Antropologia della settima arte

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Antropologia della settima arte
- Marco Mazzeo, 06.12.2015
Neuroscienze e cinema. La dimensione sociale e sinestetica del cervello condivide con il cinema il
primato dell’azione: dai neuroni-mirror a Buster Keaton. "Lo schermo empatico" di Vittorio Gallese e
Michele Guerra
In nome di una sorta di «riduzionismo adattivo-cerebrale» non è raro osservare neurologi che
indicano alla lavagna il punto del cervello nel quale avrebbe sede il giudizio estetico, o psicologi
consacrati alle ceneri di Darwin insistere sul presunto valore adattivo all’ambiente delle
tossicomanie, del suicidio o di un bel film di zombie. Per fortuna, tutto ciò fa parte di uno scenario
scientifico-filosofico molto più ampio.
L’ultimo libro del neuroscienziato Vittorio Gallese e del teorico del cinema Michele Guerra, Lo
schermo empatico Cinema e neuroscienze (Raffaello Cortina, pp. 318, euro 25,00) rappresenta il
felice esempio di una ricerca trasversale in grado di contribuire a una teoria della natura umana
all’altezza dei tempi. Accostare due campi di ricerca così diversi, studio del cervello e teoria della
settima arte, è impresa rischiosa. Il pericolo è un mélange allusivo nel quale procedere per
giustapposizioni; e dietro l’angolo c’è l’insidia di ridurre l’esperienza cinematografica alle sequenze
di attivazione di aree cerebrali: una via di fuga teorica eclatante e, contemporaneamente, sterile.
Il libro evita con rigore entrambe le derive, navigando tra la Scilla della giustapposizione evocativa e
la Cariddi del riduzionismo neuronale. In aperta polemica sia con l’analogia mente-computer di
ispirazione cognitivista che con un’idea del cinema fatta solo di analisi semiotica, i due autori
propongono una «estetica sperimentale», dove il sostantivo «estetica» indica il segnavia teorico:
prima di concepire il cinema come narrazione, occorre considerarlo come la più attuale delle forme
di «aisthesis», cioè dell’esperienza sensibile.
L’aggettivo «sperimentale» precisa il metodo: questa forma di esperienza è analizzata per mezzo di
una indagine sulle dinamiche corporee e neuronali di chi gode guardando un film, senza per questo
sposare il feticcio della localizzazione cerebrale. Dal punto di vista neuroscientifico, lo sfondo di
partenza del libro è rappresentato dalla solida base empirica legata alla scoperta, compiuta da
Gallese e Rizzolatti negli anni novanta, dei cosiddetti «neuroni specchio», neuroni intrinsecamente
sociali poiché si attivano non solo quando, ad esempio, muovo una mano ma anche quando guardo
qualcun altro compiere quello stesso movimento. In altre parole, i neuroni specchio sono la base
neurofisiologica dell’empatia. Si tratta di neuroni multimodali che scavalcano l’attribuzione a una
singola sfera sensoriale. Vedere un gesto con gli occhi, ad esempio, attiva anche aree coinvolte nella
sua realizzazione tattile. Questa concezione del cervello umano come organo sociale e sinestetico
incontra il cinema allo scopo di svolgere un lavoro a doppio senso di marcia. Per un verso offre alla
settima arte il gancio materialista costituito dai neuroni specchio; per un altro trae dal cinema linfa
vitale al fine di costruire un’antropologia prensile e sufficientemente articolata.
L’indagine è ampia, va da Buster Keaton a Stanley Kubrik, e punta a un ribaltamento. Se, a un primo
sguardo, il cinema appare come la più statica e visiva delle forme espressive, i due autori
organizzano una staffetta in grado di rovesciare il punto di vista. Neuroni specchio e cinema sono
legati entrambi all’azione. Per un verso, ad attivare i primi è un programma motorio comune a chi
vede il gesto e a chi lo compie. E d’altronde, l’azione è carne e ossa di ogni film. Proprio lungo i
quattro movimenti di fondo del cinema (dei soggetti inquadrati, del montaggio, dello zoom e della
videocamera nel suo complesso) Lo schermo empatico trova la sua articolazione interna. Il confronto
dell’attivazione neuronale provocata da una stessa scena ripresa mediante tecniche diverse fornisce
la dimostrazione sperimentale di una sensazione comune a molti spettatori e registi: che una delle
forme video più coinvolgenti sia offerta dalla Steadicam, il dispositivo indossato dall’operatore in
grado di registrare immagini in movimento che non risentano di alcuna oscillazione.
A conferma dell’equazione «più movimento, più empatia», l’apparecchio produce immagini che
attivano più intensamente i neuroni specchio rispetto alla macchina fissa, su rotaia o zoom.
Contemporaneamente, il carattere tattile della visione cinematografica, oggetto di registi
d’avanguardia come Jan Švankmajer, ma anche di Blockbuster come Toy Story, cessa di essere una
semplice allusione metaforica del critico ispirato. Lo studio delle aree cerebrali tradizionalmente
assegnate in modo esclusivo a singole modalità di senso mostra che vedere sullo schermo
cinematografico una mano attiva anche porzioni tattili e non solo aree visive nel cervello dello
spettatore.
Naturalmente, un testo tanto spregiudicato non può che lasciare sul tavolo diversi interrogativi. Il
libro si conclude domandandosi quale sia il futuro della sala cinematografica nell’era dei laptop,
smartphone o action camera montate sulla bici. Ma anche alcune questioni circa il ruolo da
attribuire al linguaggio verbale e al tatto vengono lasciate aperte. Le nostre parole, si dice nel libro
con chiarezza, sono responsabili di quella che gli autori chiamano «simulazione liberata», vale a dire
la capacità di costruire mondi possibili che prescindano dai vincoli senso-motori dei neuroni
specchio. Con lo scorrere delle pagine, però, quell’immaginazione linguistica tanto decisiva per
l’esperienza cinematografica sembra risentire di un processo, lento ma inesorabile, di
ridimensionamento. Nelle pagine finali si concede spazio all’ipotesi che le nuove tecnologie digitali
possano farci accedere a «una nuova visualità non linguistica», all’interno di «un’era aptica» nella
quale finalmente il tatto umano troverebbe cittadinanza.
L’impressione è che il libro registri un’ambivalenza circa il tatto e il linguaggio: la parola chiave è
«digitale». Com’è noto, l’etimo del termine richiama l’estremità manuale delle dita (il latino digitus).
Ma un mondo nel quale toccare significhi sfiorare uno schermo o risuonare, per il tramite dei
neuroni specchio, ad azioni riprese da un mezzo visivo non sembra in grado di indebolire i tabù
culturali che fanno del «vietato toccare» un diktat valido tanto al mercato quanto in un museo. Il
digitale non corrisponde al tattile in quanto tale, bensì al tattile organizzato da un formato
numerico-discreto, che è il prodotto più raffinato dell’industria culturale odierna. Come tale appare
insufficiente per aprire una nuova era sensoriale finalmente libera dagli stereotipi occidentali.
Per un altro verso, niente è più linguistico del digitale. Si tratta di un mezzo rappresentativo nitido
ma non puramente visivo poiché nasce da macchine alle cui spalle ci sono le parole del calcolo e i
linguaggi della programmazione. L’impurità del digitale, si badi, è il suo profilo migliore. Del cinema,
del digitale e del corpo che risuona prendiamo tutto. Proprio per questo occorre non cedere alla
tentazione di far rientrare dalla finestra (I-Pad o Tablet che sia) quel che nel secolo scorso era
finalmente uscito dalla porta, vale a dire l’aura dell’opera d’arte fatta di anime vibranti e spirito
dell’indicibile.
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