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p.
CAPITOLO OTTAVO
S.
LE RELAZIONI VERTICALI FRA IMPRESE
br
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Sommario: 1. Relazioni verticali e integrazione: il problema della doppia marginalizzazione. - 2. Gli effetti delle restrizioni verticali sul benessere sociale e le politiche
antitrust.
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1. RELAZIONI VERTICALI E INTEGRAZIONE: IL PROBLEMA
DELLA DOPPIA MARGINALIZZAZIONE
C
op
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Es
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Quasi tutti i processi produttivi sono caratterizzati da una serie di stadi
successivi di produzione e di distribuzione attraverso i quali le materie prime iniziali vengono gradualmente trasformate nel prodotto finito da vendere al consumatore finale.
Per vendere capi di abbigliamento in lana, ad esempio, occorre acquistare la lana, lavorarla opportunamente, confezionare il capo e, infine, distribuirlo a uno o a più rivenditori al dettaglio. In questo semplice caso, dunque, il processo complessivo è composto da almeno tre stadi di produzione
e da uno stadio distributivo (o commerciale).
Un’azienda che vuol operare in questo settore può decidere di partecipare a uno solo di questi stadi o, al contrario, può realizzare al proprio interno l’intero processo produttivo. Nel primo caso diremo che l’impresa non è
integrata, mentre nel secondo caso parleremo di impresa integrata verticalmente. Fra queste due situazioni opposte, esiste una serie di possibilità
intermedie in cui l’impresa partecipa a due o più stadi consecutivi del processo, nel qual caso parleremo di integrazione parziale.
In assenza totale di integrazione, ciascuna fase del processo produttivo è
svolta da un’impresa diversa; l’impresa A produce la lana e la vende all’impresa B che si occuperà di lavorarla e poi la venderà a sua volta all’impresa
C, e così via sino alla vendita al consumatore finale. L’impresa che vende è
detta impresa a monte, l’impresa che acquista impresa a valle.
I rapporti tra imprese che realizzano stadi successivi di tale processo
(cioè, tra impresa a monte e impresa a valle) sono detti relazioni verticali e
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Capitolo Ottavo
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Es
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consistono, normalmente, nella fissazione di un prezzo di vendita all’ingrosso w.
In alcuni casi, tuttavia, l’impresa a monte potrebbe decidere di regolare
i suoi rapporti con l’impresa a valle tramite contratti più complessi che vincolino in qualche modo le scelte di quest’ultima relative al prezzo o al campo d’azione. Si parla, in tal caso, di restrizioni verticali.
In caso di integrazione totale, invece, una sola impresa realizza al proprio interno tutti gli stadi del processo produttivo, dall’acquisizione delle
materie prime sino alla vendita al consumatore finale, senza dover effettuare alcuna transazione con altre imprese (non esistono, cioè, relazioni verticali).
L’assenza di relazioni con altre imprese può influire positivamente sulla
performance dell’impresa integrata perché le permette di controllare direttamente le variabili da cui dipende il livello della domanda (prezzo, pubblicità, qualità del prodotto e dei servizi di vendita ecc.).
In assenza di integrazione, invece, le vendite dell’impresa C (cfr. fig. 1)
non dipendono solo dal prezzo che essa fissa ma anche dal prezzo fissato
dall’impresa D, dalla pubblicità che essa effettua, dalla qualità del servizio
di vendita e, in generale, da tutta una serie di variabili che sfuggono al controllo diretto dell’impresa C.
La scelta fra integrazione e separazione dipende da una pluralità di fattori e, in particolare, dal grado di concorrenza che ciascuna impresa si trova
a dover affrontare nel proprio specifico settore di riferimento (cioè, nello
stadio in cui opera).
C
op
yr
ig
A) Monopolio a monte e a valle
Per semplicità, consideriamo il caso di un produttore (impresa A) che
vende a un dettagliante (impresa B), nell’ipotesi che entrambe le imprese
siano monopoliste nel loro rispettivo mercato di riferimento.
In una situazione del genere, l’impresa A deve scegliere se limitarsi a
realizzare la fase produttiva e vendere poi il prodotto al dettagliante oppure
integrarsi con lui (ad esempio, acquisendolo) e relazionarsi direttamente
con il consumatore finale.
Supponiamo che:
— w sia il prezzo di vendita all’ingrosso, cioè il prezzo che l’impresa A
pratica nei confronti dell’impresa B;
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Le relazioni verticali fra imprese
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Es
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— p sia il prezzo di vendita al dettaglio, cioè il prezzo che l’impresa B
pratica nei confronti del consumatore finale;
— c sia il costo marginale sostenuto dall’impresa A;
— Q = Q(p) sia la domanda finale, funzione del prezzo al dettaglio p;
— l’unico tipo di contratto possibile tra l’impresa A e l’impresa B consista
nella fissazione del prezzo all’ingrosso w;
— il dettagliante non debba sostenere altri costi all’infuori del prezzo all’ingrosso w che paga al produttore (w rappresenta, cioè, il costo marginale dell’impresa B).
Consideriamo inizialmente il caso in cui le due imprese sono integrate e
operano sul mercato come se fossero un’unica grande impresa composta da
un reparto di produzione e da un reparto commerciale.
In questo caso, trattandosi della stessa impresa, il reparto produttivo cederà ogni capo confezionato al reparto commerciale a un prezzo equivalente al suo costo di produzione, senza applicare alcun mark-up. Questo prezzo
è detto prezzo di trasferimento ed evidenzia il fatto che l’impresa integrata
si pone l’obiettivo di massimizzare il profitto complessivo e non quello di
ogni singolo reparto, per cui il reparto produttivo accetterà di lavorare senza
profitti, cioè di trasferire i capi confezionati al reparto di vendita a un prezzo pari al loro costo marginale di produzione.
Avremo, cioè, che:
w=c
Il reparto commerciale, invece, venderà il prodotto al consumatore finale applicando al costo marginale c quel mark-up che consente all’impresa
integrata di massimizzare il proprio profitto.
In sostanza, si tratta semplicemente di risolvere un problema di massimizzazione del profitto per un monopolista (cfr. Cap. 3 par. 2):
yr
Πm = pQ − cQ = ( p − c ) Q
profitto dell’impresa integrata
C
op
L’impresa integrata, dunque, fisserà quel prezzo di vendita Pm in corrispondenza del quale i ricavi marginali eguagliano i costi marginali, ottenendo un profitto massimo Πm pari all’area ombreggiata.
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Pm
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Πm
c
MC
0
Qm
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MR
Q
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Fig. 1 - Massimizzazione del profitto per l’impresa integrata
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Nel caso in cui le due imprese operano separatamente, invece, ciascuna
impresa cercherà ovviamente di massimizzare il proprio profitto. Ciò significa che:
— l’impresa A venderà i capi confezionati all’impresa B applicando al costo
marginale c un mark-up tale da massimizzare il proprio profitto. Come nel
caso precedente (cfr. fig. 1), il prezzo all’ingrosso che le consente di realizzare tale obiettivo è quello corrispondente all’intersezione fra la curva
del ricavo marginale e la curva del costo marginale, cioè Pm. Pertanto:
Pm = w > c
ig
Πa = wQ − cQ = ( w − c ) Q
profitto impresa A
op
yr
— l’impresa B, a sua volta, massimizzerà il proprio profitto applicando al
suo costo marginale ( Pm = w > c ) un ulteriore mark-up. Il prezzo finale
p che le consente di massimizzare il profitto è quello corrispondente
all’intersezione fra la curva del ricavo marginale e la sua curva del costo
marginale (in questo caso pari a Pm = w), per cui:
C
p > Pm = w > c
Πb = pQ – wQ = ( p – w ) Q
profitto impresa B
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Le relazioni verticali fra imprese
p.
P
Πb
MCb
Pm = w
mark-up
del produttore
S.
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mark-up
del rivenditore
c
q
Qm
se
0
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MR
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Πa
MCa
D
Q
Fig. 2 - Il problema della doppia marginalizzazione
C
op
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Es
Come risulta evidente dalla fig. 2, il prezzo di vendita del prodotto al
consumatore finale è certamente più elevato rispetto al caso di integrazione
fra le due imprese ( p > Pm ) , in quanto al costo marginale di produzione, c,
vengono stavolta aggiunti due mark-up (uno dal produttore e uno dal rivenditore) anziché uno solo.
Ne deriva che la quantità prodotta è inferiore ( q < Qm ) così come è
inferiore il profitto totale conseguito dalle due imprese ( Πa + Πb < Πm ) e il
benessere dei consumatori (poiché il prezzo è più elevato). In sintesi, sia i
produttori che i consumatori si trovano in una situazione peggiore.
Questo problema, noto in economia industriale come problema della
doppia marginalizzazione, si verifica tutte le volte in cui nel processo produttivo ci sono due monopolisti che operano in due stadi successivi del processo stesso.
In questi casi, l’integrazione fra le due imprese sembrerebbe la soluzione ottimale sia per i produttori che per i consumatori.
Tuttavia, eliminando una delle ipotesi su cui si è basato sin qui il nostro
ragionamento (quella secondo cui il rapporto tra impresa a monte e impresa
a valle è regolato solo dal prezzo all’ingrosso), è possibile giungere a una
diversa conclusione; supponiamo, ad esempio, che le due imprese stipulino
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Capitolo Ottavo
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un contratto il cui oggetto non sia la semplice fissazione del prezzo all’ingrosso w e che, in particolare, l’impresa A possa imporre all’impresa B il
pagamento di una somma f quale pre-condizione per poter lavorare con lei.
Ciò significa che l’impresa B, per ottenere i capi confezionati dall’impresa
A, dovrà pagare una quota fissa f, detta tassa di franchising, e un prezzo
unitario all’ingrosso pari a w.
Si tratta, a ben vedere, di un’applicazione concreta di una tariffa a due
stadi (cfr. Cap. 6 par. 4), in cui la presenza di una quota fissa fa sì che il
prezzo unitario diminuisca al crescere delle unità acquistate (si parla, infatti, di prezzo non lineare o di contratto non lineare).
La soluzione ottimale consiste nel fissare una quota fissa pari al profitto
di monopolio Πm (cioè, pari al profitto ottenibile in caso di integrazione
verticale) e un prezzo unitario all’ingrosso pari al costo marginale c:
se
f = Πm = ( p − c ) Q
w=c
C
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Es
In questo modo si elimina il problema della doppia marginalizzazione,
in quanto l’impresa A non applica alcun mark-up ai suoi costi marginali.
Si ripropone, quindi, una situazione simile a quella che abbiamo esaminato nel caso di integrazione verticale, in cui il reparto di produzione cede i
capi confezionati a un prezzo uguale al loro costo marginale, rinunciando a
ottenere profitti dalla cessione dei singoli prodotti. Di conseguenza, l’impresa B, sostenendo un costo marginale w identico al costo marginale c
sostenuto dall’impresa A, fisserà il prezzo finale al livello ottimale, cioè al
prezzo Pm che sarebbe stato fissato dall’impresa integrata.
La differenza fondamentale sta nel fatto che questa volta l’impresa A assorbe l’intero profitto di monopolio Πm attraverso la tassa di franchising f.
Ciò significa che, se le due imprese possono stipulare contratti non
lineari che prevedano l’adozione di una tariffa a due stadi, la soluzione
ottimale per l’impresa a monte può consistere anche nel rimanere separata dall’impresa a valle, a condizione di fissare una tassa di franchising pari al profitto di monopolio e un prezzo all’ingrosso pari ai costi
marginali. In tal caso, l’integrazione verticale non è più strettamente
necessaria.
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p.
Che cos’è un contratto di franchising?
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Le relazioni verticali fra imprese
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E’il contratto tra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in
base al quale una parte (l’affiliante) concede all’altra (l’affiliato) la disponibilità di un insieme
di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali,
insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi. Tale
contratto può essere utilizzato in ogni settore di attività economica. Sotto il profilo economico,
l’affiliato versa all’affiliante una cifra fissa (diritto d’ingresso) al momento della stipula del
contratto e si impegna a versare in seguito una quota variabile (royalties) commisurata al giro
d’affari sviluppato.
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B) Monopolio a monte e duopolio a valle
La presenza di due (o più) rivenditori in competizione fra loro modifica
radicalmente le conclusioni a cui siamo appena giunti.
In questo caso, infatti, la fissazione da parte dell’impresa A di un prezzo
all’ingrosso pari ai costi marginali (w = c) non è di per sé sufficiente a
indurre i due rivenditori a fissare un prezzo di vendita equivalente al prezzo
di monopolio P m, in quanto ciascuno dei due sarebbe indotto a ridurre anche
di poco il prezzo al fine di acquisire l’intera domanda finale. Si verrebbe,
dunque, a creare la situazione prevista dal paradosso di Bertrand, in cui le
due imprese scatenano una guerra di prezzo che le porterà a fissare un prezzo pari ai costi marginali (p = w = c) e ad azzerare i propri profitti. Essendo
nulli i profitti delle due imprese a valle, l’impresa a monte non potrà fissare
alcuna tassa di franchising, per cui anche i suoi profitti (che dipendono
esclusivamente dall’ammontare di questa tassa) saranno pari a zero.
In una situazione del genere, è interesse dell’impresa a monte limitare la
competizione di prezzo fra i rivenditori, ad esempio fissando un prezzo di
vendita all’ingrosso pari al prezzo di monopolio (w = Pm). In questo modo,
infatti, i rivenditori non avrebbero alcun margine per ridurre il prezzo e sarebbero costretti a mantenere un prezzo di vendita finale pari a P m (cioè al loro
costo marginale), in quanto qualsiasi riduzione li costringerebbe a subire delle perdite. L’intero profitto di monopolio verrebbe, dunque, assorbito dall’impresa a monte, senza che sia necessario fissare una tassa di franchising:
f=0
p = w = Pm
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Tuttavia, come ormai sappiamo bene, il caso in cui le due imprese competono alla Bertrand è un caso limite raramente riscontrabile nella realtà.
Nella maggior parte dei casi, esse cercano di evitare una guerra di prezzo spostando la competizione su altri elementi (ad esempio, differenziandosi dal concorrente attraverso una migliore qualità del servizio di vendita) o
cercando di giungere ad accordi collusivi.
Fra la collusione perfetta (competizione minima) e il comportamento
alla Bertrand (competizione massima) esiste, quindi, una serie di situazioni
intermedie in cui le imprese a valle competono più o meno duramente. In
questi casi, l’impresa a monte può conseguire il profitto di monopolio anche fissando un prezzo all’ingrosso inferiore a Pm.
In generale, quanto maggiore è il grado di competizione fra i rivenditori, tanto maggiore sarà il prezzo all’ingrosso ottimale che il produttore dovrà fissare per ottenere il profitto di monopolio Pm. Nel caso limite di competizione alla Bertrand tale prezzo dovrà essere pari al prezzo di
monopolio Pm , mentre nei casi intermedi sarà compreso tra c e Pm .
Come accennato in precedenza, per i rivenditori la qualità del servizio di
vendita rappresenta la via privilegiata per differenziarsi dai concorrenti e
allentare la competizione sul prezzo. Si tratta, tuttavia, di una strada difficile da percorrere.
Supponiamo, ad esempio, che vi siano due rivenditori al dettaglio (B1 e
B 2) dei capi di abbigliamento confezionati dall’impresa A; il rivenditore B1
pratica prezzi più elevati ma investe in attività promozionali e fornisce alla
clientela un servizio di vendita estremamente cortese e competente, mentre
il rivenditore B2 pratica prezzi più bassi e dispone di un personale poco
preparato.
In una situazione di questo tipo, può accadere che i consumatori più
sensibili al prezzo si rechino prima da B1 al fine di acquisire tutte le informazioni sui prodotti disponibili e poi da B 2 per acquistare il prodotto preferito al prezzo più basso.
In questo modo, il rivenditore B 2 (che non investe nulla per promuovere
il prodotto e per assumere personale qualificato) viene indebitamente avvantaggiato dagli investimenti promozionali effettuati dal suo concorrente
(si comporta, cioè, da free rider sfruttando una esternalità positiva). Poiché è del tutto evidente che il rivenditore B1 non sarà contento di lavorare e
spendere per il concorrente, anch’egli ridurrà l’entità dei propri investimenti promozionali fino a portarli al livello del rivenditore B2.
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Le relazioni verticali fra imprese
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Esiste, cioè, una tendenza al livellamento in basso della qualità del servizio di vendita che, in ultima analisi, danneggia il produttore (oltre che il
consumatore), soprattutto nei casi in cui la domanda finale è strettamente
connessa alla qualità di tale servizio (come per i prodotti ad alta tecnologia
quali computer, prodotti hi-fi, automobili ecc.).
Una possibile soluzione al problema consiste nell’imporre ai rivenditori
un prezzo minimo di vendita sufficientemente alto, tale da indurre entrambi i rivenditori ad adeguarsi a esso (un prezzo ancora più alto, infatti, sarebbe decisamente fuori mercato e tutti i consumatori si rivolgerebbero all’impresa più economica). In tal modo, B1 e B2 praticherebbero lo stesso prezzo
e nessun consumatore avrebbe più convenienza a rivolgersi al rivenditore
che offre il peggior servizio di vendita, cioè a B2.
L’imposizione di un prezzo minimo permette, quindi, a B1 di appropriarsi di tutto il beneficio legato all’avere assunto personale qualificato e,
nello stesso tempo, stimola B2 a migliorare la qualità del suo servizio di
vendita per non soccombere davanti al concorrente.
Bloccando la competizione sul prezzo, si crea una tendenza al livellamento in alto delle attività promozionali che fa crescere la domanda
dei consumatori e i profitti del produttore.
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C) Concorrenza a monte e oligopolio a valle
Abbiamo appena visto che i rapporti tra imprese a monte e imprese a
valle possono essere regolati da contratti che prevedano non solo la fissazione di un determinato prezzo di vendita all’ingrosso ma anche ulteriori
clausole restrittive (restrizioni verticali) volte a vincolare in qualche modo
le scelte dell’una o dell’altra impresa.
Normalmente, l’impresa che impone (subisce) una clausola restrittiva è
quella che detiene il maggior (minor) potere di mercato.
Se esiste un unico produttore di capi di abbigliamento e una pluralità di
rivenditori in competizione fra loro, è evidente che il primo godrà di un
maggiore potere di mercato e potrà imporre alle imprese a valle alcune restrizioni.
Nel caso in cui, invece, vi sono molti produttori e pochi rivenditori, la
situazione è completamente ribaltata e saranno presumibilmente i rivenditori a imporre clausole restrittive alle imprese a monte.