1616 LA RIVISTA DELLA SCUOLA INSERTO SPECIALE Anno XXXI, 1-30 novembre 2009, n.3 Mannheim e la filosofia Introduzione Mannheim nacque a Budapest nel 1863. Nel 1919 prese parte all’insurrezione che portò alla breve Repubblica dei Consigli ungherese. Dopo il fallimento di quell’esperienza riparò in Germania dove insegnò a Heidelberg e a Francoforte. Nel 1933, esiliato dalla Germania nazista, emigrò a Londra dove stabilì un legame con il mondo culturale e politico anglo-americano fino alla sua morte avvenuta nel 1947. Nella sua formazione sono decisivi i rapporti col pensiero di Marx e con lo storicismo tedesco, più decisiva ancora è tuttavia l’appartenenza alla generazione che visse la prima guerra mondiale, i violenti conflitti ideologici e le disillusioni che le fecero seguito. Fin dall’inizio Mannheim è attento alla realtà storico-sociale del suo tempo ed il suo obiettivo è di utilizzare le scienze sociali come strumento per mutare la situazione di un’Europa devastata dalla guerra e dalle dittature. Mannheim giunse alla sociologia attraverso la filosofia e, in particolare, attraverso l’eredità diltheyana rivendicata e ripensata nella tematica del neo-criticismo, della fenomenologia, di quella filosofia e sociologia della cultura dei primi anni del novecento che si rifaceva allo storicismo diltheyano. In questo primo Mannheim indubbie sono le influenze dello storicismo tedesco, di Weber, Sheler, Lukacs, Heidegger, Rickert e Jaspers. Per quanto riguarda il rapporto con Marx Mannheim non accettò mai il suo dogmatismo. Egli del marxismo in generale accetta l’idea secondo la quale il pensiero non è autonomo rispetto al mondo dell’azione politica ed economica. Ed è proprio in questa situazione che Mannheim elabora non solo la sua generale visione del mondo storicista, ma anche la metodologia della sua Wissenssoziologie. Mannheim non fu un sistematico, ma piuttosto un saggista; egli sentiva l’esigenza di analizzare in vivo i processi di mutamento, di distaccare il vecchio dal nuovo, e ciò lo portava al rifiuto di qualunque prospettiva culturale e politica chiusa e definita. Per il Nostro il presupposto di una politica che avesse un qualche carattere di scientificità era quello di cogliere le interrelazioni tra i differenti aspetti e problemi della sua civiltà, per arrivare ad una previsione delle possibili conseguenze globali degli interventi settoriali. Questo intervento intende attraversare il pensiero di Mannheim soffermandosi su due concetti basilari di tutta la sua opera: la necessità di una pianificazione democratica capace di inglobare in sé anche la libertà per ovviare al problema delle dittature, e l’Educazione, parte fondamentale di un progetto di pianificazione che richiede la diffusione degli strumenti critici della cultura e soprattutto un alto livello d’istruzione nella società, che renda i suoi cittadini consapevoli dei problemi del loro tempo e capaci di agire di conseguenza. Questo lavoro si apre introducendo la Filosofia e la Sociologia della Conoscenza, i suoi precursori, e la funzione che tale scienza ha avuto nel pensiero di Mannheim. Parte Prima Mannheim Karl e la sociologia della conoscenza 1. I precursori della sociologia della conoscenza La Wissenssoziologie, o sociologia del sapere, studia il rapporto d’interazione tra strutture sociali e categorie mentali. Il quadro generale entro il quale essa opera è lo storicismo di Dilthey, mentre il metodo d’indagine è in prevalenza quello idealtipico e storicocomparativo di M. Weber. Il “sapere”, in altre parole l’insieme delle produzioni culturali, è influenzato dalla condizione sociale in cui gli uomini vivono ed esso contribuisce a sua volta a modificare la struttura sociale. La sociologia della conoscenza nasce con Max Scheler nel periodo di rivoluzioni sociali seguite al primo dopoguerra. Scheler, messa da parte la teoria cattolica del Dio potente esprime la concezione del contrasto tra Impulso (Drang) e Spirito (Geist). “Solo l’intervento di elementi irrazionali (impulsi, interessi, passioni, etc.) consente allo spirito impotente (Ohnmacht des Geistes) di assumere forma nella realtà. I fattori ideali determinano il senso del fatto storico (ad esempio, la riforma protestante come ritorno alla purezza evangelica); ma solo i fattori reali (potenza delle monarchie nazionali, interessi dei principi, commerci della borghesia, malcontento dei contadini, etc.) realizzano l’evento”. Scheler intende dare una risposta eloquente sia alle concezioni idealistiche della storia sia a quelle materialistiche. L’evento storico può scaturire solo dalla combinazione dei fattori ideali e reali, poiché lo Spirito determina ma non realizza e l’Impulso realizza ma non determina. L’ educazione tra individualismo di ANTONIO FUNDARÒ L’autore individua tre tipi di sapere che poi non sono altro che la legge dei tre stadi di Comte, ma critica la teoria del sociologo francese, giacché “Scheler sottolinea l’importanza della legge dei tre stadi per una sociologia della conoscenza. Questa legge rivela il collegamento fra struttura sociale e sapere. Questo legame, scoperto da Comte, è frainteso dal pensatore francese, in quanto identifica la teoria della conoscenza con la statica e la dinamica sociale”. Secondo il sociologo francese, tutti e tre i saperi, teologico, metafisico e positivo sono la risposta allo stesso problema, quello della spiegazione dei fenomeni naturali, quindi la sua è una prospettiva evoluzionistica in cui le tre forme sono l’una esclusiva dell’altra. “Per Scheler, invece, le tre forme del sapere sono atteggiamenti dello spirito e forme conoscitive essenziali, perenni, che spontaneamente si danno insieme con l’essenza dello spirito umano. Pertanto, in ogni stadio dell’umanità questi tipi di sapere sono sempre compresenti, anche se nello stadio positivo la cultura scientifica è prevalente sulle altre due”. Mannheim viene definito con Max Scheler e Pitirim Sorokin il fondatore della sociologia della conoscenza, tuttavia è utile introdurre in questo paragrafo quelli che furono i precursori di tale scienza. Bacone nel “Novum Organum” sviluppa la dottrina degli idoli con lo scopo di arrivare alla conoscenza certa della natura; egli distingue quattro tipi di idoli, che consistono in quei pregiudizi che impediscono o sviano il discorso scientifico: gli idola tribus, gli idola specus, gli idola fori ed infine gli idola theatri. Guarnieri G. dà una spiegazione ai quattro tipi di idoli osservando che “Gli idola tribus sono concezioni che rispecchiano una tendenza umana a considerare le cose in modo soggettivo e non oggettivo; gli idola specus sorgono dove si spegne la luce naturale, sia per indole propria, sia per l’educazione ricevuta, per la lettura dei libri e per il richiamo all’autorità; gli idola fori dipendono dall’umana società e sono dovuti al cattivo uso del linguaggio; gli idola theatri riguardano tutte le filosofie trasmesse in qualità di drammi esposti e rappresentati come mondi immaginari e fantastici”. Bacone cerca di rendere le scienze autonome, e lo fa sostenendo che oggetto e metodo della filosofia sono diversi da quelli della teologia, in quanto lo scopo della filosofia è di esplicare la natura delle cose usando la ragione, mentre la teologia si rifà a Dio attraverso la fede, quindi egli vuole porre rimedio alla commistione tra teologia e filosofia, che chiama superstizione. La superstizione è posta al fianco degli idoli e, per dirla con Guarnieri, “La superstizione distrugge sia l’ordine soprannaturale sia l’ordine naturale affidando entrambe all’arbitrio umano. Gli idoli e la superstizione si fondono in un complesso di impulsi antirazionali, essenzialmente condizionati dall’interesse, che deforma la coscienza e la rivelazione cristiana”. Bacone elabora quindi una critica ad una classe, quella religiosa, con lo scopo ultimo di una critica allo Stato che metteva i propri poteri al servizio di tale classe sociale permeata dalla superstizione, intesa quest’ultima come deviazione dal dogma cristiano. Un altro precursore di tale disciplina che è doveroso citare è Adriano Helvetius. Questo filosofo studiò le idee che si formano in una situazione di condizionamento sociale subita dall’uomo, sostenendo però che la ragione può sottrarsi ad ogni tipo di influenza, essendo l’uomo un essere razionale. L’individuo cerca di celare attraverso ragionamenti pseudoscientifici la sua volontà di potenza con il solo scopo di mantenere il proprio potere, facendo quindi uso dell’ideologia per nascondere la vera natura della realtà. Per Helvetius presupposto della conoscenza è la libertà, o per meglio dire la libertà di pensiero, poiché solo attraverso il confronto si può giungere alla verità. Karl Marx fu quello che più di tutti contribuì alla nascita della sociologia della conoscenza; secondo il Nostro la genesi della coscienza ideologica la possiamo rintracciare nella divisione del lavoro. “La coscienza è il risultato di un prodotto sociale. La sua genesi si trova nella necessità degli uomini di rapportarsi con altri uomini”. Marx sostiene che la coscienza sostituisce le sue produzioni alla realtà, produzioni che consistono in condizioni nelle quali l’uomo produce e riproduce la propria vita. La conseguenza di questo stato di cose è la frattura tra coscienza ed essere che porta allo “sdoppiamento del mondo” ed alla creazione di Dio e lo spirito del mondo, che non sono altro che l’espressione dell’umana autoalienazione. Il risultato è che la conoscenza è ideologica, poiché esprime una realtà estraniata, e l’ideologia, secondo Marx, maschera la misera condizione dell’esistenza sociale dell’uomo. Per il Nostro la struttura economica produce la sovrastruttura ideologica, e in un contesto del genere l’uomo alienato concepisce religione e filosofia che sono manifestazioni dell’immaginazione umana e quindi inefficaci per cambiare il mondo. Secondo Morra “Da Marx la sociologia della conoscenza trae la tesi della determinazione sociale del pensiero, che viene criticamente limitata ad un condizionamento: la struttura sociale (non solo economica) condiziona, cioè spinge fortemente, gli appartenenti ad un certo ceto (non classe) sociale a sapere secondo certe modalità - ma ciò avviene secondo la legge del grande numero, non attraverso una necessaria ed inevitabile determinazione sociale”. Nonostante Marx abbia dato uno dei contributi maggiori è doveroso affermare che la sociologia della conoscenza si sforza di assumere del marxismo quello che è compatibile con una sociologia critica e scientifica, in quanto l’errore di Marx è stato quello di aver fatto del condizionamento sociale un presupposto necessario. Anche la tradizione della sociologia aristocratica ha dato il suo notevole apporto, soprattutto con il contributo di Nietzsche e Pareto, dove il primo parla di “Risentimento come causa scatenante della Sklavenmoral: cristianesimo, democrazia, socialismo, femminismo”, ed il secondo elabora i concetti di “Derivazioni come ideologie, ossia come giustificazioni pseudologiche dei residui irrazionali”. Oltre agli autori già citati ve ne sono altri che hanno contribuito a gettare le basi per una sociologia della conoscenza; Comte con la legge dei tre stadi convalida il carattere ideologico delle varie visioni della realtà e, secondo Morra,“Anche il contributo di Durkheim, quale precorritore della Wissenssoziologie, è stato veramente notevole”, in quanto Durkheim affermava che ogni sistema categoriale è condizionato sociologicamente. Infine, nell’ambito dello storicismo tedesco, che con diversi autori ha dato un grande apporto negli studi sull’ideologia e il condizionamento sociale del pensiero, ricordiamo in particolare Max Weber ed i suoi studi sul rapporto di interazione tra religione e struttura economica. 2. Dalla teoria dell’ideologia alla sociologia della conoscenza Mannheim prende le distanze dalla sociologia di Scheler sostenendo che la sociologia del sapere di quest’ultimo rimane condizionata dalla metafisica spiritualistica. Secondo Morra “Mannheim agisce, al contrario, dentro un totale storicismo: se si eccettuano le affermazioni delle scienze matematiche e naturali, tutto il resto è ideologia, ossia pensiero storicamente determinato (Seinsverbundenheit des Denkens). Ma tale pensiero impuro è di due tipi, a seconda che difenda gli interessi in atto della classe dominante (ideologia) o proponga un mutamento radicale a tutto vantaggio della classe dominata, per farla divenire a sua volta dominante (utopia)”. Mannheim fu dunque quello che diede la più importante definizione delle due fondamentali categorie della sociologia del sapere: ideologia ed utopia. Una volta specificati tali concetti sarà utile illustrare tutto il percorso teoretico elaborato dal Nostro che porta dalla teoria dell’ideologia alla sociologia della conoscenza, passaggio importante per arrivare a capire poi quale è per il suo pensiero il ruolo della Wissensoziologie nell’ambito delle scienze. Il termine Utopia fu coniato da Thomas Moore nella sua opera chiamata appunto “Utopia”, con il quale egli voleva indicare il progetto di uno Stato talmente perfetto da non esistere in nessun luogo. Conseguenza di ciò fu che la parola utopia fu usata per definire tutto ciò che è astratto e irrealizzabile. “L’utopia per Platone, Tommaso Moro, Tommaso Campanella, è un tipo-ideale di società, costruito dal filosofo, che serve come misura alle società reali che si devono conformare (più o meno) al modello. Per la sociologia della conoscenza, il concetto di utopia assume un significato completamente nuovo. Esso non designa più un tipo-ideale, astratto, di società irrealizzabile storicamente, ma un progetto non ancora realizzato, anche se fattibile, volto a creare una società radicalmente diversa dalla pre- sente”. Tale cambiamento di significato del termine Utopia è palese nelle argomentazioni di Mannheim, infatti anche Izzo nell’introduzione a “Ideologia e utopia” nota come per il sociologo ungherese “L’utopia è propria di quei gruppi che, trovandosi in una posizione subalterna, vedono solo quegli aspetti negativi della realtà in atto che reclamano un suo superamento”. Nel pensiero di Mannheim quindi il termine utopia assume un diverso significato: egli intende con ciò un’ideologia ancora tutta da realizzare tesa a rovesciare lo stato di cose esistente. Mannheim in “Ideologia e utopia” afferma che “Noi consideriamo come utopie tutte le idee (e non soltanto, quindi, la proiezione dei desideri) trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente”. Inoltre l’autore sostiene che, al pari delle ideologie,“Anche le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la condotta verso elementi che la realtà non contiene affatto. Ma esse non sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasformare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni”. Ciò che può apparire utopico o ideologico dipende dalle condizioni della realtà cui si applica tale modello. Per coloro che rappresentano l’ordine sociale ed intellettuale prevalente la vera realtà è rappresentata dalla struttura di relazioni di cui essi sono i sostenitori, mentre saranno viste come utopiche tutte le concezioni della realtà che, secondo loro, non potranno mai essere attuate. In conformità a questa prospettiva “Con il termine moderno di utopia s’intende generalmente un’idea che è irrealizzabile in via di principio”. Coloro che sono a favore dell’ordine sociale predominante hanno un’ampia ed indifferenziata concezione dell’utopia che li porta a confondere ciò che è inattuabile in senso assoluto da ciò che è inattuabile in senso relativo; ne consegue chiaramente che da una tale posizione è impossibile trascendere i limiti dello status quo. “La riluttanza a superare i limiti dello status quo porta a ritenere ciò che è irrealizzabile in un determinato assetto sociale come del tutto inattuabile in qualunque altro ordine, così che, venendo meno queste distinzioni, si passa a negare la validità delle istanze contenute nell’utopia cosiddetta relativa. Denominando utopistica ogni idea che oltrepassi la realtà presente, si tende pertanto ad eliminare il senso di incertezza che potrebbe insorgere dalle utopie relative, realizzabili in un diverso ordine sociale”. Per Mannheim, in opposizione all’idea conservatrice di un ordine stabilito, bisogna concepire la realtà come una delle possibili “Topie”, poiché il concetto di utopia prende coscienza del carattere dinamico della realtà, “In quanto non assume come punto di partenza l’esistenza come tale, ma piuttosto quel reale storicamente e socialmente determinato che è in un continuo processo di trasformazione”; lo scopo è di tenere distinti il concetto relativo e quello assoluto di utopia per arrivare a mettere in risalto ciò che congiunge lo sviluppo dell’utopia con il divenire di una realtà storica. Quindi il rapporto tra l’ordine esistente e l’utopia può essere letto come dialettico, in quanto “Ogni epoca produce (nei gruppi sociali diversamente situati) quelle idee e quei valori in cui si condensano, per così dire, le tendenze, non ancora realizzate e soddisfatte, che rappresentano i bisogni di ciascuna età… La realtà presente dà origine alle utopie che, alla loro volta, ne rompono i confini per lasciarla quindi libera di svilupparsi nella direzione dell’ordine successivo”, quindi, per dirla con Guarnieri “Per Mannheim, l’utopia è una verità prematura e rivoluzionaria, in contrasto con la realtà esistente”. Diviene chiaro che per Mannheim l’utopia realizzata elevi al ruolo dominante la classe che ne è portatrice, cioè quella inferiore, e diventi essa stessa ideologia. Per Morra “La differenza tra ideologia e utopia non è essenziale, ma storica. L’ideologia è conservatrice, l’utopia è rivoluzionaria; ma, quando la rivoluzione è compiuta, l’utopia diventa ideologia (difesa della tradizione rivoluzionaria, come diranno i leninisti pervenuti al potere: la rivoluzione, che ha distrutto ogni tradizione, diventa essa stessa tradizione da difendere!): il Non-ancora da realizzare diventa il Già da difendere”. Il termine ideologia è stato coniato da Destutt de Tracy e con esso si voleva indicare lo studio scientifico delle idee che doveva costituire il fondamento di tutte le scienze, quindi ideologia intesa come scienza che studia la formazione delle idee.