Estratto da P. Manduchi. Dalla penna al mouse. Gli strumenti di diffusione del concetto di ğihād. Milano: Angeli, 2006, p. 23-55.
Il concetto di ğihād
di Nicola Melis
1. Introduzione
Negli ultimi anni, soprattutto come conseguenza del tragico 11 settembre
2001, si sono moltiplicate le pubblicazioni dedicate all’Islam. In questa giungla editoriale, di qualità piuttosto variabile, uno degli argomenti più trattati ed
abusati è sicuramente il ğihād1.
Si tratta di un concetto spesso dato per scontato, che secondo molti non
necessita di ulteriori approfondimenti o delucidazioni. Il ğihād oggigiorno è
infatti divenuto un veicolo di polemiche su base ideologica; polemiche che
non dovrebbero riguardare la dimensione religiosa.
Nei casi in cui si tenta un’analisi del concetto, si adopera frequentemente
una terminologia mediatica che trova scarso riscontro nelle fonti islamiche e,
per ciò stesso, non può costituire un materiale utile per chi volesse approfondire seriamente l’argomento.
Per mezzo di questa vaga idea di ğihād, oramai diffusa a livello di opinione pubblica, si attua una sempre più abusiva associazione tra l’Islam e la vio-
1. Tra le numerose pubblicazioni, desidero segnalare, tra i testi in lingua italiana, V. Fiorani
Piacentini, Islam. Logica della Fede e Logica delle Conflittualità, Angeli, Milano 2003; G.
Vercellin, Jihad: l'Islam e la guerra, Giunti, Firenze 2001 (già alleg. a Storia e dossier, n. 125,
mar. 1998); B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, “Scuola aperta”, Sansoni, Firenze 1974; meno interessante il recente L. Pellicani, Jihad: le radici, Agorà n. 3, Luiss
University Press, Roma 2004; in lingue occidentali: A. Morabia, Le Ğihâd dans l’Islâm
médiéval. “Le combat sacré” des origines au XIIe siècle, Albin Michel, Paris 1993; R. Peters,
Islam and Colonialism: The Doctrine of Jihad in Modern History, “Religion and Society”,
Mouton, The Hague 1979; M. Khadduri, War and Peace in the War of Islam, John Hopkins
University Press, Baltimore 1956; J. Turner Johnson, The Holy War Idea in Western and Islamic Traditions, Pennsylvania State University Press, University Park, Pa. 1997; J. Kelsay - J.
Turner Johnson (ed. by), Just War and Jihad: Historical Perspectives on War and Peace in
Western and Islamic Traditions, “Contributions to the Study of Religion”, 28, Greenwood
Press, New York 1991.
lenza2. Per quanto possa apparire paradossale, sul concetto di ğihād vi è una
certa convergenza di definizione tra quell’insieme complesso di correnti interne alle società islamiche, definito genericamente “fondamentalismo islamico”, e quelle numerose fazioni ideologiche occidentali che impostano la questione dello sviluppo del mondo islamico contemporaneo in termini esclusivamente conflittuali.
In verità, questa convergenza appare meno paradossale se si considera che
i succitati rigoristi dell’Islam sono, in fin dei conti, dei musulmani laicizzati
che gettano le basi per un programma politico da svolgersi in forma religiosa.
Essi sono dei “puritani” che presentano sotto veste religiosa la loro tesi politica, abbellendola di valori religiosi ed escatologici. Per essi l’Occidente è la
manifestazione terrena di Satana, nonostante la cultura occidentale, con le sue
tradizioni giuridiche e ideologiche moderne, abbia pesantemente influenzato
la loro percezione della realtà. Le stesse ideologie di resistenza alla presenza
imperialista, adottate dai musulmani, furono improntate sulla concezione terzomondista di autodeterminazione e di liberazione nazionale. La tradizione
islamica fu ricostruita dalle organizzazioni fondamentaliste sotto l’influenza
di tali ideologie avanzando delle pretese di esclusivismo ed esercitando un
grande fascino sulle masse3.
Una simile visione, tuttavia, non sembra tenere conto del fatto che la cultura islamica è il prodotto di una esperienza storica. Come ha scritto recentemente Alberto Ventura, negli ultimi tempi
… le analisi politologiche, economiche o sociologiche hanno […] occupato la ribalta, ponendo in secondo piano o addirittura oscurando del tutto la dimensione storica, o se si vuole storico-religiosa; quella dimensione, cioè, che permette di esaminare
e di contestualizzare storicamente i fenomeni evolutivi interni dell’Islam, e solo suc-
2. Vi è continuità di toni tra una certa pubblicistica dell’inizio del XX secolo (cfr., S. Van
Rensselaer Townbridge, “Mohammed’s View of Religious War”, in Muslim World, 3 1913, pp.
290-305) e un filone giornalistico attuale; per citare degli esempi particolarmente emblematici,
F. Nirenstein, “Islamically correct. I pregiudizi e le bugie di cui è vittima l'opinione pubblica
occidentale”, in Liberal, Anno II, numero 8, Ottobre 2001; negli Stati Uniti, tra i vari pubblicisti segnaliamo, per tensione ideologica e scarsa conoscenza della materia, Lawrence Auster; tra
i suoi scritti, sono particolarmente esemplari i seguenti, pubblicati on-line nella rivista Front
Page Magazine.com: “Kidnapping of French reporters proves jihad is not defensive”, September 2, 2004; “The centrality of jihad in Islam”, August 20, 2004; “The key to jihadist ideology
and strategy”, August 16, 2004.
3. K. Abou El Fadl, “Islam and the theology of power”, in Middle East Report, 221
(2001), pp. 28-33.
24
cessivamente di valutare la natura e la reale consistenza di certi suoi sviluppi contemporanei4.
Nella dimensione storica dei popoli islamici la violenza è sicuramente presente, ma non più che nelle altre società. Già dai primi secoli della storia islamica, i musulmani dovettero affrontare tendenze estremiste che miravano a
rovesciare il potere costituito, negando validità allo stesso sistema legale
maggioritario5. Si tratta, perciò, di stabilire in che misura questa violenza sia
dovuta al pensiero islamico tradizionale o a circostanze ambientali temporali
che prescindono dall’Islam: è quanto ci proponiamo di esporre nelle pagine
seguenti. Per quanto sia ormai consolidata la concezione per cui il pensiero
islamico non prevede alcuna separazione tra dimensione religiosa e politica,
storicamente le società islamiche hanno conosciuto una divisione tra il potere
temporale e quello spirituale «con frequenti interferenze e senza una chiara
definizione istituzionale dei rispettivi ambiti, ma dotate anche di fisionomie
ben distinte»6, seppure tale distinzione si manifesti in una maniera non così
evidente per l’osservatore distratto.
È nel XX secolo che i due principali ideologi dell’Islam rigorista7,
l’indiano Mawdūdī8 e l’egiziano Sayyid Quṭb9 «hanno elaborato teorie sociopolitiche che hanno più a che fare con le ideologie rivoluzionarie e terzomondiste dell’Occidente che non con la religione dell’Islam. Fu in particolare il
concetto di jihâd a trattenere la loro attenzione. Attraverso una trasformazione
semantica senza precedenti, il jihâd fu da loro reinventato (specialmente da
Quṭb) come giustificazione della lotta armata rivoluzionaria contro i regimi
corrotti dei paesi islamici»10.
4. A. Ventura, “Islam e islamismi”, in Scritti di storia, numero speciale in memoria di P. G.
Donini, 3, Napoli 2003, p. 61.
5. H. Laoust, Les Schismes dans l’Islam, Payot, Paris 1983 (traduz. it., H. Laust [sic], Gli
scismi nell’Islam, Ecig, Genova 1990).
6. Ventura, “Islam…”, op. cit., p. 70.
7. G. Kepel, Jihad: ascesa e declino, Carocci, Roma 2000.
8. S. V. R. Nasr, Mawdudi and the Making of Modern Islamic Revivalism, Oxford University Press, Oxford 1996; F. Osman, “Mawdūdī’s contribution to the development of modern islamic thinking in the Arabic-speaking world”, in Muslim World, 93 (2003), pp. 465-485.
9. La produzione bibliografica su Quṭb è ricchissima, segnaliamo qui alcuni titoli: G. Kepel, Le Prophète et le pharaon, Seuil, Paris 1993; O. Carrè, “Le combat pour Dieu et l’état islamique chez Sayyid Qotb, l’inspirateur du radicalisme islamique actuel”, in Revue Française
de Science Politique, 4 (1983), pp. 680-705; Y. Haddad, “The Qur’anic justification for an Islamic revolution: the view of Sayyid Quṭb”, in Middle East Journal, 37-1 (1983), pp. 14-29; S.
Khatab, “Arabism and islamism in Sayyid Qutb’s thought on nationalism”, in Muslim World,
94 (2004), pp. 217-244.
10. Ventura, “Islam…”, op. cit., p. 73.
25
Sia Mawdūdī che Quṭb rappresentano la figura paradigmatica di moderno
fondamentalista islamico quale si è imposta in questi ultimi decenni: entrambi
erano privi di cultura religiosa specializzata e mancavano di quella competenza richiesta dalla tradizione a coloro che si occupano di discipline islamiche.
Uno dei problemi maggiori del mondo islamico contemporaneo è rappresentato dal fatto che l’Islam radicale ritiene ammissibile una lettura del testo libera
da vincoli di competenza e perizia, per cui chiunque può proporsi come interprete “autorevole” di riletture ideologiche svincolate dal sapere tradizionale.
I vari Usāma Bin Lāden, Ayman al-Ẓawāhirī, Abū Ḥafīẓa, ecc. hanno
compiuto studi moderni di tipo scientifico, spesso in paesi occidentali11; essi
sono medici, ingegneri, ecc., ma quasi mai degli uomini di religione.
Altra caratteristica dei rigoristi è l’idea che si possa scagliare l’anatema
(takfīr) contro altri musulmani senza vincoli; questo procedimento per essi
doveva passare per l’essenza stessa dell’Islam, come il suo principio fondamentale12.
La cultura islamica vanta un sistema dottrinale e di credenza che si è formato nel corso dei secoli. Si tratta di un sistema che deriva certamente la sua
ispirazione dal Corano, ma che si avvale di un immenso corpus il quale costituisce una fonte di incomparabile valore.
Usāma bin Lāden e tutti i suoi sostenitori attuano, appunto, una rilettura
pretestuosa delle fonti ignorando il consenso dei dotti, quell’iğmā‘ che ha
consentito nel corso dei secoli la formazione del corpus appena citato. Il principio che ha ispirato il pensiero islamico fin dalla sua nascita è quello dell’
“unità nella diversità”. Secondo tale principio è necessario porsi a mezza strada tra la posizione rigorista e quella che non impone un certo grado di uniformità, riconoscendo così una serie di pluralità compatibili13. Al contrario, il puritanesimo attuale stabilisce un principio da sempre avversato dal pensiero
islamico tradizionale, l’ “intoccabilità della Scrittura”. Per mezzo di tale principio i cosiddetti fondamentalisti negano il valore della scienza ermeneutica
tradizionale, caratterizzata da regole ben precise e, in quanto tale, oggetto di
studio da parte di interpreti ed esperti qualificati.
È questa modalità di interpretazione delle fonti, fondata sulla improvvisazione e sul dilettantismo (e alimentata dai petro-dollari14), che permette alle
11. Sul “cursus honorum” dei principali esponenti del fondamentalismo islamico contemporaneo, cfr. G. Kepel, Fitna, Guerra nel cuore dell’islam, Laterza, Roma Bari 2004.
12. Sulla concezione classica del takfīr cfr. J. Van Ess, Prémices de la théologie musulmane, “Chaire de l’I.M.A”, Albin Michel, Paris 2002, pp. 33 ss.
13. A. Ventura, “L’Islam sunnita nel periodo classico (VII-XVI secolo)”, in G. Filoramo,
Islam, “Storia delle religioni”, Laterza, Bari-Roma 1999.
14. Kepel, Jihad…, op. cit., pp. 77 ss.
26
giovani generazioni di diseredati di ignorare la tradizione islamica e di interpretare in maniera pretestuosa il Corano e la sunna per sfogare la propria frustrazione.
Altra conseguenza del rifiuto dell’Islam tradizionale è la nozione che il potere politico dovrebbe restare nelle mani degli uomini di religione; i sunniti,
infatti, hanno sempre considerato una innovazione biasimevole (bid‘a) il fatto
di cumulare le funzioni proprie degli uomini di scienza (ahl al-‘ilm o ‘ulamā’)
a quelle degli uomini di penna (ahl al-qalam) e degli uomini di spada (ahl alsayf). È questa invece la tendenza, tipicamente moderna, definita dai mezzi di
comunicazione di massa con il neologismo “jihādismo”, che propone un governo di religiosi e che si contrappone all’Islam, inteso nella sua componente
storica e tradizionale.
Nelle pagine a seguire presentiamo una breve introduzione al concetto di
ğihād alla luce del pensiero islamico tradizionale e classico (sunnita), allo
scopo principale di fornire una chiave interpretativa svincolata dalle note riletture mediatiche e tendenziose.
2. Le fonti islamiche per lo studio del ğihād
Fondata sul dogma dell’unicità di Dio (tawḥīd) e sull’unità della comunità
(umma), la cultura islamica, dal punto di vista storico e dottrinale, si è diversificata in diversi sottoinsiemi.
La distinzione più antica è quella tra sunniti, sciiti e kharigiti: ognuna di
queste correnti interne all’Islam ha ripreso e sviluppato autonomamente una
dottrina del ğihād con delle caratteristiche proprie: il presente lavoro si concentra, tuttavia, sulla posizione maggioritaria nel mondo islamico, quella sunnita. Altra suddivisione, di qualche tempo più tarda, è quella relativa ai diversi
orientamenti (maḏhab) giuridici; un terzo sottoinsieme riguarda il dibattito più
puramente teologico, che ha dato luogo a sua volta, a diverse correnti di pensiero; ulteriore distinzione, all’interno del sunnismo, è quella che scaturisce
dagli orientamenti di pensiero legati al sufismo. Ognuno di questi livelli ha
generato una copiosa letteratura15.
Si sono così sviluppate diverse discipline: la scienza dell’esegesi coranica
(‘ilm al-tafsīr), la scienza dei detti del profeta Muḥammad (‘ilm al-ḥadīṯ), la
scienza del discorso teologico (‘ilm al-kalām), ecc. Scienze che si occupano,
in qualche modo del concetto di ğihād che, anche in tale prospettiva, andrebbe
studiato.
15. Per una visione di insieme si veda Ventura, “L’Islam sunnita...”, op. cit.
27
3. Il ğihād coranico
Su un piano strettamente linguistico, il termine ğihād è un nome verbale
con valore intensivo e significa “sforzo immane”, “impegno allo stremo delle
forze”. Un impegno che deve sempre e comunque essere fī sabīl Allāh, vale a
dire «sulla via di Dio». Deve, cioè, contenere dei fini eticamente validi in una
prospettiva islamica.
Esistono diversi tipi di ğihād fī sabīl Allāh, cui un musulmano deve dedicarsi, siano essi di matrice interiore e spirituale o volti ad agire attivamente
sulla vita terrena e mondana. La fonte principale da cui attingere per stabilire
le caratteristiche del principio del ğihād, è la supernorma su cui si basa l’Islam
tutto, cioè il Corano.
Tuttavia, non tutti possono interpretare il Testo sacro; perché ciò avvenga
è necessario svolgere anni di studio e ottenere tutta una serie di diplomi che
permetterano ad un individuo di effettuare una propria esegesi coranica, comunque non troppo distante da quella fornita dalla comunità dei dotti nel corso del tempo.
Così è innanzitutto nei tafsīr che possiamo individuare delle definizioni e
delle categorie di ğihād. Per citare uno degli esempi più noti, il commentario
di al-Qurtubī, celebre esegeta andaluso morto nell’anno 1272, riporta
un’analisi del ğihād, accompagnata dalle opinioni degli esegeti classici anteriori. Egli distingue tre principali categorie di ğihād: contro un nemico visibile, contro il diavolo e contro la parte meschina dell’anima.
La radice del termine ğihād, Ğ-H-D, compare in trentacinque versetti coranici con diverse accezioni e, in ogni caso, come contrario della radice coranica Q-¼-D, che significa “stare seduti” (Cor., 4:95). Con ğihād, pertanto, non
si intende un atto violento diretto in maniera indiscriminata contro i non musulmani, ma si sottolinea l’aspetto più dinamico ed attivo della vita del credente.
È il nome con valore intensivo e reciproco, riferito ad un impegno tenace a
trecentosessanta gradi che ogni musulmano dovrebbe rivolgere contro il male,
in qualunque forma esso si manifesti. Nel Corano, il ğihād inteso come “guerra santa” è piuttosto espresso con il termine qitāl16, più propriamente “scontro
16. Le radici verbali presenti nel Corano che denotano l’idea di confronto armato sono numerose; Morabia ha individuato le seguenti: q-t-l per “uccidere”, ġ-z-w (si veda alle pagine seguenti) per “attaccare”, ḥ-r-b per “guerreggiare”, ¼-d-w per “mostrare ostilità”, ḍ-r-b per
“scuotere l’avversario”, ḫ-r-ğ per “partire per una campagna”, n-f-r per “precipitarsi in una
campagna”, cfr. Morabia, Le Ğihâd, op. cit., pp. 119-120, 403-404.
28
armato”, anch’esso da attuarsi fī sabīl Allāh, e per molti versi trova una corrispondenza con il bellum pium et justum di Sant’Agostino17 e con la Guerra
Santa dell’ebraismo18.
Attraverso una sommaria ricostruzione e rifacendosi ad almeno due principi ermeneutici in tema di scienza coranica19, gli esegeti individuano un iniziale invito alla pazienza e alla sopportazione, che corrisponde a tutto il Periodo
Meccano e all'inizio del Medinese.
Già nel secondo Periodo Meccano fu rivelato l'importante versetto 25:52,
in cui si parla di ğihād verbale, versetto che costituisce quindi un invito ad
impegnarsi per il dialogo e la moderazione:
Ma tu non obbedire a quelli che rifiutano la Fede, ma combattili con la Parola, in
guerra grande [ğihādan kabīran] (25:52)20.
Si tratta del permesso divino di rispondere all’oppressione meccana con
metodi analoghi a quelli dei Coreisciti. Si consente, in tal modo, l’utilizzo della disputa finalizzata all’autodifesa. In un versetto risalente alla sconfitta di
Uḥud (3/625), si continua a sostenere l’esigenza di un impegno verbale, una
lotta con la parola:
E chi sarà zelante [ğāhada] per la Fede lo sarà a proprio vantaggio, perché Dio
non ha bisogno alcuno delle creature (29:6).
La prima rivelazione in cui compare un esplicito permesso di condurre una
guerra, qitāl, è la seguente:
17. Nel capitolo XIX de La città di Dio, dove si parla di guerra combattuta a causa delle ingiustizie compiute dal nemico, come estrema ratio cui l’autorità costituita ricorre per ristabilire
la pace, senza desideri di crudeltà, né di cupidigia, cfr. M. Canard, “La guerre sainte dans le
monde islamique et dans le monde chrétiene”, in IIe Congrès de la Federation Savantes de
l’Afrique du Nord (1936), suppl. à Revue Africaine, pp. 605-623; P. Partner, Il dio degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Torino 1997.
18. Passi biblici esemplari in tal senso sono la cronaca della guerra di Abramo contro la lega dei sovrani di Sodoma e Gomorra nel libro della Genesi o, ancora, la mitologia guerresca
della conquista delle città cananee da parte di Israele.
19. Ci riferiamo al principio dell’abrogazione (nasḫ), «la dottrina cioè secondo la quale
l’arbitraria e personale attività rivelatrice di dio può a suo piacere abrogare una disposizione
data prima» (Bausani in Il Corano, Introduzione, traduzione e commento di A. Bausani, “Le
Querce”, Sansoni, Firenze 1989, 2a ed. p. 508), e al principio della circostanza della rivelazione.
20. Per la traduzione coranica abbiamo fatto riferimento alla versione del Bausani citata
nella nota precedente.
29
È dato permesso di combattere a coloro che combattono [yuqātalūna] perché son
stati oggetto di tirannia: Dio, certo, è ben possente a soccorrerli (22:39).
In questo versetto, di probabile epoca medinese, il qitāl è comunque inteso
«come giusta ritorsione contro offese e ingiustizie patite»21. In sintesi, ciò che
i modernisti definiscono “ğihād difensivo”.
È comunque contemplata una forma di ğihād offensivo, inizialmente vincolato dal periodo dell’anno, in quanto ammesso solo al di fuori dei mesi sacri, come statuisce il Corano in 9:5 (Periodo Medinese, forse 9 a.H.):
Quando poi saranno trascorsi i mesi sacri, uccidete [uqtilū] gli idolatri dovunque
li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli ovunque in imboscate.
Questo invito a combattere stabilisce una differenza fra idolatri (mušrik) e
coloro che seguono un solo Dio (ahl al-kitāb), cioè ebrei e cristiani. Ma in un
versetto precedente (del rağab 2 a.H., corrispondente al gennaio 624) Dio si
era mostrato indulgente rispetto a chi combatte anche nei mesi sacri, seppure
per difendersi:
Ti chiederanno se è lecito far guerra [al-qitāl] nel mese sacro. Rispondi: “Far
guerra [qitāl] in quel mese è peccato grave. Ma piú grave è agli occhi di Dio stornare
dalla via di Dio, bestemmiare Lui e il Sacro Tempio e scacciarne la Sua gente, poiché
lo scandalo è peggiore dell’uccidere [min al-qatl], e costoro non cesseranno di combattervi [yuqātilūnakum] fino a quando loro riuscisse di farvi apostatar dalla fede
(2:217).
Con tale versetto, come ha sottolineato Claudio Lo Jacono, «si entrava […]
decisamente in una nuova fase, nella quale Allāh autorizzava la guerra offensiva contro i Suoi nemici e il Profeta, rassicurato, poté accettare il quinto spettantegli»22. Il culmine di questa propensione è raggiunto, però, con il versetto
9:29 dell’anno 8/630; tale passo non fa distinzione tra contesti e situazioni, ma
ingiunge di combattere ad ogni costo sul sentiero di Dio:
Combattete [qātilū] coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che
non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo [ğizya] uno per uno, umiliati (9:29).
21. A. Bausani in ibidem, p. 599, nota ai versetti 39-40.
22. C. Lo Jacono, “Le religioni dell’Arabia preislamica e Muḥammad”, in G. Filoramo,
Islam, op. cit., p. 61.
30
La disciplina giuridica del ğihād manterrà le caratteristiche formali sviluppate nel corso dei primi secoli dell’Islam, caratterizzati dagli irresistibili successi militari degli esordi dell’Islam.
A dimostrazione che il ğihād coranico non è riferito esclusivamente o
principalmente al discorso conflittuale e bellico, basta fornire alcuni dati
quantitativi (con il vincolo del principio del nasḫ): dei trentacinque versetti
coranici in cui ricorre l’utilizzo del termine e dei suoi derivati, ventidue fanno
un generico riferimento ad un impegno tenace; dieci si richiamano esplicitamente all’attività guerriera; tre sono i versetti con un accento spirituale23. I
versetti che invitano al conflitto hanno, in ogni modo, un tono vago, generale
e impreciso in quanto non indicano alcun principio normativo relativo al contesto, alle modalità, agli obiettivi specifici e ai luoghi in cui i musulmani dovrebbero prendere le armi e attaccare i nemici; soprattutto, il Testo sacro non
offre alcun elemento che possa giustificare in maniera esplicita le mire espansioniste della società islamica o la ricerca della gloria militare24. A prevalere è
sempre l’idea di obbedienza ai dettami divini, cui dovrebbero sottostare anche
gli avversari del messaggio coranico. Il principio del ṣabr, che indica la fermezza dell’animo e la fiducia in Dio, è l’elemento vero che contraddistingue
il musulmano, anche in caso di conflitto bellico.
4. Il ğihād nella sunna
Nella costituzione della cultura islamica un peso decisivo è stato assunto
dalla sunna (lett. “tradizione”). Tale concetto va fatto risalire all’epoca preislamica, giacché gli arabi pagani lo utilizzavano per indicare gli usi e i costumi degli antenati. Ripreso dall’Islam, definì la tendenza ad imitare la comunità (umma) primitiva e, in particolare, il Profeta, come modello comportamentale e completamento del Corano. La sunna si manifesta sotto forma di ḥadīṯ,
detti, fatti o silenzi del Profeta e dei suoi Compagni più intimi, tramandati sotto forma orale e studiati da un’apposita scienza, lo ‘ilm al-ḥadīṯ.
In seguito ad una laboriosa ricerca sulla loro autenticità, avvenuta nei primi secoli dell’Islam, i ḥadīṯ vennero raccolti in voluminose collezioni. Tra tali
collezioni sono sei quelle considerate veramente classiche, al-kutub al-sitta: il
ṣaḥīḥ di Buḫārī (morto nel 256/870), il ṣaḥīḥ di Muslim (m. 261/875), le sunan al-muṣṭafà di abū Dā’ūd al-Siğistānī (m. 275/888), le sunan di Tirmiḏī
(m. 279/892) e il kitāb al-sunan al-Imām di al-Nasā’ī (m. 303/915). Non v’è
23. Approfondimenti in A. Morabia, Le Ğihâd, op. cit., p. 141.
24. Ibidem, p. 142.
31
unanimità su quale sia la sesta raccolta da includere nel venerato gruppo di
testi: si tende ad individuarla nelle Sunan di ibn Māğa (m. 273/886) o in alMuwattā’ del dotto medinese Mālik ibn Anas (m. 178/795) o nelle Sunan di
al-Dārimī (281/895 ca.) o nel Musnad del fondatore della scuola giuridica
ḥanbalita, il noto Aḥmad ibn Ḥanbal (m. 240/855).
Tutte queste collezioni contengono riferimenti allo zelo islamico; anche in
questo caso ğihād non è utilizzato esclusivamente nel senso di “guerra santa”.
A questo proposito, gli autori citano spesso un ḥadīṯ di Buḫārī in base al quale
il Profeta disse: «Il hağğ è l’impegno (ğihād) massimo»25.
Tra i diversi tradizionisti è proprio Buḫārī che si riallaccia più direttamente
all’ampia sfera di significati presente nel Corano. In tutte le collezioni canoniche vi è infatti un intero capitolo dedicato al ğihād26.
Grazie ai ḥadīṯ, abbiamo una testimonianza certa del carattere volitivo e
combattivo dell’Inviato di Dio, il prototipo di musulmano. In un celebre ḥadīṯ,
Muḥammad disse: «Ogni Profeta ha la propria vocazione; la mia è il ğihād».
5. Il ğihād giuridico
I manuali di fiqh contengono sempre un capitolo dal titolo kitāb al-ğihād
(letteralmente “Libro del ğihād”) o kitāb al-siyar (lett. “Libro delle relazioni
tra popoli”). In termini generali, tale capitolo si divide in più parti: la prima è
generalmente dedicata al codice comportamentale de seguire in tempo di
guerra e di pace nelle relazioni con i popoli non islamici; una seconda parte
riguarda lo statuto giuridico dei non musulmani in terra d’Islam; una terza è
relativa al regime fondiario; infine, nella maggior parte dei casi vi è una parte
sui ribelli (baġī) e sugli apostati (murtadd).
È utile soffermarsi ancora una volta sul concetto di fiqh che, per tutta una
serie di ragioni, non può essere confuso con il diritto positivo occidentale; in
primo luogo, perché non tutte le materie disciplinate dai manuali islamici si
possono considerare giuridiche alla luce della concezione del diritto prevalente nella tradizione occidentale; secondariamente, la categoria di giurisperiti
esercita la propria attività a prescindere dal contesto politico e istituzionale in
cui opera, con la conseguenza principale che un eventuale vuoto di potere politico non ne intacca in maniera sostanziale il ruolo sociale. In altri termini,
25. Bu√ārī, Libro 25:4.
26. Per una maggiore precisione, andrebbe detto che non tutti i testi citati contengono un
kitāb al-ğihād; abū Dā’ūd al-Siğistānī lo titola così (Libro 14); Muslim lo chiama kitāb alğihād wa l-siyar (Libro 19); in Bukhārī, invece, è un kitāb al-maġāzī (vol. V, Libro 59).
32
qualora dovesse verificarsi l'assenza di un’autorità politica, i giurisperiti continueranno a svolgere la loro attività. Infine, è necessario distinguere quei settori del fiqh che incidono concretamente sulla realtà concreta da altri settori
che che trattano questioni fittizie, in quanto cadute in desuetudine.
L’evoluzione del fiqh conosce un momento di stagnazione allorché, nel secolo X, una parte degli studiosi di questa disciplina dichiara conclusa la possibilità di utilizzare lo strumento ermeneutico noto come iğtihād; strumento
che consente di effettuare uno sforzo intellettuale per interpretare in senso innovativo (ma non contraddicente) lo spirito generale dell’Islam, le fonti stesse
del fiqh. È quel momento storico passato alla storia come la chiusura della
porta (bāb) dell’iğtihād. In conformità a tale principio, in sintesi, i ‘ulamā’
non sarebbero più autorizzati a svolgere autonomamente la propria speculazione giuridica, ma dovrebbero rigidamente rifarsi alla giurisprudenza dei
maestri del passato (taqlīd). La disciplina giuridica del ğihād mantiene così i
tratti sviluppati nel corso dei primi secoli dell’Islam, caratterizzati dagli irresistibili successi militari degli esordi; tuttavia, ci preme rilevare che
[…] l’insistenza dei dottori in epoca classica sul jihâd sembra più un Leitmotiv
giurisprudenziale, una giaculatoria imposta da un dovere d’ufficio, che una vera intenzione aggressiva. I capitoli sul jihâd fanno parte dei trattati di diritto come quelli
sul matrimonio; ma che nelle teorizzazioni dei giuristi vi sia da leggere un effettivo
incitamento alla guerra, è per lo meno discutibile 27.
Il prevalere tra i governanti islamici di una sorta di ragion di stato determinò che gli studiosi del fiqh proponessero a posteriori considerazioni di carattere religioso ed etico, non necessariamente riallacciate alla contingenza storica28.
È per tale motivo che i manuali di diritto si concentrano sull’aspetto più
puramente formale e, in parte, bellico. Un giurista egiziano di epoca ottomana, scriveva:
Il termine ğihād contiente significati assai diversi, ma nel senso inteso dai faqīh si
limita al ğihād contro i miscredenti i quali dapprima vanno invitati ad abbracciare la
religione vera; in caso contrario, li si deve combattere …29.
27. M. Campanini, Islam e politica, il Mulino, Bologna, p. 129
28. S. A. Schleifer, “Jihad and traditional consciousness” in Islamic Quarterly, 27-4 (1983),
pp. 172-203.
29. Hasan ibn `Ammār ibn ‘Ali al-Wafā’ī al-Šurunbulālī, Hašiyat durar al-hukkām fi šarḥ
durar al-ahkām, al-Matba‘a al-‘amīra al-šarafiyya, al-Qāhira 1304 / 1887), p.
33
Non ha senso cercare nei manuali di fiqh il modo di essere concreto di un
singolo paese islamico in un dato periodo. I manuali, infatti, possono fungere
da principio ispiratore che trova poi una sua applicazione concreta e reale e
che si caratterizza, nello specifico, di volta in volta, attraverso l’autorità politica costituita. Inoltre, bisogna sempre tenere distinto il dibattito giuridico,
competenza di una ristretta élite di dotti, dalla visione diffusa nel complesso
della società islamica, quale si è costituita nel corso della storia.
La šarī‘a potrebbe essere definita come un insieme di norme ideali, parte
delle quali hanno anche un riscontro pratico, ma la cui applicazione resta, in
definitiva, una pia aspirazione piuttosto che un fine raggiungibile e, secondo
alcuni, perfino un vuoto dogma programmatico.
In questo senso, possiamo affermare che la teoria legale classica prevede
un “utopico” stato di guerra perpetua tra il territorio dell’Islam (dār al-Islam)
e il territorio dei non musulmani (dār al-ḥarb), che può concludersi solo
quando la dār al-Islam dominerà il mondo, assicurando così una pace universale. Può affermarsi perciò che fine ultimo dell’Islam sia il raggiungimento
della pace (pax islamica), non già la perpetuazione della guerra.
Diritto e religione, legge e morale sono due aspetti di quella stessa volontà per cui
è stata fondata e si regge la comunità musulmana; ogni questione di diritto è anche un
caso di coscienza, e la giurisprudenza poggia in ultima analisi sulla teologia 30.
Il concetto di fiqh esclude molte parti del diritto pubblico e privato perché
non vi sono riscontri sostanziali nei testi sacri; esempi di questo tipo sono la
dottrina dello stato e del suo capo, molta parte del diritto amministrativo (cioè
la siyāsa šar‘iyya: amministrazione della cosa pubblica in modo non contraddicente la šarī‘a), ecc. Le tre branche del diritto in discussione (costituzionale,
amministrativo e internazionale) presentano un «carattere essenzialmente teoretico e fittizio» e possiedono una «intima connessione degli istituti che le
compongono più con la storia politica degli stati islamici che con la storia del
diritto musulmano»31.
Fin dai primi secoli dell’era islamica, in ogni modo, nel mondo musulmano si era andato delineando un dualismo tra l’esigenza di rispetto, formale e
ideale, della norma discendente dalla šarī‘a, propria dei dotti ‘ulamā’, e la
pratica di governo delle autorità politiche ed amministrative. Spesso questo
dualismo creò attriti tra le due parti, ma più spesso condusse ad una tregua,
30. D. Santillana, Istituzioni di Diritto Malichita, con riguardo anche al sistema sciafiita,
vol. I, I.P.O., Roma 1926, p. 6.
31. J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, prefazione di S. Noja Noseda, ed. italiana a cura di G. M. Piccinelli, Fondazione Agnelli, Torino 1995, p. 121.
34
non scevra di problemi. Come sottolinea il grande teologo al-Ġazālī (m.
505/1111), a soccorrere nei casi di marcato distacco tra la teoria e la pratica vi
era il principio della ḍarūra, in base alla quale la necessità esonera il musulmano dall’osservanza rigida della Legge. Di fronte ad una realtà che si dimostra sempre meno sottoponibile ad un regime sciaraitico quale viene raffigurato dal fiqh, i giuristi si convinsero che la šarī‘a era sempre più un ideale cui
ispirarsi, piuttosto che programma politico-religioso effettivo.
Considerando il rapporto tra la teoria e la pratica nel diritto musulmano non si deve pensare a due elementi nettamente separati ma, piuttosto, è necessario porre
l’accento sulla loro interazione e interferenza reciproca. In questo rapporto la teoria
mostrò una notevole capacità di assimilazione, la capacità di imporre il proprio ascendente spirituale anche quando non era in grado di controllare le situazioni materiali:
ciò si rivelò […] anche […] nelle istituzioni del naẓar fī-l-maẓālim e del muḥtasib, nei
qānūn-nāme ottomani e in molti altri casi. I governi musulmani, nel passato, hanno
sempre nominato i qāḍī e fornito loro, in teoria, i necessari strumenti di azione ed esecuzione: le funzioni dei qāḍī andavano ben oltre la mera amministrazione della giustizia32.
Fatte queste debite premesse, passiamo alla trattazione della casistica. I testi sul fiqh delle quattro scuole giuridiche sunnite (ḥanafita, mālikita, šāfi‘ita e
ḥanbalita) considerano il ğihād «uno dei più alti e meritori doveri della religione (“ ‘ibādāt”)»33, un atto doveroso, un obbligo che risulta adempiuto se un
numero sufficientemente grande di musulmani lo esegue personalmente (farḍ
al-kifāya), almeno una volta all’anno. I Mālikiti equiparano spesso l’obbligo
del ğihād armato all’obbligo della visita annuale alla Ka‘ba34; i ðanafiti, invece, fanno riferimento all’obbligo collettivo della veglia funebre (ṣalāt alğanāza)35. Anche in questi casi citati, dunque, è sufficiente che un certo numero di musulmani ottemperi all’obbligo personalmente per dispensare il resto della collettività.
Ciò significa che non tutti sono personalmente tenuti al ğihād: l’obbligo è
imposto alla comunità considerata collettivamente; se non si raggiunge un
numero sufficiente di combattenti (muğāhid), tutta la comunità è responsabile
in solido per il mancato adempimento, come nel caso dell’ufficio del giudice
(qāḍī) o dello studio delle scienze religiose (ṭalab al-‘ilm).
32. Ibidem, pp. 88-89.
33. Santillana, op. cit., p. 26.
34. Ḫalīl ibn Isḥāq, Il “muḫtasar”, Sommario di diritto malechita, trad. e note a cura di I.
Guidi, Hoepli, Milano 1919, p. 391.
35. Molla Hüsrev, Durar al-ḥukkām fi šarḥ durar al-aḥkām, kitāb al- ğihād.
35
Tuttavia, vi sono delle particolari circostanze in cui quest’obbligo diventa
individuale (farḍ al-‘ayn). È il caso del ğihād difensivo, quando cioè la comunità subisce un attacco e tutti devono partecipare alla lotta in difesa della
propria vita, proprietà, ecc. (per es., in un assedio o al confine con territori
ostili). Il fiqh prevede in questo caso un cambiamento immediato ed automatico della situazione giuridica, con il diritto collettivo che diviene individuale.
Nella prassi è l’imām, con il sostegno formale dei ‘ulamā’, che stabilisce se la
situazione concreta del ğihād va ricondotta ad un farḍ al-kifāya o ad un farḍ
al-‘ayn.
Ne deriva che per l’imām e per le autorità delegate (wālī) il ğihād sia implicitamente un farḍ al-‘ayn, ovverosia essi lo debbono adempiere in ogni circostanza. Si è detto che il ğihād rientra nelle ‘ibādāt, va specificato, tuttavia,
che non rientra nella categoria dei Pilastri (arkān) dell’Islam, contrariamente a
quanto capita spesso di leggere. È noto, infatti, che i Pilastri delle fede sono
cinque36 e che il ğihād costituisce un sesto pilastro dell’Islam solo per i
khāriğiti e per quelle correnti fondamentaliste contemporanee, interne al sunnismo, definite appunto “jihadiste” o “neo-khāriğite”.
Tutte le scuole giuridiche tradizionali (maḏhab) concordano sostanzialmente su quali siano i requisiti richiesti al muğāhid: egli deve essere di sesso
maschile, pubere, libero, cioè giuridicamente capace (mukallaf), nonché in
forze per sostenere le fatiche ed esonerato da obblighi familiari. Si comprende
dunque l’importanza data dalla giurisprudenza agli interessi del singolo, che
in linea generale non devono e non possono essere prevaricati da interessi generali.
Per questo fra il ğihād, che è appunto farḍ al-kifāya, e la devozione ai genitori, al contrario un farḍ al-‘ayn, dovrebbe prevalere il secondo: se i genitori
di un musulmano non vogliono che il figlio rischi la vita in guerra, questi non
può divenire un muğāhid37. Lo stesso principio si individua in numerosi ḥadīṯ;
in uno di questi, citato da Buḫārī e da Muslim, il Profeta dice che sarebbe meglio impegnarsi nei confronti dei congiunti a carico piuttosto che partire volontari per una spedizione militare. Lo svolgimento di un lavoro che permette
il mantenimento dei credenti costituisce, per ciò stesso, un ğihād.
In genere, i manuali di fiqh indicano al dettaglio le categorie di musulmani
esonerati dall’obbligo del ğihād, in quanto diritto collettivo. Alcune si possono intuire già da quanto detto per i requisiti richiesti al muğāhid:
36. La professione di fede (šahāda), la preghiera (ṣalāt), l’elemosina rituale (zakāt), il digiuno del mese di ramaḍān (ṣawm al-ramaḍān) e il Pellegrinaggio alla Mecca (ḥağğ), cfr.,
Ventura, “L’Islam sunnita…”, op. cit., pp. 212 ss.
37. B. M. Scarcia Amoretti, Bellum pium et justum: il jihàd, in “Islam: Storia e Civiltà”, 18
(1987), pp. 5-11.
36
- minori e dementi, in quanto non sono mukallaf (capaci d’agire);
- donne e schiavi38, perché devono essere prima di tutto a disposizione rispettivamente del marito e del padrone (a ribadire la tutela dell’interesse individuale su quello collettivo), ed anche nella considerazione che se sono dispensati da taluni obblighi individuali, farḍ al-‘ayn (come ad es. la preghiera
del venerdì), a maggior ragione lo devono essere per gli obblighi collettivi,
farḍ al-kifāya. Le donne, soprattutto se anziane, sono ammesse nei campi militari al sicuro dal nemico, per svolgere assistenza ai muğāhid (raccogliere legna, cucinare, medicare i feriti, ecc.), conformemente all’operato dell’epoca
del Profeta. Per le esigenze sessuali dei combattenti, è ammessa la presenza di
schiave, non di donne libere. In realtà, anche schiavi maschi potrebbero prendere parte ad una spedizione, se ciò è voluto dal loro padrone, e comunque il
loro compito è quello di assistere il padrone stesso;
- infermi e mutilati (ciechi, monchi, ecc.), per un’ovvia inattitudine a prendere parte alle campagne di guerra;
- debitori privi di permesso da parte dei creditori di partecipare al ğihād.
Questo esonero dalla guerra non è certo un’innovazione del diritto islamico,
ma si tratta di un’eredità del diritto consuetudinario preislamico, come dimostrano le testimonianze del tempo di Muḥammad;
- persone fisicamente atte a combattere, ma prive del consenso dei genitori;
- poveri, e perciò privi dell’equipaggiamento per una missione, come ad
esempio accadde in occasione della spedizione di Tabūk. Tutte le scuole, con
l’eccezione dei ðanafiti, citano quest'ultima categoria.
I Mālikiti discutono se sia lecito interrompere il ğihād militare per il timore di eventuali scontri con briganti di fede islamica o comunque rinnegati; il
giurista Ibn ‘abd al-Salām giunge alla conclusione che combattere i terroristi
(al-muḥārib) sia preferibile al ğihād condotto contro l’infedele. Si discute anche sull’opportunità di portarsi appresso esemplari del Corano in azioni belliche per il rischio concreto di vilipendio. I ðanafiti sostengono che ciò è ammissibile solo in caso di armata numerosa in grado di offrire tutte le garanzie
di sicurezza; al contrario è da evitare in caso di azione di pattugliamento o incursione (sariyya), in cui mancano le condizioni minime di sicurezza.
38. Spesso gli studiosi del fiqh affrontano questioni solo teoriche, prive di riscontro effettivo nella realtà concreta; è il caso della schiavitù, istituto che fu sempre considerato un male
sociale inevitabile, ma che, nonostante compaia ancora nella trattatistica più recente, da oltre un
secolo e mezzo non è più praticata nella maggior parte del mondo islamico.
37
6. La “dhimmitudine”
L’insieme di norme che riguarda la condizione delle minoranze non musulmane residenti all’interno del territorio islamico è l’oggetto della seconda
sezione dei kitāb al-ğihād. Si tratta di un complesso normativo che ha ispirato
le legislazioni dei diversi paesi islamici nelle diverse epoche.
L’idea alla base della concezione islamica di minoranza è divenuta in epoca moderna e contemporanea oggetto di controversia ideologica. Per soffermarci solo al periodo contemporaneo, possiamo fare riferimento a numerosi
autori che attuano una interpretazione capziosa dell’istituto della ḏimma39. In
particolare, uno di questi40 ha coniato il neologismo “dhimmitudine” per definire la smisurata tendenza prevaricatrice e discriminatoria attuata dal pensiero
islamico attraverso tale istituto. L’acceso dibattito si è sviluppato anche in seno alla stessa comunità scientifica internazionale ebraica, per cui, per citare un
esempio, uno studioso affermato come Eliahu Ashtor usava definire il concetto di ḏimma e l’idea stessa di tolleranza nell’Islam dei primi cinque/sei secoli
secondo parametri anacronistici e, pertanto, in termini assolutamente negativi;
a questa visione si opponeva un altro storico, Abraham Udovitch41.
Tale tendenziosità è frutto di un’operazione intellettuale metodologicamente scorretta perché non tiene conto delle coordinate spazio-temporali indispensabili per collocare delle istituzioni e dei singoli episodi nella storia.
Si badi bene, non intendiamo sostenere che - se ci atteniamo ad una rilettura moderna dell’istituto - non vi siano stati elementi di discriminazione; vogliamo più semplicemente sostenere che la disciplina della ḏimma ha operato
come materia ispiratrice nei diversi paesi islamici e nelle diverse epoche, conoscendo applicazioni più o meno rigide, più o meno letterali. Non si può,
pertanto, riferirsi al livello astratto senza tenere conto del singolo contesto storico. Viceversa, per citare un esempio, non ha senso sottolineare i soprusi su-
39. La bibliografia sulla ḏimma è assai nutrita; indichiamo qui un testo che, nonostante risalga a quasi mezzo secolo fa, risulta ancora estremamente valido: A. Fattal, Le statut légal des
non-musulman en pays d’Islam, Imprimerie Catholique, Bayrout 1958; per una trattazione più
concisa, cfr. S. Belaïd, Al-Qurān wa l’tašrī‘. Qirā‘a ğadīda fī āyāt al-ahkām, markaz almatbū‘āt al-ğāmi‘iyya, Tūnus 1999, pp. 143-167.
40. Si tratta di una studiosa profuga egiziana che scrive con lo pseudonimo di Bat Ye’or; è
autrice di diversi lavori di stampo polemista; in particolare segnaliamo le opere, dai titoli di per
sé eloquenti, Le Dhimmi: profil de l’opprimé en Orient et en Afrique du Nord depuis la conquête arabe, Anthropos, Paris 1980; The Decline of Eastern Christianity under Islam. From
Jihad to Dhimmitude: 7th-20th Centuries, A.U.P., London 1996.
41. Gli ebrei nall’Alto Medioevo, XXVI Settimana di studio del Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo, 30/03-5/04 -1978, Spoleto, 1980, p. 710.
38
biti dai maroniti nel Libano del 1860 se non si attua un'analisi storica che specifichi le concause di quegli abusi, indubbiamente accaduti42.
È addirittura pensabile che certi episodi additati come prova di intolleranza e crudeltà mentale islamica all’epoca del Sultano, o dei Giovani Turchi, quali i massacri
del Libano e della Siria nel 1860, quelli degli Armeni nel 1895 e, durante la prima
guerra mondiale, degli Armeni e dei Siri orientali, non si basino su difetto del sistema
ottomano. Sarebbero piuttosto conseguenze della crisi dell’impero ottomano provocata dalle potenze che vogliono disputarsene le spoglie 43.
In primo luogo, è necessario sottolineare che la condizione dei non musulmani peggiorava in situazioni di crisi diffusa delle società, come sempre
accaduto anche in altre zone del mondo; in altri termini, i pur numerosi episodi di intolleranza si verificano in un quadro di eccezionalità, dove di norma vi
è una società strutturata a compartimenti stagni; una società dove esiste una
gerarchizzazione sociale interna al singolo compartimento in cui già vi sono
livelli di iniquità. Con riferimento all’Impero ottomano e all’élite governante,
lo storico turco İlber Ortaylı scrive:
Ogni persona di ogni religione e di ogni razza può avere lo statuto di askerî. Questo statuto non attribuisce dei diritti individuali, ma soltanto del privilegio; il privilegio e il diritto sono due categorie diverse. Chiunque sia askerî porta le armi ed è esonerato dalla imposte44.
Vale la pena, ancora una volta, di aggiungere che nei periodi di crisi delle
società islamiche, le situazioni di prevaricazione e intolleranza sono state rivolte indiscriminatamente nei confronti di chiunque prenda posizione in maniera autonoma; pertanto, anche nei confronti di persone di religione islamica.
È di pochi anni fa, il caso emblematico dello studioso egiziano Abū Zayd, che
si può tranquillamente affiancare a quello della cristiana Bat Ye’or, anch’essa
42. Bat Ye’or, Le Dhimmi: profil…, op. cit., pp. 228-290. La studiosa propone una antologia di testi scritti da viaggiatori europei e vicino-orientali di diverse epoche (Niebhur, Volney,
Alī Bey, ecc.); in tutti gli estratti si mira a dimostrare le tesi dell’autrice; in realtà, la stessa operazione capziosa potrebbe farsi, con altrettanto brillante risultato, in senso inverso: estrarre le
testimonianze di viaggiatori che encomiano le condizioni di vita dei non musulmani in Terra di
Islam.
43. V. Poggi, “Non-musulmani nella società musulmana”, in F. Castro-P. Catalano (sous la
direction de), La condition des “autres ”dans les systèmes juridiques de la Méditerranée, Isprom-Publisud, Paris 2004, p. 269.
44. İ. Ortaylı, “Les non-musulmans et le principe juridique du millet dans l’Empire Ottoman (structure classique jusq’au XVe siècle)”, in F. Castro - P. Catalano (sous la direction de),
La condition…, op. cit., p. 279.
39
profuga, vittime entrambi dello stesso bigottismo rigorista che si va diffondendo nel mondo islamico contemporaneo.
Essenzialmente, la ḏimma consiste in una sorta di rapporto contrattuale che
lega le “Genti del Libro” (ahl al-kitāb: cristiani, ebrei, mağūs e sabei)
all’autorità islamica costituita; esse godranno di una forte autonomia comunitaria, soprattutto in campo di diritto civile e amministrativo, a patto che paghino due tributi: la ğizya (testatico) e il ḫarāğ (imposta fondiaria). Altresì, i
non musulmani dovranno attenersi a certe linee comportamentali di subordinazione, variabili nel tempo e nello spazio, che possono passare da una semplice distinzione di abbigliamento e cavalcatura a maltrattamenti e umiliazioni. La vaghezza e l’indefinitezza della pur pedante casistica non permettono di
trarre dai trattati di diritto un quadro certo. «Per completare il raffronto con gli
atteggiamenti dell’Europa cristiana va ricordato che proprio mentre dalla Spagna venivano espulsi i non cristiani e la Cristianità era dilaniata dalle guerre di
religione, l’Impero ottomano forniva l’esempio rinnovato di una pacifica simbiosi fra musulmani e ḏimmi …»45.
7. Il ğihād spirituale
Per molti versi, non è errato affermare che l’Islam è una religione legale.
«La teologia non è mai riuscita a raggiungere nell’Islam un’importanza simile
[al fiqh]; soltanto il misticismo è stato abbastanza forte da sfidare il predominio della Legge nell’animo dei musulmani, e spesso ne è uscito vittorioso»46.
Il concetto di ğihād conosce, perciò, anche una dimensione spirituale, sufi.
Anche in ambito sufi il punto di partenza per una trattazione del ğihād è un
passo coranico che recita:
Ma non voglio dichiararmi del tutto innocente, ché l’anima appassionata spinge
al male [inna al-nāfsa la ammāratun bi l-sū’i], a meno che il mio Signore non abbia
pietà, e certo il mio Signore è indulgente e clemente (12:53).
Altrettanto importante è un ḥadīṯ spesso citato dai sufi ma che non si trova
nelle raccolte ufficiali. Lo cita per primo il tradizionista, teologo e giurista
aš‘arita al-Bayhaqī (m. 458/1066), nell’importante collezione di ḥadīṯ da lui
45. P. G. Donini, Le minoranze nel Vicino Oriente e nel Maghreb. Problemi metodologici e
questioni generali, Laveglia, Salerno 1985, p. 116.
46. Schacht, op. cit., p. 1; sul dibattito tra teologi e giuristi, cfr. van Ess, op. cit.
40
composta, kitāb al-sunan al-kubrà47. In base al ḥadīṯ in questione, risulta che
Muḥammad, durante la marcia di ritorno a Medina dopo la vittoria della Mecca e di Hunayn (8/630), disse ad alcuni dei suoi Compagni: «Siamo tornati dal
ğihād minore a quello maggiore!». Gli si chiese di chiarire la differenza tra i
due concetti, ed egli rispose che «il ğihād maggiore è la battaglia dell’anima
contro le sue passioni». In altri termini, la parte più bassa dell’anima (nafs)
spinge l’uomo verso il male (stadio dell’ammāratun bi l-sū’i); in un secondo
momento, però, prevale l’anima che si autoaccusa (stadio del nafs allawwāma). A questo punto, grazie a degli esercizi spirituali, l’uomo può perfino giungere a stare in pace con il creato (stadio ultimo: mutma’inna). In altri
termini, quando una persona segue i suoi più bassi istinti è sotto il controllo
assoluto del nafs la ammāratun bi l-sū’i e, per ciò stesso, agisce come una bestia; ma, grazie all’innata fede insita nella natura umana, egli può arrivare a
provare disgusto per se stesso, per le cattive azioni commesse e per la distruttività che causa a se stesso e agli altri48.
L’assenza del citato ḥadīṯ dalle raccolte canoniche ha fatto affermare a certi teorici contemporanei del radicalismo islamico, in particolare ðasan alBannā’, che esso non ha i requisiti teorici per essere considerato autentico49.
Molti autori, in ambito sufi, ma anche delle altre discipline islamiche, accettano, ad ogni modo, questa differenza tra piccolo ğihād o ğihād minore (alğihād al-asġar o al-ğihād al-saġīr) e grande ğihād o ğihād maggiore (alğihād al-akbar o al-ğihād al-kabīr). Solo il primo è la cosiddetta “guerra santa”, il qitāl fī sabīl Allāh. Il secondo, il ğihād maggiore, allude, perciò, alla
guerra invisibile contro l’anima che inclina al male, una guerra intesa cioè a
livello interiore e spirituale, primo vero passo sulla via della conoscenza intuitiva di Dio.
I sufi utilizzano spesso anche il termine muğāhada, derivato dalla stessa
radice. Il mistico al-Huğwīrī (m. 465/1072) attribuisce la dottrina della
muğāhada al-nafs (impegno morale rivolto alla propria anima), ai discepoli
del mistico Sahl al-Tustarī (m. 283/896)50. Secondo al-Huğwīrī, essi raccontarono che al-Tustarī, nel commentare il versetto coranico 29:69 («Ma quelli
47. Wensinck non la cita nella sua monumentale opera di catalogazione, cfr. A. J. Wensinck - J. P. Mensing, Concordances et indices de la tradition musulmane, Brill, Leiden 1992.
48. Per approfondimenti cfr., G. Böwering, The Mystical vision of Existence in Classical Islam. The Qur’ānic Hermeneutics of the Sūfī Sahl al-Tustarī (d. 283/896), “Studien zur Sprache,
Geschichte und Kultur des islamischen Orients”, Neue Folge b. 9, WdeG, Berlin-New York
1980, pp. 254-260; Y. N. Öztürk, Kuran ve Sünnete Göre Tasavvuf, Istanbul 1979, pp. 130-150.
49. Tuttavia, ribadiamo qui il concetto per cui personaggi privi dei necessari diplomi di studio, come lo stesso Hasan al-Bannā, non hanno né l’autorità né il titolo per esprimere giudizi di
questo tipo.
50. Per una biografia di Sahl al-Tustarī, cfr. G. Böwering, op. cit., pp. 43-99.
41
che lotteranno zelanti per Noi [ğāhadū fīnā], li guideremo per le Nostre vie
[subulunā] e certo Dio è con coloro che operano il bene!»), giunse alla conclusione che chiunque mortifichi se stesso perviene alla contemplazione,
all’anima in pace con il Signore51.
L’obiettivo del ğihād interiore è dunque la purificazione della dimensione
più squisitamente spirituale. Gli aspetti turbolenti dell’anima sono, in primo
luogo, la passione e l’ira, come sostenuto anche da personaggi considerati
estremisti come ibn Qayyim al-Ğawziyya (m. 1350). Dio non pretende che il
credente annulli tali aspetti, ma solo di sottoporli ad una stretta disciplina al
fine di trasformare questi attributi in uno stato di equilibrio, in conformità con
il dettato divino.
Lo strumento principale per realizzare questo ğihād è il metodo del ḏikr,
nel contempo menzione del nome di Dio e suo ricordo.
A questo proposito, abū l-Qāsim al-Qušayrī (m. 1057) scrive che il ḏikr è
come una spada con la quale il muğāhid minaccia i suoi nemici, perché Dio
protegge coloro che ne menzionano il nome con costanza nei momenti di afflizione e di pericolo.
Quando l’uomo sente i “rimorsi della coscienza” significa che la sua anima
accusatrice è in azione. In tale modo, egli si rende conto del male provocato e
si vergogna per ciò che fa. Il risultato di questo risveglio dell’anima è l’inizio
di un conflitto, un ğihād, fra l’anima cosciente e l’anima inferiore: o si seguono le ispirazioni dell’anima critica, e gradatamente si conquista l’anima inferiore, seguendo una via virtuosa e chiedendo il perdono divino per i propri
peccati; oppure si ignora la voce della coscienza e si segue con ostinazione
ogni tipo di corruzione morale. Proprio tale ostinazione comporta una caduta
sempre più profonda nella depravazione, accompagnata da disperazione, amarezza e cinismo. Si enfatizza così il concetto per cui la mortificazione
dell’anima (al-ğihād al-akbar) è più importante della guerra contro i non musulmani (al-ğihād al-asġar). Il concetto espresso in questi termini è talmente
consolidato nella tradizione sufi che lo si dà per acquisito. Una definizione
precisa ci è stata tramandata da al-Ġazālī, che definisce il ğihād il “polo essenziale della religione” (al-quṭb al-a‘ẓam):
In talune occasioni si sanno signoreggiare gli istinti negativi, in altre no. E ciò deve provocare tormento per la propria debolezza e perseveranza nel continuare a lottare
e a combattere, ché questo è il grande ğihād.
51. Hujwiri, Ali b. ‘Uthmān al-Jullābi al-, The Kashf Al-Mahjub, The Revelation of the
Veiled. An Early Persian Treatise on Sufism Translated into English by Reynold A. Nicholson
(2000 edition, reprinted from 1959 ed.), Aris & Phillips, Leiden-Warminster, Wiltshire.
42
Lo stesso al-Ġazālī, d’altro canto, afferma di aver spesso posto in pratica il
combattimento spirituale, come attesta il seguente passo autobiografico:
Entrai infine a Damasco, dove rimasi circa due anni dedito unicamente al ritiro
(‘uzla) e alla solitudine (khalwa), agli esercizi (riyāda) e ai combattimenti spirituali
(muğāhada), occupandomi unicamente di purificare la mia anima (tazkiyat al-nafs), di
correggere il mio carattere (akhlāq) e rendere il mio cuore puro (tasfiyat al-qalb) per
(praticare) il ricordo di Dio, l’Altissimo, così come avevo imparato dai libri dei sufi 52.
Non sembra errato sostenere che la pratica dell’Islam si manifesta ad ogni
livello come un grande impegno, uno sforzo interiore che si estrinseca anche
in azione, in ğihād.
Il grande mistico anatolico Ğalāl al-Dīn al-Rūmī (morto nel 671/1273) attua un paragone tra la šahāda e la spada, intendendo affermare che chi si impegna sulla via di Dio in maniera zelante testimonia la propria fede, come accade in occasione della Professione di fede (šahāda). Le due dimensioni apparentemente antitetiche del ğihād - quella militare e quella spirituale - sono,
dunque, intimamente interrelate; entrambe le dimensioni mostrano caratteristiche analoghe. Non potrebbe essere altrimenti, essendo il ğihād una reazione
allo squilibrio e alla crisi che caratterizzano le società dell’uomo, secondo
l’esempio di Muḥammad che constatò lo stato di degrado in cui soggiaceva la
società araba preislamica53. Sono numerose le figure di pii musulmani che si
segnalano tanto per la loro ascesi spirituale quanto per il loro impegno con la
spada. Tra i più celebri di essi, tanto per citare un esempio, indichiamo ‘abd
Allāh ibn Mubārak (m. 180/797), considerato, tra l’altro, come il primo autore
di un’opera sul ğihād54 o, ancora, il celeberrimo Manṣūr al-Ḥallāğ (m.
309/922)55.
8. Il ğihād sociale
La dichiarazione del ğihād coranico appare come uno strumento per instaurare l’ordine sociale islamico, in contrapposizione all’idolatria diffusa
nell’Arabia dell’epoca del Profeta Muḥammad.
52. Cit. in G. Scattolin, Esperienze mistiche nell’Islam, Emi, Torino 2000, p. 288.
53. S. A. Schleifer, “Understanding Jihad. Definition and Methodology”, in Islamic Quarterly, 27-3 (1983), pp.117-131.
54. Verosimilmente un’opera sulle fadā’il al-ğihād, genere letterario di propaganda, cfr. E.
Sivan, L’islam et la croisade, Maisonneuve, Paris 1968.
55. A. Ventura, Il Dīwān di al-Hallāğ, Marietti, Genova 1988.
43
Esiste una stretta relazione tra il ğihād “sociale”, relativo all’ordine sociopolitico all’interno della umma stessa, e il ğihād spirituale.
La lotta tesa a formare un ambiente sociale e spirituale che consenta al
credente di sviluppare un modus vivendi improntato alla via islamica è un altro obiettivo, o meglio, un’altra forma di ğihād. La guerra spirituale contro
l’anima turbolenta va affiancata da un impegno altrettanto serio nel lavoro, al
fine di perfezionare la propria anima.
Le diverse dimensioni del ğihād sono ricollegabili alla classificazione
spesso presentata nei manuali di fiqh. I dotti islamici, infatti, non persero mai
di vista le implicazioni etiche e spirituali del ğihād.
Rispetto a quanto ricondotto ai concetti di ğihād maggiore e minore,
l’imperativo di al-amr bi l-ma‘rūf wa nahy ‘an al-munkar56 (letteralmente,
“imporre ciò che è bene e vietare ciò che è riprovevole”) costituisce una sorta
di situazione intermedia, in quanto intende una estrema varietà di comportamenti, che vanno da un atteggiamento critico nei confronti dei membri della
propria cerchia familiare al feroce attacco contro un imām considerato ingiusto.
Anche la sunna è generosissima con il principio al-amr bi’l-ma‘rūf wa lnahy ‘an al-munkar. Tanto per citare un esempio eclatante «è un ğihād immenso dire la verità ad un sultano prepotente!». Con la formula sopra riportata, si intende affermare il principio per cui ogni buon musulmano deve lottare
per il bene della società, contro la corruzione e la decadenza, un vero e proprio ğihād.
Il ğihād morale presenta due caratteri, in parte complementari. A fianco ad un
ğihād individuale, basato su regole etiche, si sviluppa un ğihād morale di spirito so57
ciale, comunitario .
Questa lotta prevede perciò che ogni musulmano lavori con le proprie capacità, intellettuali e materiali, per la realizzazione della giustizia. Da quanto
detto discende che chiunque si impegni per l’attuazione di una azione che
conduca alla giusta moralità o, comunque, permetta a terzi di porla in essere,
ottiene una ricompensa divina pari a chi l’abbia materialmente compiuta. AlĠazālī individua nello specifico gli atti censurabili: tra le altre cose,
l’abbandono o il rifiuto delle prescrizioni religiose, il consumo di alimenti il56. Sull’argomento Michael Cook ha pubblicato un’opera fondamentale; cfr. M. Cook,
Commanding Right and Forbidding Wrong in Islamic Thought, C.U.P., Cambridge 2000; si
vedano anche, dello stesso autore, Forbidding Wrong in Islam, C.U.P., Cambridge 2003 e van
Ess, Prémices…, op. cit., pp. 112 ss.
57. Morabia, Le Ğihâd…, op. cit., p. 313.
44
leciti, il libertinaggio, il sostenere idee eretiche, gli eccessi comportamentali,
ecc. In un noto ḥadīṯ, Muḥammad afferma che chi commette un’infrazione in
privato se la vede direttamente con Dio, ma se l’infrazione è commessa pubblicamente, in maniera tale da incitare la comunità ad infrangere le regole,
l’autore subirà una pena pubblica. Il concetto si riallaccia all’idea che l’uomo
non può sondare i cuori altrui. In altri termini, l’essere umano non può constatare la vera intenzione (niyya) delle azioni compiute dagli altri.
9. Concetti collegati al ğihād
Un celebre giurista ottomano di epoca tarda (m. 1252/1836) cominciava il
capitolo sul ğihād nei termini seguenti: «Questo Libro del ğihād tratterà il tema delle siyar, del ğihād e del maġāzī»58. Siyar, ġāzā e maġāzī sono dei termini tecnici ricorrenti nei manuali sul fiqh e sui quali vale la pena di soffermarsi.
Nel trattare delle relazioni tra territorio dell’Islam (dār al-islam) e territorio non sottoposto all’autorità politica non islamica (dār al-ḥarb), numerosi
autori, spesso dell’orientamento ḥanafita, utilizzano la parola siyar e di frequente intitolano kitāb al-siyar il capitolo che generalmente appare come
kitāb al-ğihād.
Si tratta di un termine al plurale derivante da sīra59; la radice trilittera da
cui deriva, S-Y-R, è coranica ed è presente in sei versetti, con termini indicanti il senso di “viaggio”, di “essere in moto” o, ancora, di “forma”.
V’è la pesca e il cibo che il mare contiene perché voi e i viaggiatori (al-sayāra)
possiate goderne, ma vi è proibita la selvaggina terrestre finché siate in stato sacrale;
temete quel Dio avanti al quale sarete tutti radunati! (5:96)
Disse Dio: “Afferralo, e non temere, ché lo ritorneremo al suo stato primiero
(sīrataha al-ulà) (20:21)
E un Divino Messaggero suscitammo in ogni nazione, a gridare: “Adorate Dio ed
evitate ¦āġūt!” E di quegli uomini alcuni ne guidò Iddio ed alcuni con ragione furono
traviati. Viaggiate (fasīrū) dunque sulla terra, e guardate quale fu la fine di quei che
smentirono Dio! (16:36)
58. Muḥammad Amīn ibn ‘Abīdīn, Ḥašiyat radd al-muhtār ‘alà l-durr al-muḫtār, Maṭba‘at
Muṣṭafà al-Lubnānī al-Ḥalabī, al-Qāhira 1966 (1386), IV, p. 119; Si tratta di una interessantissima summa del pensiero ḥanafita di epoca ottomana, che riprende e commenta il celebre šarḥ
di al-Ḥaṣkāfī (m. 1088/1677) all’opera tanwīr al-absār di Muḥammad Ibn ‘abd Allāh alTimurtaşi (m. 1004/1595).
59. Al-Šurunbulālī, ðašiyat…, op. cit.
45
Nei ḥadīṯ vi sono numerosi riferimenti al termine di derivazione coranica:
Buḫārī, per citare un esempio, dà il titolo di kitāb al-ğihād wa l-siyar ad un
capitolo delle sue sunan. Il termine sīra doveva essere utilizzato già in epoca
preislamica nel senso generico di “condotta”, “comportamento”, spesso riferito a personaggi con un ruolo decisionale; nell’arabo del primo periodo islamico, infatti, il termine significava anche “azione memorabile” e “resoconto di
un’azione particolarmente importante”, perciò cominciò ad essere usato estensivamente per indicare la storia, la biografia e il resoconto delle campagne militari di sovrani ed altri personaggi illustri. Cosí, tanto per citare degli esempi,
riscontriamo che Aban ibn ‘abd al-Ḥamīd al-Lāhiqī (morto nel 200/815) scrisse una sīrat Ardašīr e Awan ibn al-Ḥakām (morto nel 147/764) compose una
sīrat Mu‘āwiya wa banū Umayya. Solo dal secondo secolo dell’égira il termine cominciò ad indicare specificamente la “condotta dell’Inviato di Dio”.
L’attestazione piú antica di tale accezione della parola sīra si ha con la prima
biografia del Profeta, scritta da ibn Hišām (m. 218/833) intitolata, appunto,
sīrat rasūl Allāh (“Biografia dell’Inviato di Dio” o, piú letteralmente, “la condotta dell’Inviato di Dio”) o sīra nabawiyya (“Biografia del Profeta”)60.
Nel II sec. dell’era islamica, il termine comincia a conoscere
l’ampliamento della propria sfera semantica. L’uso del plurale cominciò a
presentare, in maniera piú specifica, un carattere normativo e non solo narrativo. In altri termini, da narrazione di eventi passati, esso intese inquadrare situazioni tipo. Tale mutamento si ha già con Zayd ibn ‘Alī (m. 120/738) che lo
utilizzò nel suo kitāb al-siyar-bāb al-ġazw wa l-siyar. Il riferimento documentato piú antico, invece, va forse fatto risalire ad al-Šaybānī, che lo ha, a sua
volta, mutuato dal maestro abū Hanīfa. Al-Šaybānī intitola due delle sue opere
piú importanti kitāb al-siyar al-kabīr e kitāb al-siyar al-saġīr (rispettivamente, “il grande libro delle relazioni [tra governanti]” e “il piccolo libro delle relazioni [tra governanti]”). Un altro kitāb al-siyar è stato attribuito al giurista
al-‘Awzā‘ī (morto in Siria nel 157/774), il quale intendeva opporsi alle posizioni del suo contemporaneo Muḥammad al-Šaybānī (morto in ‘Irāq nel
209/805), ma il testo sfortunatamente non è giunto fino a noi.
Il termine continua ad essere usato nel senso meno tecnico di “regole di
comportamento”, come si evince, per esempio, anche dal titolo della famosa
opera in prosa siyar al-mulūk (nota anche come seyāsatnāma, “Il libro degli
affari dello Stato ”) composta tra il 1090 e il 1092 (corrispondenti agli anni
60. Anche se non tutti condividono questa opinione, riconducendo la prima attestazione ad
al-Zuhrī (m. 124/742); per approfondimenti cfr. A. A. Duri, The Rise of Historical Writing
among the Arabs, Princeton University Press, Princeton 1957.
46
482-484 dell’égira) da Niẓām al-Mulk, il celebre statista e letterato persiano al
servizio dei Selgiuchidi. «Si tratta di un’opera in prosa, un manuale di amministrazione dello Stato e di regole di comportamento del re»61.
Secondo lo studioso contemporaneo Khadduri i concetti di ğihād e di
siyar, pur essendo strettamente interconnessi, non possono confondersi. Egli
riconduce le siyar al concetto di disciplina giuridica delle relazioni tra diverse
entità statuali, in tempo di pace come in tempo di guerra62. Secondo l’autore
iracheno, i primi giuristi confinarono la trattazione delle siyar nel campo del
diritto di guerra, ma i giuristi ḥanafiti diedero una nuova dimensione alla questione. In particolare, è attorno al trinomio al-Šaybānī – al-Saraḫsī (m.
490/1090) – al-Kāsānī (m. 587/1191) che si perfeziona quella che, secondo
Khadduri, costituirebbe una vera e propria branca autonoma del diritto, inteso
in termini occidentali.
Secondo la definizione della materia fornitaci da al-Saraḫsī le siyar:
descrivono la condotta (sīra) dei musulmani nelle relazioni con i miscredenti, sia che
provengano dalla dār al-ḥarb, sia con le genti con cui i credenti hanno concluso in
terra islamica dei trattati (ahl al-‘ahd), o ancora con i beneficiari di un salvacondotto
(musta’minīn) e coloro che pagano un tributo (ahl al-dimma), nonchè con gli apostati
(al-murtaddīn), che costituiscono la peggior specie di miscredente, dato che hanno
rinnegato [l’Islam] dopo averlo accettato; o con i ribelli (ahl al-bāġī), che non rientrano nella categoria dei miscredenti, sebbene si trovino in uno stato di ignoranza (ğāhiliyyīn) e di false questioni.
A livello teorico, le “relazioni internazionali” nell’Islam si basano, come
qualunque altro aspetto della vita terrena, sulle stesse fonti primarie del diritto
(uṣūl al-fiqh), vale a dire Corano, sunna, iğmā‘ (consenso) e qiyās (ragionamento analogico). Tuttavia, nella prassi, le siyar sono scaturite principalmente
dalla speculazione giuridico-politica islamica63. In altri termini, bisogna tenere
conto del complesso di principî basati sulla consuetudine e sui costumi, sulle
norme non scritte. I documenti che testimoniano tale tesi sono di matrice extra-fiqh, trattandosi dei testi dei trattati, accordi di pace, discorsi pubblici,
istruzioni ai governatori locali, ecc., posti in essere dai detentori legittimi del
potere, in primo luogo l’imām. In definitiva, secondo diversi studiosi, principalmente Khadduri, la disciplina delle siyar ha assunto ben presto le caratteri61. Niẓām al-Mulk, Il libro della politica, ed. a cura di M. Pistoso, Luni, Milano-Trento
1999.
62. M. Khadduri, Islamic Law of Nations: Shaybānī’s Siyar, John Hopkins Press, Baltimore
1966.
63. Cfr. ibidem; Morabia, op. cit., p. 206.
47
stiche di una sotto-branca del fiqh, giustificata essenzialmente dalle fonti ausiliarie che si basano sul ragionamento, dalla prassi amministrativa e dalle consuetudini. Il ğihād in tale disciplina occuperebbe un posto di primo piano, ma
non l'unico.
A differenza di un certo numero di studiosi, che ritengono la teoria delle
siyar come una sorta di “diritto musulmano delle nazioni”64, lo studioso inglese Colin Imber afferma che il concetto di siyar si riferisce più in generale alla
conduzione del governo65.
Altri termini intimamente ricollegati al concetto di ğihād sono ġāzī e ġazā;
per le popolazioni turcofone, compresi gli Ottomani, ġazā è quasi un sinonimo di ğihād66. Un esempio è dato dall’uso che ne fa in tarda epoca ottomana
Kuşadalı Ibrāhīm (m. 1845/1262), maestro sufi della confraternita halveti; egli
utilizza il termine ġazā con il significato di ğihād spirituale, come vita vissuta
secondo i comandamenti di Dio rivelati nel Corano e realizzati attraverso la
sunna del Profeta.
Nei primi tempi il successo sulla via di dio fu realizzato grazie alla ġazā […] successivamente, questa fu trascurata a causa della brama di territori e divenne irrealizzabile. Fu a questo punto che spiriti affini cominciarono ad incontrarsi in ampi edifici
o in aree rurali, al fine di realizzare un movimento che seguisse la via verso Dio. Poiché anche tali luoghi erano insidiati, in maniera graduale furono fondate le tekke67.
Ġāzī e ġazā derivano dalla radice trilittera araba Ġ-Z-W, che in epoca preislamica presentava un contenuto eminentemente laico: indicava una delle
grandi norme consuetudinarie del deserto arabo preislamico, in uso tra i nomadi piuttosto che tra i sedentari di Mecca, Medina e Ṭā’if, finalizzata in origine alla cattura di cammelli. La ġazā si sviluppò come atto di aggressione a
scopo di bottino, di rappresaglia o di vendetta, effettuata da un gruppo contro
un altro, meglio se piú numeroso68. Essa era regolata da un protocollo complicato che presentava un certo codice di condotta ed è forse la principale mani-
64. Approfondimenti in M. Khadduri - H. J. Liebesny, (ed. by): Law in the Middle East, 2
voll., The Middle East Institute, Washington D.C 1955; H. Kruse, “The islamic doctrine of international treaties”, in Islamic Quarterly, (1954),
65. C. Imber, Ebu’s-Su‘ud. The Islamic Legal Tradition, Edinburgh University Press, Edinburgh 1997.
66. Al-Šurunbulālī, Hašiyat…, op. cit., p. 281.
67. Y. N. Öztürk, Kuşadalı Ibrāhīm Halveti, Istanbul 1982, p. 89.
68. E. Tyan, Institutions du droit public musulman: Tome deuxieme: Sultanat et califat,
I.F.E.A.D., Beyrouth 1956, T. I, pp. 44 ss.
48
festazione dell'inesistenza di un’autorità politica nel deserto dell’Arabia preislamica.
Nel Corano la radice Ġ-Z-W ricorre in un passo per indicare dei miscredenti partiti durante una campagna militare:
O voi che credete, non siate come gli infedeli che dicono dei loro fratelli partiti a
viaggiar sulla terra o a fare incursioni [ġuzzà]: “Se fossero rimasti qui con noi non
sarebbero morti, non li avrebbero uccisi”. Dio fa questo per metter loro triste rimpianto nel cuore. È Dio che fa vivere e uccide; è Dio che osserva tutto ciò che fate!
(3:156)
La sacralizzazione della radice Ġ-Z-W risale alla prima fase della storia
dell’Islam. Non a caso, il termine che indica genericamente le spedizioni militari al tempo dell’Inviato di Dio è maġāzī, derivante dalla radice medesima,
come pure il termine ġāzw, ma soprattutto ġāziya, da cui deriva il termine
“razzia”, giunto in Europa tramite i francesi, dopo la conquista dell'Algeria
nel 1830. Solo in un secondo momento si indicherà con il participio presente,
ġāzī, il combattente musulmano di frontiera, che attua delle scorrerie in territorio nemico, anche in periodi in cui il processo d’espansione è sospeso69. I
termini derivati dalla radice in esame si riscontrano copiosi nei ḥadīṯ del Profeta, con riferimento esclusivo ai musulmani. Tanto per citare un esempio, si
legga il seguente ḥadīṯ riportato da al-Buḫārī e Muslim, con riferimento al
merito di chi sostiene spiritualmente e materialmente la società islamica o un
gruppo di suoi componenti (ğihād collaterale):
Colui che finanzia un combattente sulla via di Dio [ġāzīyyan fī sabīl Allāh] otterrà
ricompensa divina e colui che si sostituisce al combattente [ġāzīyyan] nel [sostegno
della] famiglia di questi sta compiendo egli stesso la guerra santa [faqad ġazā].
La mistica della ġazā deriva dal conflitto arabo-bizantino, nell’Anatolia
dei primi secoli della storia islamica (i successi militari contro i bizantini cessarono virtualmente con il secondo fallimentare assedio di Costantinopoli del
98-99/717). L’eroismo delle futūḥāt divenne così la virtú e il coraggio della
guerra di frontiera. Due dei piú celebri eroi della ġazā della prima ora sono
‘abd Allāh al-Baṭṭāl e ‘abd al-Wahhāb ibn Buḫt. Soprattutto il primo fu nel
corso dei secoli l’archetipo del ġāzī, divenendo protagonista di poemi e racconti epici, di cui qualche traccia resta nelle innumerevoli leggende popolari
della cultura araba odierna. L’idea che la terra di predilezione del ğihād, cioè
69. In turco moderno gazi indica principalmente il veterano di guerra specie se invalido e decorato al valore militare.
49
della ġazā, sia la parte della dār al-Islam confinante con l’Impero bizantino
non è stata introdotta dai Turchi, ma risale al giurista al-‘Awzā‘ī (m.
157/774), il quale, in polemica con i giuristi iracheni, affermava che spettasse
ai dotti siriani trattare la disciplina del ğihād, in quanto era la Siria la terra del
ğihād contro Bisanzio. L’autenticità di tale aneddoto è stata messa in dubbio;
il primo a riferirlo è il dotto al-Saraḫsī, il quale scriveva nel suo famoso commentario, che
la ragione prima per cui [al-Šaybānī] scrisse tale opera era che il testo siyar alsaġīr arrivasse ad al-‘Awzā‘ī, il giurista proveniente dalla Siria. Costui domandò chi
lo avesse scritto e gli fu detto Muḥammad al-‘irāqī [al-Šaybānī]. Egli sbottò dicendo:
“Chi sono quelle genti dell’‘Irāq che [si permettono] di scrivere libri simili?”. In seguito aggiunse che gli iracheni non hanno alcuna conoscenza delle siyar poiché tutte
le campagne [maġāzī] dell’Inviato di Dio ebbero luogo nel Ḥiğāz e non in ‘Irāq. Tali
parole giunsero fino a Muḥammad [al-Šaybānī], il quale fu colto da profonda ira e decise di sospendere tutti i propri impegni per scrivere il [detto] libro.
Ultimo termine che va ricollegato al concetto di ğihād e ribāṭ, spesso usato, anch’esso, come sinonimo di ğihād70; la parola ribāṭ indica, piú specificamente, un ğihād di frontiera, per certi versi stanziale e statico, ma nel contempo dinamico, in quanto può prevedere delle incursioni in territorio nemico71. I
murābiṭ, coloro che svolgono il ribāṭ, sono dei guerrieri della fede stabiliti in
fortezze (chiamate anch’esse ribāṭ) costruite ai confini tra dār al-Islam e dār
al-ḥarb, in cui si attuano simultaneamente il ğihād maggiore e quello minore.
Per i murābiṭ il ğihād diviene, per ovvie ragioni, un obbligo individuale (farḍ
al-‘ayn). Il termine testimonia la sua diffusione attraverso la presenza di cognomi come Morabito, Rabito, ecc., e di certi toponimi non a caso diffusi in
zone di frontiera terrestre o marittima, come la Spagna, il Portogallo72, il Marocco (la capitale Rabat), ecc.73.
In realtà, i concetti di ğihād, siyar, ġazā e ribāṭ si confondono spesso nei
diversi livelli discorsivi (giuridico, popolare, letterario, ecc.) e distinguerli non
sempre è cosí agevole.
70. Al-Šurunbulālī, Hašiyat…, op. cit., pp. 281-282.
71. M. F. Köprülü, “Ribat”, in Vakıflar Dergisi, 2 (1942), pp. 267-269.
72. J. P. Machado, Influência arábica no vocabulário português, Edição de Álvaro Pinto
(Revista de Portugal), XVIII, No. 112, Lisboa 1953.
73. Altro termine derivato dalla radice è il francese “marabout”, italianizzato in “marabutto”.
50
10. Conclusioni
Per una migliore comprensione della dottrina del ğihād, è dunque utile riprendere alcuni concetti chiave. In primo luogo, l’ampiezza della sfera semantica del termine è tale da includere diverse linee comportamentali; è corretto
parlare di ğihād come di un impegno bellico vincolato da un preciso codice
etico, ma è altrettanto corretto definirlo un impegno spirituale, ecc. Tutte queste accezioni sono accettabili, ma nella misura in cui le si inserisce in un discorso complessivo più ampio, altrimenti si rischia, spesso involontariamente,
di attuare una mistificazione. Tutti quegli autori74 che sostengono una singola
dimensione (guerra difensiva, impegno spirituale, critica del regime inefficiente, impegno nello studio dello ‘ilm, ecc.) compiono una operazione parziale perché il concetto di ğihād le ingloba tutte. Si potrebbe sintetizzare affermando che la pratica dell’Islam, a qualunque livello, si estrinseca in un impegno (ğihād).
Appare ancora più ovvio che in queste classificazioni non possono essere
ricompresi concetti estremi come la guerra di sterminio o il terrorismo suicida,
innovazioni del rigorismo islamico contemporaneo che il pensiero islamico
tradizionale era sempre riuscito ad emarginare in quelle occasioni della storia
islamica passata in cui si erano manifestati.
L’idea di ğihād può essere compresa meglio se si considera il suo sviluppo
storico: l’ampia sfera semantica, infatti, fu il prodotto di un processo plurisecolare.
In definitiva, il ğihād fu un combattimento multiforme, che seppe sposare i diversi
momenti della storia musulmana. Morto e sepolto, a dire di alcuni, lo si vede rinascere
dalle sue ceneri ogni volta che la umma attraversa un periodo di crisi o deve far fronte
alle avversità75.
La dottrina del ğihād dà luogo ad un ğihād istituzionale che si distingue
dal ğihād storico, ma che da quest’ultimo è influenzato e condizionato. La
dottrina, infatti, è frutto di tutta una serie di matrici che vanno dalla tradizione
dei maġāzī ai costumi locali delle regioni conquistate e alle tradizioni arabe
preislamiche. È la tradizione giuridica che maggiormente si avvicina al senso
di “guerra santa”, che tanto piace a fondamentalisti e media occidentali; uno
dei principali problemi di interpretazione è che molti studiosi considerano la
74. Ma ormai si dovrebbe parlare anche di conduttori televisivi, giornalisti, uomini politici,
ecc.; oggigiorno, infatti, in molti si improvvisano specialisti della materia anche nei salotti televisivi.
75. Morabia, Le Ğihâd, op. cit., p. 342.
51
giurisprudenza come l’unica anima dell’Islam; in realtà costoro non tengono
conto della florida tradizione sufi, diffusissima in tutto il mondo islamico, che
storicamente ha conosciuto frequenti momenti di convivenza, se non di interazione, con la dimensione giuridica; emblematico, in questo senso, il caso di
‘abd al-Ġānī al-Nābulusī (1641-1731), che riuscì a svolgere brillantemente e
senza contraddizioni il ruolo di mistico, teologo e giurista76. Non condividiamo, pertanto, le affermazioni di quegli studiosi sostenitori dell’idea che il sufismo nell’Islam non abbia mai goduto di grande stima e che l’Islam sia solo
la legge. Vero è che il pensiero islamico tradizionale non ha mai accettato gli
eccessi, comprese le manifestazioni troppo eccentriche di alcuni ordini sufi,
ma comprese anche le posizioni neo-kharigirite e neo-ḥanbalite dell’universo
fondamentalista contemporaneo. Le manifestazioni esagerate dell’Islam contemporaneo, per riprendere ancora una volta le parole di Alberto Ventura, appaiono «più che altro come una semplice variante ideologica della civiltà occidentale moderna, alla quale finge o si illude di opporsi, ma di cui ha in realtà
accettato e assimilato tutti i presupposti»77.
Per concludere, ribadiamo il concetto per cui è metodologicamente scorretto confondere il dibattito tecnico, proprio della categoria degli studiosi, con la
percezione generale che dell’Islam hanno le masse del mondo islamico.
Bibliografia
Abdul Qayum M., “Peace through War or War through Peace”, in Islamic Review, 7
(1919).
Abou El Fadl K., “Holy War vs. Jihad: a review of J. Turner Johnson, The Holy War
Idea in Western and Islamic Traditions”, in Ethics and International Affairs, 14
76. E. Sirriyeh, Sufi Visionary of Ottoman Damascus. ‘Abd al-Ġānī al-Nābulusī (16411731), Routledge, London-New York, 2004.
77. Ventura, “Islam…”, op. cit., p. 75.
52
(2000), pp. 133-140
Abou El Fadl K., “Islam and the theology of power”, in Middle East Report, 221
(2001), pp. 28-33.
Ayoub M., “Religious Freedom and the Law of Apostasy in Islâm”, in Islamochristiana, 20 (1994), pp. 75-91.
Bonner M., “Ja’âil and Holy War in Early Islâm”, in Der Islâm, 68 (1991), pp. 45-64.
Branca P., Voci dell’Islam moderno. Il pensiero arabo fra rinnovamento e tradizione,
Biblioteca Araba e Islamica, Marietti, Genova 1991.
Canard M., L’expansion arabe: le problème militaire, in Settimane di Studio del centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo XII, Spoleto 1965.
Canard M., “La guerre sainte dans le monde islamique et dans le monde chrétiene”, in
IIe Congrès de la Federation Savantes de l’Afrique du Nord (1936), suppl. à Revue
Africaine, pp. 605-623.
Carrè O., “Le combat pour Dieu et l’état islamique chez Sayyid Qotb, l’inspirateur du
radicalisme islamique actuel”, in Revue Française de Science Politique, 4 (1983),
pp. 680-705.
Charnay J.-P., L’Islam et la guerre. De la guerre juste à la revolution sainte, “Géopolitiques et stratégies”, Fayard, Paris 1986.
Etienne B., L’Islamismo radicale, Rizzoli, Milano 1988.
Fattal A., Le statut légal des non-musulman en pays d’Islam, Imprimerie Catholique,
Beyrout 1958.
Fryzel T., “The doctrine of Jihâd in Islâm and its contemporary interpretation”, in Dialetics and Humanism, 6 (1979), pp.141-152.
Ghunaimi M. T. et al., The Muslim Conception of International Law and Western Approach, Martinus Nijhoff, The Hague 1968.
Huart C., “Le droit de la guerre”, in Revue du Monde Musulman, 11 (1907), pp. 331346.
İnalcik H., “Ottoman Methods of Conquest”, in Studia Islamica, 2 (1954), pp. 104129.
Jurji E. J., “The Islamic Theory of War”, in Muslim World, 30 (1940), pp. 332-342.
Kelsay J. - Turner Johnson J. (ed.), Just War and Jihad: Historical Perspectives on
War and Peace in Western and Islamic Traditions, “Contributions to the Study of
Religion”, 28, Greenwood Press, New York 1991.
Khadduri M., “Islâm and the Modern Law on Nations”, in AJIL (1956), pp. 358-372.
Khadduri M., Islamic Law of Nations: Shaybânî’s Siyar, John Hopkins Press, Baltimore 1966.
Khadduri M., War and Peace in the War of Islam, John Hopkins University Press,
Baltimore 1956.
Köprülü M. F., Les origines de l’Empire Ottoman, Paris 1935 (ristamp. Porcupine,
Philadelphia 1978).
Kruse H., “The Islamic Doctrine of International Treaties”, in Islamic Quarterly
(1954), pp. 152-158.
Lafaye J., “Reconquest, djihâd, diaspora: Three Visions of Spain at the Discovery of
America”, in Diogenes, 87 (1974), pp.50-60.
Lambton A. K. S., “A Nineteenth Century View of Jihâd”, in Studia Islamica, 32
53
(1970), pp. 181-192.
Lewis B., Il linguaggio politico dell’Islâm, “Il Quadrante”, Laterza, Bari 1991.
Lewis B., “Politics and War”, in J. Schacht - C. Bosworth (ed. by), The Legacy of Islâm, 2nd edition, Clarendon Press, Oxford 1974, pp. 156-209.
Morabia A., Le Ğihâd dans l’Islâm médiéval. “Le combat sacré” des origines au XII e
siecle, Albin Michel, Paris 1993.
Morabia A., “Ibn Taymiyya, dernier gran théoricien du jihâd médiéval”, in Bulletin
des Études Orientales, 30 (1978), pp. 85-100.
Pareja F. M. - A.Bausani - L. Hertling, Islamologia, Orbis Catholicus, Roma 1951.
Partner P, “Guerra santa, crociate e «jihad»: un tentativo di definire alcuni problemi”,
in Studi Storici, 31 (1995), pp. 945-955.
Peters R., Islam and Colonialism: The Doctrine of Jihad in Modern History, “Religion and Society”, Mouton, The Hague 1979.
Peters R., Jihad in Mediaeval and Modern Islam - The chapter on Jihad from Averroes’ legal handbook “Bidâyat al-Mujtahid” and the Treatise “Koran and
Fighting” by the late Shaykh al-Azhar Mahmûd Shaltût, “Religious Texts Translation Series: Nisaba, vol. 5, Leiden 1977.
Qidawi Al-, “War and Religion”, in Islamic Review, 7 (1919), pp.129-152.
J. Turner Johnson - J. Kelsay (ed.), Just War and Jihad, Greenwood, New York 1991.
Sivan E., L’Islam et la croisade, Adrian Maisonneuve, Paris 1968, pp. 222.
Tyan E., Institutions du droit public musulman, Institut française de Damas, Beyrouth, 2 volumi.
Tyan E., voce “Djihâd”, in EI2.
Urvoy D., “Sur l’évolution de la notion de gihâd dans l’Espagne musulmane”, in Mélanges de la Casa Vélazsquez, 9 (1973), pp. 335-371.
Van Rensselaer Townbridge S., “Mohammed’s View of Religious War”, in Muslim
World, 3 (1913), pp. 290-305.
Turner Johnson J., The Holy War Idea in Western and Islamic Traditions, Pennsylvania State University Press, University Park, Pa. 1997.
Watt W. M., “Islamic Conception of the Holy War”, in T. P. Murphy (ed. by), The
Holy War (Fifth Conference on Mediaeval and Renaissance Stidies, 1974), Ohio
University Press, Columbus 1976, pp. 141-156.
Watt W. M., “The Significance of the Theory of Jihâd”, in Akten VII Kongr. Arabistik
(Göttingen 1974), 1976, pp. 390-394.
Wittek P., “De la defaite d’Ankara a la prise de Costantinople (un demi-siècle
d’histoire ottomane)”, in Revue des Études Islamiques (1938), pp. 1-34.
54