Giornata studio sull`enfiteusi - Istituto Centrale per il Sostentamento

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Giornata studio sull’enfiteusi
Roma, 26 marzo 2014
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APPROCCIO ALL’ENFITEUSI
Relatore: Avv. Giovanni Moscarini
Per rivendicare la posizione di concedente di un fondo concesso in enfiteusi occorre
dimostrare la sussistenza del proprio diritto attraverso la produzione di un atto pubblico di
acquisto del bene e/o di un atto costitutivo del rapporto enfiteutico.
Poiché le enfiteusi ecclesiastiche di norma risalgono ad epoca molto remota, e di esse non è
possibile rinvenire l’atto costitutivo (il più delle volte stipulato in periodi storici in cui non era
neppure richiesta la forma scritta per la valida costituzione del rapporto), la prova del diritto
di concedente può e deve essere data “per equipollenti” (secondo una definizione coniata dalla
dottrina di inizio novecento), vale a dire attraverso l’indicazione di elementi di prova
alternativi.
La verifica eseguita presso i registri catastali, primo ed indispensabile strumento di
ricognizione del patrimonio immobiliare, di per sé non è sufficiente a fondare una
rivendicazione del diritto anche in caso di esito positivo, in quanto le risultanze catastali non
hanno valore probatorio, ma solo indiziario.
Ad esse, quindi, occorre sommare altri riscontri, il più importante e significativo dei quali è
senza dubbio la menzione dell’enfiteusi in atti pubblici aventi ad oggetto l’immobile.
In casi particolari è possibile provare a rivendicare il diritto di concedente anche in assenza di
riscontri presso la Conservatoria dei Registri immobiliari, qualora le risultanze castali siano
confermate da altri elementi indiziari con esse concordanti, quali l’avvenuto pagamento di un
canone, la menzione del rapporto in registri interni, o il riconoscimento del diritto in
documenti sottoscritti direttamente dagli enfiteuti (si pensi ad esempio alle richieste di
variazione catastale, a volte firmate direttamente dal richiedente, oltre che dal tecnico
incaricato).
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A prescindere da simili ipotesi, che il più delle volte vanno ascritte nel novero delle situazioni
dubbie, di norma il diritto di concedente è legittimamente rivendicabile ove di esso sia stata
fatta menzione in atti pubblici aventi ad oggetto l’immobile.
Qualora l’enfiteuta abbia acquisito il fondo in forza di un atto pubblico che, pur prevedendo il
trasferimento della proprietà del bene, attesta il suo assoggettamento ad un canone, il diritto di
concedente può essere legittimamente rivendicato, anche perché, al di là della terminologia
utilizzata nell’atto, l’enfiteuta, proprio in virtù dell’avvenuta menzione del canone, non può
aver acquisito la piena proprietà dell’immobile.
Di contro, qualora l’immobile sia stato acquistato in forza di un atto stipulato in buona fede
che non fa menzione alcuna della sussistenza del rapporto enfiteutico e che è stato
regolarmente trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari, decorsi dieci anni dalla
trascrizione l’enfiteuta ne acquisisce comunque la piena proprietà per usucapione, a
prescindere dal tenore dei precedenti atti di trasferimento del medesimo immobile.
L’accertamento del diritto di concedente è un tema complesso, che meriterebbe una
trattazione ben più dettagliata, ma come indicazione di massima si può dire che
l’ordinamento, da una parte, consente all’originario concedente di rivendicare il proprio diritto
nei casi in cui l’enfiteuta non possa ignorarne la sussistenza, se non per propria colpa (a
prescindere dalle risultanze catastali), e, dall’altra parte, nega tale possibilità tutte le volte in
cui del rapporto enfiteutico si sia persa traccia nel corso del tempo, ed in cui si sia creato
quindi un preciso e consolidato affidamento nel possessore del fondo, correttamente ritenuto
meritevole di tutela.
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Una volta verificata la consistenza del patrimonio immobiliare concesso in enfiteusi su cui è
possibile rivendicare il diritto di concedente - ovvero durante lo svolgimento di tale
ricognizione, ove sia stato individuato un primo significativo quantitativo di immobili occorre delineare una strategia di approccio agli enfiteuti, la quale deve necessariamente tener
conto del fatto che nel migliore dei casi essi pagano canoni irrisori, ovvero, ancor più spesso,
non versano alcun canone da tempo immemore e si considerano liberi da vincoli verso
l’originario concedente, di cui a volte ignorano persino l’esistenza.
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L’elaborazione di un’accurata strategia di intervento è particolarmente importante in
considerazione del fatto che la materia, come noto, è determinata da una significativa
incertezza legislativa, specie con riferimento ai criteri di determinazione e/o di aggiornamento
del canone enfiteutico, come si dirà meglio più avanti.
In base all’esperienza maturata ritengo che una corretta strategia di approccio debba vertere
essenzialmente su tre aspetti:
-
scelta dei criteri di determinazione del canone;
-
modalità di redazione delle richieste di pagamento, tempistica del loro invio e
successiva interlocuzione con gli enfiteuti;
-
previsione di agevolazioni per determinate categorie di enfiteuti ovvero per
specifici tipi di atti di affrancazioni.
L’individuazione della modalità di approccio, evidentemente, implica scelte di tipo
discrezionale, ed ogni Istituto può optare per il comportamento che ritiene più opportuno o
adatto alla realtà in cui opera.
Si può scegliere, ad esempio, un approccio diretto e più conveniente sul piano meramente
contabile, consistente nella determinazione di canoni enfiteutici “massimi” rispetto alle
soluzioni astrattamente percorribili e in un celere invio di tutte le richieste di pagamento,
ovvero si può optare per un approccio più “progressivo” e prudenziale, probabilmente più
adatto ai casi in cui un singolo Istituto si trovi a gestire un numero elevato di posizioni.
Avendo vissuto, condiviso e contribuito a delineare l’azione dell’Istituto Diocesano di ChietiVasto ritengo utile rappresentare di seguito quanto è stato fatto nella nostra realtà, e qual è la
strategia che nel corso del tempo, grazie alla vasta esperienza accumulata, abbiamo appurato
essere la più efficacie ed equilibrata.
Sin dall’inizio dell’attività di ripristino dei rapporti enfiteutici l’Istituto ha scelto un approccio
volutamente poco “impattante”, sia nella determinazione del canone sia soprattutto nelle
modalità di comunicazione con gli enfiteuti, volto a provocare il maggior numero possibile di
pagamenti e affranchi spontanei e a ridurre al minimo le occasioni di contenzioso, nella
convinzione che una simile strategia, oltre a contenere in misura quanto mai significativa
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l’impatto dell’iniziativa sull’immagine della Chiesa, avrebbe comportato anche sicuri
vantaggi economici, attesi il costo, i ritardi e l’alea inevitabilmente connessi all’insorgenza di
contenziosi.
Tale atteggiamento prudenziale ha riguardato e connotato tutti gli aspetti dell’approccio agli
enfiteuti sopra menzionati, che si esaminano di seguito con riferimento alle (poche) regole
vigenti.
I. Scelta dei criteri di determinazione del canone
La regolamentazione dell’enfiteusi, ed in particolare la disciplina relativa al calcolo ed
all’aggiornamento dei canoni, è dettata da due leggi speciali (n. 607/1966 e n. 1138/1970), le
quali prescrivono criteri di determinazione dei canoni enfiteutici limite indicando come
parametri di riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le enfiteusi
anteriori al 28 ott. 1941, e la quindicesima parte dell’indennità di esproprio prevista dalle
leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte successivamente.
In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco sia determinato in misura pari a
quindici volte il canone.
Dopo la loro emanazione, sulle due leggi citate si è pronunciata a più riprese la Corte
costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità della normativa sotto diversi profili,
modificandone profondamente la portata.
Sia per la L. 607/1966 sia per la L. 1138/1970, in particolare, la Corte Costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità dei criteri di calcolo ivi prescritti dettando, quale vero e proprio
principio generale della materia, la regola per cui i canoni devono essere periodicamente
aggiornati mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei “a mantenere
adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà
economica” (sentenze n.ri 406 del 7 aprile 1988 e 143 del 23 maggio 1997).
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L’intervento della Consulta, in definitiva, da un lato ha sostanzialmente uniformato fra loro le
due discipline, originariamente diverse, facendo sì che i principi dettati per le enfiteusi
successive al 1941 trovino applicazione anche ai rapporti costituiti anteriormente; dall’altro
lato ha dettato una regola generale secondo la quale il canone enfiteutico - e di conseguenza il
capitale di affranco - devono essere determinati in modo da assicurarne la corrispondenza alla
realtà economica.
In base a quali criteri debba essere garantita tale corrispondenza, tuttavia, la Corte nulla ha
detto, né avrebbe potuto farlo, essendo prerogativa del legislatore dettare una
regolamentazione della materia.
Una volta venuti meno i criteri inizialmente prescritti dalle due normative dichiarate
incostituzionali, tuttavia, la disciplina non è mai stata integrata attraverso una nuova
regolamentazione della materia, la quale, di conseguenza, allo stato risulta caratterizzata da un
vero e proprio vuoto normativo.
In mancanza di parametri di riferimento certi per la determinazione e/o l’aggiornamento dei
canoni enfiteutici, nel corso degli anni sono state adottate o suggerite soluzioni di varia natura
e portata.
Tra le diverse opzioni prospettate mi limito a segnalare, in considerazione della sua
autorevolezza e della sicura convenienza per gli interessi degli Istituti Diocesani, una circolare
del Ministero dell’Interno, la n. 118 del 9 sett. 1999, volta a individuare i criteri che le
pubbliche amministrazioni sono tenute ad applicare per il calcolo del capitale di affranco degli
immobili gravati da enfiteusi, e conseguentemente per l’aggiornamento del canone.
La circolare, dopo aver recepito il principio implicitamente sotteso all’ultima pronuncia della
Consulta secondo cui alle enfiteusi anteriori al 1941 deve trovare applicazione una disciplina
analoga a quella prevista per i rapporti instaurati successivamente, e dopo aver ricordato che
per calcolare il capitale di affranco delle enfiteusi più recenti il legislatore aveva fatto
riferimento all’indennità di esproprio prevista dalle leggi di riforma agraria del 1950 (con una
norma, l’art. 2 L. 1138/1970, poi ritenuta anch’essa illegittima dalla Corte Costituzionale
perché non sufficientemente adeguata alla realtà economica), ha affermato che, nel vuoto
normativo creato dalle sentenze citate, mai colmato dal legislatore, il criterio alternativo
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simile che appare più affidabile, e come tale deve essere utilizzato nel calcolo del capitale di
affranco, è quello dettato per il computo dell’indennità di esproprio ordinaria, che per i terreni
agricoli è calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell'area da
espropriare, stabilito annualmente da rilevazioni operate da un’apposita commissione
regionale.
Tale soluzione, che equipara il capitale di affranco all’indennità di esproprio, anche se si è
rivelata molto utile nella gestione delle posizioni potenzialmente conflittuali al fine di
dimostrare la ragionevolezza delle minori pretese avanzate dall’istituto, ad avviso di chi scrive
appare eccessivamente penalizzante per gli enfiteuti, e come tale non merita di essere
condivisa, anche perché non tiene nella dovuta considerazione la natura intrinseca dell’istituto
dell’enfiteusi.
Per tale ragione, e non solo, Istituto Diocesano di Chieti-Vasto ha scelto un criterio di calcolo
diverso, concepito in modo da determinare soluzioni che fossero il più eque possibili, e
riducendo al minimo il margine di discrezionalità nella quantificazione dei canoni enfiteutici.
La modalità prescelta implica innanzitutto l’individuazione del valore dell’immobile, a
seconda che lo stesso abbia una destinazione agricola, sia edificabile, ovvero sia stato
concretamente edificato dall’enfiteuta o dai suoi danti causa.
A quest’ultimo riguardo, attesa la confusione che spesso caratterizza l’argomento, è opportuno
aprire una breve parentesi per precisare come nel calcolo del capitale di affranco di un terreno
edificato si debba necessariamente tenere conto della presenza del fabbricato.
Poiché il concedente è proprietario del suolo, il fabbricato ivi realizzato senza il suo consenso
- non potendo essere considerato miglioria o addizione in quanto incompatibile con le finalità
proprie dell’enfiteusi - rientra nella nozione di opera fatta su un fondo da un soggetto terzo
con materiali propri, di cui all’art. 936 cod. civ., per cui il fabbricato viene acquisito per
accessione al patrimonio del concedente dell’area, salvo ovviamente il riconoscimento
dell’indennizzo previsto dallo stesso art. 936 cod. civ., in ragione del quale l’Istituto
Diocesano di Chieti-Vasto, ai fini del calcolo del capitale di affranco, ritiene corretto far
riferimento non all’intero valore del fabbricato, ma soltanto alla differenza tra detto valore e il
costo di costruzione, come si dirà meglio di seguito.
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Quanto precede, ed in particolare la necessità di tenere conto della presenza di fabbricati, è
stata autorevolmente confermata dall’Avvocatura dello Stato con parere n. 8475 del
19.12.1991 - richiamato dall’Ufficio Provinciale del Demanio di Chieti nell’elaborazione di
conteggi redatti per affranchi di terreni edificati - nel quale è correttamente rilevato come la
realizzazione di fabbricati su terreni concessi in enfiteusi, se decisa autonomamente dal
livellario, non possa considerarsi “miglioramento o addizione” del fondo, ma debba essere
intesa come attività edificatoria non autorizzata dal proprietario dell’area, e, quindi, come
intervento che l’enfiteuta non avrebbe avuto diritto di eseguire. In senso analogo, e in modo
ancor più autorevole, il Consiglio di Stato in sede consultiva, con parere n. 661/1998, ha
precisato che l’attività di miglioria richiesta all’enfiteuta, ai sensi dell’art. 960 cod. civ., deve
ritenersi intrinsecamente connessa alla natura del fondo stesso, nel senso che sul fondo rustico
l’enfiteuta dovrà apportare miglioramenti fondiari in armonia con la natura rustica
dell’immobile; mentre esula da ciò ogni attività di trasformazione edilizia che, ove non presa
in considerazione ai fini della revisione del canone, potrebbe giustificare operazioni
speculative a danno dell’amministrazione.
Ciò precisato, nel tornare ai criteri di determinazione del canone, ed in particolare al primo e
principale elemento consistente nella stima del valore dell’immobile, l’Istituto Diocesano di
Chieti-Vasto, allo scopo di ancorare i propri conteggi a dati oggettivi, per i terreni agricoli ha
scelto di far ricorso al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell'area da espropriare,
pubblicato annualmente sul bollettino regionale (lo stesso parametro prescelto dal Ministero
dell’Interno, anche se nell’ambito di un criterio di calcolo diverso, come si vedrà di seguito),
e, per quel che concerne le enfiteusi edificabili, al valore attribuito agli immobili dalle singole
amministrazioni locali ai fini del pagamento della relativa tassa comunale.
Nei casi in cui su un terreno gravato da enfiteusi sia stato realizzato un fabbricato, infine,
l’Istituto ne calcola il valore in base alle rilevazioni dell’Osservatorio del Mercato
Immobiliare, applicate sempre nella misura minima (al fine di prevenire contestazioni),
detraendo dal valore dell’edificio così ottenuto il suo presumibile costo di costruzione, in
modo da determinare l’incremento di valore dell’immobile al netto della spesa sostenuta
dall’enfiteuta.
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Una volta determinato il valore dell’immobile, in base ai criteri suindicati, l’Istituto non lo
equipara al capitale di affranco, come suggerito dal Ministero dell’Interno, ma, in
considerazione del fatto che il rapporto enfiteutico implica, sia pure indirettamente, una
ripartizione degli utili del fondo tra concedente ed enfiteuta, ovvero prevede la corresponsione
di un canone astrattamente assimilabile ad un affitto, si provvede a determinare un rendimento
presunto dell’immobile di competenza del concedente che, in mancanza di rilevazioni
oggettive o di dati affidabili sul rendimento del mercato immobiliare, specie di quello
agricolo, l’Istituto Diocesano di Chieti-Vasto in passato ha individuato in quello che all’epoca
era il tasso di interesse legale vigente, pari al 2,5%, mantenendo poi la stessa misura anche
dopo che tale tasso è mutato nel corso degli anni, in considerazione della sua natura
prudenziale e, come tale, difficilmente contestabile.
In applicazione dei criteri suindicati, il canone annuo richiesto agli enfiteuti ammonta quindi
al 2,5% del valore dell’immobile come sopra determinato, e il capitale che deve essere versato
per l’affrancazione dei fondi è pari al 37,5% (15 volte il canone) del valore dell’immobile,
sempre calcolato in base ai criteri oggettivi di cui sopra.
Tale criterio di calcolo, come detto, è stato scelto nella convinzione di una sua effettiva equità,
e, nel corso del tempo, ha trovato autorevole conforto anche nella giurisprudenza delle
Sezioni Specializzate Agrarie del Tribunale di Chieti, l’organo giudiziario di riferimento
dell’intero territorio della Diocesi, il quale, sia pure in contenziosi di cui l’Istituto non era
parte, ha fatto proprio ed applicato esattamente il criterio di calcolo che lo stesso Istituto
aveva indicato in precedenti giudizi in cui era stato coinvolto, poi definiti transattivamente
prima dello loro conclusione dopo il deposito di consulenze tecniche d’ufficio favorevoli alla
posizione dell’Istituto.
II. Modalità di redazione delle richieste di pagamento, tempistica del loro invio e
successiva interlocuzione con gli enfiteuti
Una volta determinato il canone occorre istaurare un contatto diretto con l’enfiteuta,
attraverso l’invio di una richiesta di pagamento.
Al fine di prevenire il più possibile l’insorgenza di posizioni di contrasto, è opportuno che la
richiesta sia formulata con un’adeguata spiegazione delle ragioni ad essa sottesa, e soprattutto
che contenga l’invito espresso a prendere contatto con l’Istituto e a fissare un incontro
informativo, in modo da provocare un contatto diretto con l’enfiteuta che consenta di
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illustrargli a voce, con maggiore dovizia di particolari, le motivazioni dell’iniziativa, il
significato intrinseco delle enfiteusi ecclesiastiche e la loro funzione storica di sostentamento
del clero, ora semplicemente accentrata negli Istituti Diocesani.
In considerazione dell’elevatissimo numero di rapporti di cui è titolare, l’Istituto di ChietiVasto ha inviato, e continua tuttora a inviare, richieste di pagamento fortemente scaglionate
nel tempo, agendo di pari passo con gli esiti della ricerca e dell’individuazione delle singole
posizioni, evitando accuratamente - ove possibile - di concentrare nelle stesse zone e in uno
stesso periodo di tempo un numero elevato di richieste, anche per prevenire l’insorgenza di
“fronti comuni” di opposizione, il più delle volte costituiti in modo strumentale da
rappresentanti politici locali per ragioni propagandistiche, senza alcuna reale riflessione sul
merito della richiesta avanzata dall’Istituto.
Nella nostra esperienza abbiamo avuto modo di verificare che un approccio condotto con
simili accorgimenti risulta molto efficace, e che, in particolare, riveste fondamentale
importanza l‘invito, se non proprio la sollecitazione, ad un incontro personale con i
rappresentanti dell’Istituto, il quale, nonostante il significativo impegno che una simile
politica inevitabilmente richiede, rappresenta un’occasione utilissima di chiarimento e di
prevenzione di eventuali contrasti.
III. Previsione di agevolazioni per determinate categorie di enfiteuti ovvero per specifici
tipi di atti di affrancazioni
La linea guida cui l’Istituto Diocesano di Chieti-Vasto ha ispirato la sua azione nel corso degli
anni è stata improntata alla più rigorosa parità di trattamento, ed al rifiuto sistematico di
intavolare trattative e negoziazioni, se non nelle ipotesi in cui la sussistenza del diritto di
concedente è effettivamente dubbia, ed è quindi corretto che la determinazione del canone e/o
del capitale di affranco tenga conto dello specifico grado di incertezza che connota il diritto
rivendicato.
Ciò premesso, al fine di favorire il numero maggiore possibile di affrancazioni o di
adeguamenti spontanei del canone, e soprattutto per sensibilizzare e coinvolgere alcuni
interlocutori particolarmente rappresentativi sul territorio, l’Istituto ha ritenuto opportuno
promuovere la stipula di apposite convenzioni con associazioni di categoria, la prima e
principale delle quali è stata siglata con la Coldiretti.
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La convenzione siincentra su una premessa nella quale la Coldiretti riconosce sia la legittimità
dell’iniziativa di ripristino dei rapporti enfiteutici avviata dall’Istituto sia, soprattutto, la
correttezza dei criteri di calcolo e/o aggiornamento del canone utilizzati, espressamente
riportati nel testo, e, nell’obiettivo condiviso di voler favorire la posizione di coloro che dai
terreni traggono la loro principale fonte di sostentamento, prevede l’applicazione di uno
sconto del 30% sul canone comunemente richiesto dall’Istituto, e conseguentemente sul
capitale di affranco, per terreni agricoli condotti da soggetti iscritti all’associazione, nonché la
possibilità di affrancare il fabbricato rurale in cui il coltivatore diretto risiede a fronte della
corresponsione di una somma estremamente contenuta.
La convenzione, conclusa formalmente con la Coldiretti Abruzzo, in realtà è stata siglata
all’esito di un’articolata trattativa condotta direttamente con l’ufficio legale della Coldiretti
nazionale, cui la sezione regionale si era rivolta per la necessaria assistenza legale, per cui non
dovrebbe esserci alcun ostacolo alla sua eventuale adozione da parte di altre sezioni locali
dell’associazione.
La stipula della convenzione ha apportato un rilevante giovamento all’azione condotta
dall’Istituto di Chieti-Vasto, anche perché il fatto stesso che l’associazione di categoria abbia
riconosciuto in termini netti ed espliciti la legittimità dell’azione intrapresa dall’Istituto, e
soprattutto abbia condiviso i criteri di calcolo utilizzati, ha spinto molti enfiteuti a convincersi
definitivamente della fondatezza e della congruità delle richieste ricevute e ad avvalersi delle
condizioni di favore riconosciute loro dalla convenzione.
Altra forma di agevolazione recentemente ipotizzata dall’Istituto, anche se non ancora attuata
in concreto, è la concessione di una significativa riduzione del canone e/o del capitale di
affranco in caso di affranchi collettivi, concepita a seguito del formarsi di gruppi di enfiteuti
rappresentati da un unico soggetto, ovvero a fronte della sollecitazione di alcuni sindaci a
definire a condizioni più favorevoli un numero elevato di posizioni ricadenti nei rispettivi
territori di competenza.
Proprio in queste settimane l’Istituto sta lavorando alla prima ipotesi di affranco collettivo,
che contempla circa un centinaio di posizioni, e che ovviamente ci si auspica possa
concludersi positivamente in considerazione del notevolissimo risparmio di risorse ed energie
che una simile soluzione comporterebbe, consentendo una significativa riduzione del canone
richiesto che, in ipotesi particolarmente significative qual è quella in itinere, l’Istituto ha
ritenuto opportuno stabilire nel 50% degli importi comunemente richiesti.
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In conclusione, la politica intrapresa dall’Istituto Diocesano di Chieti-Vasto, pur comportando
un significativo impegno da parte di tutti i soggetti convolti - in particolar modo del
Presidente, la cui costante presenza agli incontri con gli enfiteuti risulta determinante per
trasmettere loro un segnale di attenzione e considerazione, e per definire amichevolmente
eventuali posizioni di iniziale contrasto - ha già dato e continua a dare risultati
particolarmente positivi, sintetizzabili forse meglio che con ogni altro dato nel fatto che in
oltre sette anni di attività di ripristino di rapporti “dormienti”, durante i quali sono state
riattivate oltre un migliaio di posizioni, al di là di alcune mediazioni tutte concluse
positivamente l’Istituto è stato coinvolto in appena otto procedimenti giudiziari, quasi tutti
definiti in via transattiva prima della fine della causa con il sostanziale riconoscimento degli
importi originariamente richiesti, salvo i primi, volutamente portati a conclusione in
considerazione della necessità dell’Istituto di procurarsi precedenti giurisprudenziali
favorevoli.
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