«Adesso la libertà fa un po` paura ma l`uomo ha fame ancora di verità»

Cultura 29
L’ECO DI BERGAMO
LUNEDÌ 25 LUGLIO 2011
a
L’intervista
a
DON MASSIMO EPIS
nuovo preside della Scuola di Teologia del Seminario
A
«Adesso la libertà
fa un po’ paura
ma l’uomo ha fame
ancora di verità»
D
on Massimo Epis è il
nuovo preside della
Scuola di Teologia del
Seminario di Bergamo. Una istituzione prestigiosa,
conosciuta in tutta Italia, fortemente caratterizzata dal profilo umano e intellettuale dell’uomo che l’ha guidata fino a oggi:
mons. Angelo Bertuletti. Don
Epis, che in questo mondo è
cresciuto sin da quando aveva 11
anni, ha ben presente la difficoltà di succedere a una personalità così carismatica: «L’ho
detto anche al vescovo, dopo
avergli fatto presente le riserve
che nutro sulla mia persona,
che in questo suo affidamento,
in questo suo azzardo leggo soprattutto un incoraggiamento
alla corresponsabilità. Mi sento
sostenuto dalle persone che ho
attorno: qui in Seminario c’è un
corpo docente molto qualificato, nei confronti del quale nutro
una profonda stima. E la straordinaria vis speculativa di don
Angelo - io lo chiamo familiarmente così – resta una garanzia
per la nostra scuola».
Cosa ha imparato da lui?
«Rigore e serietà. Il suo è uno
stile senza fronzoli, molto
asciutto e consequenziale. Ha
sempre affrontato la questione
della verità della fede, in dialogo aperto con i classici del passato e le figure di spicco più recenti».
Ad esempio?
«Da Tommaso d’Aquino a Husserl e Heidegger, da Aristotele a
Paul Ricoeur. Ha saputo fare tesoro del meglio del pensiero fe-
A cosa serve la teologia? A un cristiano non basta il Vangelo?
Don Massimo Epis
«Anche i laici adesso
studiano teologia:
le grandi domande si
avvertono da adulti»
nomenologico-ermeneutico
contemporaneo».
Quali sono gli errori che il suo predecessore le ha insegnato ad evitare?
«Ha sempre resistito alla tentazione più estetizzante del pensiero teologico, oggi piuttosto
diffusa».
Diversi laici, anche a Bergamo, studiano teologia. Come giudica questo fenomeno?
«Come un appello. Una fame
che deve essere presa sul serio.
In fondo le grandi domande
vengono da grandi. E innescano
un’investigazione che non può
avere il fiato corto. Un corso di
teologia per chi ha fretta è deludente: dà l’impressione di sollevare più domande di quelle a cui
risponde».
«Io penso che il lavoro teologico sia un modo di onorare la
piena umanità della Grazia. Gesù Cristo è la novità assoluta:
l’indeducibile. Questa novità,
però, non è estrinseca alla verità
che l’uomo è in se stesso. La Rivelazione è il compimento della Creazione: il lento travaglio –
intendiamolo pure in senso
evolutivo - che porta all’umanità è, di fatto, la preparazione
a un incontro, quello con Gesù.
La teologia non produce l’incontro: ha come compito quello di mostrarne, sul piano critico, le condizioni obiettive e universali».
Noi però oggi concepiamo l’uomo
in maniera molto diversa rispetto
a 150 anni fa. Avete dovuto aggiornarvi?
«In un certo senso questo compito la teologia l’ha svolto da
sempre. La prima grande sfida
che l’intelligenza della fede ha
dovuto affrontare, sin dai primi
secoli, è stata la Gnosi: la tentazione di configurare una verità
di Dio separatamente dall’ordine storico-carnale dell’esistenza umana. La relatività al proprio tempo è congenita alla verità della fede, che si declina
nelle diverse epoche. Certo, oggi assistiamo a una poderosa accelerazione culturale, ma le ragioni di questo continuo bisogno di innovazione scaturiscono dalla verità stessa dell’Incarnazione»
ETÀ 47 anni
A
HA STUDIATO A ROMA
Nato a Bergamo, cresciuto
a Oltre il Colle, don Massimo
Epis si è laureato
alla Gregoriana di Roma
in Teologia fondamentale
(con una tesi sulla teologia
tedesca post-conciliare),
e in seguito anche alla
Statale di Milano in Filosofia,
con Francesco Moiso,
un allievo di Pareyson:
tesi (pubblicata) sulla
fenomenologia di Edith Stein
certo buddismo «à la carte», in fondo, molto più che un reale amore
per l’Oriente è una forma gnostica,
non crede?
«Dietro la fortuna sempre rinascente della gnosi penso che ci
sia un movente anche psicologico: la fuga dalla libertà. La
gnosi instilla la convinzione che
la verità sia qualcosa da sapere
più che da decidere e da fare».
È una tentazione anche interna al
cristianesimo.
«Una grandissima seduzione: lo
gnosticismo suggerisce che, in
fondo, il profilo drammatico
dell’esistenza sia una parvenza».
Il teologo, quindi, non è il custode
dell’ortodossia?
«La teologia sviluppa in maniera critica e sistematica l’intelligenza della fede. Ma al principio
della fede non c’è una dottrina».
Come sta, invece, la filosofia?
«Mi pare che oggi faccia fatica
ad affermarsi come discorso autonomo e radicale rispetto alla
semplice divulgazione di alcune conclusioni di carattere
scientifico».
Nelle classi colte lo gnosticismo è
molto più diffuso dell’ateismo: un
Quel po’ di filosofia profonda che ci
resta, però, non va tanto d’accordo
con la scienza.
«Ebbe a dirlo anche Edoardo
Boncinelli, in occasione di Bergamoscienza: le ostilità più rilevanti che la scienza incontra
non muovono dal fronte teologico ma da quello filosofico:
un’osservazione, secondo me,
acuta. La contrapposizione ragione/fede è comoda ma obsoleta».
Dopo duemila anni che riflettiamo
razionalmente sulla fede, capiamo
qualcosa di più o no?
«Sarebbe sbagliato porre la questione in termini quantitativi.
La Rivelazione cristiana è una
persona. Sono commensurabili
due incontri con la stessa persona? Mai. La storia del pensiero
teologico, come tutta la storia
della Chiesa è una storia di incontri, sempre nuovi, con Gesù
Cristo. Lo stigma della fede è
una relazione. Muovendo dalla
fede della Chiesa, la teologia dialoga con tutti coloro che hanno
a cuore la verità, li accompagna
a quell’incontro e lì si ferma». ■
Carlo Dignola
a
L’arte spontanea di Merati
in mostra a Bruxelles
a Il suo mondo pittorico era
animato da «macchinine trombette, turbine e aeroplanini» che s’inerpicavano fino a restare sospesi
sul sommo di stradine impervie come montagne russe.
C’erano il linguaggio della natura e di strumenti musicali ascoltati e ricomposti tra i righi di
«spartiti» all’apparenza improbabili, da «uccellini» che volavano liberi dai loro «nidini» alle
«sue» finestre fino a posarsi su
quelli che restano forse i suoi au-
toritratti a forma di «cactus», talora accanto al suo nome: Tarcisio Merati. Un mondo che egli
disegnava con i pennarelli sulla
carta e dipingeva con le tempere
sulla tela, intrecciava in arazzi e
ricostruiva. E infine regalava per
un sorriso, per un ricordo, per un
bicchiere di rosso. A parte il
«millino» di vecchie lire per quest’ultimo, la sua «moneta» era
carta colorata con tonde bandierine e sinuose note musicali oppure strambo soprammobile di
fattura artigianale.
Una quarantina di sue opere
ricordano tutto questo nella retrospettiva in corso fino al 31
agosto nel Musée d’art spontané
di Bruxelles (da martedì a sabato dalle 13 alle 17, di mattina
gruppi su prenotazione). La mostra è organizzata – con il museo
– da Storytoys e Coccolone Tribe, associazione di quindici collezionisti di Merati, soprannominato «coccolone» all’Ospedale neuropsichiatrico di Bergamo.
La mostra a Bruxelles
Infatti Tarcisio Merati, nato a
Bonate Sopra nel 1934 e scomparso a Bergamo nel ’95, era uno
di quegli artisti detti «irregolari».
Lungi dalla pretesa di dirimere il
decennale dibattito sul tema, si
ricorda che la notevole mostra
«Oltre la ragione» - che, organizzata da Progetto Itaca onlus e associazione Merati con Gamec, si
tenne a Bergamo nel 2006 ed
espose anche numerose opere di
Merati - ricorse all’espressione
arte irregolare «per indicare una
possibilità di sovvertimento rispetto alle lingue ufficiali, ai discorsi istituzionali, da parte di
immagini non appartenenti a
uno stesso genere o antigenere
che rivendicano di operare nella
carne del mondo». Merati era
persona molto creativa, dotata di
profonda umanità e di «curiositas», dedita a quello che la conoscitrice Bianca Tosatti chiama
«esercizio della meraviglia al riparo da miserie e volgarità». Così egli stesso si era presentato
senza bisogno di parole alla sua
prima mostra inaugurata da Vittorio Sgarbi al Teatro Sociale di
Bergamo nel 1993. «La pittura –
scrive Sgarbi – non è per Merati
una vocazione o una scelta, ma
una necessità, una condizione irrinunciabile, una grazia calata
anche nell’esistenza più malinconica, che essa trasforma in
euforica. Il resto è miseria, umiliazione, lavoro, denaro, rotelline per automobili con cui giocheranno bambini infelici, futuri adulti prigionieri». ■
Elisabetta Calcaterra