in una successione percepita come progressione,
risulta che ogni suono si distingue per differenza da un’altro più grave e da un’altro più
acuto; la molteplicità del suono risponde a uno spazio unitario, così come la molteplicità
dei colori si riconduce all’unità del divenire (del variare) del colore. Segue ovviamente per
il suono una distinzione scalare analoga alla dimensione tonale (chiaroscurale) dello spazio
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Fabrizio Gay
cromatico: le direzioni dell’acuto e del grave nello spazio acustico sembrano corrispondere
a quelle del bianco e del nero nello spazio cromatico.
Il fenomeno della transizione da suono a suono, oltre a mostrare la dimensione
chiaroscurale delle progressioni sonore, risulta anche scandito ciclicamente dalle
consonanze. Ciò significa che a ogni suono (a ogni punto dello spazio sonoro) ne
corrisponde un altro diverso ma la cui frequenza sta in un rapporto di 2/1 (di ottava) con
quella del primo.
Lo spazio acustico è dunque chiuso (in senso topologico) tra un acuto e un grave, ma ha
una struttura iterativa; perciò ogni suo segmento è rappresentativo de [si può porre in
corrispondenza con] l’intera struttura.
La definizione della struttura iterativa dello spazio sonoro - ciò che sancisce insieme
l’identità e la differenza tra i suoni - si basa dunque sulla nozione empirica e fisica di
consonanza, misurato ed espresso tradizionalmente nel rapporto di ottava. Ma una volta
definita la struttura dello spazio sonoro (assumendo le frequenze multiple o sottomultiple di
una frequenza fondamentale) la nozione di ottava non è di per sé necessaria, come non lo è
più il retaggio linguistico che comporta la tonalità, cioè l’uso di un suono base, detto tonica,
dal quale si fanno dipendere i suoni e gli accordi a fondamento melodico e armonico delle
composizioni. Appunto le teorie atonali della musica contemporanea storicizzano e
svalutano fenomenologicamente la nozione di consonanza proponendo l’uso di tutta la scala
cromatica, detta il totale cromatico. Emancipando la nozione di dissonanza dal ruolo
subordinato che ha nella tradizionale sintassi tonale, la serie di dodici suoni a cui approdano
i tentativi di Schönberg, propone un nuovo ordine ai suoni della scala cromatica, un ordine
strutturale dal quale si possono dedurre tutti gli aspetti logici (melodici e armonici) della
composizione, aprendola a nuove prospettive espressive. È un ordine che si vuole
numerologicamente regolato sull’analogia tra la strutture dello spazio acustico e quella
dello spazio cromatico (secondo la teoria tricromatica), ma che di per sé non autorizza
alcuna omologia tra le dimensioni del suono e quelle del colore; non allude ad alcuna
traslitterazione suono-colore, come invece facevano i dei tanti avanguardisti nostalgici delle
sinestesie del Gesamtkunstwerk.
Il serialismo novecentesco non vuole certo una nuova semantica del suono e del colore, non
vuole alcuna simbologia unificante l’esperienza estetica. Si oppone risolutamente a tentativi
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
448
di giustificare extralinguisticamente il sistema espressivo fondato sulle consonanze e
sembra spostare la questione sul piano prelinguistico delle considerazioni fenomenologiche.
Certo le considerazioni fenomenologiche dello spazio cromatico e dello spazio acustico
avevano fatto cadere l’interesse di una definizione dell’armonia degli accostamenti
cromatici, e avevano così consentito l’affermazione dell’esigenza di un impiego molto più
libero della dissonanza. Non si parlava più simbolicamente di armonia, ma semmai di un
totale del quale si fa partita prima che partitura; una partita nella quale si contabilizzano la
somiglianza e la dissomiglianza qualitativa dei suoni o dei colori.
Ovviamente la concezione seriale (la razionalizzazione della dodecafonia nei primi anni
‘50) non ha cancellato ogni idea di musica come linguaggio, come legata a una qualche
convenzionalità delle sue forme e delle sue strutture espressive. Le forme fondamentali
della Serie che Anton Webern calcola attraverso il suo celebre quadrato magico sono solo
meta-scrittura, costituiscono una matrice di partenza che dovrebbe garantire alla
composizione l’effetto di consegnare all’ascolto la comprensione dell’unità dello spazio
sonoro. Queste partite (questi schemi) si situano a un livello intermedio tra il piano
prelinguistico (la struttura dello spazio sonoro) e il piano linguistico (le grammatiche
storiche nelle quali agisce l’empiria soggettiva). Grazie alla loro relativa obiettività nel
riconoscere l’ordine strutturale immanente al materiale sonoro, queste partite determinano
virtualmente la matrice di alternative possibili dentro la quale avviene il libero gioco della
partitura compositiva. Tornando con una similitudine alla nostra figura di partenza,
potremmo dire che le partite, le scacchiere numeriche (come teatri numerici della memoria)
entro le quali si organizzano strutturalmente le parti del materiale espressivo, sono come
l’arcipelago nel quale le partiture individuano le rotte possibili facendo risonare l’apertura
alle altre possibilità.
La Serie e i suoi schemi compositivi diagrammatici dalla formulazione di Schönberg passa
formalizzandosi a Webern, Leibowitz, … per costituire gli ingredienti del serialismo totale
agli inizi degli anni ’50. Per questa via e in questi anni anche Luigi Nono utilizza una
tecnica di meta-scrittura simile a quella dei quadrati magici, così come farà uso in seguito
449
Fabrizio Gay
(specie nelle prime versioni del Prometeo) di notazioni tramite figure e colori legate al tema
della totalità dello spazio acustico in tutto il suo senso radicalmente antisimbolico che
abbiamo innanzi ricordato.
Tanto antidescrittiva è tutta la sua musica, come il suo teatro musicale degli anni ‘80, che
sarebbe del tutto inadeguato leggere ancora nell’arcipelago del Prometeo veneziano di
Nono-Cacciari una qualche similitudine geografica e narrativa. Nella sua Tragedia
dell’ascolto Nono nega radicalmente l’uso della metafora; il suono, il colore, lo spazio
scenico, non parlano d’altro, non rappresentano, non sono al posto di … ; chiedono Ascolto
e non significazione in immagine iconica.
Ma in che termini si può dare concretamente l’ossimoro di un teatro dell’ascolto? In che
termini può darsi - se può darsi - in una rappresentazione inevitabilmente scenica, questo,
quasi ineffabile, stato di auroralità semiotica del suono e del colore?
Credo che non si possa eludere la dimensione semiotica, nemmeno nell’esperienza astratta
della musica; ma di quella dimensione si può fare un uso sospeso e frammentato.
Fin dall’inizio degli anni ’60, dai suoi Appunti per un nuovo teatro musicale, Nono critica
le omologie didascaliche che costituiscono il teatro musicale tradizionale: la solidarietà
meccanica tra canto e orchestra, la prospetticità della rappresentazione tutta traguardata
verso il solo polo scenico visivo e sonoro, la staticità del rapporto tra la dimensione
temporale e quella spaziale, … e cerca un’alternativa alle distinzioni dimensionali
dell’opera tradizionale: pubblico/scena, sonoro/visivo; un’alternativa non soddisfatta
pienamente dall’excursus dei trovati del teatro d’avanguardia novecentesco.
Vent’anni dopo, con il Prometeo Nono prova ancora a realizzare quest’idea di teatro
musicale fondata sulla critica radicale alla didascalicità reciproca (narrativa) che salda tra
loro le dimensioni della musica e dello spazio nel teatro musicale tradizionale dove vige il
primato della vista iconica sull’ascolto.
La prima scelta di Nono (e di Cacciari), documentata da molti studi ancora in forma di
meta-scrittura, non è affatto l’elisione delle dimensioni cromatica e sonora. Anzi in questi
studi preliminari il compositore fa un uso sistematico del colore codificato (addirittura
accanto ai segni a pennarello annota il corrispondente numero di codice del pantone);
associa colore a personaggio - Prometeo-rosso, Io-gialla, Muthos-azzurro, … - e associa
colore a parte dell’opera, mentre queste “parti” vengono figurate come “isole”. Come
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
450
riferisce lo stesso Nono (in A.I. DE BENDICTIS, V. RIZZARDI, Scritti e colloqui, vol. II, LIM
Ricordi, Lucca 2001, p.559) , secondo un’idea di Cacciari, si concepisce
… l’opera come un arcipelago formato da tante isole. Non scene dunque ma isole (…) il
percorso si sarebbe configurato come una navigazione vagante tra queste isole. Di qui
nacquero i primi progetti che riguardavano allora il piano visivo. Con Renzo Piano
avevamo parlato della possibilità di avere isole sospese negli spazi e varie cantorie. La
navigazione da una all’altra si sarebbe potuta inventare anche proiettando sulle pareti e sul
pubblico una specie di rotta luminosa di colori, come nelle mappe di navigazione a colori
del ‘400 e del ‘500.
La figura dell’arcipelago, come la stessa simbolicità implicita nei colori delle parti (isolepersonaggi), è valsa solo come suggestione iniziale, come metafora transitoria che ha
condotto fuori dal predominio iconico della vista. L’arcipelago evocato dai portolani a
colori designerà nella realtà dell’opera realizzata solo uno spazio d’effetto topologico, cioè
descrivibile in un grafo e non in una veduta.
Nella meta-scrittura compositiva di Nono la concreta analogia tra suono e colore è dunque
solo lo spazio topologico del grafo, capace di significare tanto lo spazio acustico quanto
quello cromatico.
“… Per Prometeo effettivamente abbiamo cercato di ascoltare il colore insieme al suono,
non di introdurlo alle spalle o alla base del suono come estrinseco rapporto simbolico o
immaginifico-esplicativo, ricorda Massimo Cacciari in un dialogo con Nono e Restagno
(in e. restagno a cura di, Nono, EDT, Torino 1987, p. 258), che prosegue così:
NONO - Mi sono anch’io divertito ad «ascoltare» e «numerare» le differenti sonorità della
Lavanda dei piedi di Tintoretto. Si tratta appunto di uno spazio a episodi, a isole … questo
colore permette l’exitus da ogni geometria di carattere euclideo.
CACCIARI - È uno spazio non più geometrico ma, per dirla con Mondrian, uno spazio
musicale-matematico, Schneider, Kayser, le varie tendenze «neo-pitagoriche» si sono,
invece, quasi sempre limitati a considerare gli elementi «geometrici» del pitagorismo,
secondo quel «Sempre il Dio geometrizza» che è forse solo una cattiva «traduzione» di
Platone! Viceversa è proprio con la rivalutazione del rythmos matematico e con lo sforzo di
immaginazione puramente matematica che si dà – anche storicamente nel corso dell’800 –
la rottura dell’unicità della geometria euclidea.
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Fabrizio Gay
NONO – Questo è Webern che studia la natura nei suoi aspetti microcosmici: la forma, il
movimento di una foglia … Ascoltare i rapporti, i ritmi matematici! Ritorna qui l’urgenza
di una profonda … numerologia, quasi, del suono, l’istanza di quell’ars combinatoria in cui
i grandi trattatisti del ‘500 definiscono il contrappunto d’oro, d’argento o di piombo…: la
capacità dell’invenzione nella complessità… complessità di rapporti numerici, in se stessi e
per l’ascolto. Per esempio in Zarlino o nel Vicentino si attua tale unità o correlazione tra la
numerologia musicale e una percezione acustica del fenomeno musicale del tutto assolta da
momenti soggettivi, sentimentali, figurativi ecc. (…) Il problema si sposta dunque dai modi
in generale [scale-tipo legate a strutture melodiche fisse] alle combinazioni e ai rapporti
determinati che si instaurano tra elementi uguali, non più colti e interpretati nel loro
semplice significato ma nella loro complessità referenziale.
CACCIARI – L’accento è totalmente spostato sui segni-suoni piuttosto che su ciò che i suoni
significano. E dunque, secondo te, Gigi, il ritorno della musica del ‘500 in epoca
contemporanea può essere interpretato come il recupero di una tradizione effettivamente
altra rispetto a quella successiva, significante [simbolizzante]?
NONO – Non mi sentirei di dirlo in generale. Da parte di alcuni certamente: era l’intento di
scoprire o proporre altre radici (in Ivi, p.258-259).
Il dialogo Nono - Cacciari collega così aspetti dell’avanguardia novecentesca ad aspetti
della teoria musicale del ‘500 per tratteggiare una genealogia di esempi che non risolvono il
senso dell’ascolto nella vista, ma esaltano in qualche modo una loro co-dimensione.
… laddove il problema dell’ascolto non è più riducibile alla soluzione figurativa
dell’immagine,” – continua Cacciari nel dialogo – “laddove il problema del colore non è
più riducibile al «simbolismo del colore», laddove si pone la necessità di far reagire le due
dimensioni insieme, allora c’è bisogno di uno spazio diverso da quello tradizionale. Anche
sul piano teoretico più generale, è questo poi l’effettivo problema che le avanguardie
intendevano affrontare – sempre che si sappia finalmente rileggerle al di là di ogni schema
… avanguardistico.
NONO – Lo slancio teoretico per il superamento della terza dimensione nel Tertium
Organum di Ouspensky … tutto Malevič … al di fuori di ogni misticismo … una
matematica capace di «vedere» nuovi spazi e dimensioni, non mera formalizzazione
puramente convenzionalistica …
Partite e partiture tra Luca Pacioli e Luigi Nono
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CACCIARI – Non hilbertiana! Piuttosto Brouwer o Weyl… tutto quel versante lungo il quale
la matematica si riscopre come ars combinatoria, imaginatio, capacità di immaginare nuovi
rapporti senza vederli, rompendo la mediazione della ideīn, oltrepassando l’ente visibile in
quanto visibile, ovvero … vedendolo essente!
NONO – Infatti … mi piace dire, e tanti si stupiscono: «Ascolta ciò che non si può
ascoltare!»… D’altra parte non è solo questa riflessione sulla matematica a sconvolgere le
attuali metodologie compositive… bisogna misurarsi con le teorie della fisica, …
richiamare a questo confronto il lavoro compositivo; come nel ‘400-‘500, quando i
musicisti studiavano l’astronomia, la matematica, la retorica, l’aritmetica, la fisica …(in
Ivi, p. 260).
Attraverso questo concitato excursus, si propone un uso del termine dimensione che attinge
dal suo stretto senso fisico (cfr. §1), ma non tanto nella formalizzazione della fisica quanto
in una concreta fenomenologia acustica e cromatica, cioè riferita al Suono e al Colore che si
manifestano nell’esperienza. E, come abbiamo visto (§ 4), se si vogliono considerare il
Suono (il divenire del suono) e il Colore (il divenire del colore) come cose, attraverso una
fenomenologia acustica e cromatica si devono riconoscere come res extensa, cioè come
spazio attraverso i modelli (topologici) di uno spazio acustico e di uno spazio cromatico.
Ovviamente questo spazio è solo schema vuoto giacché i colori non sono fatti di spazio
(sono estensione) come i suoni non sono fatti di tempo (ma sono tempo); la temporalità si
rapporta al suono come l’estensione spaziale al colore, ma, potremmo dire, mantenendo la
distanza che la forma ha dal contenuto.
Tra lo spazio modello che fa partita dell’unità del materiale compositivo e lo spazio
concreto, scenico, dell’opera composta Nono non può dare alcuna vera omologia.
Nel Prometeo realizzato la dimensione musicale e cromatica appartengono a registri
separati, e senza reciproche intrusioni figurali.
Nono rinuncia all’idea originaria di proiettare, come diapositive, le mescole vitree di Emilio
Vedova, al quale viene invece affidata la regia delle luci che saranno assolutamente
indirette. “… I movimenti della luce”- ricorda Nono – “si basano su tre portanti che variano
di frequenza su tempi infinitesimali. Da nero (ma non è mai un vero nero) a un grigio anche
in un quarto d’ora. Ma non c’è sincrono con la musica. Sono due segni distinti.”
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Fabrizio Gay
E segno del tutto distinto è anche il contenitore scenico concepito da Renzo Piano come
uno scafo ligneo, sollevato dal pavimento della chiesa di San Lorenzo: una sorta di scatola
armonica (cassa di risonanza) che contiene il pubblico al centro e i gruppi orchestrali
all’intorno (in movimento) lungo le sue pareti, in tre ordini di ballatoi. Inoltre la dinamica
spaziale del suono è ottenuta anche tramite il live elettronics, l’Halaphon, e, a dimensione
microintervallare, da un traspositore di altezza.
Così gli ascoltatori sono immersi in uno spazio fisicamente risonante (e tal scopo
accordabile come uno strumento musicale mettendo o togliendo appositi moduli della
chiglia) e percepiscono continuamente il complesso gioco delle fluttuazioni periodiche di
intensità sonora (battimenti) che si formano con l’emissione spazialmente distinta di due
suoni di frequenza simile.
Dunque l’invito ad “Ascoltare lo spazio” ha qui un senso fisico: la percezione funziona per
sineddoche. Almeno secondo l’efficace semplificazione di Renzo Piano che illustra così il
modo in cui la sua Arca, o chiglia di risonanza perennemente in cantiere, interpreti la figura
originaria dell’arcipelago:
Quando ci si trova su un’isola interna ad un arcipelago, comunque si volga lo sguardo non
è possibile abbracciare il sistema nella sua interezza, istantaneamente (…). È però possibile
sentire la presenza di ciò che sta alle nostre spalle. Sull’isola , ad esempio, il vento che
soffia dalla parte opposta rispetto a quella verso cui stiamo guardando, increspa lo specchio
d’acqua che ci sta di fronte. Vediamo sempre e solo una parte del tutto, ma possiamo
percepire il tutto cogliendo coi nostri sensi gli effetti delle cose a noi invisibili (in
M.CACCIARI a cura di, Verso Prometeo, Ricordi, Milano 1984, p.58).
Non riguarda lo scopo di questa memoria constatare se la partitura di Nono sia o
meno riuscita a toccare la sua ardita scommessa di rivelare nell’esperienza estetica tutta la
partita del materiale composto. Le mie considerazioni – catalizzate principalmente dal
problema della rappresentazione per la composizione architettonica e della rappresentatività
stessa dell’architettura - si devono fermare allo stadio della partita, prima del vero e proprio
piano linguistico; si limitano a sottolineare l’uso di una particolare meta-scrittura
compositiva. Da questo punto di vista non mi riesce di dire molto più, se non alludere,
credo con la stessa speranza, a quanto il compositore veneziano vide scritto su un muro
spagnolo: “Caminantes no hay caminos, hay que caminar”.