Antonio Petagine Université de Fribourg (Suisse) Quale filosofia per quale paideia? La risposta di Tommaso d’Aquino Introduzione Il modo in cui noi oggi concepiamo e pratichiamo la filosofia deve certamente qualcosa alle trasformazioni che essa ha subito nel corso di quel lungo periodo che chiamiamo «Medioevo». Secondo Pierre Hadot e Juliusz Domański, nel Medioevo viene a costituirsi una nuova figura di filosofo, caratterizzata dalla capacità di articolare e difendere delle «teorie», ben diversa da quella del saggio ellenistico, che identificava la filosofia principalmente con la propria «maniera di vivere»1. In virtù dell’immagine scolastica della filosofia, il filosofo sarebbe stato facilmente identificato con il professore, dedito a insegnare e a scrivere, a leggere e a commentare sottilmente determinati testi considerati autorevoli2. Capacità didattiche e rigore logico, complessità di pensiero e attitudine scientifica: non sono forse ancora queste le competenze che il filosofo è chiamato a sviluppare e a mettere a frutto, per sé e per la società? Seguendo il paradigma ermeneutico sviluppato da Hadot e da Domański, questa trasformazione della filosofia – da maniera di vivere a mera teoria – sarebbe stata provocata precisamente dal cristianesimo: presentandosi esso stesso come «modo di vita» e assimilando molti elementi tipici della pratica filosofica antica, il cristianesimo avrebbe soppiantato la filosofia come modello di sapienza, riducendola così a strumento teorico, utile per difendere la fede e per costruire il sapere teologico3. Da vertice e 1 Cfr. J. Domański, La philosophie, théorie ou manière de vivre? Les controverses de l’Antiquité à la Renaissance, Éditions Universitaires Fribourg Suisse – Édition du Cerf, Fribourg-Paris 1996; P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, tr. di E. Giovanelli, Einaudi, Torino 20102, pp. 227-270. 2 «Les transformations que nous venons de décrire étaient accompagnées par ce que l’on peut définir comme une tendance à donner à la philosophie un caractère uniquement “théorique” et “scientifique”, tendance qui avait une signification très particulier et n’était conforme à aucun des modèles antérieurs de la notion de philosophie. Deux caractéristiques de la culture médiévale de cette période ont contribué au développement de cette tendance. D’une part le fait que l’enseignement au Moyen Âge se fonde sur l’idée de l’autorité ancienne, la tâche la pus importante, sinon unique de cet enseignement étant la lecture et l’explication de l’héritage littéraire constituant cette autorité» (Domański, La philosophie, théorie ou manière de vivre?, op. cit., p. 49). 3 Cfr. Hadot, Che cos’è la filosofia antica, op. cit., pp. 242-250; Domański, La philosophie, théorie ou manière de vivre?, op. cit., pp. 50-51. 1 culmine della paideia greca, in seno al cristianesimo la filosofia sarebbe quindi stata ridotta a semplice disciplina propedeutica, pedagogicamente declassata al livello delle arti liberali4. Hadot e Domański hanno certamente messo in luce, concatenandoli tra loro, due aspetti decisivi: in primo luogo, hanno rimarcato il ruolo cruciale giocato dal cristianesimo nella dinamica di trasmissione/trasformazione della filosofia in Occidente; in secondo luogo, essi hanno evidenziato il legame – sempre più stretto, in concomitanza con la fondazione e lo sviluppo delle Università – tra la pratica della filosofia e la produzione teorica e scientifica, legame che tende a spostare l’identità della filosofia sul piano della cultura libresca e dell’insegnamento universitario, piuttosto che su quello della concreta maniera in cui si vive. Riconosciuto ciò, ci si è però chiesti se le trasformazioni evocate da Hadot e da Domański abbiano realmente danneggiato la filosofia o non l’abbiano piuttosto salvata dalla scomparsa o dall’irrilevanza, come è successo nelle altre culture che, nel corso del Medioevo, l’avevano conosciuta5. Infatti, non bisognerebbe perdere di vista un fatto: la filosofia tardo-antica si presentava senza dubbio come itinerario spirituale grazie al quale raggiungere la felicità e liberarsi dai mali della vita, attraverso l’uso dei mezzi razionali umani. Il cristianesimo avrebbe smascherato l’impossibilità di mantenere una promessa di questo tipo: come osserva a giusto titolo Pasquale Porro, l’Agostino autore del De Trinitate e del De Civitate Dei presentava la filosofia come un’avventura dello spirito umano destinata a fallire, allorché dimenticava che l’uomo, con le sue forze e con le sue opere, non è in grado di curare efficacemente i propri mali, né tantomeno di conseguire il pieno compimento delle propria esistenza 6 . Per quanto dunque sia indubitabile che il cristianesimo primitivo si sia presentato come «vera filosofia», trovando nell’approccio filosofico un 4 Domański osserva che in diversi autori medievali si arriva ad identificare filosofia e arti liberali. Cfr. Domański, La philosophie, théorie ou manière de vivre?, op. cit., pp. 31-33 e 38-43. 5 Cfr. al riguardo le riflessioni di Pasquale Porro, in Felicità e salvezza: Agostino, il cristianesimo e la trasformazione delle pratiche filosofiche, in G. D’Onofrio (ed.), The Medieval Paradigm. Religious Thought and Philosophy. Papers of the International Congress (Rome, 29 October – 1 November 2005), Brepols, Turnhout 2012, 149-176. 6 Cfr. Agostino, De Trinitate, XIII, 7,10, cura et studio W. J. Mountain, aux. F. Glorie, Brepols, Turnhout 1968 (Corpus Christianorum Series Latina 50A), pp. 394-396; Id. De Civitate Dei, XIX, 4, ed. B. Dombart – A. Kalb, Brepols, Turnhout 1955 (Corpus Christianorum Series Latina 48), vol. 2, pp. 664669. Così scrive Porro: «se dunque il cristianesimo, almeno nel modello agostiniano, gioca un ruolo decisivo nella trasformazione delle pratiche filosofiche, non è tanto perché suggerisce una pratica di salvezza più efficace (questo era appunto ciò che aveva creduto solo il primo Agostino), ma perché mette più radicalmente in dubbio l’efficacia di qualsiasi pratica eudaimonologica e soteriologica: da questo momento, la salvezza e la felicità non sono più in potere dell’uomo, e dunque si sottraggono alle pratiche esclusivamente umane. Privata della sua finalità originaria, la filosofia (anche la filosofia cristiana) sarà dunque gradualmente costretta a ripensarsi nella sua funzione e a presentarsi come una pratica del tutto diversa» (Porro, Felicità e salvezza, op. cit., p. 172). 2 elemento della cultura pagana non solo da rifiutare, ma addirittura da assimilare7, resta il fatto che gli autori cristiani hanno esautorato la filosofia dal suo compito di guida alla salvezza e alla felicità, rendendo obsoleta anche la figura del filosofo tipica dell’antichità: i nuovi sapienti sono impegnati a ricercare e a vivere una sapienza che supera la filosofia e si identifica con la «perfezione evangelica»8. Una volta messo in luce tale percorso, vale la pena riflettere su un punto chiave: la presa d’atto dell’imperfezione e dell’inadeguatezza dell’impresa filosofica antica non ha portato alla scomparsa della filosofia dal contesto culturale medievale, ma ad una sua riconsiderazione, fondata sul riconoscimento della sua capacità di disporre la mente umana alla conoscenza della verità, attraverso lo sviluppo di una più piena coscienza di sé e delle proprie potenzialità razionali9. Con l’ingresso dei testi di Aristotele e la nascita dell’Università, la filosofia ha anche subito un deciso processo di «istituzionalizzazione»10, che potrà anche averle fatto correre il rischio di venir ridotta a mera disciplina di studio, ma che la ha innanzitutto garantito, in quasi un millennio di storia europea, una diffusione impensabile nell’antichità e una trasmissione efficace, che le ha permesso di giungere fino a noi senza soluzioni di continuità11. Si potrebbe dire dunque, per quanto schematicamente, che all’interno della cultura medievale la filosofia ha trovato il modo d’essere apprezzata e praticata, quale capacità di giocare un ruolo effettivo nell’orientare positivamente il conoscere e l’agire umani 7 «Il cristianesimo primitivo – scrive Ratzinger – fece con piglio audace e risoluto la sua scelta la sua decantazione, optando per il Dio dei filosofi contro gli déi delle religioni. Quando la gente cominciò a chiedere a quale dio la religione cristiana prestasse il suo ossequio – se a Zeus, o ad Ermes, o a Dionisio, o a qualche altro ancora, la risposta fu la seguente: nessuno di essi. Il cristianesimo non adora nessuno degli déi che pregate voi, ma venera invece quell’Unico e solo che voi non pregate: quell’Altissimo di cui parlano i vostri filosofi» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, tr. it. di E. Martinelli, Queriniana, Brescia 199611, p. 99). 8 Si veda al riguardo G. Fioravanti, La ‘vera religione’ di Agostino ovvero dell’inutilità dei filosofi, in G. D’Onofrio (ed.), The Medieval Paradigm, op. cit., pp. 177-187. Sul filosofo inteso come figura del passato, cfr. M. D. Chenu, Les «philosophes» dans la philosophie médiévale, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques» 26 (1937), pp. 27-40. 9 «En général – scrive Lambert Marie De Rijk – la philosophie était définie au Moyen Âge comme la recherche rationnelle de la réalité ultime et des causes et principes les plus fondamentaux des choses. Cette conception de la philosophie n’est seulement manifestée par l’activité philosophique des penseurs médiévaux; la philosophie comme ‘discipline’ a été explicitement définie par eux dans ce sens» (L. M. De Rijk, La philosophie au Moyen Âge, Leiden-Brill, Leiden 1985, p. 66). Sui modi di concepire la filosofia e le sue definizioni nella prima metà del XIII secolo, cfr. C. Lafleur, Quatre introductions à la philosophie médiévale au XIIIe siècle. Textes critiques et études historique, Institut d’Études MédiévalesVrin, Montréal-Paris 1988 e i diversi contributi contenuti in C. Lafleur (ed.), L’enseignement de la philosophie au XIIIe siècle. Autour du «Guide de l’étudiant» du ms. Ripoll 109, Brepols, Turhout 1997. 10 Cfr. al riguardo in particolare R. Brague, Sens et valeur de la philosophie dans les trois cultures médiévales, in J. Aerstern – A. Speer (eds.), What is Philosophy in Middle Ages? Proceedings of the 10th International Congress of Medieval Philosophy of the S.I.E.P.M., 25-30 August 1997, De Gruyter, Berlin 1998 (Miscellanea Mediaevalia 26), pp. 229-244. 11 Insiste un su questo aspetto Pasquale Porro, in Felicità e salvezza, op. cit. 3 verso il loro compimento, ma senza essere considerata lei stessa come la risposta definitiva all’esigenza di felicità e di salvezza insita nell’uomo. Abbiamo visto che secondo Hadot e Domański l’attribuzione alla filosofia di un tale ruolo – reale, dunque, ma non ultimativo – abbia condotto certo a consolidare, perpetuandola, la pratica filosofica, ma pagando un caro prezzo: quello di aver esaltato in maniera ipertrofica il lato teorico, rispetto a quello pratico. Ebbene, Domański ritrova precisamente nella concezione di Tommaso d’Aquino un tale sbilanciamento: nell’ottica dell’Aquinate, sostiene Domański, un cristiano trae un certo vantaggio dalla filosofia dal punto di vista cognitivo, non però da quello pratico12. Se le cose stessero in questo modo, si dovrebbe giungere a questa conclusione: se con «educazione» intendiamo il percorso con cui l’uomo coltiva il meglio di sé e si orienta al compimento integrale della sua persona, allora Tommaso avrebbe attribuito alla filosofia una valenza educativa limitata; infatti, una pratica che promuovesse le sole capacità cognitive e discorsive contribuirebbe solo parzialmente allo sviluppo integrale della persona, proprio per la sua sostanziale irrilevanza a livello partico. Ci si può chiedere però se ad essere tanto limitata sia la posizione di Tommaso o non piuttosto l’interpretazione che ne dà Domański: davvero l’Aquinate ha fatto della filosofia un semplice strumento concettuale al servizio della fede? Tra gli studi tomistici, il tema della valenza educativa del pensiero di Tommaso è stato battuto in modo significativo. Essi si sono concentrati su due aspetti fondamentali: in primo luogo, sul modo in cui l’Aquinate ha concepito la relazione tra discepolo e maestro; in secondo luogo, sul ricco quadro etico-antropologico che Tommaso avrebbe fornito e sul quale impostare un’efficace azione educativa13. Non sembra però che, all’interno di questi 12 Così Domański sintetizza l’atteggiamento di Tommaso: «Un chrétien ne s’intéresse à la philosophie que sur ce plan scientiste, cognitif. Pour vivre une vie digne de chrétien, on n’a pas besoin de l’enseignement moral des philosophes ni, à plus forte raison, d’exemples tirés de leur vie» (J. Domański, La philosophie, théorie ou manière de vivre? Les controverses de l’Antiquité à la Renaissance, Éditions Universitaires Fribourg Suisse – Édition du Cerf, Friborug-Paris 1996, p. 54). 13 Si vedano al riguardo M. Casotti, La Pedagogia di S. Tommaso d’Aquino. Saggi di Pedagogia Generale, La Scuola, Brescia 1931; J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, a cura di G. Galeazzi, La Scuola, Brescia 2001; E. Martínez García, Persona y educacíon en Santo Thomas de Aquino, Fundacíon Universitaria Española, Madrid 2002; Id., «Educar en la virtud. Principios pedagógicos de Santo Tomás», in e-aquinas 1 (2013), 27-72; L. J. Elders, Éducation et instruction selon Thomas d’Aquin, Les Presses Universitaires de l’IPC - Parole et Silence, Paris 2012; A. Millán-Puelles, La formación de la personalidad humana (1963), in Id., Obras completas, v. III, Rialp, Madrid 2013, pp. 191-366. Si vedano anche i contributi pubblicati nel recente volume curato da Danilo Saccoccioni, Educare alla realtà. Una proposta didattica di ispirazione tomista, EDUSC, Roma 2015. Sulla valenza pedagogica dell’analisi morale di Tommaso insistono in particolare E. Martínez García, Persona y educacíon en Santo Thomas de Aquino, Fundacíon Universitaria Española, Madrid 2002; Id., «Educar en la virtud. Principios pedagógicos de Santo Tomás», in e-aquinas 1 (2013), 27-72 e J. A., Izquierdo Labeaga, «San Tommaso, Maestro di educazione umana (prima parte)», «Alpha Omega» 9, 2 (2006), 219-254; Id., «San Tommaso, Maestro di educazione umana (seconda parte)», Ibid., 9, 3 (2006), 401-435. 4 studi, sia stata dedicata grande attenzione alla questione del posto che Tommaso d’Aquino ha attribuito alla pratica filosofica, nel contesto del sviluppo integrale della persona14. Nelle pagine che seguiranno, tenteremo dunque di fornire qualche elemento per rispondere a tale questione. La filosofia e l’individuazione della felicità umana Punto di partenza ineludibile della nostra analisi è il modo in cui Tommaso ha concepito in generale l’uomo e in particolare la posizione nell’intelletto nel quadro dell’intero umano. Resta valida, in senso generale, l’intuizione di Pierre Rousselot, allorché definiva «intellettualismo» la posizione di Tommaso d’Aquino, dando a questo termine un’accezione tutt’altro che negativa: «con il termine intellettualismo intendo qui una dottrina che pone tutto il valore, tutta l’intensità della vita e l’essenza stessa del bene, identico all’essere, nell’atto dell’intelligenza, così che il resto non può essere buono che per partecipazione»15. In effetti, per l’Aquinate è nell’intelletto che troviamo ciò che di più nobile e di più alto l’uomo possiede. Perciò, è nella piena fioritura dell’intelligenza che consiste la vera felicità umana16. Ciò non significa che Tommaso sottovaluti la dimensione affettiva e quella volontaria, tuttavia egli sostiene con chiarezza che è la cognizione a fondare e a orientare l’appetito, la tensione, il volere, non il contrario. Perciò, nell’ottica di Tommaso, nessun desiderio e nessun amore autenticamente umani si compiono fuori dalla contemplazione della verità, verità che, per Tommaso, in ultima analisi, si identifica con Dio stesso. È insomma la visione della verità (e dunque di Dio) a generare un preciso ordine d’azione e di amore17. 14 Questo tema è stato invece messo in luce con particolare attenzione in alcuni contributi recenti di Ariberto Acerbi: A. Acerbi, Sul valore educativo della filosofia, in M. Signore (ed.), Ripensare l’educazione, Pensa, Lecce 2013, pp. 231-240; Id., L’educazione filosofica al senso del vero. Un confronto tra san Tommaso e Friedrich Heinrich Jacobi (in corso di pubblicazione). 15 «Con il termine intellettualismo intendo qui una dottrina che pone tutto il valore, tutta l’intensità della vita e l’essenza stessa del bene, identico all’essere, nell’atto dell’intelligenza, così che il resto non può essere buono che per partecipazione» (P. Rousselot, L’intellettualismo di san Tommaso, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 5). 16 «Ultima beatitudo siue felicitas hominis consistit in sua nobilissima operatione, que est intelligere, cuius ultimam perfectionem oportet esse per hoc quod intellectus noster suo actiuo principio coniungitur» (QD De anima, q. 5, resp.). Cfr. anche Id., In I Sent., d. 1, q. 1, a. 1, sol.; Id., In II Sent., d. 4, q. 1, a. 1, sol.; Id., In IV Sent., d. 49, q. 1, a. 1, q.cula 3, sol.; Id., ST, I-II, q. 11, a. 1; Id., Sent. Ethic., l. 10, lect. 10,; Id., Comp. Theol., p. I, c. 107. 17 Cfr. Tommaso d’Aquino, I-II, q. 11, a. 1; Id., In I Sent., d. 1, q. 1, a. 1, ad 1; Id., In III Sent., d. 24, a. 3, q.cula 1, ad 1; Id., In IV Sent., d. 49, q. 1, a. 1B, corpus; Id., SCG, l. 3, c. 26; Id., ST, I-II, q. 3, a. 4; Id., 5 In virtù di tale prospettiva, possiamo comprendere la distinzione che Tommaso propone tra due tipi di felicità e tra due livelli di beatitudine18. Al riguardo, l’Aquinate segue da vicino Aristotele, il quale nell’Etica Nicomachea osservava che la vera felicità dell’uomo consiste nel dedicarsi in modo pieno, stabile e continuativo alla più eccellente attività umana, ossia alla pura contemplazione della verità19. Lo studium sapientiae – spiega Tommaso – è dunque come la via «più perfetta, più sublime, più utile e più capace di dare gioia» al raggiungimento della felicità autenticamente umana20. In concomitanza di questo tipo di felicità, Aristotele ne avrebbe individuata un’altra, che consiste nel possesso delle virtù morali. Tommaso precisa che noi non potremmo essere veramente felici senza raggiungere una condizione di armonia tra le dimensioni razionali e quelle irrazionali interne all’essere umano, né senza costruire una vita politica che ci permetta di rispondere ai bisogni fondamentali e di vivere in pace. Tuttavia, una tale felicità pratica resta di second’ordine, rispetto a quella raggiungibile con la contemplazione21. Tommaso riconsidera questa dottrina aristotelica nel contesto della distinzione tra vita attiva e vita contemplativa: sebbene entrambe queste «vite» siano necessarie al compimento della vita umana, la vita contemplativa è più nobile, più II-II, q. 2, a. 3; Id., SCG, lib. 1, c. 5; Id., Sent. Ethic., lib. X, lect. 10-11 e 13. Su questo punto troviamo forse la differenza più significativa tra Tommaso e Duns Scoto. Olivier Boulnois precisa opportunamente: «La ragion pratica non è nient’altro che la volontà. Scoto ribalta la tesi di Aristotele. Quando il Filosofo dice: «l’intelletto non muove senza appetito, ora la volontà è un appetito, Scoto spiega che la volontà è la causa principale della mozione […] Non è il desiderio ad essere informato dalla ragione, ma la volontà a comandare, aiutata dal concorso derivato della ragione» (Boulnois, Duns Scoto. Il rigore della carità, Jaca Book, Milano 1999, p. 121). Cfr. Duns Scoto, Ordinatio, Prologus, § 237, ed. Vaticana, p. 162. 18 Cfr. Tommaso d’Aquino, Contra impugnantes, c. 7, p. 124A; Id., In librum Boethii De trinitate, q. 5, a. 1, ad 4, p. 169, l. 14; Ibid., q. 6, a. 4, ad 3, p. 228, l. 20; ST I-II, q. 62, a. 1, corpus; Ibid., q. 186, a. 3, a. 3, ad 4; QD De Ver., q. 14, a. 2, corpus, p. 283; Tra gli studi, si possono consultare al riguardo in particolare D. J. M. Bradley, Aquinas on the Twofold Human Good. Reason and Human Happiness in Aquinas’s Moral Science, The Catholic University of America Press, Washington DC 1997; M. Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Armando, Roma 20062, pp. 54-68; 19 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, l. 10, c. 8, 1178a14-1178b25. Cfr. Tommaso d’Aquino, Sent. Ethic., l. 10, lect. 10. 20 «Et sicut optimis personarum attribuimus aliquid melius laude, ita etiam et optimis de numero bonorum, sicut felicitati; nullus enim laudat felicitatem per modum quo laudat hominem iustum vel virtuosum, sed attribuit ei aliquid maius, dum dicimus eam esse beatitudinem» (Id., Sent. Ethic., l. 1, lect. 18). Cfr. anche Id., In III Sent., d. 35, q. 1, a. 1, resp.; Id., In Boeth. De Trin., q. 5, a. 1, ad 4, p. 169; Id., QD De an., q. 16, resp., p. 144; Id., In Ethic., l. 10, lect. 11, p. 587; Id., SCG, l. 1, lc. 2, § 8; Ibid., l. 3, cc. 34-35 e 37; Id., ST, I-II, q. 180, a. 1, corpus. 21 «Postquam philosophus ostendit quod perfecta felicitas est et principalis secundum speculationem intellectus, hic inducit quamdam aliam secundariam felicitatem, quae consistit in operatione moralium virtutum. Et primo proponit quod intendit; dicens, quod cum ille qui vacat speculationi veritatis sit felicissimus, secundario est felix ille qui vivit secundum aliam virtutem, scilicet secundum prudentiam, quae dirigit omnes morales virtutes. Sicut enim felicitas speculativa attribuitur sapientiae, quae comprehendit in se alios habitus speculativos tamquam principalior existens, ita etiam felicitas activa, quae est secundum operationes moralium virtutum, attribuitur prudentiae, quae est perfectiva omnium moralium virtutum, ut in VI ostensum est» (Id., In Etich., l. 10, lect. 12). Cfr. anche Id., In III Sent., d. 27, q. 2, a. 2, sol.; Ibid., q. 35, q. 1, a. 2C, sol.; Id., Super Boethii de Trin., q. 5, a. 1, ad 4. 6 alta e più architettonica: la vita attiva è orientata a quella contemplativa, non il contrario22. Possiamo dunque comprendere in che senso Tommaso possa dire ad un tempo che la felicità si identifica con la realizzazione della parte migliore dell’uomo, ossia dell’intelletto, e, nello stesso tempo, che in essa si trovi la pienezza di tutto l’uomo: la perfezione intellettiva, infatti, non è l’atto isolato di una parte disancorata dal tutto, ma implica, ordina e orienta a sé tutte le altre attività umane, assegnando ai diversi beni, anche a quelli secondari, il loro posto23. In virtù di questa analisi, possiamo concludere che Tommaso attribuisce alla filosofia un’indubbia efficacia nella determinazione del fine ultimo dell’uomo: ciò è ben testimoniato dal fatto che Aristotele, con la sola forza della ragione naturale, avesse già indicato nella contemplazione la vita migliore per l’uomo, cercata e fruita per se stessa e che non avesse avuto esitazioni nel considerarla «divina», perché tale da metterci nella condizione di condividere qualcosa della vita di Dio e delle sostanze più eccelse. Determinando in modo corretto la natura della felicità umana, la filosofia dispone e orienta lo spirito umano verso di lei e permette di raggiungerla, per quel che è possibile in questa vita24. Ciò accade perché alla filosofia corrisponde un preciso sguardo sul mondo, che non si fonda sulla ricerca dell’utile, sulla fruizione del piacere o sul calcolo di ciò che è conveniente, bensì sul desiderio e sul compiacimento del vero, a partire dalla meraviglia, come già Aristotele aveva mostrato25. Tale è precisamente lo sguardo della metafisica, che non per caso sta al vertice di tutti i saperi umani: è la metafisica infatti ad occuparsi direttamente delle questioni concernenti le cause e i principi, mossa dal puro e libero desiderio di conoscere la verità, giungendo in questo modo a porre Dio 22 «Cum enim vita humana ordinata (quia de inordinata non intendimus, sicut est voluptuosa, quae nec humana est, sed bestialis) consistat in operatione intellectus et rationis; habeat autem intellectiva pars duas operationes, unam quae est ipsius secundum se, aliam quae ipsius est secundum quod regit inferiores vires; erit duplex vita humana: una quae consistit in operatione quae est intellectus secundum seipsum, et haec dicitur contemplativa; alia quae consistit in operatione intellectus et rationis secundum quod ordinat et regit et imperat inferioribus partibus, et haec dicitur activa vita» (Tommaso d’Aquino, In III Sent., d. 35, q. 1, a. 1, resp.). 23 Cfr. Id., In III Sent., d. 1, q. 1, a. 3, ad 6; Id., In IV Sent., d. 49, q. 1, a. 4, ad 3; Ibid., q. 5, a. 1, ad 1; Id., ST, I-II, q. 4, a. 7, corpus, Id., Sent. Ethic., l. 10, lect. 12-13. 24 Cfr. in particolare Tommaso d’Aquino, In I Sent., prol., q. 1, a. 1, sol.; Id., In Etich., l. 10, lect. 10-11; Id., ST, II-II, q. 180, a. 4, corpus. 25 Cfr. Tommaso, In Met., l. 1, lect. 3, §§ 54-55; Id., SCG, l. 2, c. 2, § 860; Ibid., l. 3, c. 25, § 2068; Id., Super Ev. Matthei, c. 5, lect. 2. 7 stesso come oggetto proprio e specifico della sua interrogazione. Per queste ragioni, spiega Tommaso, la metafisica merita il nome di «sapienza»26. Se è vero che l’uomo è chiamato a trovare la propria realizzazione nella vita contemplativa, è anche vero che un tale compimento non potrà che configurarsi come l’esito di un percorso, che si sviluppa gradualmente e con il tempo. Ciò è dovuto al fatto che l’uomo, in senso proprio, è dotato di ragione, più che di intelletto: l’essere umano infatti non è una sostanza puramente intellettuale; egli coglie il vero e individua le azioni buone da fare solo progressivamente e con il tempo27. Rispetto alla progressività e alle difficoltà insite in un tale percorso, la filosofia stimola un atteggiamento «gagliardo», che Tommaso trova ben espresso da Aristotele, nel secondo libro del De Coelo. Studiando la natura delle stelle, Aristotele si è trovato di fronte ad alcune questioni in cui trovare una soluzione plausibile appariva davvero difficile. Chi si trova in questa situazione, potrebbe pensare che sia temerario e arrogante l’avventurarsi in elucubrazioni fondate su elementi così deboli. Invece, Aristotele elogia l’attitudine di chi prende in mano la questione e tenta la soluzione, senza lasciare nulla d’intentato: in questo caso, vera umiltà non è tirarsi indietro, ma accettare di raggiungere conclusioni plausibili e risultati solo parziali28. Tommaso si ritrova perfettamente d’accordo con Aristotele, osservando che solo chi ha il coraggio di affrontare anche le questioni più difficili si prepara ad accedere a verità ancora più alte29. Si potrebbe dire che, seguendo quest’ottica, il filosofo è colui che non si accontenta di illustrare i problemi e le difficoltà, fornendone una semplice rassegna, asettica e «neutrale». La genuina passione per il vero spinge a tentare risposte e a prendere posizioni, impegnandosi nello sforzo di raggiungere verità sempre più sottili. Ebbene, il fatto che Tommaso consideri la speculazione della verità come l’attività più alta e più architettonica dell’uomo e che segua con convinzione Aristotele, laddove afferma che la filosofia sorge dal più profondo desiderio del vero insito nell’uomo, implica coerentemente che la filosofia sia dotata di una certa ragione di fine, rispetto alle altre attività e agli altri saperi umani30. Essa infatti, secondo Tommaso, orienta e ordina a sé non solo l’acquisizione della virtù e il raggiungimento di una pacifica e 26 Cfr. Id., In III Sent., d. 35, q. 1, a. 2C, ad 2; Id., QD De anima, q. 16, resp.; Id., Sent. Ethic., l. 10, lect. 10; Id., In Post. An., l. 1, lect. 44, n. 11; Id., In Met., l. 4, lect. 6, n. 1. 27 Cfr. Tommaso d’Aquino, SCG, l. 3, c. 26, § 2080; Ibid., c. 46, § 2233; Id., ST, I, q. 14, a. 2, ad 3,; Ibid., q. 89, a. 2, resp., Id., QD De ver., q. 8, a. 6, resp.; Ibid., q. 10, a. 2, resp.; Id., QD De Pot., q. 7, a. 9, resp.; Id., QD De an., q. 2, ad 5. 28 Cfr. Aristotele, De coelo, B 12, 291b24-28. 29 Cfr. Tommaso d’Aquino, De Coelo et mundo, c. 12, lect. 17. 30 Cfr. Id., In Met., l. 1, lect. 3, § 58; Id., In Post. An., l. 1, lect. 17; Id., Super Boethii de Trin., qq. 5-6. 8 salutare convivenza umana, ma anche la pratica di tutte le altre discipline razionali: la logica, che permette di strutturare il pensiero e di dirigerlo alla ricerca del vero; la matematica, perché consente di sviluppare, già nei bambini, la capacità di astrarre dal dato puramente empirico; l’etica, perché essa costituisce il sapere necessario per acquisire la virtù, senza la quale la contemplazione non è accessibile. Per questa ragione, Tommaso sostiene che la piena dedizione alla vita contemplativa richieda maturità personale e che i filosofi si sono dedicati compiutamente ad essa solo dopo una certa esperienza di vita31. L’«inadeguatezza produttiva» della filosofia Abbiamo notato che già il cristianesimo primitivo, pur non disprezzando affatto la filosofia, ne aveva messo in luce l’inadeguatezza, in rapporto al raggiungimento della piena felicità umana. Tommaso, si pone certamente su questa linea: egli non manca di affermare che la filosofia è imperfetta e che non permette, da sé sola, di raggiungere quanto l’uomo desidera. Egli riconosce infatti che la beatitudine, ossia la piena felicità umana, può essere fruita secondo due livelli: quello della beatitudine imperfetta, che l’uomo può raggiungere in questa vita, e quello della beatitudine perfetta, che invece sarà possibile solo dopo la morte32. Il fatto che la sapienza raggiungibile in questa vita sia imperfetta, emerge da due elementi fondamentali. Il primo concerne l’oggetto stessa di tale sapienza: il desiderio di verità tipico dell’uomo può infatti essere soddisfatto pienamente soltanto dalla contemplazione di Dio così come egli è, mentre in questa vita Dio può essere afferrato solo in modo parziale: la ragione naturale, proprio grazie alla filosofia, può cogliere Dio e dargli una grande gioia in questa vita; tuttavia, la conoscenza ottenuta in questo modo è limitata a quanto di Dio possiamo afferrare a partire dagli effetti33; la Rivelazione, è vero, ci permette una conoscenza di Dio molto più profonda, capace di orientare la 31 «Et inde est quod philosophorum intentio ad hoc principaliter erat ut, per omnia quae in rebus considerabant, ad cognitionem primarum causarum pervenirent. Unde scientiam de primis causis ultimo ordinabant, cuius considerationi ultimum tempus suae vitae deputarent: primo quidem incipientes a logica quae modum scientiarum tradit, secundo procedentes ad mathematicam cuius etiam pueri possunt esse capaces, tertio ad naturalem philosophiam quae propter experientiam tempore indiget, quarto autem ad moralem philosophiam cuius iuvenis esse conveniens auditor non potest, ultimo autem scientiae divinae insistebant quae considerat primas entium causas» (Tommaso d’Aquino, In De causis, proemium); cfr. anche Id., Sent. Ethic., l. 6, lect. 7; Id., Super Boethii de Trin., q. 5, a. 1, sol. 32 Id., In Psalmos Repartatio, Ps. 32; Id., ST, I-II, q. 2, a. 6, corpus; Ibid., q. 3, a. 2, ad 4 et aa. 5-6; Ibid., q. 4, a. 7, corpus; Id., Super Boethii de Trin., q. 5, a. 1, ad 4. 33 Cfr. in particolare Id., In I Sent., prol., a. 1; Id., SCG, l. 1, c. 3, § 16; Ibid., l. 2, c. 4, § 876. 9 nostra vita in una maniera sconosciuta alla teologia naturale34; tuttavia, la verità rivelata in questa vita genera fede e speranza, ma non ancora visione35. In secondo luogo, la beatitudine in questa vita è imperfetta perché non è continua, rimanendo inevitabilmente vincolata alle operazioni legate alla sopravvivenza o alle necessità pratiche, che ci distraggono, ci stancano, ci sviano, ci interrompono36. Tommaso presenta il cammino di perfezione come un percorso che certamente trascende la filosofia, ma che ne trae anche un profitto reale e concreto. Egli – e qui sta il punto che vorremmo approfondire – non ritiene infatti che la filosofia sia imperfetta perché inaffidabile. Nel Commento al De Trinitate di Boezio, Tommaso ci offre una chiara spiegazione dell’utilità della filosofia per la teologia: la filosofia raggiunge con merito delle verità «preambolari», ossia dottrine non di fede, che però la fede non può che supporre; inoltre, essa mette a disposizione della teologia un arsenale concettuale prezioso, al fine di mostrare la non-contradittiorietà della verità rivelata e la vanità delle eresie37. Tommaso non esita nel dire che la filosofia è ordinata alla teologia, e con essa gli altri saperi38. Ora, questa concezione sembra soffrire di una difficoltà: dal momento che la filosofia si costituisce come fine in se stessa e come sapienza che orienta a sé le altre scienze, ci si può chiedere come Tommaso possa affermare che essa è sua volta ordinata a qualcosa che le è superiore. Ritenere la filosofia ad un tempo come sapienza e come sapere «servile» o «funzionale» sembra supporre l’idea contraddittoria che la filosofia sia e non sia, nello stesso tempo, fine a se stessa. Il concepire la filosofia come utile alla teologia pone anche un’altra difficoltà: in che senso, una sapienza imperfetta può risultare «utile» ad una perfetta? Non sarebbe più logico pensare che la seconda renda inutile o vana la prima? Per comprendere a pieno la dottrina di Tommaso ci sembra necessario osservare che l’utilità che Tommaso riconosce alla metafisica è ben diversa da quella che potrebbe 34 Cfr. Id., ST, II-II, q. 19, a. 7, resp; Id., ST, I-II, q. 5, a. 3, ad 2. Cfr. Tommaso d’Aquino, SCG, l. 1, c. 3, § 16; Ibid., c. 5, § 30; Ibid., c. 8, § 48. 36 «Fatigatio, et occupationes variae quibus necesse est contemplationem nostram in hac vita interpolari, in qua consistit praecipue humana felicitas, si qua est praesentis vitae; errores, dubitationes, et casus varii quibus subiacet praesens vita; ostendunt omnino incomparabilem esse humanam felicitatem, praecipue huius vitae, divinae beatitudini» (Id., SCG, l. 1, c. 102, § 847). «Participatio beatitudinis potest esse imperfecta dupliciter. Uno modo, ex parte ipsius obiecti beatitudinis, quod quidem secundum sui essentiam non videtur. Et talis imperfectio tollit rationem verae beatitudinis. Alio modo potest esse imperfecta ex parte ipsius participantis, qui quidem ad ipsum obiectum beatitudinis secundum seipsum attingit, scilicet Deum, sed imperfecte, per respectum ad modum quo Deus seipso fruitur» (Id., ST, I-II, q. 5, a. 3, ad 2). 37 Cfr. Id., Super Boethii de Trin., q. 2, a. 3, sol. 38 Cfr. Id., In I Sent., q. 1, a. 1, sol. 35 10 aver riconosciuto alla logica o all’etica: infatti mentre questi sono saperi intrinsecamente eterodiretti, il caso della metafisica è diverso, perché essa è già sapienza; infatti, Tommaso, a ben vedere, non la concepisce come un «mezzo» per raggiungere la vera sapienza, ma, piuttosto, come un certo livello della sapienza stessa. Ciò significa che per l’Aquinate essa, certo, si limita ad introdurre l’uomo alla sua massima perfezione, ma si tratta pur sempre di un’introduzione che viene dall’interno della medesima «vita» – la vita contemplativa – e non di un elemento preparatorio esterno ad essa, come la logica o l’etica lo sono per la metafisica: infatti – spiega Tommaso – le virtù intellettuali, proprio perché consistono nella contemplazione della verità sono una inchoatio perfectae beatitudinis39. Perciò, più che dare dei semplici «mezzi» teorici, la filosofia «serve» la sapienza teologica perché si costituisce come momento embrionale della sapienza stessa e come suo accesso verace. Quanto stiamo dicendo trova conferma nel fatto che quando Tommaso distingue tra le felicità che proviene dalla vita attiva e quella che si conquista con la vita contemplativa, egli distingue tra due tipi diversi di compimento; quando invece distingue tra beatitudine imperfetta e perfetta – e la filosofia consente l’accesso alla prima, in questa vita – Tommaso le concepisce come due livelli distinti del medesimo tipo di compimento40. Una tale posizione potrebbe restare problematica per un altro motivo: concepire la filosofia in questo modo non porta forse a pensare che la sapienza evangelica non sia altro che un prolungamento di quella filosofica? Che ne è, allora, della radicalità del Vangelo e del fatto, messo in luce da San Paolo, che la fede non si fonda su alcuna sapienza umana? Carlo Steel si chiedeva provocatoriamente se, stando a questa dottrina, non dovremmo dire che per Tommaso i primi ad entrare nel regno di Dio siano i filosofi41. Anche in questo caso, è necessario considerare il fatto che la pratica filosofica – in particolare la contemplazione metafisica – sviluppa nell’uomo la capacità di vivere secondo la parte migliore di sé, parte che si identifica, per Tommaso, con l’intelletto. L’operazione propria dell’intelletto, il pensare, elabora il concetto astraendo precisamente dalle limitatezza dell’individualità, del qui e dell’ora; per questa ragione, il possesso dell’anima intellettiva colloca l’uomo al «confine tra due mondi», quello dello spirito e quello dei corpi42. Ebbene – qui sta il punto cruciale – la filosofia, nel 39 Cfr. Id., ST, I-II, q. 57, a. 1, ad 2; Ibid., q. 66, a. 3, ad 1; q. 69, a. 3, sol. Cfr. Supra, nota x 41 Cfr. Steel, Medieval Philosophy, op. cit., p. 173. 42 «Homo enim est quasi horizon et confinium spiritualis et corporalis naturae » (Tommaso d’Aquino, In III Sent., prologus; Id., SCG, l. 2, c. 68, § 1453; Ibid., l. 2, c. 80, § 1625; Ibid., l. 3, c. 61, § 2362; Id., ST, 40 11 momento in cui si costituisce come compimento delle capacità naturali dell’intelletto, ha il merito di rendere l’uomo pienamente consapevole della sua posizione nel cosmo, conducendolo così ad andare oltre se stesso. Al di là dell’apporto che singole dottrine filosofiche possano dare al sapere teologico, questa mi pare la vera cifra del contributo che Tommaso riconosce alla filosofia: «vacare» nella speculazione intellettuale pone l’uomo in una condizione intrinsecamente aperta al trascendente, dato che i piaceri e i beni dell’intelletto di cui l’uomo può fruire in questa vita lo spingono essi stessi, dall’interno, ad anelare a una fruizione più piena di ciò di cui si gode. Si può dire, allora, che la pratica filosofia educa l’uomo a vivere in questa vita «già e non ancora» i ben più grandi, alimentando così il desiderio di condividere a pieno la vita divina. Ecco perché la vera filosofia, in quanto genuina attività contemplativa, spinge a desiderare l’altra vita e a vivere per essa43. È chiaro, dunque che l’inadeguatezza, in Tommaso, assume un ruolo positivo, addirittura «proattivo»: paradossalmente, nel pensiero tommasiano, l’incompiutezza non è un punto debole della filosofia, bensì il suo punto di forza: proprio per avere raggiunto certi risultati limitati sull’essere e su Dio, il filosofo è consapevole di quanto gli sfugge, trasfigurando così l’incompiutezza in apertura verso un compimento a venire e da ricevere44. La filosofia è dunque imperfetta semplicemente in quanto rappresenta solo l’inizio della vita degna dell’uomo e non il suo compimento più pieno. Per questo, essa fomenta attivamente il desiderio di vivere la verità tutta intera. Quando Blaise Pascal sentenziava che «il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c'è un’infinità di cose che la sorpassano», non comunicava un’idea molto diversa da quella qui espressa da Tommaso45. Ci sembra significativo, al riguardo, un passaggio del Contra impugnantes Dei cultum religionem, in cui Tommaso intende difendere i frati mendicanti da diverse accuse mosse nei loro confronti, tra cui quella di dedicarsi allo studio delle lettere pagane. I, q. 77, a. 2, resp.; Id., QD De an., q. 1, resp.. Cf. A. Pattin, Le Liber de Causis. Édition établie à l’aide de 90 manuscrits avec introduction et notes, prop. II.22, « Tijdschrift voor Filosofie » 28 (1966), [90203], p. 138, ll. 81-82. 43 Cfr. Id., Sent. Ethic., l. 10, lect. 10-11 e 13. 44 Commenta a giusto titolo Stephen Brock: «Uno dei modi fondamentali in cui l’Aquinate vede che la filosofia aiuti la “comprensione” della sacra dottrina è precisamente evidenziando maggiormente la debolezza del nostro intelletto. […] La filosofia, quando è sana, ci insegna a saper distinguere – rigorosamente – tra ciò che comprendiamo e ciò che non comprendiamo. Per coloro che aspirano a conoscere e insegnare la sapienza teologica, questo è un insegnamento che non si imparerà mai troppo presto» (S. L. Brock, Autonomia e gerarchia delle scienze in Tommaso d’Aquino. La difficoltà della sapienza, in R. Martínez (ed.), Unità e autonomia del sapere. Il dibattito del XIII secolo, pp. 94-95). 45 B. Pascal, Pensieri, n. 271. Compie un analogo accostamento Umberto Galeazzi in Il coraggio della ragione. Tommaso d’Aquino e l’odierno dibattito filosofico, Armando, Roma 2012, pp. 65-66. 12 L’Aquinate afferma che l’ideale evangelico abbracciato con la vita religiosa non solo non è incompatibile con lo studio, ma per molti versi lo esige. E tale studio non riguarda solo le Scritture, ma tutto ciò che permette all’uomo di stare nella verità. Per questa ragione, Tommaso ricorda il monito di Agostino a non disdegnare quanto detto dai filosofi e sottolinea che certi invettive contro le «lettere pagane» da parte di taluni autori cristiani non sono dirette contro la filosofia in quanto tale, ma contro il suo scorretto, distorto e abusivo46. In virtù di queste considerazioni, non troviamo affatto assurda l’idea che per Tommaso il livello di sapienza raggiunto dai filosofi ponga chi lo possiede in una posizione privilegiata rispetto alla piena unione con Dio, promessa dal Vangelo. Al riguardo, Tommaso precisa però che un tale livello di sapienza può essere raggiunta meritoriamente dai filosofi, ma anche elargita da Dio attraverso la Rivelazione e la Grazia, di modo da permettere a molti di accedere a ciò che storicamente hanno potuto raggiungere in pochi, con fatica e non senza mescolare la verità con qualche errore47. La difesa di questo genere di prospettiva è coerente con un aspetto fondamentale del pensiero filosofico-teologico di Tommaso: l’Aquinate insiste nel presentare quanto promesso e sperato nella fede come l’autentica perfezione dell’uomo e non come qualcosa che gli «cada addosso», in maniera estrinseca rispetto alla sua natura. Solo in quanto capace di costituirsi come compimento supremo della natura umana stessa – e dunque conformemente a quanto l’uomo già desidera, vuole e coglie speculativamente per sua natura – la fede offre una promessa credibile di salvezza48. Seguendo questa prospettiva, si può dire che la capacità di intercettare ciò che già si trova nel profondo della mente e del cuore umano è l’elemento che rende la fede un autentico dono. In effetti, la nostra stessa esperienza ci dice che la grandezza di un dono è tanto maggiore quanto più è intimo e profondo il desiderio a cui, gratuitamente e sorprendentemente, esso viene incontro. Potrebbe allora un uomo vivere come vero dono la visione beatifica, se essa non fosse già intimamente legata al compimento supremo della natura umana stessa? 46 Cfr. Tommaso d’Aquino, Contra impugnantes Dei cultum religionem, c. 11, §§ 3-4. Cfr. al riguardo, Tommaso d’Aquino, In III Sent., d. 24, q. 1, a. 3, q.cula 1, sol.; Id., SCG, l. 1, c. 3, §§ 16-18; Id., ST I, q. 1, a. 1, resp. 48 «Sicut autem est in gratia perficiente affectum quod praesupponit naturam, quia eam perficit; ita et fidei substernitur naturalis cognitio quam fides praesupponit et ratio probare potest; sicut Deum esse et Deum esse unum, incorporeum, intelligentem et alia hujusmodi» (Id., In III Sent., d. 24, q. 1, a. 3, q.cula 1, sol.). Scrive giustamente Étienne Gilson : «Dans tous les ordres, à tous les degrés, le thomisme envisage la nature comme voulue par Dieu pour sa fin surnaturelle. En cela comme en tout, la fin est la cause des causes, et le monde n’en a qu’une, qui est Dieu. Cette vue unitaire de la doctrine est la plus juste» (É. Gilson, Le Thomisme. Introduction à la philosophie de saint_ Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 19897, p. 45). 47 13 Tommaso d’Aquino e la filosofia come maniera di vivere A questo punto del nostro punto, possiamo stabilire se Tommaso ha davvero dato della filosofia un’immagine inesorabilmente «teorica», minimizzandone la portata esistenziale, come sostiene Domański. Quanto abbiamo detto ci spinge a concludere che Tommaso ha considerato la filosofia come «teoria» che si costituisce come maniera di vivere, secondo un’ideale filosofico che rimonta precisamente ad Aristotele. Prima che nell’efficace costruzione di discorsi, la filosofia si costituisce per Tommaso come la realizzazione di un certo tipo di vita – la vita contemplativa – innervata dalla penetrazione della verità nei pensieri, nelle azioni, nei desideri del soggetto. La filosofia, così concepita, avrà sicuramente bisogno di produrre discorsi e argomentazioni, originando attività «professionalizzanti» e dividendosi in discipline scientifiche, ma tutto ciò troverà il suo senso solo ed esclusivamente all’interno di un orientamento esistenziale di fondo, caratterizzato dall’amore per la verità. La filosofia è dunque per Tommaso chiaramente una maniera di vivere, che spinge a fare di tutto per la verità e non disdegna di lasciare tutto per essa. Un aspetto trascurato da Domański è il fatto che Tommaso richiami esplicitamente i filosofi come esempio di uomini che, mirando alla contemplazione, hanno abbracciato un preciso stile di vita, che li ha spinti a distaccarsi dai beni materiali e a non disdegnare la povertà. Non c’è dubbio che Tommaso scorgesse nei filosofi del passato quella medesima scelta di vita che rendeva, nel suo tempo, la condizione di mendicante particolarmente favorevole per svolgere il ruolo di studioso e di docente universitario. Ciò risulta particolarmente evidente nel Contra impugnantes, allorché Tommaso, per difendere i frati dall’accusa di eccessivo zelo per la povertà, evocava proprio l’esempio dei filosofi: già costoro, in effetti, avevano rinunciavano volontariamente alle ricchezze, perché orientando la loro vita alla sapienza, conducevano una vita sobria. Così, argomenta Tommaso, se già i filosofi pagani non disdegnavano di essere poveri e in certi casi di ricorrere all’elemosina, perché mai allora dovrebbero esserne biasimati i frati49? Tommaso non manca dunque di presentare i filosofi anche come esempi di vita, in quanto l’amore per la verità dava loro una spinta formidabile all’acquisizione della virtù e al distacco rispetto ai beni materiali e caduchi. Del tutto in linea con questa immagine 49 Tommaso d’Aquino, Contra impugnantes, cc. 6-7. Rimarcava questo aspetto anche Gilson, in Le Thomisme, op. cit., p. 11. 14 fornita da Tommaso è quella riportata da Dante nel Convivio, allorché affermava che ‘filosofo’ «non d’arroganza, ma d’umiltade è vocabulo»50. Per giustificare la propria interpretazione di Tommaso, Domański mette in primo piano un passaggio della Summa, in cui si afferma che la filosofia non è in grado di dirigere la vita delle persone, come accade invece alla sapienza evangelica51. A ben vedere, lo abbiamo già accennato, questo passaggio non intende negare alle discipline filosofiche una loro capacità di impattare sulla vita concreta delle persone. Come abbiamo spiegato, per Tommaso l’orientamento disinteressato e libero verso la verità, tipico del metafisico, è addirittura il principale motore dell’intero cammino dell’uomo verso la vera sapienza. Egli intende piuttosto rimarcare la povertà della nozione di Dio a cui giunge la filosofia: il Dio dei filosofi non fornisce gli elementi utili per partecipare le nostre azioni della vita divina, così come è in grado di fare invece la sapienza evangelica, che ci comunica chi è Dio e che cosa Egli voglia da noi52. Il passo tommasiano viene certamente illuminato dal fatto che per l’Aquinate l’inadeguatezza della nozione metafisica di Dio non costituisce affatto, di per sé, motivo per allontanarsi da un’esperienza più piena del divino, ma, tutto al contrario, si costituisce come una sorta di «dotta ignoranza» e come motivo di modestia, che spinge il desiderio umano a non fermarsi a quanto coglie con le proprie risorse naturali, preparando così l’uomo a ricevere una sapienza più perfetta, con cui dirigere al meglio la propria vita53. Tommaso sembra dirci insomma che la vera sapienza è certamente più alta di quella proposta dai filosofi, ma essa non potrebbe venir cercata, né colta nel suo valore, se l’uomo non fosse già capace di quella filosofica54. 50 Dante Alighieri, Convivio, III, 11,5. Cfr. al riguardo L. Bianchi, Il vescovo e i filosofi. La condanna parigina del 1277 e l’evoluzione dell’aristotelismo scolastico, Lubrina, Bergamo 1990, p. 164, che ne mostra il legame con quanto sostenuto da maestri delle arti come Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante. 51 «Cum autem sapientia sit cognitio divinorum […] aliter consideratur a nobis et aliter a philosophis. Quia enim vita nostra ad divinam fruitionem ordinatur et dirigitur secundum quandam participationem divinae naturae, quae est per gratiam; sapientia secundum nos non solum consideratur ut est cognoscitiva Dei, sicut apud philosophos; sed etiam ut est directiva humanae vitae, quae non solum dirigitur secundum rationes humanas, sed etiam secundum rationes divinas, ut patet per Augustinum, XII de Trin.» (Tommaso d’Aquino, ST II-II, q. 19, a. 7, resp.) 52 Un’interpretazione corretta di questo passo è fornita da Carlos Steel in Medieval Philosophy, op. cit., p. 171. 53 La stessa admiratio, da cui la filosofia sorge, non è che una forma di ignoranza che stimola l’intelligenza ad interrogarsi sulle cause. Cfr. Id., In II Sent., d. 17, q. 1, a. 3, resp., Id., SCG, l. 4, c. 33, n. 5; Id., ST, I, q. 105, resp.; Id., ST, II-II, q. 180, a. 3, ad 3; Id., In Met., l. 1, lect. 3. 54 Mi paiono davvero azzeccate queste righe di Gilson per rendere questa idea: «La théologie de saint Thomas est d’un philosophe, mais sa philosophie est d’un saint» (Gilson, Le Thomisme, op. cit., p. 15). 15 Il valore contemplativo dell’insegnamento Vorremmo concludere questo nostro lavoro mettendo in luce l’aspetto sapienziale della concezione tommasiana dell’insegnamento. Secondo Tommaso, infatti, l’essenza dell’insegnamento sta nella trasmissione agli altri di quanto è stato contemplato; perciò attraverso l’insegnamento avviene la partecipazione intersoggettiva della pienezza della contemplazione, dell’amore per la verità e dunque della felicità55. L’insegnamento non è affatto per Tommaso una «professione», nel senso riduttivo che questa parola ancora oggi può evocare, ma è un punto altissimo della vita contemplativa, la quale già in questa vita non si identifica con un’attività solitaria del pensiero, ma si articola e si sviluppa secondo una proficua comunicazione con gli altri uomini che hanno trovato la sapienza o che la stanno cercando. Aristotele aveva visto con merito che la contemplazione squaderna un modo di essere insieme agli altri – «soci», «amici», «fratelli» - che supera enormemente i beni legati alla concordia e della pace che si possono raggiungere nella gestione virtuosa della vita pubblica56. Anche in questo caso, Tommaso trae dunque profitto da un elemento caratteristico dell’aristotelismo: tipica dello spirito peripatetico è infatti l’idea che l’accesso più proficuo alla verità non stia nell’ispirazione solitaria del «genio», bensì nel fatto che gli uomini concorrano e cooperino alla ricerca della verità. Non è un caso che una delle «tentazioni» più acute dell’aristotelismo medievale sia stata l’averroismo, quale dottrina dell’unione di tutti gli uomini che colgono la verità in un unico intelletto separato ed eterno. Al di là della tesi dell’unicità dell’intelletto, Tommaso condivide proprio con Averroè l’idea che la cognizione intellettiva si costituisca come un modo di essere peculiare, segnato dall’immaterialità e da una capacità di guardare le cose che trascende il qui e l’ora57. È questo il carattere, esclusivo della natura intellettiva, che permette agli uomini di realizzare un’unione, una condivisione e una comunicazione così intime ed intense da non trovar riscontro con quanto accade in nessun altra creatura di questo mondo. 55 Cfr. Tommaso d’Aquino, ST, II-II, q. 181, a. 3, resp.; Id., In III Sent., d. 35, q. 1, a. 3, resp.; Id., QD De Ver., q. 11, a. 4, in particolare ad 1-3. Si vedano al riguardo le belle pagine di Gilson, Le Thomisme, op. cit., pp. 10-12. 56 «[Aristoteles] sudbit melius esse sapienti quod habeat cooperatores circa considerationem veritatis, quia interdum unus videt quod alteri, licet sapientiori, non occurrit» (Tommaso d’Aquino, Sent. Ethic., l. 10, lect. 10). 57 Ci riferiamo all’immaterialità della conoscenza intellettiva. Per uno sviluppo della questione e per i diversi riferimenti all’opera di Tommaso e di Averroè, rimandiamo ai nostri Aristotelismo difficile. L’intelletto umano nella prospettiva di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, Vita e Pensiero, Milano 2004; Id., Averroism. A Paradigm of Phychology in the Thirteenth Century, in G. D’Onofrio (ed.), The Medieval Paradigm. Religious Thought and Philosophy, op. cit., pp. 529-558. 16