In tutte le edicole e anche via internet www.lavocedellisola.it Informazioni: [email protected] Lettere: [email protected] GIORNALE SICILIANO DI POLITICA, CULTURA, ECONOMIA, TURISMO, SPETTACOLO ANNO SECONDO Nº 4 • 17 FEBBRAIO ~ 2 MARZO 2007 • b 1,50 DIRETTORE RESPONSABILE SALVO BARBAGALLO Con il patrocinio Regione Siciliana Assessorato Turismo, Comunicazioni e Trasporti Dipartimento Turismo, Sport e Spettacolo Che la tragica fine dell’ispettore di Polizia Filippo Raciti possa contribuire a cambiare le cose Catania non dimenticare! La violenza non riuscirà a battere la ragione e la coscienza della vita di SALVO BARBAGALLO D opo il grande choc, dopo le polemiche, sembra essere caduto il silenzio sui tragici fatti che hanno portato alla morte l’ispettore capo della Polizia Filippo Raciti. Altre notizie, più gravi o meno gravi, riempiono i quotidiani e i notiziari televisivi. È la dura legge del mondo dell’informazione: quel che è accaduto appartiene al passato, il presente ha più voce, soprattutto quando si presentano altri fatti che possono scuotere nuovamente l’opinione pubblica. L’attenzione viene indirizzata su tutto ciò che di violento accade, a casa nostra come in tutto l’universo conosciuto. La violenza che fa paura, che atterrisce, che si vuol cancellare dalla mente subito dopo averla conosciuta. Si dimentica perchè si “vuole” dimenticare, come un modo di esorcizzare il male che c’è e che si vorrebbe disconoscere. Catania non può e non deve dimenticare la tragica sera di venerdì 2 febbraio, sia che ci sia già un volto o un nome del colpevole, o che sia ancora tutto da dimostrare e da scoprire eventuali verità nascoste. Se è difficile comprendere quale folle istinto possa spingere la gioventù alla violenza, dovremmo saperci spiegare cosa è che spinge alla violenza anche gli adulti, che dovrebbero avere più consapevolezza del valore di una vita. Cerchiamo giustificazioni perché non siamo in grado di penetrare, e capire, le insoddisfazione della gioventù di oggi, ma abbiamo messo in archivio le insoddisfazioni che hanno animato le generazioni che etichettavano la violenza come moto politico e di classe. Siamo inclini alla retorica e ci laviamo le mani con uno pseudo senso della solidarietà verso chi paga con il dolore una perdita irreparabile. Ci inventiamo giustificazioni per dare delle giustificazioni ad azioni che non possono essere giustificate in alcun modo. I fatti accaduti poche settimane addietro hanno scosso Catania: questa è una circostanza innegabile, e pur tuttavia già a poche ore dalla tragedia consumata davanti allo stadio, le polemiche si sono accese: prima sul proseguimento della Festa della Patrona della città, Sant’Agata, poi sul perché e il per come il Pontefice non avesse ricordato il povero Raciti, vittima “sacrificata” in nome di un sport che di vero sport non ha più nulla, poi ancora con il gioco delle responsabilità, se si poteva (oppure no) evitare quanto accaduto. Ma chi ha fatto rimarcare nel modo dovuto che già all’indomani della “battaglia” lo stesso selciato insanguinato di Piazza Spedini era occupato dalle bancarelle del mercatino rionale, cancellando ogni possibile traccia che potesse essere utile alle indagini? Tutto il mondo è rimasto attonito, a guardare in diretta televisiva, gli scontri, i poliziotti accerchiati, le autoambulanze che a stento riuscivano a muoversi fra la massa degli esagitati. Tutto per una partita di pallone? No, di certo: questa è stata una occasione, come i violenti potevano trovarne un’altra. Non cambierà nulla e l’esempio del “dovere” mostrato da Filippo Raciti sarà raccolto solo dai suoi colleghi, mentre il “testimone” resterà alla famiglia, alla moglie di un poliziotto che ha mostrato a tutti cosa significhi la dignità, ai due figli che hanno saputo tenere per loro il dolore di una perdita che nessuna beneficenza riuscirà a colmare. Non si dovrebbe scrivere nulla su episodi simili: si dovrebbe avere il coraggio di starsene zitti, di non esprimere sentimenti ed emotività che facilmente possono essere strumentalizzati. Bisogna avere la forza di guardare in faccia la realtà e volere agire, se si vuole veramente che le cose cambino. Catania non deve dimenticare ciò che è accaduto: deve avere la capacità di riconoscere gli errori, deve riappropriarsi dei quartieri dimenticati, deve dare punti di riferimento credibili ad una gioventù che è stata costretta a trovare nel branco la ragione di esprimere tutto il risentimento che ha verso una società che li emargina, che li respinge. Perché contro i poliziotti esplode l’odio più sfrenato? Forse perché rappresentano le istituzioni che non si possono colpire. Se questa tragedia può insegnare qualcosa, che almeno si pensi a costruire una prospettiva per questi giovani che, con facilità, possono trasformarsi in assassini. Oggi è stato ucciso un poliziotto, domani potrebbe accadere di peggio. Con il coraggio e la consapevolezza delle individuali responsabilità Occorre ricostruire l’equilibrio infranto tro ignoti, compendiati sempre dalla solita esclamazione: “Ora Basta!” L’attuale ministro dell’Interno, persona decisare 12, lunedì 5 febbraio 2007,Catania piazmente corretta, grida anche lui “Ora Basta!” Ma za Duomo,i cittadini che non sono riusciti caro sig.ministro, applaudiamo con sincera partead entrare in chiesa, aspettano l’inizio cipazione il discorso da Lei fatto in Parlamento in della cerimonia religiosa funebre in memoria del occasione della relazione sui fatti di Catania del poliziotto Raciti e di commemorazione in onore di venerdi 2 febbraio 2007, ma si rende conto di S.Agata.Tutta Italia, e sicuramente altri parti quante difficoltà, prima i suoi d’Europa e del mondo, seguopredecessori ed ora Lei, sarà no in diretta televisiva l’evencostretto ad affrontare con un to. sistema dove il permissivismo, I due Stati dell’Italia che il lassismo, il consociativismo conosciamo sono presenti: lo (e tanto altro) fanno da corolStato del Vaticano, quindi lario ad un pianeta a se stanreligioso ed ecclesiastico, per te, dove i miliardari interessi celebrare di diritto il rito, e lo ruotano attorno ad un palloStato Italiano, rappresentato ne? Nessuno si tiri indietro dal Governo e dall’opposiziodavanti alle piccole e grandi ne per rendere l’estremo saluresponsabilià! to ed omaggio all’eroe di Si parla di cultura sociale: turno:Filippo Raciti. cosa si è fatto per educare il Il Santo Padre invia un popolo? Si parla di giovani messaggio di pace e di cordoincontrollati ed incontrollabiglio, il Presidente della li: cosa si è fatto, a partire Repubblica, tramite il Capo dalla Famiglia, per renderli della Polizia, invia messaggi più partecipi e più responsadi cordoglio, solidarietà e di bili? Si parla di ordine sociastimolo alle forze politiche le e morale: cosa si è fatto per affinché si ponga rimedio una far rispettare le regole, le volta e per tutte a questi delitgerarchie, la disciplina, per tuosi eventi; assenti il Capo dare il senzo delle istituzioni? del Governo e dell’opposizioI problemi vengono da lonne forse impegnatissimi l’uno tano e, nello stato attuale a tenere in piedi un Esecutivo delle cose, tra patteggiamenti ”scollegato” (politica estera, ed impunità, si ha la licenza pacs, ecc.), e l’altro a ricucidi uccidere ed inneggiare alla re, con tanta pubblicità da tragica morte di un poliziotto entrambi le parti, un apparencome un evento positivo e da te dissidio familiare, oltre che ripetere (Ma questa non è tenere continuamente aggiorforse apologia di reato?). nati i sondaggi di gradimento Chi si rende parte attiva di e d’opinione. Nelle foto: la guerriglia allo stadio di Cibali di venerdì 2 febbraio 2007 azioni nefaste, purtroppo semFeroci scontri politici, pre più giovani, privi di veri all’ultima parola, dove tutti Andando indietro nel tempo, la nostra storia è ideali politici, altro non fanno che mettere in hanno ragione, mentre nella piazza si consumano i veri scontri, corpo a corpo, e dove l’ultimo eroe piena di delitti di varia natura (la cui origine è ginocchio il Paese, ponendo l’uno contro l’altro, (speriamo sia veramente l’ultimo) Filippo Raciti, sempre e solo potere e delinquenza): mafia, terro- alimentando contrastanti correnti di pensiero ispettore capo della Polizia di Stato, cade stoica- rismo, estremismi politici, odio contro il sistema, (innocentismo, colpevolismo). A questo punto, l’unica prospettiva è quella di mente sotto i colpi inferti da delinquenti. La Sua anarchia e tanto altro ed in ogni occasione, lutti unica vera colpa è quella di indossare una divisa cittadini, funerali di Stato ed anatemi lanciati con- ricostruire l’equilibrio infranto. di FRANCO LOMBARDO O da sbirro, difendere lo Stato di diritto in nome e per conto di una democrazia e di una libertà scritta e mai realmente sancita con fatti concreti, duri esempi di repressione (non pena di morte) e con una giustizia che metta finalmente, senza troppi garantismi, un punto fermo nella risoluzione dell’atavico problema della violenza negli stadi e non solo. LA VOCE DELL’ISOLA 2 17 febbraio 2007 CATANIA NON DIMENTICARE! Una storia che pagheremo a lungo Tutti i catanesi sono arrossiti di vergogna Perché i giovani trovano appassionante la caccia al poliziotto? di FRANCO ALTAMORE Q uesta storia ce la faranno pagare per molto tempo. Le immagini degli scontri del Cibali hanno fatto immediatamente il giro del mondo, facendo arrossire di vergogna tutti i catanesi e milioni di italiani. Il governo italiano e insieme ad esso tutti i dirigenti politici nazionali hanno preso le distanze, mostrato ripetutamente alle televisione volti commossi, puntato il dito contro i tifosi ultras e promesso misure drastiche. Tutte le partite di calcio sono state sospese. Anche la festa di S. Agata è come fosse stata sospesa, a tal punto è stata ridimensionata. Il Pontefice, per non aver menzionato all’Angelus i fatti di Catania, è stato redarguito direttamente in tv da Pippo Baudo. La messa funebre è stata tenuta nel Duomo di Catania lo stesso giorno della festa di S. Agata e i volti dolenti della vedova e della figlia dell’ispettore Raciti sono apparsi in tutte le televisioni, come ai funerali delle vittime della strage di Capaci. Sommersi da un immane angoscia siamo ora alla ricerca del capro espiatorio che rimuoverà i sensi di colpa e consentirà ai più di riprendere la vita normale. Con la vita normale tornerà anche l’abituale e generale indifferenza nei confronti sia delle vittime sia delle cause che hanno generato la teppaglia organizzata contro i poliziotti. Presto il bravo ispettore Raciti sarà dimenticato dai più e pochi si chiederanno come sia potuto accadere quello che Venerdì due febbraio 2007 è accaduto al Cibali di Catania. Vedremo prevalere e stabilizzarsi il giudizio, sbrigativo e stolto, della colpa dei tifosi catanesi e della responsabilità dell’intera cittadinanza. La pagheremo per molto tempo dunque. La sovraesposizione dei professionisti dell’antimafia degli anni Novanta non ha giovato alla Sicilia, anzi ha fatto un danno che si è aggiunto a quello della stessa mafia, diffondendo in tutto il mondo l’immagine falsa e volgarmente stereotipata del siciliano uguale mafioso. Anche questo troppo catoneggiare sui fatti del Cibali finirà per aggiungere male al male. I tifosi del Catania sono tutti indistintamente sconvolti per l’accaduto; essi sono anche devoti di S. Agata e si sono divisi sulla opportunità o meno di celebrare i funerali in Cattedrale, pro- Nelle foto in alto: piazza Duomo dopo i funerali di Filippo Raciti. Al centro: la manifestazione dei sindacati di Polizia tenuta domenica 11 febbraio. Sotto: la vedova di Raciti Marisa Grasso tra il Questore Michele Capomacchia e Pietro Gambuzza dirigente del X reparto mobile prio nel giorno della festa. Quelli a favore hanno voluto testimoniare così il loro cordoglio, i contrari hanno fatto presente che in quel modo si faceva apparire una colpa collettiva che non c’era. “C’è stata una prova di forza fra la Curia e la Questura – sussurra uno dei leader dei tifosi -...alla fine la Questura l’ha avuta vinta... la tifoseria del Catania si è spaccata esattamente a metà fra favorevoli e contrari...”. Sono prevalse sin ora le emozioni. I rappresentanti del governo e del parlamento, gli esponenti della cultura, dello sport e dello spettacolo tardano a trovare la lucidità necessaria per approfondire il problema e trovare soluzioni razionali. Quando sarà possibile ragionare più serenamente, dovremo chiederci come mai tanti giovanissimi catanesi trovano talmente appassionante la caccia al poliziotto, da organizzare parallelamente alle partite di calcio gli assalti alle forze dell’ordine. Dovremo finalmente dare una risposta al perché a Catania il tasso di criminalità minorile è così eccezionalmente alto. Dovremo dare una spiegazione del perché nel West Side della Città, nel Villaggio S. Agata, a Monte Po e Librino migliaia di cittadini senza occupa- zione ogni mattina si svegliano col pensiero di dover trovare il denaro per il mangiare ed alla fine in qualche modo il denaro si trova anche per la ricarica del cellulare. È ancora viva la memoria di quando la magistratura promosse le inchieste contro i Cavalieri del lavoro di Catania, concluse con la distruzione totale delle grandi imprese catanesi. In un lampo furono azzerati, oltre al settore portante dell’economia catanese, anche ventimila posti di lavoro e nessuno levò la voce per denunciare che almeno centomila catanesi si trovarono di colpo sul lastrico. Si sentirono allora soltanto le grida inneggianti ad una legalità meramente giudiziaria, indifferente nei confronti dello sviluppo della città e gelida verso il dramma dei lavoratori licenziati e delle loro famiglie. I minorenni che si organizzano in squadre e assaltano i poliziotti davanti allo stadio provengono quasi esclusivamente dalle famiglie del West Side catanese e lo Stato viene da loro percepito come una entità lontana, indifferente e persino nemica. Sono spinti dagli stessi sentimenti di rancore dei loro coetanei delle banlieu parigine, ma la loro guerra contro i rappresentanti dello Stato, l’uccisione di un poliziotto e l’emotività generale che ne è scaturita fanno pensare che, come dall’undici settembre 2001 per New York, dal 2 febbraio 2007 per Catania nulla potrà essere come prima. LA VOCE DELL’ISOLA 3 17 febbraio 2007 CATANIA NON DIMENTICARE! All’improvviso, un blocco al cuore... Che nessun’altra famiglia provi questo dolore Quanto accaduto costituisca un monito per tutti i giovani sbandati La dignità del dovere Le ultime parole di Filippo Raciti: “Non è grave, non preoccuparti, ma portami in ospedale che non mi sento tanto bene”. di DARIO LIETO E ra un poliziotto gentiluomo, la sua professione la intendeva come una missione. Questo era Filippo Raciti, L’ispettore capo della Polizia di Stato in servizio presso il decimo Reparto Mobile di Catania, morto tragicamente durante gli scontri del derby (prodotto da quello che ancora continuiamo a chiamare “sport”) tra gli etnei e il Palermo. Era impegnato nel sociale ed accompagnava la moglie Marisa alla Croce Rossa di Acireale, dove era residente, per fare il volontariato. Faceva parte di una famiglia modello, in cui i figli, Alessio e Fabiana, avevano imparato a rispettare il prossimo. Dal punto di vista professionale, aveva ricevuto importanti riconoscimenti: era Cavaliere dell’Ordine al Merito di Savoia e Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon, ma soprattutto era il punto di riferimento di molti colleghi ed amici e non solo di quel Reparto Mobile (“Bersaglio Mobile” per tutti gli esagitati) che si occupa dell’ordine pubblico, dove lavorava, ma anche punto di riferimento di tutte quelle persone che hanno avuto la grande fortuna di conoscerlo Fra le tante “parolone” sprecate col senno del poi e non prima magari che arrivasse la tragedia, veramente poche sono state dette del grande uomo che era Filippo Raciti e vi assicuro che sarebbero sempre poche! Non credo ci sia altro da dire, credo che il nostro dovere sia solo quello di tenere in mente il giorno dei funerali di questo uomo e delle parole pronunciate con grande compostezza dalla famiglia: Il piccolo Alessio, il figlio minore dell’ispettore vestito da poliziotto. Vederlo e ricordarlo in questa triste giornata, stringe il cuore, così come ricordare la cerimonia funebre, il feretro avvolto in un grande tricolore, che attraversa, tra gli applausi, piazza Duomo. Poi, un lungo spazio per le lacrime e per la commozione suscitata dal messaggio lanciato da un collega di Raciti, nel quale ammette di non voler “perdere altri amici, altri colleghi, come te. Noi ci crediamo, ma le autorità devono aiutarci. Addio Filippo”. E così si esprime la vedova di Filippo Raciti durante i funerali: «Vorrei solo dire due parole per mio marito. Sono sicura che tutti conoscevate i suoi pregi. Venerdì nell’apprendere della sua morte ho avuto un blocco al cuore. Immaginavo che sarebbe tornato con qualche ferita. Ma non mi sarei immaginato che sarebbe tornato così», ha esordito Marisa Grasso, che si è rivolta ai giovani che «immaturamente, stupidamente scioccamente, guardando un poliziotto e quanti portano la divisa lo guardano con disprezzo e odio. Mio marito - ha continuato - oltre a essere un bravissimo poliziotto era un gradissimo uomo, aveva qualità vere, era sincero, leale, affidabile, disponibile. Non lo vedo morto, perchè è sempre presente. Era un educatore alla vita: così lo stimano i suoi colleghi. Vorrei che sia un educatore anche nella morte e che questa morte possa portare veramente cambiamenti e che non ci sia un’altra famiglia a provare questo enorme dolore. I ragazzi riflettano - ha concluso Marisa Grasso -: la sportività è una cosa bella, la violenza fa male. Essere grandi si dimostra col rispetto». E la figlia quindicenne, Fabiana, ha letto, tra le lacrime, una lettera straziante che nessuno vorrebbe mai sentire indirizzata al suo papà: “Ciao papino: è l’ultima occasione in cui tutti vedranno quanto ti voglio bene. Quando ho saputo della tua morte ho sentito qualcosa dentro di me che è difficile spiegare. Ho deciso di farmi del male, non mangiando e non bevendo più. Ma mi dicono che questi sono momenti difficili e bisogna farsi forza”, ha detto ancora la ragazza. La nostra vita - ha continuato Fabiana - non sarà più facile, perchè tu eri bravo in tutto, ma soprattutto nel fare il papà. Adesso spero solamente che la tua morte spinga la società a cambiare, perchè tu sei un eroe. Io non riesco a stare senza di te, perchè siamo uguali. Abbiamo gli stessi pregi e difetti, come grosse labbra e un ginocchio che dà qualche problemino. Sono e sarò sempre fiera di essere tua figlia”. Nelle foto sotto il titolo: l’ispettore capo Filippo Raciti in alcune immagini nel corso della sua attività. Sopra e accanto: la moglie Marisa Grasso ed i figli Fabiana e Alessio. Nella manifestazione per la legalità organizzata dai sindacati di Polizia (foto pagina accanto) grande partecipazione di folla ma assente la cosidetta “società civile” LA VOCE DELL’ISOLA 4 17 febbraio 2007 La sfida del presidente dell’Assindustria catanese Fabio Scaccia per una nuova prospettiva Superare i limiti dello sviluppo autonomo Distretto Sud-Est per il rilancio dell’economia Indispensabile cambiare rotta nella selezione della classe dirigente con le politiche e le regionali dello scorso anno, di tutto rispetto, nei confronti dei quali l’associazione da me guidata si è comportata con la massima equidistanza, trasparenza e lealtà, non parteggiando per nessuno e permettendo ai candidati di confrontarsi anche davanti ai nostri iscritti. E questo anche perché il panorama “ideologico” dei nostri associati si sta sempre più variegando, comprendendo ormai tutto lo spettro delle opzioni politiche. Per questo, da presidente ho tenuto a rafforza- realtà come quella dell’Ance che ha visto totalmente rinnovati i suoi vertici. Un lavoro che ha richiesto grande attenzione e notevole fermezza, ma che ci ha premiato, perché anche grazie a questa azione abbiamo recuperato all’interno dell’associazione alcune grandi realtà imprenditoriale che da tempo se ne erano distaccate. Che fase attraversa il mondo imprenditoriale catanese? Dopo qualche anno di stagnazione, è un momento di grandissima ripresa un po’ in tutti i settori. Dalle software house, alla microelettronica, alla farmaceutica, all’agroindustria sono venute fuori delle nuove realtà imprenditoriali molto interessanti. E il nostro ruolo come associazione industriali è di sprone, coordinamento e servizio nei loro confronti, soprattutto se consideriamo che si tratta di aziende spesso di dimensioni occupazionali e di fatturato non competitive in campo nazionale e men che meno in campo internazionale. Anche per questo motivo abbiamo molto spinto la creazione di consorzi tra aziende dello stesso settore e i risultati, per esempio per quanto riguarda il consorzio Etna High Tech, che abbiamo promosso assieme all’Università, ci stanno dando ragione. Ma l’idea su cui stiamo cercando di impegnare tutte le nostre forze è legata ad un vero e proprio “distretto del Sud est” della Sicilia, una visione della realtà imprenditoriale, e non solo, che metta insieme le realtà provinciali di Catania, Enna, Siracusa e Ragusa e che faccia si che l’intera area si integri superando antichi personalismi e superate concezioni di sviluppo “autonomo”. Se si riuscisse a mettere in rapporto sinergico le realtà vive, ripeto non solo dal punto di vista imprenditoriale, esistenti in queste province si potrebbe dare una spinta importante allo sviluppo della nostra re il nostro ruolo come interlocutore forte e determinato della politica, ma non certo come un oppositore e men che meno come un vassallo. Il dato di fondo è che la Confindustria non fa politica, ma non può non rapportarsi con la politica. Insomma una Confindustria autonoma, credibile e coerente. Abbiamo riportato al centro le imprese più importanti, facendo, come accennavo prima, anche un grosso lavoro di “pulizia” al nostro interno. Una pulizia di che tipo? Per certi aspetti si è trattata di una vera e propria rivoluzione, come raramente si ricorda sia avvenuto in altre realtà territoriali come la nostra. Siamo intervenuti, ad esempio, per espungere quasi centocinquanta aziende dalle nostre fila, aziende che, o non erano vere aziende, in quanto di fatto non svolgevano attività imprenditoriale o non erano più attive all’interno del mondo confindustriale. Abbiamo in sostanza messo ordine nell’anagrafe associativa, anche quanto riguarda una terra che, mai come in questo momento, rischia di restare fuori dallo sviluppo globale. Un “distretto del Sud-est” con Catania come capofila? Per meglio dire con Catania come locomotiva, anche per inevitabili dati statistici relativi, ad esempio, al numero di abitanti o di imprese esistenti sul territorio. Ma non una composizione che faccia di Catania il centro di tutto, anzi. Ognuno deve mettere quanto di meglio ha a disposizione del distretto. Per fare un esempio, ritengo che l’interporto di Catania debba rapportarsi innanzitutto con il Porto di Augusta, che deve essere la punta di lancia per l’internazionalizzazione dei nostri prodotti. Ma ci sarebbero esempi da fare per ognuna delle province che fanno parte di quest’area. Una realtà produttiva e sociale che, se invece di scegliere la via dell’aggregazione, si presenterà divisa alla meta dello sviluppo non potrà che restare fuori dai giri che contano. di MARCO DI SALVO I n giro per la città in tanti si chiedono dove voglia arrivare e perché faccia tanto “sgrusciu”. A chiederlo a lui, Fabio Scaccia, giovane e combattivo presidente dell’Associazione Industriali etnea, la risposta che si ottiene è tanto serena quanto lapidaria: «Quando sono stato eletto alla guida dell’associazione un anno e mezzo fa, il mio mandato si basava sulla riconquista della centralità del nostro gruppo nel mondo produttivo cittadino, anche in relazione alle altre istituzioni esistenti nella provincia e non solo. C’era l’obiettivo preciso di chiedere con forza, a noi e agli altri rappresentanti delle istituzioni cittadine, un cambio di rotta nella selezione dei rappresentanti delle classe dirigente, fatto di un profondo rinnovamento anagrafico e qualitativo. E questo è quello che mi sono impegnato a fare negli ultimi diciotto mesi, anche a costo di parecchi no e di qualche riunione abbandonata improvvisamente o di qualche telefono sbattuto». E sul fatto che si sia impegnato se ne sono accorti un po’ tutti, ultimo in ordine di tempo il neo presidente della Camera di Commercio che, per poter essere eletto, ha avuto bisogno di un benestare formale (e non solo) da parte delle associazioni e gruppi di interesse che facevano capo proprio a Scaccia e alla sua Confindustria e che non hanno mollato la presa se non dopo adeguate rassicurazioni da parte di Pietro Agen sul fatto che la sua azione sarebbe stata improntata alla ricerca di personalità dalle qualità professionali e dai curricula immacolati, anche per quanto riguarda le nomine della squadra e dei rappresentanti della Camera di Commercio negli altri enti provinciali. Soddisfatti dalle promesse di Agen? Non è solo un problema di soddisfazione personale o di gruppo. Avevamo intuito, negli scorsi mesi, che c’era stato il tentativo, per fortuna non andato a buon fine anche per il nostro muro contro muro, di infrangere quell’accordo di grande concertazione tra le associazioni produttive che era stato alla base anche dei primi incotri tra le categorie e che doveva portare ad una convergenza su di un nome comune per la presidenza. Questo a noi è parso un far rientrare dalla finestra logiche ed uomini che, a parole, si era detto di non volere più. Forzature, insomma, alle quali non ci siamo prestati e che, almeno per il momento, sembrano essere state respinte. Anche per questo abbiamo votato a favore di Agen per la presidenza ed ora naturalmente attendiamo che il neo presidente si muova secondo quanto dichiarato e cioè che la Il ministro Padoa-Schioppa e Fabio Scaccia selezione del personale alla guida degli enti deputato allo sviluppo sia improntata sulla qualità degli uomini e sulla competenza. E magari che si tratti di qualcuno di voi imprenditori, ad esempio per quanto riguarda ad esempio il Cda della Sac ed il nuovo presidente… Certo, perché no? Per quanto riguarda l’aeroporto noi ci attendiamo che il presidente della Camera di Commercio nomini, all’interno dei tre componenti spettanti all’ente, anche una figura di respiro e di curriculum, così qualificato da poter essere il candidato naturale alla presidenza della Sac. Ancora una volta quindi non un nome scelto solo in quanto espressione di una maggioranza numerica dei componenti del cda, ma per le sue intrinseche caratteristiche. E sinceramente ritengo che la nostra associazione possa fornire anche qualche buon curriculum a riguardo. Mi aspetto comunque dei nomi che, pur se non faranno piacere a qualcuno (penso soprattutto a qualche esponente politico), siano nomi che facciano la differenza per uno sviluppo positivo dell’ente. Fino a che punto ritenete di poter alzare lo scontro con la politica? Una politica che, comunque la si guardi, ha ancora una notevole pervasività all’interno del sistema economico e produttivo della città… Lo sforzo che abbiamo fatto come Confindustria Catania in questi ultimi tempi è quello di ritornare ad essere forti ed autonomi. Come mi capita di ripetere spesso, a noi non interessa rappresentare quelle aziende che costruiscono un palazzo perché sanno già, prima di gettarne le fondamenta, a quale ente devono affittarlo o che nascono sapendo già quale appalto pubblico andranno a vincere. Questa “impermeabilità” agli interessi, più o meno leciti, della politica ha fatto si che in questi ultimi diciotto mesi, come forse mai prima all’interno dell’associazione, si sia riscontrata una forte unità di intenti tra associati e presidenza, unità di intenti che rende meno attaccabile le decisioni e le posizioni prese pubblicamente. E quindi con che tipo di Confidustria si trova a relazionarsi il sistema istituzionale catanese? Ritengo che Catania stia ritrovando una Confidustria più autorevole. Un periodo in cui ci sono anche stati due appuntamenti elettorali, Due immagini di impianti industriali a Catania LA VOCE DELL’ISOLA 5 17 febbraio 2007 Grazie agli articoli 36 e 37 dello Statuto speciale si potrebbe avere un quasi totale affrancamento Autonomia fiscale, realtà divenuta sogno Si chiede ancora ciò che è già nostro diritto La Regione ha potestà sul sistema tributario tranne poche eccezioni di ENZO LOMBARDO Si è parlato al passato perché, nel 2001, vi fu la riforma costituzionale delle autonomie locali (c.d. Riforma Bassanini) che stravolse, e stravolge ancora, i rapporti istituzionali e creò un immenso contenzioso presso la Corte Costituzionale. Senza volere entrare nel merito della riforma ci si deve soffermare sul nuovo art. 117 della costituzione dalla cui applicazione emerge chiaramente che: la competenza sui tributi erariali è di competenza esclusiva dello Stato, le Regioni hanno competenza esclusiva solo sui tributi propri (quelli emessi con legge regionale e non quelli emessi dallo Stato per finanziare le regioni come l’IRAP); esiste una competenza legislativa concorrente (di pari grado) tra Stato e Regioni per coordinare ed armonizzare la disciplina tributaria. Il punto cardine del dibattito e proprio questo. Con la riforma costituzionale si prevede una netta separazione tra tributi propri della regione e tributi erariali ma ciò non può valere per la Sicilia fino a quando l’art.36 resterà quello attualmente in vigore. In pratica esiste un conflitto palese tra il nuovo assetto costituzionale ed i diritti tributari della Sicilia che vengono confermati anche dalla Corte Costituzionale. Se, nel riformare lo Statuto Siciliano, si dovesse mettere mano all’art.36 ed includervi a qualsiasi titolo le espressioni di tributi propri e tributi erariali, la cose sarebbe equivalente ad affossare il diritto della Sicilia a legiferare anche in termini di tributi erariali. Questo sarebbe un gravissimo attentato non solo all’Autonomia Siciliana ma anche alle prospettive di potersi auto-creare un sistema di fiscalità di vantaggio per la nostra isola. Infatti un conto e non applicare lo Statuto, a questo si può sempre rimediare, altro discorso è tagliarsi un diritto soltanto per adeguarsi al nuovo assetto costituzionale dello Stato. Tante volte lo Stato ha abusato dei nostri diritti, agevolarlo sarebbe solo un suicidio politico. Sarebbe, dunque, bene valorizzare ed utilizzare a pieno i diritti che l’autonomia ci può dare piuttosto che fare sterili richieste che, se mai fossero accolte, dovremmo pagare a caro prezzo. Non è una buona politica chiedere qualcosa che si possiede già. Durante la sua visita del 20 gennaio a Catania il ministro per l’Economia Tommaso Padoa Schioppa, ha partecipato ad un dibattito, nel quale per la verità ha ricevuto molti più complimenti e deferenze di quanto ci si aspettasse considerati anche i relatori presenti, sulla finanziaria 2007 di cui egli è uno dei padri. Dalle relazioni esposte emergeva, oltre alla citata profusione di “affetto”, una costante richiesta di fiscalità di vantaggio come leva per lo sviluppo della Sicilia anche in chiave Mediterranea. Di per sé la richiesta non è sbagliata e non è peregrina in quanto grazie all’autonomia fiscale ogni territorio può giocare sulla leva impositiva per favorire ed attrarre investimenti. Certamente la richiesta può definirsi inutile perché sin dall’entrata in vigore dello Statuto Siciliano (D. Lgt. 15 maggio 1946 n. 455), vige per la Sicilia la regola che: “Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione a mezzo di tributi deliberati dalla medesima. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate nei monopoli dei tabacchi e del lotto”. Questo è scritto nell’art. 36 dello Statuto. Appare evidente anche a chi non è esperto di questioni giuridiche e tributarie, che l’autonomia fiscale della Regione rispetto allo Stato Italiano è amplissima ed enorme e, a volerne fare anche una piccola esegesi, è lampante che essa deve essere La sede della Corte Costituzionale a Roma espansa nella massima configurazione possibile se in questo articolo si è sentita la necessità di esplicitare chiaramente quali sono i tributi riser- anche grazie alla ristrettezza ed alla laconicità del cizio della potestà ad essa riconosciuta”. Questa testo dell’art. 36. Tuttavia, se dunque è acclarata affermazione della Corte ebbe, ed ha tutt’oggi, vati solo allo Stato. Invertendo il ragionamento, la Regione Sicilia- la potestà tributaria, anche sui tributi erariali, delle conseguenze politiche enormi sulle quali, na ha potestà esclusiva sul sistema tributario ad della Regione Siciliana bisognerebbe analizzarne come al solito, non ci si è molto soffermati da parte della politica siciliana. eccezione dei monopoli dei tabacchi, delle impo- i limiti. In pratica la Corte ammise due cose: primo non Sempre nel 1999, con la sentenza n. 138, la ste di produzione e sul gioco del lotto. Dopo la “costituzionalizzazione” dello Statuto, Corte Costituzionale ha riconosciuto l’impossibi- vi era un limite ben definito ai poteri della Sicilia avvenuta con la legge costituzionale n. 2 del 26 lità, visto il fumoso ed incerto complesso di nor- sulla legislazione tributaria e, secondo, la Regiofebbraio del 1948, vi fu un periodo di incertezza mative all’epoca vigenti, di potere stabilire un ne Siciliana non aveva mai emesso una legge in che terminò nel 1965 quando venne emanato il limite generale tra la potestà tributaria dello Stato tal senso che potesse dare alla corte un minimo D.P.R. n. 1074 che emanava disposizioni per l’at- e quella della Sicilia, affermando chiaramente che appiglio per concludere un analisi di questo limituazione dello Statuto Siciliano in materia finan- questo limite potrà essere solo valutato “solo se e te. In pratica la Sicilia aveva un potere immenso e ziaria. Anche in questo D.P.R. viene stabilito in quando la Regione adotterà delle leggi nell’eser- non lo aveva mai utilizzato. maniera chiara ed inequivocabile (e non potrebbe essere altrimenti) che la Regione Siciliana ha potestà tributaria anche sui tributi erariali che, in qualsiasi modo, venissero a formarsi nel suo territorio e questo anche in ossequio al dettato dell’art.37 dello Statuto. Tuttavia vanno considerati diversi aspetti, giuridicamente abbastanza complessi, che si proverà ad illustrare, All’argomento si era più volte interessato pro- dalle telecamere a ritirare il pizzo mensile che da di ALFREDO LIETO sempre secondo la nostra personale prio il periodico ufficiale delle carceri, Le due ben otto anni veniva estorto ad una concessionaria, interpretazione, per meglio chiarire il In Italia, l’introduzione del braccialetto elettro- città. Ma anche in questo caso, sullo stato attuale accoglieva la richiesta del difensore disponendo quadro di riferimento complessivo nico risale al 2001. Lo strumento, che Stati Uniti, del programma c’è buio fitto. «La pratica» sostie- l’applicazione del braccialetto elettronico. anche in vista dei tentativi di modifica A questo punto il Direttore del carcere di Piazza Svezia, Olanda e Gran Bretagna adottano dagli ne il Dipartimento dell’amministrazione penitendello Statuto che si stanno susseguendo anni ’90. In questi Paesi, infatti, viene applicato ziaria, «fu gestita dal ministero dell’Interno» e Lanza informò della decisione presa dal Gip, sia la in questo periodo. Squadra Mobile che i Caraalle caviglie dei detenuti che Da tanti anni la Corte Costituzionale binieri, richiedendo la sono agli arresti domiciliari. (che dopo lo “scippo” perpetrato ai disponibilità del braccialetto L’obiettivo è combattere il danni dell’Alta Corte di Giustizia per la per potere effettuare i dovusovraffollamento delle carceSicilia è l’organo che deve dirimere i ti controlli. Ma non se ne ri: Il braccialetto consente contrasti tra Stato e Sicilia) ha ormai ebbe traccia. La ditta inglese all’autorità di seguire a assunto una linea molto chiara che può “Soc. On Guard Plus Italia” distanza i movimenti dei essere stigmatizzata nella posizione responsabile della fornitura reclusi, risparmiando uomini assunta con la sentenza n.111 del 1999 dei braccialetti, rappresentò destinati al controllo degli in parte della quale si legge : “il testo l’impossibilità a fornire stessi fuori dal carcere e un dell’articolo 36 dello Statuto, traccia l’apparecchio in quanto la notevole risparmio dei mezzi una netta separazione fra finanza statastipula della convenzione sempre in numero minore le e finanza regionale.........[mentre con il ministero dell’Interno anche a causa dei bilanci stan.d.r.]......le norme di attuazione hanno era stata sospesa. A questo tali non certo floridi. delineato un assetto ben punto il Gip vista l’impossiSe l’apparecchio è tolto o diverso.......[che ha n.d.r.]........tradotto bilità di attuare il provvedimanomesso, il ricevitore lo la previsione statutaria [che la Consulmento, modificò lo stesso, rileva e le forze dell’ordine ta, come abbiamo visto, aveva definito ritornando al controllo traintervengono. La sperimentadi finanza separata n.d.r.] in un sistema mite il personale delle Forze zione del braccialetto, voluta di finanziamento sostanzialmente basadell’ Ordine. dall’allora Ministro dell’Into sulla devoluzione alla Regione del Rimangono i dilemmi: terno Enzo Bianco, avvenne gettito di tributi erariali riscosso nel perché pubblicizzare al masin 5 città (Roma, Napoli, suo territorio”. Sulla base di queste simo questa “innovazione”? Milano, Torino e Catania). parole della Corte Costituzionale non vi Perché far montare nelle Ne furono messi a disposizioè alcun dubbio nel ritenere che essa centrali operative terminali ne 75: 34 a Polizia, 34 a Carastessa ha riconosciuto che le norme di e radiolocalizzatori? binieri, 7 alla Finanza. Ma attuazione contenute nel DPR del 1965 Perché sperperare tempo e dopo pochi tentativi e tante hanno, in un certo qual senso, ristretto denaro pubblico e poi gettapolemiche, la convenzione ed alterato lo spirito ed il dettato delre tutto nel cestino? con la ditta che forniva la tecl’art.36. Forse qualcuno aveva nologia fu sospesa e oggi del Per suggellare e chiarire bene la sua pensato bene di sfruttare a braccialetto elettronico non posizione la Corte Costituzionale, semc’è traccia. Uno in verità nel 2002, lo avevano come spesso accade in Italia c’è stato un rimpallar- proprio favore tale iniziativa per farsi pubblicità a pre nella medesima sentenza, dichiara installato agli arti inferiori di Mario M. che qual- si di responsabilità che non porta e non porterà mai spese della collettività mentre, allora come oggi, le pertanto che: “Resta alla Regione la carceri scoppiano, il personale penitenziario vive che settimana dopo, non credendo al controllo a a nulla di concreto. possibilità (espressamente riconosciuta A causa di questa poca sensibilità da parte delle una situazione di disagio permanente e gli uomini distanza, decise di buttarlo ed evadere dagli arresti dal primo inciso dell’articolo 6 delle domiciliari finendo nuovamente in carcere in istituzioni, i magistrati non ne hanno mai previsto dei Commissariati e dei Carabinieri continuano a norme di attuazione) di intervenire quanto era scattato l’allarme alla centrale operati- l’utilizzo anche perché di braccialetti non ve ne fare controlli, come si faceva da sempre, a quanti legislativamente anche sulla disciplina va. Il ministero dell’Interno ha detto di non sapere sono in quanto la convenzione con il ministero si trovano fuori dalle patrie galere perchè sono agli dei tributi erariali…”. come si sia conclusa la sperimentazione, così dell’Interno è sospesa. Se ne accorse il Gip del Tri- arresti domiciliari o godono della sorveglianza Questo riconoscimento, importante come ha fatto il ministero della Giustizia in quan- bunale di Catania quanto a un detenuto Mario C., speciale. perché sancito da un organo mai tenero Mai vendere la pelle dell’ orso..... arrestato per estorsione nel 2002, perchè ripreso to «l’apparecchio è in disuso da anni». l’autonomia siciliana, è stato possibile Doveva consentire la sorveglianza dei detenuti agli arresti domiciliari Che fine ha fatto il braccialetto elettronico? LA VOCE DELL’ISOLA 6 17 febbraio 2007 Il pubblico impiego non può essere considerato esclusività di categorie di “eletti” Abolire il privilegio dell’incarico a vita Sono utili alla collettività ma servono a pochi Un posto di lavoro fisso può essere interpretato come un favoritismo di DANILO D’ANTONIO V i sono mansioni che, per loro utilità comune, o per l’amministrazione di beni e servizi comuni, o la sicurezza di tutti (quindi: nel campo dell’educazione, della sanità, gli impieghi comunali, provinciali, regionali, statali, nel settore radio-televisivo, i servizi di polizia, l’arma dei carabinieri, della finanza, i corpi della difesa, della protezione civile, ecc. ecc.) sono categorizzati sotto il nome di pubblici impieghi: essi servono la collettività e l’intera collettività se ne serve. Come tutti sappiamo, oggi il pubblico impiego viene affidato a persone scelte tramite particolari procedure che intendono selezionare i più idonei, tra i tanti che vorrebbero svolgerlo. Una volta selezionate le persone ritenute più idonee, è uso assegnare ad esse l’impiego in questione per l’intera durata della loro vita. Ebbene: anche se questa è una consuetudine ormai radicata da lungo tempo, alla luce di una consapevolezza più ampia offertaci dagli innumerevoli strumenti di cultura e mass media di cui la società si è dotata, si palesa più di un motivo per ritenere che tale uso debba infine mutare. Va infatti considerato che, essendo i ruoli disponibili nel pubblico impiego di numero ben inferiore rispetto a quello, non solo degli aspiranti, che avrebbe poca importanza, ma anche di coloro che sono ampiamente idonei, ciò che si assegna a quei pochi prescelti, in pratica, non è tanto un lavoro, bensì un vero e proprio privilegio rispetto al resto della società, un privilegio di origine del tutto ingiustificata. Se riconosciamo, infatti, la società, nella sua interezza, essere depositaria del diritto di usufruire dei pubblici beni e servizi, allo stesso modo dobbiamo riconoscerle, egualmente nella sua interezza, il diritto di equa partecipazione alla creazione, amministrazione e svolgimento di tali beni e servizi. Quando nacque l’impiego pubblico in senso moderno, determinate mansioni cominciarono da sùbito ad essere assegnate a determinate persone in una corrispondenza univoca. In maniera del tutto naturale si perpetuò uno schema di lavoro diffuso, in cui una persona, iniziando una attività lavorativa, facilmente sviluppava una certa fedeltà ad essa, e la continuava, salvo rare eccezioni, fin dopo il termine della sua stessa vita, attraverso le generazioni successive. Fu estremamente semplice, quindi, per il pubblico impiego sposare questo stesso sistema. Oltre a ciò, certamente e purtroppo, vi è stato in seguito anche un esacerbamento di questa concezione, esasperazione avvenuta ad opera del fenomeno del cosiddetto “favoritismo”, in cui l’assegnazione a vita di un posto di lavoro garantiva una fedeltà di eguale durata al politico che lo avesse assegnato. Oltre che aggravare in generale la situazione, questo fenomeno ha contribuito a ritardare di molto la presa di coscienza del fatto che in realtà il lavoro di pubblica utilità e la gestione del bene comune non possono essere di proprietà esclusiva di alcuno, proprio per loro stessa definizione di pubbliche attività. Finora abbiamo concepito questa definizione solo in un senso: che ognuno possa usufruire dei suoi servizi. Oggi, con la visione chiara e globale che i mass media continuamente ci forniscono e che facilmente ci conduce ad una consapevolezza superiore riguardo alle origini profonde dei mali della nostra società, con la situazione di tremenda disparità che si è venuta a creare nel campo dell’occupazione, e con l’evidenza del fatto che la cosa pubblica è letteralmente posseduta da alcuni e da questi sempre più spesso gestita contro ogni regola di buon senso e contro ogni volontà popolare, non possiamo non renderci conto di come le mansioni pubbliche debbano invece essere considerate tali sotto tutti gli aspetti, anche e soprattutto dal punto di vista della loro assegnazione ed esecuzione. Occorre, al più presto, prendere in seria considerazione l’idea di abolire quello che oggi appare evidente essere l’iniquo privilegio dell’incarico pubblico assegnato a vita a pochi eletti, in favore di una sua più equa ripartizione tra tutti coloro che desiderassero svolgerlo e dimostrassero di possederne i requisiti necessari. Ci attende un compito estremamente semplice quanto importante: effettuare il conteggio delle ore di lavoro necessarie al buon andamento della nazione, contare il numero delle persone disponibili ed idonee a compierle, distribuendo poi equamente le prime tra le seconde. È da considerare, poi, per dissipare il dubbio che si tratti di una pura questione di teorica equità, che, introducendo una tale riforma, le cose nel nostro Paese comincerebbero a funzionare molto meglio sotto vari aspetti. Per cominciare, l’introduzione di una rotazione di personale all’interno delle pubbliche strutture apporterebbe immediatamente un flusso di fresca energia creativa, allontanandole dalla loro tipica propensione ad un eterno immobilismo, propensione dovuta massimamente al senso di proprietà esclusiva che ogni pubblico dipendente, di qualsiasi livello, ancor oggi può attribuire al “suo” posto di lavoro. Ogni nuovo dipendente apporterebbe invece il suo contributo originale, personale, diverso da ogni altro, introducendo una capacità creativa e produttiva senza eguali, lungo una linea di costante rinnovamento e miglioramento. Quello stesso immobilismo, responsabile dei comportamenti deviati di ogni tipo che noi tutti quotidianamente ed ampiamente possiamo verificare, sarebbe immediatamente spazzato via da un sano alternarsi di persone: una genuina, dolce, continua reciproca verifica e vigilanza ci allontanerebbe felicemente da errori o male azioni, consapevoli od inconsapevoli che potremmo esserne, permettendo alle soluzioni di prevalere nettamente sui problemi. Cosa importante da considerare, infatti, è che, introducendo nel nostro Paese la riforma dell’Equo Impiego Pubblico, un manifesto senso di giustizia ed uno spirito di istintiva e fraterna collaborazione si diffonderebbe sùbito all’interno della società. Si dissolverebbe quel clima di reciproca sfiducia che ci opprime, ormai da tempo, un po’ tutti in varia misura, sfiducia causata proprio da situazioni simili a questa, qui descritta, per disparità, ingiustizia ed irragionevolezza. Cadrebbe inoltre quella distinzione tra stato e cittadino che oggi facilmente tende a separarci dalle istituzioni, distinzione che nasce dal fatto che ad essere da una parte o dall’altra degli sportelli e scrivanie dei pubblici uffici sono sempre gli stessi volti. Fare a turno ed indossare periodicamente differenti divise ci permetterebbe di constatare in prima persona l’efficacia ed il valore del nostro metodo e lavoro e, quando fosse opportuno, apportare tempestivamente le dovute correzioni. In tal modo, non esisterebbero più da una parte gli oppressori e dall’altra gli oppressi, ma ognuno potrebbe sperimentare queste due diverse condizioni e provvedere a far sì che scomparissero entrambe. La nuova situazione che si verrebbe a creare ci manterrebbe sempre chiaro in mente che a formar lo stato non possiamo che essere tutti noi, non solo alcuni, e nessuno escluso. Non essendo più il pubblico impiego proprietà esclusiva di pochi privilegiati, bensì diritto e, in un certo qual modo, perfino dovere di noi tutti, non essendoci più escludenti interessi personali ad annebbiare la nostra vista, esso ci apparirebbe finalmente, oltre che come un posto di lavoro, come una personale fonte di reddito, anche come un importante servizio reciproco. In una comune scala di valori, metteremmo immediatamente in secondo piano la componente remunerativa del lavoro pubblico, ed enfatizzeremmo invece la sua componente civica e religiosa, nel senso, naturalmente, più letterale, veritiero, utile e squisito del termine: qualcosa che ci unisce, che offre ad ognuno un giovamento direttamente proporzionale alla nostra capacità di aggregarci e vivere insieme (ricordiamo che la parola religione ha buone probabilità di derivare dal latino religare: unire insieme). Come sempre, è servito a poco piangere le vittime della collisione sullo Stretto Già dimenticata la tragedia dell’aliscafo di VINCENZO POMA A ll’indomani di una tragedia che si poteva evitare, inevitabilmente, si sono accese le polemiche, risono messi in moto i meccanismi per scoprire le responsabilità, subito alla ricerca di capi espiatori ai quali addossare colpe. È un processo che sa di “dejà vu”, già visto, in tante altre circostanze, e così è stato anche per la fatale collisione sullo Stretto di Messina tra un aliscafo delle Fs e un mercantile, che è costata la vita a quattro persone e provocato oltre un centinaio di feriti. Si è scoperto (dopo la tragedia) che il supermoderno radar, collegato al sistema satelittare Vts (“Vessel traffic Service”) era insufficiente a garantire la sicurezza dell’intenso traffico di navi in questo tratto di mare che separa la Sicilia dal Continente, ed a confermarlo è stato proprio quel ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi, che tanto si è adoperato per affossare la costruzione del Ponte, prima ancora che potesse essere posta la prima pietra dell’opera. Lo stesso Bianchi è stato costretto ad ammettere che “poteva essere una ecatombe”, se la collisione fra l’aliscafo “Segesta” e la nave container “Susan Borchard” fosse avvenuta qualche metro prima, affermando che “occorre mettere in campo un processo speciale di sicurezza per tutta l’area”. Il senno del poi, i buoni propositi per il futuro, che raramente vengono trasformati in iniziative concrete. Ebbene, a distanza di qualche mese dal tragico evento, è come se il ricordo fosse stato cancellato: comprensibile, ha già detto qualcuno, di fatti gravi ne accadono ogni giorno! L’aliscafo Segesta dopo la collisione È vero, ma quando le tragedie possono essere prevenute, perché non compiere tutti quegli atti necessari che possono evitare lutti e lacrime? Da sempre è riconosciuta la pericolosità dello Stretto di Messina, sia per questioni “naturali” (le forte correnti che lo attraversano), sia per motivi contingenti (traffico al limite della saturazione, con attraversamento di navi di grosso tonnellaggio e medio tonnellaggio, pari a quasi duemila unità al mese). Tutto ciò senza considerare la necessità del collegamento passeggeri-veicoli dall’isola alla sponda calabrese (e viceversa). Il senno del poi serve poco, così come le buone parole (di rito) espresse ai familiari delle vittime, le uniche a pagare direttamente il caro prezzo dell’incuria della politica e l’arroganza degli opposti interessi. Il ministro Alessandro Bianchi, ovviamente, in questa fatale circostanza ha parlato solo di “sicurezza” nelle acque dello Stretto, ma si è ben guardato dal fare cenno alle pseudo motivazioni che hanno posto (almeno per quanto concerne il Governo nazionale) la parola “fine” alla costruzione del Ponte, in grado di unire “in piena sicurezza” le due sponde d’Italia. E d’altra parte, né politici, né giornalisti hanno sollevato la questione nel momento in cui si sono pianti i morti. Ovviamente nessuno ha sollevato la questione dei fondi destinati al Ponte e poi trasferiti altrove, peer essere utilizzati per la realizzazione di opere “fuori” dalla Sicilia, sempre nel Continente: Nel momento del lutto si è pensato a cercare le “responsabilità”, a gettare fumo negli occhi di quanti avrebbero voluto chiedere conto e ragione del disprezzo che i “continentali” hanno verso questa Sicilia, i cui diritti tutti i politici sono pronti a difendere, ma solo a parole. Le tragedie scuotono tutti, anche questo è vero, ma solo quando si verificano: la memoria, purtroppo, ha breve durata. LA VOCE DELL’ISOLA 7 17 febbraio 2007 Polemiche per l’ipotizzata costruzione, a Lentini, di alloggi per le famiglie dei militari statunitensi Vogliono che Sigonella diventi un “caso” Rifondazione e Verdi: “Yankee, go home” L’ammodernamento della base rientra in un Piano avviato dieci anni fa di VITO PADULA S igonella come Vicenza: la scuola (o la disciplina) di un partito – Rifondazione Comunista - oggi al Governo nazionale, ma che continua ad essere “nostalgico” di tempi e di riferimenti che non possono tornare, ha messo in moto (almeno a livello di tentativo) l’antiamericanismo anche in Sicilia. È stato sufficiente che i parlamentari (ed i ministri, ovviamente) di Rifondazione comunista ponessero il veto all’ampliamento della base statunitense ospitata su territorio italiano a Vicenza, che immediatamente i deputati regionali siciliani dello stesso partito presentassero interrogazioni all’Ars su un ventilato allargamento delle installazioni Usa di Sigonella. “La costruzione a Lentini, in un'area con vincolo paesaggistico e archeologico, di una vera e propria città americana, con mille villette che ospiteranno i soldati di stanza a Sigonella, va bloccata immediatamente": queste sono le frasi pronunciate il mese scorso da Rosario Rappa, segretario regionale del Prc, e Santo Liotta, senatore del Prc, che ha anche presentato un'interrogazione al ministro dell'Ambiente. Rifondazione comunista siciliana ha immediatamente attivato i propri rappresentanti istituzionali nazionali per fare assumere al governo una posizione di opposizione sia alla costruzione del villaggio americano a Lentini che al potenziamento della base Usa siciliana. Inoltre anche il ministro dei Verdi Pecoraro Scanio (nella sua recente visita a Palermo per un incontro con i candidati alle primarie dell’Unione) ha espresso il suo deciso “no” all’ipotesi di rafforzamento dell’installazione militare. Vicenza e Sigonella, in subordine, stanno provocando profonde spaccature all’interno del Governo nazionale, mostrando chiaramente l’intransigenza dei vecchi comunisti ancora ancorati ai tempi in cui esisteva il Muro di Berlino e la contrapposizione tra Urss e Usa. Sigonella non è Vicenza e la Sicilia non è Montecitorio. La questione di Sigonella è stata “rispolverata” a seguito della notizia della costruzione in territorio di Lentini di alloggi per le famiglie dei militari americani che risiedono in Sicilia. Una notizia che ha suscitato polemiche soprattutto perché questi edifici dovrebbero sorgere in zone dove insistono insediamenti archeologici, ma l’informazione è stata smentita dall’Ufficio stampa Usa. Questa notizia, in ogni modo e per molti versi, è da definire “impropria”, in quanto pubblicizzata con anni di ritardo: l’eventuale costruzione di degli alloggi presi di mira da Rifondazione e Verdi, infatti, rientra in un piano di ammodernamento delle strutture americane esistenti, avviato agli inizi degli Anni Novanta e, fra l’altro, in fase di completamento. L’ultima trance prevista di questo ammodernamento – chiamato nel tempo Piano Mega I, II e III – è statta avviata nel 2004 e si concluderà nel 2007: Si è trattato di una ristrutturazione notevole, a livello di investimenti: ben 675 milioni di dollari, per la quale in tutti questi anni trascorsi nessuno ha alzato la voce sul piano governativo e parlamentare. Lo stanno facendo solo adesso, i soliti e noti deputati, adesso con l’attuale Governo nazionale, dove la minoranza della compagine di centrosinistra sembra voler dominare tutto e tutti. Ma in Sicilia, da quando esiste la base Nato di Sigonella, nonostante la presenza stabile Usa, né i comunisti nostrani, né le poche manifestazione pacifiste di protesta, sono riuscite a creare un “caso” o fatto nascere un “sentimento” antiamericano. Sigonella non è Vicenza, la Sicilia non è Rifondazione comunista e Verdi messi assieme Sono gli anni della “guerra fredda” quando lo scacchiere del Mediterraneo costituiva un nodo vitale per i due “blocchi” contrapposti Usa-Urss per l’influenza che esercitavano sui rispettivi Paesi alleati e per il predominio ed il controllo dell’aria e dei mari, che la Sicilia divenne oggetto di attenzione da parte degli apparati militari americani.. L’aeroporto di Fontanarossa, pur vantando una posizione strategica invidiabile, essendo “aperto” ai voli commerciali, non poteva costituire una soluzione permanente per le forze aeree alleate, che cercavano un sito dove collocare una base aerea multiuso.. Occorreva sia per la Nato (e quindi per l’Italia, in prima istanza) e sia per gli Stati Uniti d’America, una installazione adeguata a fronteggiare le esigenze che si prospettavano, vista la crescente invadenza e costante presenza della flotta sovietica in quello che una volta era considerato il “mare nostrum”. Sia la Nato, sia gli Usa – che nel Mediterraneo avevano già dislocato stabilmente la VI Flotta, con sede Napoli necessitavano di una posizione logistica di livello elevato nel quadro delle nuove prospettive che assegnavano alla forza armata compiti sempre più impegnativi e qualificati. A seguito di valutazioni strategiche inequivocabili – necessità di potere contare su un punto di riferimento molto importante nello scacchiere del Sud Europa, potenziale ed effettiva “testa di ponte” verso il Medio Oriente, l’Africa e il Sud-Est Asiatico – si ipotizza la creazione di un “hub” che potesse essere utilizzato dall’Italia, dalla Nato e dagli Usa. Nel 1952 una commissione tecnica e militare effettua un sopralluogo nel territorio della provincia etnea per individuare la zona più idonea dove costruire un grande aeroporto. Il sito prescelto è quello di Sigonella, espressamente in contrada Sigona, un terreno nel quale, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, era stata realizzata una pista sussidiaria di Fontanarossa. Sigonella nasce, pertanto, come base Nato per far fronte alle necessi- tà dell’Alleanza, all’interno della quale sarebbero stati allocati il Comando italiano dello Stormo Antisom ed una “stazione” aeronavale Usa. Gli Stati Uniti, infatti, cercavano da tempo una collocazione definitiva per i Gruppi aeronavali d’appoggio alla VI Flotta, dovendoli trasferire da Malta, dove erano situati sin dal 1943. Individuata la zona dove costruire l’aeroporto e le relative infrastrutture, gli Usa sottoscrivono nel 1952 un Sigonella non si allarga ma probabilmente costruirà nuovi alloggi per i militari. Nella foto al centro, contrada Xirumii a Lentini primo accordo con le autorità governative italiane, un ulteriore accordo “provvisorio” il 25 giugno del 1957 ed un accordo definitivo due anni dopo. Oggetto del trattato “definitivo”: mantenere all’interno del progettato scalo di Sigonella una componente aeronavale statunitense “autonoma”, operativamente dipendente dal Comando forze navali degli Stati Uniti in Europa (Comusmaveur), ma sotto il controllo del Comando del 41° Stormo Antisom, essendo la base militare italiana. I lavori per realizzare l’installazione prendono il via nei primi mesi del 1955 su terreni appartenenti al Duca di Misterbianco, venduti per quasi due miliardi, un milione ad ettaro. Per la pista, i piazzali e le vie di rullaggio velivoli, le opere vennero aggiudicate alla “Sab” (Società appalti bonifiche) di Roma, che li ultimò nel 1957; gli impianti vennero affidati all’impresa “Bulini e Grande” di Bologna, che li completò alla fine dello stesso anno. Le prime costruzioni che sorsero furono quelle di “Nas 1”, cioè del villaggio che avrebbe dovuto ospitare (e che ospita a tutt’oggi) la maggior parte del personale americano. “Nas 1” (primi edifici costruiti dall’impresa “Nisticò” di Palermo nel 1956) sorge sulla statale per Enna, in collina, a sedici chilometri a sud della periferia di Motta S. Anastasia ed a una ventina di chilometri di distanza da Sigonella-aeroporto – sito americano chiamato “Nas 2” (Naval air station) – nella Piana, all’estrema periferia del territorio ovest di Catania, in parte ricadente in territorio di Lentini, provincia di Siracusa. I reparti aerei americani residenti a Malta vengono trasferiti a Sigonella nel luglio del 1959; l’apertura della base avviene ufficialmente il primo giugno di quell’anno. Da quella data molte trasformazioni “tecniche” si sono avute all’interno del settore statunitense della base di Sigonella: ampliamenti e ammodernamenti sia delle strutture (hangar) militari, sia degli alloggi del personale Usa. Gli ultimi finanziamenti risalgono agli inizi del Duemila: i lavori sono in fase di ultimazione. Per quanto risulta, non ci sono programmi di ampliamento della base, semmai il contrario: c’è chi afferma che è iniziata una fase di “abbandono” della Sicilia da parte americana, verso lidi strategicamente più interessanti. Ma queste informazioni (mai confermate), a quanto pare, non interessano né comunisti, né Verdi. LA VOCE DELL’ISOLA 8 17 febbraio 2007 Perennemente sornione, il paese offre come spettacolo il panorama e il senso di vertigine e di precarietà Fascino di Castelmola in celeste sordità È luogo di silenzi o luogo eguale ad altri? I racconti di Brancati tra fantasie e follie di giorni ormai dimenticati di TEA RANNO C i sono altezze e altezze, visioni e visioni. Da Castelmola il mare è una fetta di cielo capovolto, lontano, uno specchio appena più curvo laggiù, dove sembra andare storta una vela bianca. Una pioggerella farinosa viene a spolverare il taccuino poggiato sul belvedere. Sotto di noi una voragine: la montagna crolla in una serie di dirupi verdemarrone, e una betoniera, insolente, manda per l’aria i suoi fumi tossici. Per le strade nessuno. È ora di pranzo. L’odore di carne alla brace colma i vicoli, le strade così strette che da una porta all’altra ci si tocca. Su ogni porta una formella con un motto: battute di spirito, auguri di fortuna, scongiuri contro i mali cristiani. Se non fosse per la betoniera e l’odore della carne, sembrerebbe un paese morto. Colpa del freddo, dell’ora, della consuetudine di chiudere fuori dalla porta ogni distrazione dalla tavola. Soprattutto quelle che vengono da Taormina, quelle facce straniere che lì sono d’obbligo e qui solo contorno, perché qui non ci sono celebrità, fasti, hotel megagalattici, e neppure botteghe di furbesco richiamo. Qui le strade sono tutto un aggrovigliarsi di pietre intorno a case anonime; unico spettacolo è il panorama. E il senso di precarietà, la vertigine di trovarsi aggrappati a un puntale di roccia che ha l’apparenza di un granito e la sostanza di una signorina dai fianchi troppo lisci lungo i quali si potrebbe d’un tratto scivolare. Precipitando. Un po’ quello che accadde a Sebastiana, la protagonista di un racconto di Vitaliano Brancati, una ragazza “silenziosissima, facile al rossore, alle palpitazioni, vergognosa sempre di non si sa che, (…) incomparabilmente bella”. Una figlia che aveva solo un vizio: quello di volersene stare in santa pace: “Lasciatemi stare! A chi faccio ombra?” diceva alle sorelle che la incitavano a uscire, a farsi vedere; testarda come la pietra di cui erano fatte le strade, si rintanava in casa. Erano tempi negri quelli che intanto si preparavano. Ma lei se ne sottrasse: “(…) beata di star ferma, rapita dall’essere dimenticata e trascurata, Sebastiana visse fino al nove settembre del 1939, giorno in cui prese un febbrone al mattino e al tramonto morì”. Amen. E pace. Nel senso che, salutandola, tutti le augurarono sonno profondo e imperitura quiete, come si fa generalmente con chi s’è congedato da questi affanni terreni per proiettarsi in una celeste eternità. Per Sebastiana, però, a partire da quel momento, cominciarono i guai. O meglio, quelli che, se fosse stata viva, sarebbero stati davvero guai. E questo perché – forse non lo sapete – il cimitero di Castelmola “sta quasi in bilico su una sporgenza della montagna e le tombe han l’aria di far mille sforzi per non precipitare nel vuoto”. Accadde così che, in una giornata di vento, il cimitero franò, e Sebastiana “precipitando per il pendìo, prima dentro la cassa di noce, poi tutta sola, con l’abito bianco mangiato dal buio e dall’umido, andò a finire nel mezzo della piazza di Taormina” dove – dopo aver atterrito un vecchio genovese – venne nuovamente tumulata. Senza trovare pace, in verità, perché “amanti, sposini, soldati, ufficiali, dame della Croce rossa sfilarono accanto a lei, nelle ore della notte, parlando, baciandosi, canticchiando”. Intanto arrivò l’anno ’43, quello in cui i tedeschi si ritirarono dalla Sicilia. Un colpo di cannone svelse la bara dalla fossa e la trascinò giù, sulla spiaggia di Giardini, dove un ufficiale bavarese “per tre quarti pazzo e per un quarto sfinito dalla fatica di nascondere a tutti di essere pazzo” la scambiò per la sua fidanzata, morta sotto un bombardamento in Germania. Così, per non separarsene, la infilò in una cassa di munizioni, la coprì con un drappo nero e la caricò sulla carretta di un cannone. Il corpo cominciò a viaggiare; in mezzo a un fracasso infernale attraversò lo Stretto che “brulicava di rottami, di morti mezzi divorati e ogni tanto sfolgorava come il pavimento di un salone accogliendo nel suo seno un aeroplano svampante come una torcia”. Giunto a terra, il tedesco, completamente impazzito, scaraventò la cassa su una nave in partenza per Trieste. Che risalì l’Adriatico fino a quando, all’altezza di Bari, non venne incendiata, frantumata, affondata, “e la cassa Castelmola Vitaliano Brancati con Sebastiana, spinta da un naufrago che vi si reggeva come a un salvagente, approdò nel porto dove fu caricata su un autotreno e trasportata (…) verso il cuore della Germania”. Arrivò in un campo di concentramento polacco dove naturalmente scoppiò una battaglia. Il campo passò dai tedeschi ai russi, dai russi ai tedeschi e da questi di nuovo ai russi: “Lasciatemi stare, a chi è che faccio ombra?”, implorava rivolta alle sorelle. “A cu fazzu ummra?”. È una frase che ci sorprende, che ci riporta ad altri tempi, quando certi vecchi – stizziti, disgustati dalle solite lotte per aggiudicazione di robe da parte dei figli – la pronunciavano col pianto nella voce, sbattendosi una porta alle spalle e maledicendo la mala vicchiània che li metteva in balia degli altri. Una frase modesta, con la quale ci si schermisce affermandosi di non voler avere nulla a che fare con gente cui potrebbe dare fastidio persino la nostra ombra, ma che contiene, invece, in trasparenza e superbissimo, l’invito a che siano gli altri a non disturbare, neppure col fiato inconsistente della loro ombra. E, leggendo di Sebastiana e del suo infernale viaggio post mortem, ripensiamo a Brancati, al suo bisogno, chissà, di trovare tra tanto frastuono un minimo di pace: è il 1946, anno in cui esce la raccolta “Il vecchio con gli stivali” di cui “Sebastiana” fa parte, e Brancati si trasferisce a Roma. È la capitale che lo frastorna? Il dopoguerra – con le sue chiacchiere e i suoi festini, la sua voglia di ebbrezza e dimenticanza – che gli fa rimpiangere Castelmola e i suoi silenzi? O un luogo è uguale a ogni altro, l’intento di conservarsi immune da chiacchiere e pettegolezzi vale in un eremo come in una piazza? Brancati non lo dice. Solo, nel finale: “(…) sibili e scoppi perseguitavano ancora la povera morta, come se il mondo feroce, a cui Sebastiana era sfuggita da viva nascondendosi nella casetta di Castelmola, avutone tra le zampe il cadavere, non si stancasse mai di rotolarlo, di sbatterlo, d’intronarlo, cercando di sfogare il suo urlo rabbioso in quell’orecchio reso sereno per sempre da una celeste sordità”. E chissà che non fosse questo l’augurio dello scrittore per sé: una “celeste sordità” per passare indenne tra il chiasso cui non ci si può sottrarre e che, con varia ferocia, rotola, sbatte e introna chi vorrebbe pascersi soltanto di parole scritte. Dove nasce il disorientamento sociale e la mancanza di fiducia nelle istituzioni La sconfitta civile e la voglia di riscatto di LUCIA BRISCHETTO D a tempo il cittadino qualunque, anonimo uomo della strada, vive una sorta di disorientamento sociale e di esasperazione che lo induce a non fidarsi più delle istituzioni ed a temere una pericolosa, generalizzata disaffezione all’educazione e alla passione civile. Il bisogno di sicurezza della persona, frustrata dagli esiti di sentenze incomprensibili e dai repentini ribaltoni partitici, stanno creando spazi e sacche di scontento popolare che non annunciano certo scene di vita serena. Si sta vivendo l’epoca della visibilità e dell’ipocrisia fondata sul bene singolo e sull’utilitarismo più sfrenato dove il condizionamento culturale del “guadagno dunque sono, tutto mi è dovuto”, ci deve pensare lo lo Stato, lo dice la legge”, impera come domanda di richiesta di diritti senza offerta di corrispondenti doveri. Soldi e amicizia danno il potere a la delizia. Non importa con quale mezzo, legale o meno, si possono raggiungere certi risultati e certe comodità, ma tutto deve essere raggiunto. Il reato ? esiste solo se viene scoperto e perseguito! Siamo in assenza di coscienza civile oppure in presenza di degrado morale ? Se solo lo desiderassimo e ne avvertissimo il valore sociale, potremmo costruire una società civile con caratteristiche di comunità solidale che promuova il bene comune e la democrazia partecipativa e non rappresentativa. Una migliore organizzazione amministrativa della vita di una città può migliorare gli stili di vita delle persone e incidere positivamente sulla condizione di benessere della popolazione con minori oneri per la collettività. La ricerca del benessere va affidata non solo allo Stato ma anche ad un intreccio di azioni fra Stato, privato sociale e mercato. Tuttavia la sconfitta più cocente della società civile non sta solo nella disorganizzazione giuridica e giudiziaria, nel bubbone burocratico e nella decadenza di alcuni valori come la scuola, la famiglia e i suoi affetti parentali, la patria, le istituzioni, l’amicizia, ma anche nella presunzione di competenza espressa da tantissimi amministratori pubblici i quali dovrebbero essere d’esempio per le città e invece spesso sono figurette di secondo piano, gente sovradimenzionata che una volta raggiunto il potere (spesso con mezzucci di paesana identità), ritengono di poterlo esercitare a seconda del loro umore e a seconda delle loro simpatie personali e di partito, svalorizzando anche il lavoro degli altri e riservando tutte le connotazioni propositive a pochi eletti di loro fiducia. E mentre “i forzati della bontà e della legalità” continuano il loro cammino di crescita e di solidarietà, si osserva una Italia tutta da rifare. Siamo oramai da tempo in un paese che ha necessità innanzitutto di diminuire le distanze tra istituzione e cittadino e dove urge la messa in rete dei servizi e un maggiore dialogo fra amministrazione pubblica e privato sociale. Una comunità vivibile richiederebbe il passaggio dall’assistenzialismo alla prevenzione, al superamento dell’istituzionalizzazione del disagio e alla realizzazione di servizi sul territorio alle persone. È naturale quindi che, chi sa, desideri la qualità della vita, la città a misura d’uomo. In questa condizione, spesso, la persona, manifesta la sua stanchezza e l’amarezza che vive per i suoi stessi errori, per la presa d’atto della difficoltà di regagire e di saper reagire, sente di avere perso il senso della collettività e della risposta di gruppo. Tuttavia, noi crediamo che la qualità della vita sia garantire a tutti il necessario mediante una varietà di offerta e libertà di scelta, senza privare alcuni della capacità di sopravvivenza per offrire ad altri il superfluo. Se non sara possibile per l’uomo perseguire gli ideali che si porta dentro e sviluppare tutte le sue capacità, avrà fallito il più grosso progetto di realizzazione di se stesso e del futuro dell’umanità. Navigare nella solidarietà è il destino dell’uomo e come tale egli non può tirarsi indietro perché rischierebbe la solitudine e la morte civile. L’uomo deve quindi, può e vuole organizzarsi per cercare la sua felicità e per contaggiare tutti gli altri di un bene prezioso che da solo non riuscirà mai a godere. Pertanto le sue sconfitte civili e morali non possono che essere dei passaggi a vuoto di temporanea smemoratezza da cui risollevarsi orgogliosamente per riappropriarsi dei contenuti e delle azioni che lo faranno protagonista ed autore di se stesso a pieno titolo. LA VOCE DELL’ISOLA 17 febbraio 2007 Un despota colto, un prode guerriero, un uomo solo La storia di un sovrano che non nacque per regnare e che fu soprannominato "il Malo" dopo la strage di Bari _______ di Enzo Lombardo 9 10 uando venne incoronato Re di Sicilia, il 4 marzo del 1154, Guglielmo I aveva trentaquattro anni e già da tre regnava, di fatto, insieme al padre Ruggero II. Una volta scomparso il grande genitore tutto il peso del regno si trovò sulle spalle di quest'uomo che, fin dalla sua nascita, non era stato destinato a regnare e dovette imparare il mestiere di Re allorquando suo fratello Ruggero, il primogenito, morì nel 1148 e gli altri fratelli più grandi erano già scomparsi (Tancredi nel 1140 ed Alfonso nel 1144). Nel giro di sei lunghi anni dovette imparare tutto della corte e dei suoi intrighi ma soprattutto dovette compiere il lavoro più penoso per lui: quello di convincere suo padre ad accettarlo come un buon successore. Ruggero II non vedeva di buon occhio questo ragazzo altissimo e scuro di pelle in quanto lo giudicava troppo introverso e troppo incline alla pigrizia ed ai piaceri della carne ed il giovane Guglielmo sicuramente soffrì l'indifferenza del padre negli anni in cui ad accompagnare il grande Re nelle sue campagne militari c'erano sempre i suoi fratelli più grandi: Ruggero, Tancredi ed Alfonso. Tuttavia il vecchio e saggio Ruggero, capì che la sua età non gli consentiva più di sperare in un erede migliore, anche se provò fino all'ultimo ad averne, e così prese Guglielmo al suo fianco. A guidare i passi di Guglielmo I non mancò, come nella migliore tradizione del Regno, un forte “emiro” o “grande ammiraglio”. Costui era Majone da Bari un commerciante di olio che si era fatto strada nei ranghi dell'amministrazione siciliana sotto l'occhio vigile di Giorgio d'Antiochia. Dopo la breve, e sfortunata, parentesi di Filippo l'eunuco, negli ultimi mesi del suo regno Ruggero II lo nominò, per l'appunto, “grande ammiraglio”. Guglielmo I, per i primi mesi del suo regno, lasciò praticamente carta bianca a Majone per la gestione degli affari del Regno e questo fu, per il giovane sovrano, un errore fatale. Egli, in quel periodo, non si rese conto di cosa significasse amministrare il Regno di Sicilia, uno dei regni più grandi e potenti del tempo, che contava una moltitudine di nemici visibili ed occulti. Alla morte di Ruggero II, tutti i nemici di un tempo e quelli dell'ultim'ora capirono che forse era finita l'epoca della gloria siciliana e Guglielmo I non fece proprio nulla per smentire questa prospettiva. I nobili pugliesi e tutti i grandi feudatari del continente, che mal sopportavano il pesante giogo statale che aveva imposto Ruggero II, approfittarono della morte del sovrano per cominciare a tessere i loro intrighi per riacquistare la libertà. In questo periodo Majone esercitò con perizia le sue funzioni di governo, ma la sua rapacità e la sua arroganza, unite alla totale assenza del sovrano che preferiva sollazzarsi con le sue concubine nel palazzo reale di Palermo, fecero in modo che la rivolta scoppiasse con la complicità del papa e di Manuele Comneno. Da gennaio a settembre del 1155 i bizantini corruppero e brigarono con tutti i nobili pugliesi e del meridione d'Italia ed in quel periodo tutta la costa adriatica da Taranto ad Ancona tornò sotto il controllo bizantino dopo quasi un secolo. Il Regno di Sicilia stava andando in pezzi; i vecchi signori di Capua erano tornati al potere nel loro principato e anche la storica Contea d'Alife, che tanto sangue e dispiacere era costata a Ruggero II, era perduta. Tutta la parte continentale del Regno, eccezion fatta per la Calabria, non era più sotto il controllo di Guglielmo I. Approfittando di questa situazione, nell'ottobre del 1155, papa Adriano IV si recò da Tivoli, dove lo aveva lasciato a luglio Federico I “Barbarossa”, a San Germano dove si fece giurare fedeltà da tutti i baroni campani e poi si ritirò su Benevento. In questa città, da sempre roccaforte papale incuneata nei dominii del Regno di Sicilia, egli ricevette una missione diplomatica dei bizantini che gli chiedevano di formare una grande alleanza contro i Siciliani e contro Federico I. Ma Adriano IV rifiutò, saggiamente, l'offerta. Questo cataclisma politico che aveva distrutto quasi trent'anni di lavoro di Ruggero II non si può comunque attribuire all'inezia di Guglielmo I o almeno non completamente. In effetti, per l'intera durata del 1155, egli fu gravemente malato ed impossibilitato a muoversi da Palermo e Majone cercò di fare quello che poteva per limitare i danni. Pare che proprio in questo periodo il “grande ammiraglio” siciliano cominciò a coltivare i suoi personali sogni di gloria. Se era vero infatti che l'esercito non poteva essere mobilitato senza il Re o il suo consenso era LA VOCE DELL’ISOLA 17 febbraio 2007 Q Un incontro tra il Re normanno e il Papa altrettanto vero che non si sapeva se Guglielmo I fosse sopravvissuto ad una malattia che più volte lo aveva dato per spacciato. Majone sperava forse di conservare la Sicilia e la Calabria con l'esercito e flotta integri lasciando il resto ai “cannibali” bizantini, papali ed imperiali così da prendere tutto il potere in mano e divenire un giorno anche Re. Non è da trascurare il fatto che la scusa di molti ribelli fu quella di sostenere, non a torto, che Majone esercitasse un'attività di governo dispotica ed accentratrice e se questa poteva essere tollerata se proveniente dal Re in persona, non lo era affatto se proveniva da un povero venditore di olio divenuto potente grazie agli intrighi ed alle macchinazioni. Vi furono agitatori bizantini che sparsero persino la voce che Majone avesse fatto assassinare il Re. Il fatto certo fu che Guglielmo I tralasciò colpevolmente gli affari del Regno nei primi mesi del suo governo e quando le cose cominciarono a precipitare egli era troppo malato per potere intervenire e, sicuramente, anche la grave malattia del Re fu un importante fattore che invogliò nemici interni ed esterni ad abbattersi su quello che ormai veniva considerato un regno in agonia. Ma verso la fine del 1155 Guglielmo I guarì del tutto e prese in mano la situazione in prima persona. Egli radunò il suo esercito e la sua flotta sbaragliando con una vittoria fulgida la flotta bizantina a Brindisi e soffocando la rivolta in tutto il meridione d'Italia entro il giugno del 1156. Tutta l'Europa fu colpita dalla dimostrazione di straordinaria forza di Guglielmo I e lo stesso papa Adriano IV si rese conto di essersi cacciato in un bruttissimo pasticcio. Non solo il successore di Ruggero II non era morto, Ruggero I di Sicilia nonno di Re Gugliemo ma aveva anche dimostrato di avere doti militari assolutamente non inferiori a quelle del padre. Quello che invece lasciò di stucco tutti gli attori della politica di allora fu l'immensa crudeltà della repressione messa in atto da Guglielmo I e da Majone. Tutti i baroni ed i nobili che avevano tradito furono impiccati o peggio ancora accecati e poi buttati per sempre nelle terribili fortezze siciliane. Da allora in poi la storia conobbe Guglielmo I d'Altavilla come Guglielmo “il malo”. La città di Bari pagò un fio esemplare alle sue voglie di autonomia, il Re la fece distruggere completamente e radere al suolo. In questo particolare atto si noterà come il Re volle punire in modo esemplare la città natale di Majone come a voler dire al mondo intero che il Re era sempre e comunque lui. Ma l'appellativo di “malo” fu forse un'esagerazione di una storia scritta comunque a posteriori. In verità Guglielmo I non mostrò certo la diplomazia del padre nel dirimere le ribellioni ma, a onor del vero, egli vide in questa cospirazione internazionale l'ennesimo tentativo di negare e distruggere ciò che suo padre e suo nonno avevano costruito con tanto sacrificio. Probabilmente, ma è solo una congettura, ad esasperare Guglielmo I fu il tempismo con il quale si cercò di approfittare della sua malattia e della sua inesperienza; in definitiva egli sentiva di non essere ancora una realtà accettata e consolidata fra i potenti del mondo che volevano a tutti i costi cancellare il Regno di Sicilia. Adriano IV, dunque, non si sentiva più sicuro tra le mura di Benevento e con Federico I lontano, ed allora cercò di volgere la situazione in suo favore prima che il terribile Siciliano facesse un sol boccone di lui. I due si incontrarono a Benevento ed ivi firmarono un trattato di pace dove il pontefice investiva Guglielmo Re di Sicilia e di tutti i territori sino ad allora conquistati, confermava tutti i privilegi dell'apostolica legatia (la prerogativa ottenuta dal nonno - il Gran Conte di Sicilia Ruggero I - che consentiva di esercitare in Sicilia i poteri papali) ed estendeva agli eredi di Guglielmo tutto quanto ad egli conferito. Adriano IV aveva cambiato completamente bandiera ed in cambio aveva solo chiesto a Guglielmo I di riconoscersi formalmente vassallo del papa, cosa che il Re fece e che avevano fatto prima suo padre e suo nonno. Guglielmo I era uscito dalla crisi con un Regno ancora più forte di come Ruggero II glielo aveva lasciato. Anzi egli riuscì a fare una cosa che nemmeno il suo augusto padre era riuscito a mettere in atto; si pose come mediatore di pace nell'eterno conflitto tra il papa ed il popolo romano. Infatti quest'ultimo con estremo gaudio aveva accolto la notizia che il papa avesse fatto una pace con i siciliani e per fare un estremo sgarbo all'odiato Federico I “Barbarossa”, consentirono ad Adriano IV di tornare a Roma solo se fosse stato amico del Re di Sicilia. E, dunque, grazie ai buoni uffici di Guglielmo I ed al suo potente esercito, Adriano IV raggiunse una tregua con i Romani. Dopo i successi militari e politici del 1156 il Re, pensando a torto di essersi guadagnato il rispetto dei nemici con il terrore e la repressione oltre che con le proprie doti militari, se ne tornò a Palermo a fare la solita vita di palazzo circondato da ruffiani, giullari e concubine. Egli mostrava un tale disprezzo per le questioni amministrative e di governo che consentì al fido Majone di riprendere per intero le sue antiche abitudini, arrivando persino a delegare al grande ammiraglio il potere di firma regale su alcuni diplomi. Quest'ultimo era, e resterà a nostro avviso, un personaggio piuttosto equivoco. Le sue doti istrioniche ed oratorie erano immense ed egli riusciva sempre a cavarsi d'impiccio da qualsiasi situazione. La sua azione amministrativa fu sempre e sistematicamente contraria ai nobili ed ai potenti e fu, invece, favorevole al popolo. Egli era inoltre avido di ricchezze fino all'inverosimile e riusciva a fare del nepotismo e dell'occupazione “militare” dei posti di governo una delle sue attività preferite. C'è chi sostiene che egli mirasse segretamente ad impadronirsi del trono e si vociferava a palazzo che l'intrigante regina Margherita fosse la sua amante segreta. Quale che fosse la verità egli era totalmente inviso ai nobili ed ai parenti più stretti del Re che lo odiavano per ragioni profondamente diverse. I primi vedevano in Majone la prosecuzione della politica di mortificazione della nobiltà di Ruggero II in favore del potere centrale ed inoltre odiavano il barese per le sue umilissimi origini nonostante le LA VOCE DELL’ISOLA 11 17 febbraio 2007 quali egli aveva un potere che loro non potevano nemmeno permettersi di sognare. I secondi vedevano in quest'uomo infingardo, squallido ed arrogante una mortificazione della persona del Re e della famiglia reale che era ben distante era da quanto aveva dimostrato Ruggero II che lavorava di più dei suoi stessi ministri. Tuttavia fu solo grazie a Majone, ed al suo governo dispotico, se il Regno rimase tutto sommato unito e prospero considerato che il Re di tutto si occupava fuorché di regnare. Ma questa situazione non poteva durare a lungo. Dal 1156 al 1160 tutti i possedimenti africani furono perduti compresa la splendida città di al-Madya per delle clamorose scelte militari di Majone che si giustificò attribuendole al sovrano. Anche in questo caso vi fu chi disse che tutto questo era fatto ad arte per fare ricadere la colpa sul Re e renderlo inviso al popolo cosicché da poterlo, un domani, spodestare. In quello stesso periodo decine di nobili furono messi in carcere sfruttando tutti i cavilli che le “leggi di Ariano” (emanate da Ruggero II) consentivano e tutto questo con l'avallo o l'ignavia del sovrano. Non sfuggirono al regime di “polizia” di Majone nemmeno i reali. Al conte di Lecce, nipote diretto del Re, Tancredi (figlio naturale di Ruggero duca di Puglia fratello maggiore del Re morto nel 1148) veniva persino vietato di allontanarsi dal palazzo reale. La rivolta partì da una città simbolo per gli Altavilla: Melfi. Nel 1160 la città dichiarò palesemente che non avrebbe più obbedito agli ordini di Majone, nè tollerato suoi emissari dentro le sue mura. In breve tutta la Puglia divampò in una feroce ribellione e tutte le città alle quali Majone intimava di obbedirgli si rifiutavano sdegnosamente. Per evitare che la ribellione si allargasse anche alla Calabria, Majone vi mandò Matteo Bonello, signore di Caccamo (oggi in provincia di Palermo) nonché suo futuro genero che era uno dei signori siciliani con più carisma e seguito sia dentro il Regno che fuori di esso. Ma in Calabria successe l'inverosimile; Bonello che era andato lì per convincere i calabresi che tutto quello che si diceva su Majone fosse falso e tendenzioso non solo fu convinto dai nobili calabresi del contrario, ma lo convinsero anche a rompere il fidanzamento con la figlia del grande ammiraglio promettendogli in sposa la contessa di Catanzaro (una figlia naturale di Ruggero II avuta con una concubina, quindi una sorella del Re). Come se non bastasse, Bonello lasciò la Calabria promettendo di uccidere Majone. Ma quest'ultimo aveva informatori ovunque e, prima che Bonello lasciasse la Calabria, egli era già al corrente di tutto e pronto a farla pagare al giovane signore; quando Bonello tornò in Sicilia e giunse a Termini gli fecero sapere che Majone sapeva tutto e che la sua vita non era al sicuro. A questo punto Bonello fece il colpo da maestro e scrisse una lettera a Majone nella quale lo informava che tutto in Calabria era pacificato e che lui non vedeva l'ora di sposare sua figlia pregandolo di non differire oltre il matrimonio. Majone si convinse così che il giovane era sincero ed abbandonò i suoi propositi di vendetta. Ma la vicenda diventò un vero proprio noir d'autore. Bonello, invitato da Majone, si recò a Palermo per organizzare le nozze ma con il segreto scopo di farlo fuori. Affinché questo disegno omicida prendesse corpo vi era però da attirare il grande ammiraglio nella trappola giusta e non era cosa semplice considerato il fatto che egli era sempre sospettosissimo e pieno di spie. L'occasione fu fornita da Majone stesso e dai suoi disegni occulti. Occorre infatti svelare che a Palermo era rimasto a Majone un solo nemico, l'arcivescovo Ugo, che egli però non poteva eliminare con i metodi classici dello screditamento o della prigione in quanto anche l'alto prelato godeva dell'amicizia e del sostegno incondizionato di Guglielmo I. Pertanto Majone dovette fare nei suoi confronti sempre buon viso a cattivo L’arte bizantina fu comunque promossa dagli Altavilla gioco. Ma in quei tempi di rivolte, Majone aveva bisogno del potere assoluto e l'arcivescovo andava eliminato, quindi progettò di farlo assassinare con del veleno. Tuttavia l'arcivescovo non era quello che può definirsi uno sprovveduto ed anche lui aveva i suoi informatori; egli sapeva benissimo che Majone gli tramava contro, ma non sospettava minimamente che l'altro sarebbe giunto al punto di farlo avvelenare. Majone procedette nel suo piano e fece avvelenare l'arcivescovo proprio il giorno prima che Bonello giungesse a Palermo; tuttavia il veleno non fece l'effetto desiderato e l'arcivescovo restò malato ed infermo nel suo palazzo ma vivo e vigile. Majone decise allora, proprio nel giorno in cui Bonello giungeva a Palermo il 10 novembre del 1160, di avvelenare personalmente l'arcivescovo con la scusa di portargli una potente medicina. Quando il prelato seppe che il grande ammiraglio quella sera gli avrebbe recato visita, con il chiaro intento di finirlo, si difese in modo “trasversale” e fece riferire a Bonello (non si è mai capito come l'arcivescovo sapesse della congiura contro Majone) che quella sera il loro obiettivo sarebbe uscito dal suo palazzo. Bonello radunò decine di uomini fedeli nei pressi del palazzo vicino a quella che all'epoca era chiamata Porta S. Agata ed attese il momento propizio. Majone andò dunque a trovare l'arcivescovo per portargli una “medicina” con la sua consueta scorta e visto che il prelato, pur ringraziandolo per il gentile pensiero, non voleva prendere la “medicina” perché particolarmente maldisposto se ne tornò fuori a meditare il prossimo passo per levare di mezzo l'infingardo prete. Nel frattempo il Protonotaro del Regno, una specie di moderno Guardasigilli, Matteo d'Aiello era corso ad avvisare Majone del mortale pericolo che incombeva su di lui; ma non fece in tempo perché quando arrivò l'agguato era in corso e Bonello stava trafiggendo Majone con una spada gridando vendetta per tutti gli innocenti che il grande ammiraglio aveva sulla coscienza. Matteo d'Aiello, gravemente ferito, fu l'unico a salvarsi da quella strage. Guglielmo I andò su tutte le furie ma quando vide che il popolo gioiva e che i ribelli pugliesi e di tutto il regno deposero immediatamente le armi a condizione che Bonello non venisse punito, cercò di riconsiderare le sue posizioni e di calmare la sua rabbia. Gli vennero esposte tutte le malefatte di Majone ed egli si convinse a concedere il perdono a Bonello facendolo tornare a Palermo ove entrò osannato da tutti. Lo stesso Guglielmo I cominciò a frequentarlo spesso a corte. Nel contempo grande ammiraglio del Regno era stato nominato il catanese Aristippo. Ma il vecchio partito di Majone non poteva tollerare che tutto finisse così ed i suoi più grandi esponenti, Matteo d'Aiello, il carmerlengo reale Adenolfo e la stessa regina Margherita, cominciarono a riempire la testa di Guglielmo I della convinzione che Bonello fosse solo un vile assassino che voleva impadronirsi del trono. Tutto ciò ebbe il dovuto effetto sul volubile sovrano che cominciò ad allontanare il Bonello da Palazzo dei Normanni, dove tornarono a spadroneggiare i seguaci del defunto barese con Matteo d'Aiello in testa. Una volta caduto in disgrazia, Bonello chiamò i vecchi amici ed organizzò una congiura per deporre il sovrano e mettere sul trono il figlio primogenito Ruggero che non aveva nemmeno dieci anni. La cosa peggiore fu che alla congiura partecipò fin anche il sangue stesso di Guglielmo I esasperato dal contegno intrigante di questi cortigiani; infatti tra gli organizzatori vi furono: il conte di Lecce Tancredi ed il conte Simone (un fratello naturale di Guglielmo I avuto da Ruggero II con una concubina). Il problema sarebbe stato quello di penetrare nelle stanze del Re che erano il luogo più protetto del Regno Una fortificazione normanna in Sicilia intero. Tuttavia dato che spesso il capo delle guardie reali, il temibile Malgero, spesso si assentava lasciando il comando del corpo di guardia al capo delle carceri, si fece in modo di corrompere quest'ultimo. Una volta che tutto il piano fu a punto, Bonello se ne andò fuori Palermo a cercare armi e viveri in previsione di una futura guerra; ma siccome uno dei soldati che doveva partecipare al “golpe” aveva avuto dei rimorsi e minacciava di spifferare tutto i congiurati dovettero agire senza il loro capo. Fu così che il nipote Tancredi ed il fratello Simone irruppero nelle stanze di Guglielmo proprio mentre egli era a colloquio con Aristippo. Guglielmo tentò di scappare ma venne trattenuto da un congiurato, Riccardo di Mandra, che impedì a chiunque di recare offesa alla persona del Re considerato il fatto che per irrompere negli appartamenti reali e sopraffare le guardie si erano dovuti liberare i detenuti segregati nei sotterranei del palazzo reale. Il sovrano fu rinchiuso nelle sue stanze ed i galeotti si misero a saccheggiare brutalmente il palazzo non disdegnando di stuprare qualsiasi dama capitasse loro a tiro. I congiurati nominarono Re il piccolo Ruggero e dopo averlo messo su un cavallo decorato lo fecero sfilare per tutta Palermo dove il popolo accolse festante il re fanciullo che, fu promesso, sarebbe stato incoronato quando Bonello fosse tornato. Ma Bonello, non si sa per quale ragione, tardava a tornare e le voci di popolo, non si sa quanto fomentate da agitatori, mormoravano che al trono sarebbe asceso Simone fratello naturale del Re. Dopo tre giorni di incertezze il popolo si rivoltò e pretese la liberazione di Re Guglielmo. I congiurati com- 12 batterono, ma il popolo ebbe la meglio ed il Re venne liberato con la promessa che i nobili si sarebbero potuti muovere liberamente; ma durante quegli scontri il piccolo Ruggero morì trafitto da una freccia di ignota provenienza. I congiurati uscirono e andarono a Caccamo a cercare Bonello mentre Guglielmo I ci viene descritto in lacrime seduto sul suo mantello stracciato a piangere per il figlio perduto e per il terribile oltraggio subito. Egli aveva veramente toccato il fondo. Dopo aver ricevuto il conforto dei vescovi e dei familiari rimasti a lui fedeli si recò nella sala grande delle udienze e ringraziò il popolo tutto per averlo liberato. Il Re dichiarò che quanto accaduto era il giusto castigo divino per la sua cattiva condotta e liberò la città di Palermo dalle gabelle regie sul commercio e naturalmente il popolo gridò: “Viva il Re”. Il sovrano si destò dal suo torpore durato quasi cinque anni e si rimise alla testa del suo Regno. Mandò a Caccamo un messaggero chiedendo a Bonello come osasse ospitare coloro che avevano congiurato contro di lui ed avere lui stesso congiurato. Bonello rispose sdegnosamente che la colpa di tutto questo era del sovrano stesso che per tanti anni aveva consentito l'umiliazione degli uomini migliori del Regno. Guglielmo I non tollerò oltre ed impose ai congiurati di venirsi ad inginocchiare davanti a lui, questi risposero radunando le armi e marciando contro Palermo. Il Re era senza esercito, senza vettovaglie e senza nulla che non fosse la sua volontà. I rinforzi stavano per arrivare da Messina ma se Bonello fosse arrivato prima il trono sarebbe stato perduto. Nonostante ciò l'Altavilla non si tirò indietro e non si sa come Bonello ebbe paura di ciò che stava per fare e se ne tornò a Caccamo. Palermo era salva e la corona pure. A Bonello, visto il grande favore di cui godeva presso il popolo, fu concessa la grazia mentre Aristippo perse il posto per essere sospettato di essere in combutta con i congiurati, Matteo d'Aiello venne riconfermato nella sua carica mentre Simone e Tancredi non si piegarono al parente e si asserragliarono in Butera sobillando anche Piazza Armerina, Aidone e tutte quelle terre popolate dai lombardi venuti al seguito di Adelaide del Vasto terza sposa del Gran Conte Ruggero I e nonna di Guglielmo I. In quelle terre i due principi di sangue reale sterminarono un numero impressionante di musulmani in odio al potere che essi avevano ancora a corte. Ma ormai Guglielmo era nel pieno del suo potere e del suo furore e radunò un enorme esercito per andare a stanare il fratello ed il nipote ribelli. Prima di lasciare Palermo però, ascoltò un consiglio datogli da qualcuno del partito di Majone che reputava pericoloso che il Re si allontanasse da Palermo lasciando libero il Bonello. Guglielmo non se lo fece dire due volte e con una scusa convocò Bonello a corte dopodiché lo fece arrestare, buttare in galera ed accecare; la sua vendetta era completa. Il popolo insorse per difendere il suo paladino ma Guglielmo fece trovare l'esercito davanti al palazzo e nessuno fu disposto a sfidare la collera sovrana. Messo a partito Bonello e calmata la capitale, Guglielmo partì verso i ribelli. La città di Piazza Armerina fu rasa al suolo, mentre Butera venne messa sotto assedio per lungo tempo. Quando nacque una discordia tra i soldati dei congiurati e gli abitanti, la città cadde nelle mani di Guglielmo I che perdonò suo nipote Tancredi a condizione che lasciasse immediatamente il regno, cosa che egli fece. Lo si ritroverà Re di Sicilia, nel 1189. Una volta sedata la rivolta siciliana, Guglielmo I, armato del sacro fuoco della vendetta. sbarcò in Calabria e poi di li proseguì in Puglia mettendo a tacere tutti i ribelli, distruggendo città ed accecando i baroni ribelli. Bari fu rasa al suolo per la seconda volta nel giro di cinque anni e la stessa sorte sarebbe toccata a Salerno se non fosse intervenuto Matteo D'Aiello, salernitano di nascita e nuovo pupillo del sovrano. Entro la fine del 1161 tutto tornò alla normalità ed il Regno fu nuovamente pacificato, con il terrore ma pacificato. Tornato in Sicilia egli riprese le solite abitudini di sempre anche se questa volta ebbe l'intelligenza di non affidare tutto il regno nelle mani di una sola persona ma di tre. Una era il Protonotaro del Regno Matteo D'Ajello del vecchio partito di Majone e della Regina Margherita, un'altro Riccardo Palmer vescovo di Siracusa che rappresentava il potere ecclesiastico e Pietro l'Eunuco un LA VOCE DELL’ISOLA 17 febbraio 2007 I normanni di Sicilia difendono il papa a Venezia. Sotto: stemma reale della famiglia Altavilla musulmano fedelissimo al Re. È inutile dire che questa ripartizione del potere meglio giovò al Regno ed al sovrano stesso che continuò a sollazzarsi a palazzo ma almeno ebbe la certezza che tra partiti così diversi mai avrebbero potuto accordarsi contro di lui. Tuttavia il partito musulmano di Pietro l'Eunuco prese parecchio potere e si vendicò, ove possibile, di tutto quello che aveva subito durante la ribellione dei baroni. L'ultimo momento di gloria di Guglielmo I si ebbe nel 1165 quando, con la tutela di una scorta siciliana, il papa Alessandro III rientrò a Roma. Nella sua splendida villa privata a Palermo, nel 1166, Guglielmo I fu colto da una fortissima dissenteria e, capendo che stava per morire, dettò le sue ultime volontà designando suo erede il figlio dodicenne che portava il suo nome e lasciando il titolo di Principe di Capua al figlio minore Enrico, che comunque morirà nel 1172. Essendo Guglielmo II minore di età nominò sua moglie Margherita reggente con l'ausilio ed il consiglio di Matteo d'Aiello, di Riccardo Palmer e di Pietro l'Eunuco. Il 7 maggio 1166 dopo quindici anni di regno, di cui dodici solitari, Guglielmo I d'Altavilla detto “il Malo” terminò, a quarantasei anni, la sua esperienza terrena. Non è cosa semplice tracciare un bilancio o un profilo di questo personaggio che fu il più controverso di tutti i regnanti tra gli Altavilla di Sicilia. Dal punto di vista della politica interna non si può assolutamente condividere nè giustificare nessuna scelta di Guglielmo I, se non altro perché non prese mai alcuna decisione rilevante in questo senso delegando tutto ai Majone o ai d'Aiello di turno. In pratica, dando carta bianca a questi personaggi, egli si garantì un baluardo contro le richieste e le prepotenze nobiliari e garantì dunque una prosecuzione al disegno centralista e centralizzante del padre e del nonno senza mai assumersene personalmente la responsabilità. Se il prezzo da pagare per questa politica fu l'arricchimento personale ed il nepotismo di qualche ministro non sembrò importagliene molto, considerato il fatto che quando, comunque, vi fu da combattere per la difesa e l'integrità del Regno non solo egli lo fece ma fu l'unico Re di Sicilia degli Alta- villa che non fu mai sconfitto in battaglia o in assedio ed in questo, e forse solo in questo, fu anche superiore al padre e al nonno. Quanto alla sua politica estera, egli la gestì molto più e molto meglio di quanto le cronache non vogliano farci apparire. Per prima cosa anche se tutti, a parole, erano suoi nemici nessun regnante o potente osò toccare il Regno anche nei momenti peggiori tra il 1160 ed 1161 quando esso stesso rischiava seriamente di non esistere più. Solo Bisanzio ci provò, nel 1155, e la sua flotta fu completamente annientata da Guglielmo in persona a Brindisi. Lo stesso imperatore Federico I “Barbarossa”, che tante volte annunciò la sua discesa contro i siciliani mai passò dalle parole ai fatti finché regnò Guglielmo I. La scelta, invero assai intelligente, di scendere a patti con Adriano IV quando avrebbe potuto farne un sol boccone fu sempre criticata dai cronisti suoi contemporanei (e anche da quelli più moderni per la verità) come un segno dell'estrema debolezza di questo sovrano e come opera del perfido Majone che voleva indebolirlo. Tutto questo è assolutamente opinabile; non solo il “patteggiamento” con un papa sconfitto ed inerme rientrava perfettamente nella tradizione degli Altavilla sin dalla battaglia di Cividale del 1053 con Leone IX, ma esso era condizione necessaria per avere un amico influente, il papa, in un mondo come quello della metà del XII secolo dove tutti, per motivi differenti, erano ostili a lui ed al suo regno. Inoltre la sua alleanza con il papa gli fruttò il riconoscimento del diritto di regnare e di trasmettere il titolo regio ai suoi eredi in un momento in cui questo diritto non era ancora ben consolidato. Basterà ricordare, a tal proposito, che Innocenzo II aveva concesso questo diritto a Ruggero II solo sotto la minaccia di un esercito ma tutti i suoi successori, da Celestino II a Eugenio III avevano sconfessato e negato questo diritto tanto che, come si è visto, Ruggero II dovette procedere motu proprio all'incoronazione di Guglielmo nel 1151. Viene talvolta ribadito che avere concesso ad un papa sconfitto il riconoscimento del vassallaggio, anche se formale, fu un atto di debolezza di Guglielmo. Potrebbe anche essere così, ma considerato che tutti i sovrani dell'epoca si dichiaravano vassalli del papa e visto che tutti i suoi predecessori lo avevano fatto non si capisce perché egli non avrebbe dovuto accontentare il papa su una vicenda che, comunque, restava puramente formale. L'unico, ma non per questo meno grave, neo della politica estera del figlio di Ruggero II fu la totale perdita dei domini africani anche se essa non significò la fine della supremazia navale siciliana nel Mediterraneo centrale. Guglielmo I non era nato per regnare e, come si è detto, non vi era stato educato. All'età di 28 anni, nel 1148, si trovò all'improvviso unico erede ad uno dei troni più importanti e scottanti del mondo allora conosciuto ed all'ombra di un padre che faceva tremare i nemici al solo suono del suo nome. Imparò il mestiere di Re in men che non si dica, ma quel mestiere non gli piacque mai e pagò di persona la sua indolenza quando il suo primogenito venne ucciso durante l'ultimo tumulto palermitano. Guglielmo I fu, tendenzialmente, un uomo solo a cui mancò la stima paterna e, forse, l'amore materno (sua madre morì quando lui aveva quindici anni). Il suo volontario perdersi tra le braccia delle sue concubine e nei boschi delle sue tenute di caccia dimostrava un animo bisognoso di attenzione e non dispensatore di essa. Prode guerriero ed uomo colto, fu un solitario la cui reazione al tradimento del mondo che lo circondava fu la brutalità delle punizioni e per questo venne chiamato il “Malo” appellativo che, se meritato, non era certo oggettivo visto e considerato che all'epoca persino i papi facevano bruciare vivi i loro nemici. LA VOCE DELL’ISOLA 17 febbraio 2007 Acireale (CT) Corso Savoia, 102 - te l. 095/7639063 Acitrezza (CT) - Via Provincia le, 183 – tel. 09 5/7116914 Catania (CT) Corso Italia, 92 - tel. 095/53543 3 Fondachello (C T) - Viale Imma colata, 138 - te l. 095/7700000 Giardini Naxos (ME) - Via Jann uzzo, 14/a - tel. 0942/653117 Giarre (CT) - V ia Callipoli, 57/a - tel. 095/93026 4 Letojanni (ME) - Via V. Emanu ele, 342 - tel. 0 942/651045 Linguaglossa (C T) - Via Roma, 69 – tel. 347/60 83135 Mascalucia (CT ) - Via Caronda , 4 – tel. 095/91 4959 Mascali (CT) Via Luigi Piran dello, 14 tel. 09 5/967776 Messina (ME) Via Del vespro , 43 - tel. 090/6 010204 Paternò (CT) Via V. Emanue le, 196 - tel. 09 5/857913 Riposto (CT) Via Cristoforo Colombo, 37 tel. 095/685001 Roccalumera (M 5 E) - S.S. 114 us cita casello A1 8 - tel. 348/471 S. G. La Punta 5129 (CT) - Via G. M otta, 9 - tel. 09 5/7512231 S. Venerina (C T) - Piazza Rom a, 5 - tel. 320/8 957665 Siracusa (SR) - Via Torino, 11 4 - tel. 0931/24 368 Villafranca Tirre na (ME) - Via N azionale, 384 tel. 090/337459 Numero Verde: 840 000 642 13 LA VOCE DELL’ISOLA 14 17 febbraio 2007 Non passa nella Finanziaria regionale la proposta di diminuzione delle indennità dei parlamentari isolani Finanziaria pesante, ma non per i deputati A Sala d’Ercole si è toccato ancora il fondo Tagliano spese “superflue” ma non toccano la loro busta paga di GUGLIELMO ALTAVILLA Q ualche tempo addietro, dalle colonne di questo giornale, abbiamo condotto un'inchiesta su quanto guadagno i nostri eletti presso i vari parlamenti ed assemblee ai quali li mandiamo a rappresentarci ed ha fare i nostri (!?) interessi. I deputati all'Assemblea Regionale Siciliana sono risultati i secondi in classifica, battuti soltanto dagli scandalosi stipendi dei parlamentari europei eletti in Italia. Ebbene da qualche anno a questa parte va dato atto all'onorevole Tumino (del centro-sinistra) di condurre una battaglia, assolutamente solitaria, per la riduzione degli “stipendi” dei parlamentari siciliani. È evidente che non si può tenere il livello dei guadagni parlamentari siciliani su cifre che sforano gli oltre 15 mila euro netti mensili per ogni deputati, mentre la disoccupazione e la povertà galoppano ed i super stipendiati nulla facciano per risolvere il problema. Durante la discussione in aula degli ultimi giorni di gennaio si stavano tagliando fondi e stipendi a destra e a manca quando è arrivato in discussione l'emendamento dell'onorevole Tumino. Mentre pochi minuti prima la maggioranza di centro destra soccombeva ai franchi tiratori nella riduzione degli stipendi ai super manager regionali (emendamento passato), improvvisamente sull'emendamento Tumino calava il silenzio. Votare quell'emen- Palazzo d’Orleans damento sarebbe ovviamente stato un suicidio politico per tutti, perché non sarebbe passato ma la responsabilità politica di quel voto sarebbe stata enorme. Ed allora cosa hanno inventato quei “mattacchioni” di Sala d'Ercole? Hanno fatto dichiarare al presidente dell'Assemblea (in quel momento l'on. Stancanelli) che l'emendamento non era ammissibile in quanto l'indennità e legata a quella dei senatori della Repubblica Italiana e, pertanto, l'Assemblea Regionale non può votare su di essa. Peccato che tutti si siano dimenticati che quando i senatori si Attenti al lupo! C'è un politico fra noi che vuole tutti i nostri risparmi I licantropi sono fra noi? di FRANCO LOMBARDO Convegno a Palazzo Marini di Roma Atenei: maggiori risorse S I l romanzo gotico ha certamente aperto, in campo letterario, l'epopea del genere horror dove mostri, demoni e semplici belve umane divengono l'icona delle paure ancestrali dell'uomo, riducendo al concetto di malvagio un'intera categoria di atti tipicamente umani come l'omicidio efferato, la tortura, il rapimento e via così. Tra tutti i tipici personaggi di questo mondo uno che spicca su tutti è il licantropo. Esso è un essere umano maschio, tipicamente al servizio di streghe ovvero di Santana in persona, che nelle notti di luna piena si trasforma in un crudele lupo mannaro di dimensioni giganti (umane per l'appunto) che uccide, in maniera molto cruenta, chiunque gli capiti a tiro. La figura del licantropo è stata anche studiata dal punto di vista medico ed antropologica per verificare se vi fosse un reale collegamento tra la fantasia e reltà. Certamente è stato appurato che non né esistono a livello fisico e biologico ma, forse, un collegamento, seppur metaforico, lo si può intravedere con la politica. Tanti secoli fa, alcuni uomini illuminati dell'antica Grecia, decisero che la sopraffazione e la violenza non potessero essere il metodo per governare comunità di uomini. Si creò così la poleis la città greca dove il governo era esercitato tramite la sintesi delle posizioni ed il confronto dialettico e fu così che nacque la politica. Pertanto il politico dovrebbe essere colui che spinto da un ideale o da una sua visione del governo degli uomini si batte affinché ciò si tramuti in azione di governo e leggi. Ma nei secoli questa visione astratta si è trasformata in un vero e proprio essere che usa le idee per imporsi all'attenzione di coloro ai quali chiede il voto e la delega per governare. Non importa se si inizi la propria carriera con idee bian- ridussero l'indennità del 10 per cento (cosi come i deputati) per volere del Governo Berlusconi, qualcuno in Sicilia si sia dimenticato di applicare il provvedimento. E poi questa scusa è una foglia di fico bella e buona perché l'Ars poteva comunque approvare un emendamento che, nere o grigie, l'importante è iniziare, conquistare una sedia, un posto, un seggio, un gettone di presenza; di li in poi avrà luogo la mutazione. Compromessi, equilibri di partito e giunta, accordi trasversali fatti sempre più nell'interesse personale che per quello dei propri elettori divengono il pane quotidiano dei tribuni che si trasformano in lupi assetati di potere e prebende. Il trasformismo politico si identifica perfettamente con la licantropia che alla luce della luna piena del potere digrigna i suoi immensi canini per fagocitare tutto il possibile. Eppure grazie all'accorto make-up dei professionisti della televisione, i lupi appaiono bonari e dispensatori di pace, di buoni propositi, di progresso sociale mentre i direttori del palco mediano e sorridono mentre i lupacchioti in giacca e cravatta ammiccano all'elettore. Attenti al lupo dunque, il cestino dei nostri risparmi potrebbe essere a rischio. che destinasse una percentuale delle indennità dei deputati al bilancio regionale, magari ad un capitolo per la spesa sociale. Ed invece tutti, compresi quelli del suo schieramento, a dire a Tumino che la sua era una sacrosanta battaglia ma che il momento non era adeguato per affrontare un argomento così serio e delicato che merita un opportuno spazio, spazio che si deve necessariamente trovare. Lo sappiamo tutti, lo spazio non si troverà mai, ed anche questa volta i nostri rappresentanti hanno mostrato quanto piccola sia la loro capacità di essere dei veri politici. Mentre in Sicilia mancano i soldi per l'assistenza sanitaria, per la spesa sociale, per gli Enti Locali e molte aziende finiscono per fallire perché creditrici di somme astrali nei confronti della Pubblica Amministrazione, loro dicono che non possono tagliarsi lo stipendio perché non gli compete. Dovrebbero spiegare, ma non lo faranno mai, che cosa compete loro visto che costano 250 milioni di euro all'anno solo di stipendi ed indennità e non riescono a produrre altro che debiti e nuovi sacrifici per un popolo che è già allo stremo. Potremmo chiedere loro di vergognarsi, ma questa capacità l'hanno perduta da tempo immemorabile, l'unica vergogna che avrebbero sarebbe quella, un giorno, di girare senza autista e di non potere più sedersi in prima fila pure alla recita di Natale dei nipoti. i è tenuto a Roma nella Sala della Conferenze di Palazzo Marini un dibattito sull’Università al quale sono intervenuti, tra gli altri, il ministro per l’Università e la Ricerca Scientifica Fabio Mussi e il sottosegretario Nando Dalla Chiesa. L’onorevole Ferdinando Latteri, componente della VII Commissione (Cultura, Scienza e Istruzione) della Camera dei Deputati e responsabile nazionale della Margherita per l’Università, ha introdotto e concluso i lavori. Nell’intervento di Latteri è stato posto l’accento sulle risorse previste nella Finanziaria dal governo Prodi. Sono previste, infattim, maggiori risorse per la ricerca e per l’università rispetto a quelle precedenti. Ad esempio, grazie al First (Fondo per gli interventi in ricerca scientifica e tecnologica), c’è quasi un miliardo di euro in più, suddiviso in tre anni. Inoltre, sono stati stanziati 150 milioni di euro per l’edilizia universitaria. Vengono destinati ulteriori 20 milioni di euro per il triennio 2007-2009 per la ricerca scientifica e 79 milioni di euro in più per il 2007 per il Fondo ordinario per le università. Sono passi significativi per il rilancio dell’università e della ricerca. Ma è evidente che è necessario reperire più fondi per gli atenei. Si dovrebbe puntare anche sulla capacità di raccogliere fondi privati. I nostri ricercatori devono competere con quelli degli altri Paesi con parità di mezzi e pari dignità: lo richiede, del resto, il progresso scientifico in continua evoluzione. Ed è importante stimolare la qualità e la competizione, facendo leva sulla distribuzione dei finanziamenti. Importante è stato anche il tema delle riforme: sono trascorsi sette anni dall’introduzione del 3+2. Accanto a elementi positivi, come la forte riduzione dei tempi di conseguimento della laurea e il rapporto più stretto, seppur contraddittorio, con il mondo del lavoro, ci sono quelli negativi, come la cultura della velocità e della conquista del credito a scapito della qualità. “Siamo alla vigilia della riforma della riforma: dopo più di venticin- que anni, bisogna valutare gli effetti della Legge 382 del 1980”, ha sottolineato Ferdinando Latteri, che ha proseguito evidenziando che “l’impegno del Governo e del Parlamento deve essere quello di creare i presupposti per la definitiva attuazione del modello universitario, sottoposto negli ultimi tempi a diverse modifiche normative, concedendo agli atenei gli strumenti utili a formare i giovani nel modo migliore. Bisogna sostenere con iniziative concrete la capacità di riorganizzazione del modello universitario attorno a poli significativi di sviluppo in grado di essere competitivi a livello internazionale. Inoltre, i rapporti tra sistema universitario e Servizio sanitario nazionale devono essere affrontati con la massima urgenza e attenzione: L’attuale questione dei Policlinici universitari, oggi aziende ospedaliere-universitarie, deve rientrare in un’ampia modifica e revisione del decreto legislativo 517 del 1999 che tiene conto del rapporto tra Servizio sanitario nazionale e università”. “Altro settore importante è quello della valutazioni”, ha proseguito Latteri: “Bisogna riformare i concorsi, un problema italiano irrisolto che deve essere affrontato con una seria riforma dell’università che premi davvero i più meritevoli e non coloro con maggiori appoggi. La ricerca e la didattica non possono essere sostenute senza fare ricorso ad adeguati parametri di valutazione. Credo che si debba puntare su efficaci meccanismi che adottino parametri capaci di considerare le dinamiche di ogni ateneo, di ogni gruppo di ricerca, di ogni studioso e, contemporaneamente, la capacità di correlazione internazionale. L’istituzione di un’Agenzia di valutazione permetterà di passare dal controllo delle procedure, che non riesce mai ad essere efficace, alla valutazione dei risultati. Recentemente si è parlato molto di docenti universitari troppo anziani rispetto alla media europea. I nostri atenei devono trovare il giusto equilibrio tra giovani ricercatori e studiosi in età avanzata”. Ma.Fi. LA VOCE DELL’ISOLA 15 17 febbraio 2007 Forse oggi l’educazione dei giovani risente della mancanza di una esperienza formativa nelle caserme Il “fu” servizio di leva obbligatorio È vero che ha reso l’Italia più democratica? Si acquisiva il senso dello Stato e l’appartenenza alla collettività di GIUSEPPE PARISI Q ualche tempo fa, nostro figlio Angelo, lupetto dell’Agesci, partecipò ad un campo in Calabria. I capi degli scout organizzarono una giornata per i genitori allo scopo di far vedere concretamente alle famiglie i risultati raggiunti dai ragazzi secondo quella meravigliosa metodologia educativa del “conoscere per saper fare” che è lo scoutismo ideato da Robert Baden Powell, già tenente colonnello dell’Esercito Inglese chiamato da tutti i suoi esploratori semplicemente B.P.. Quello che ci colpì maggiormente non fu il “risultato” ottenuto da nostro figlio e dai ragazzi della squadriglia, ma una frase che un bambino di otto anni disse al suo amichetto milanese durante il fuoco di bivacco. C’erano infatti in quella zona di campeggio anche altre unità di Milano, Torino e Novara. Il lupetto milanese, chiamato ad intervenire da nostro figlio, esclamò sorpreso, in dialetto nordico, qualcosa del genere:“Chist chi parlun italiani cum ni!”, che tradotto significa: “Questi qua (i siciliani) parlano italiano come noi!” Se ci stiamo a pensare su un momento, vediamo come questo dire spontaneo riveli cosa si “pensa” al Nord della nostra isola. Tutto questo panegirico perché vorremmo, in questa breve chiacchierata con i lettori, evidenziare alcune cose che magari possono essere sfuggite ai più. Partiamo, seppur con ampio respiro, dall’Unità d’Italia ricordando che il 4 maggio del 1861, con Decreto del ministro Fanti, l'Armata Sarda, che aveva incorporato molti eserciti preunitari, prendeva la denominazione di Esercito Italiano, denominazione che tuttora mantiene anche se un pezzo delle sue gloriose componenti, quali i Carabinieri (arma dell’Esercito), recentemente ha avuto riconosciuta la dignità di Forza Armata, occupando così il quarto posto nella panoramica delle Forze Armate che, per onore di cronaca, nell’ordine elenchiamo: Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri. Ma al di là di questa inquadratura puramente normativa, vorremmo parlare del servizio di leva che la legge 23 agosto 2004, n. 226 ha abolito. Questo passaggio che apparentemente è stato indolore e incolore e di cui si è parlato poco e spesso male, è stato interpretato dai più come un qualcosa di scontato. Uno degli episodi “normali” nella crescita civile di un paese democratico. Ma in realtà, in che misura il servizio militare di leva obbligatorio ha influito nel sociale di questa nostra Italia? E quali saranno, se ci saranno, i risvolti negativi? In questa sede non vogliamo tessere un “amarcord” di tanta storia italiana ma solo e più semplicemente puntare su alcuni concetti per più attente e variegate riflessioni. Moltissimi dei nostri lettori ricorderanno come a “quei tempi” i ragazzi del sud andavano al nord mentre quelli del nord scendevano a sud. Era questa un’occasione, fatta l’Italia sulla carta, di avvicinare le tante anime di cui era costituita la penisola, miscelando, anche se per un periodo relativamente breve, quasi tutta la classe maschile italiana che così aveva l’opportunità di conoscere usi e costumi diversi da quelli d’origine. Per i ragazzi, la naia costituiva l’ultima tappa, sotto molti aspetti la più importante, della propria vita. Essere dichiarati “idonei” alle armi significava essere fisicamente a posto con la propria mascolinità “certificata” (c’era un detto fra le ragazze: “Se sei buono per il Re sei buono anche per me”). Un’altra meta che si raggiungeva era quella che il rientro dalla naia segnava anche il termine dello scanzonato periodo della giovinezza. A servizio di leva ultimato infatti, ci si avviava al lavoro e all’assunzione futura di precise responsabilità, quali prendere moglie e mettere su famiglia. Questa la regola (ogni regola, si sa, ha le sue brave eccezioni). È ovvio quindi che il servizio militare di leva veniva vissuto dai ragazzi in maniera diversa e spesso traumatica per il cambiamento completo degli stili di vita. Di massima però, serviva a tanto, soprattutto, e lo diciamo in uno, alla formazione del carattere e all’acquisizione completa del significato del termine “libertà”, che non si poteva ben comprendere se vano altri). Ci si doveva abituare da subito al “rancio” (altro che cucina di mamma o sorella), alla gavetta, al caporale di giornata, al sergente rompi c…, al tavolaccio, ai capelli corti e alla barba fatta tutti i giorni, alla rivista per la libera uscita, al contrappello e al silenzio. la vita, compresi i cosiddetti “superiori”. Chi ha fatto la “naia” sa bene a cosa ci riferiamo. Nelle caserme si acquisiva anche il senso di appartenenza che poteva essere il proprio Plotone, la Compagnia, il Reggimento, la specialità. La “vita militare” significava aderi- prima non si saggiava la “naia” dove anche la semplice libera uscita era più una concessione che un diritto. Il periodo di leva rappresentava comunque un bagaglio e un’esperienza di vita di indiscutibile valore; in primo luogo, perché nonostante lo spirito spensierato con il quale veniva affrontato dai più, in realtà metteva i giovani a confronto sotto ogni aspetto, a partire da quello fisico, al rispetto reciproco, ai limiti della propria e altrui libertà. Ci si misurava e ci si confrontava ogni giorno condividendo “camerata”, bagni e tanto “sudore”. Dalla sveglia mattutina, in caserma era tutto un seguire di momenti di tensione e di travaglio, di gioie e di dolori, di sacrificio e di ubbidienza. La disciplina, come presto imparavano tutti, faceva rigare dritti …pure i Colonnelli che tanto parevano alti in comando. Qualcuno per la prima volta vedeva la bandiera tricolore issarsi sul pennone al mattino e sentiva l’inno di Mameli (moltissimi fra questi erano i sardi, ma non manca- Regole e norme a iosa e tutto a …suon di tromba! Non vogliamo affatto qui esaltare il servizio militare, ci mancherebbe, ma una serie di avvenimenti che potevano accadere solamente in caserma e che servivano a formare, nel sacrificio e nella privazione, il carattere di ciascuno. Esperienza che oggi manca in maniera assoluta ai nostri giovani, abituati ad avere tutto e subito, a partire dal motorino all’ultimo dei cellulari immessi sul mercato, ivi compresa la navigazione satellitare…non si sa mai dovessero smarrire la “rotta”! Nessuno può dire che la vita militare sia stata o sia una passeggiata… chi lo affermasse mentirebbe spudoratamente. La naia era ed è essenzialmente sacrificio, limitazione della libertà individuale ma anche comprensione dei propri limiti e delle proprie responsabilità verso se stessi e i commilitoni. Inoltre, si rafforzava il senso dell’amicizia, quella vera e senza ritorno, con persone con le quali si instaurava un legame indissolubile per re a uno spirito di corpo dove uno e tutti erano la stessa cosa. Ma significava anche, e spesso, lunghe marce, lacrime e fatica per gli anfibi che serravano i piedi, lo zaino pesante che provocava dolore e sudore, polvere e fango. La “naia” era il luogo dove nessuno ti regalava niente perché tutto dovevi conquistarlo. Alla domanda se il servizio di leva, in senso generale, fosse utile a se stessi e alla società, noi, nonostante tutto, con il coraggio consapevole di andare contro corrente, affermiamo serenamente e tranquillamente di sì! È ovvio che centinaia di migliaia di giudizi contrari che da più parti sono giunti nel tempo ai nostri politici, sensibili al “voto”, da parte delle famiglie, e soprattutto delle mamme allarmate in quanto non potevano esercitare alcun tipo di “protezione” sul figlio lontano che avrebbe dovuto fare tutto da sé, pian pianino nel tempo, hanno fatto sì che si espletasse il servizio di leva dapprima nella regione di appartenenza, poi dentro i 100 chilometri dal luogo di residenza e alla fine sotto casa, anzi proprio a casa (evviva le mamme vittoriose!!!) riuscendo ad abolirla completamente. È pur vero che gli impegni internazionali sono mutati e che le necessità delle Forza Armate si sono diversificate, ma nel complesso, si poteva mantenere un tipo di servizio differenziato, seppure ovviamente costoso, che sarebbe servito a completare l’iter formativo dei nostri giovani. Ma la legge è legge, tutti dobbiamo ossequiarla e noi, che questo rispetto custodiamo come un tesoro, lo facciamo ubbidendo allo Stato. Ciò indubbiamente non ci priva della libertà di pensiero e di opinione, sempre, per quello che ci riguarda, criticando costruttivamente. Se è vero, com’è vero, che le principali agenzie educative sono la famiglia, la scuola e la società, non vediamo a questo punto come la società in sé possa portare i nostri ragazzi ad una seria maturazione, constatato il fallimento dell’educazione familiare in genere e della scuola puramente nozionistica e non adeguata ai tempi. Inoltre, per quanto ci sforziamo, oggi non vediamo per i nostri ragazzi alcun punto di riferimento su cui puntare perché si “orientino” nella vita futura. Né sappiamo se ci sarà un futuro e di che tipo sarà. Di contro, assistiamo spesso ad episodi di inaudita violenza regolarmente filmati dai video-cellulari, immessi in internet e scambiati via Sms come si faceva un tempo con le figurine Panini. Ultimo episodio cruento, da guerra civile, quello occorso a Catania prima delle festività di Sant’Agata, dove un avvenimento sportivo, quale una partita di calcio con il Palermo, si è brutalmente trasformato in uno sfogo certamente pre-confezionato, non certo dai veri tifosi, di quel malessere sociale che attanaglia il mondo dei giovani che vivono e capiscono solo atteggiamenti violenti e spavaldi. Una tragedia consumatasi con la morte di un valoroso Ispettore di P.S., Filippo Raciti. I ragazzi, per dirla in breve, sono arroganti e intolleranti di fronte a qualsiasi tipo d’autorità e di controllo perchè sicuri di assicurarsi quell’immunità che da sempre hanno potuto ottenere in famiglia. Non sono forse i genitori i primi a difendere i figli dagli “orchi” che sono gli insegnanti o da quel vigile che ce l’ha proprio con il pargolo innocente che viaggiava “solamente” senza casco? E che dire di quei genitori che mandano i loro bambini a scuola di danza, nuoto, karatè, palestra e che gioiscono più per una patacca presa in qualche gara che per un bel 7 in italiano o matematica? D’altra parte, questa società trasgressiva e violenta è ben rappresentata al governo e in parlamento da “disubbidienti” del calibro di Caruso e da una sinistra estrema che lancia (al momento) pomodori marci in faccia ai suoi ministri. E se questo è l’esempio dei vincitori delle elezioni, che vuol dire “oggi” essere un bravo ragazzo?..essere fessi? E la famiglia? Ma quale famiglia! Ora si può convivere in tutte le forme e modi, iscriversi nel registro parallelo, non avere responsabilità neanche fiscali dovute a cumuli vari e altro, altro ancora, mistificando, il più delle volte, una vita sicuramente immorale e indecente con frasi del tipo “rispetto delle libertà individuali” ben turlupinateci dalla nostra Pollastrini (DS), confermate dalla Bindi, che pare abbia svolto tanta parte della sua formazione spirituale all’interno dell’Azione Cattolica (e meno male!), e confortate dalla Turco che, per adeguarsi, innalza la detenzione di spinelli a beneficio degli spacciatori e dei consumatori…più spinelli per tutti insomma! Altro che naia, famiglia, responsabilità e ordine sociale…che il caos sia! Qui ci tocca piangere tutti…anche i “ricchi”! Bella sinistra davvero, trasgressiva e litigiosa. Questa è la verità. “Resistere, resistere, resistere…” ci sia consentito, stavolta lo diciamo noi. LA VOCE DELL’ISOLA 16 17 febbraio 2007 Nel Ragusano ai primi del Novecento maturò prepotentemente una grande svolta popolare Il Movimento socialista nell’area Iblea L’affermazione dei nuovi gruppi di potere Organizzazione autonoma e lotta democratica nell’avanzata dei lavoratori di GIUSEPPE MICCICHÈ A i primi del ‘900 anche nell’area degli Iblei si poterono rilevare i segni di un progressivo superamento della grande crisi e poi della depressione produttiva che nel precedente ventennio aveva investito l’economia isolana. Si ricostituirono infatti i vigneti che la peronospora aveva quasi interamente distrutto, e si diede rilevante sviluppo all’agrumicoltura e ad altre colture industriali. L’impegno dei gruppi sociali maggiormente interessati a cancellare gli effetti negativi della crisi, più in particolare i piccoli e medi proprietari e coltivatori, fu pari a quello che negli anni 60 e 70 dell’800 aveva dato un volto nuovo al territorio. Nei processi ricordati si ripeterono però i medesimi limiti oggettivi e soggettivi che erano stati rilevati negli anni del primo rinnovamento, in particolare la scarsa disponibilità di capitali e la tendenza a scaricare il peso dell’azione rinnovatrice sui ceti subalterni con l’imposizione del sottosalario. Alla ripresa sul piano economico corrispose sul piano politico una nuova dislocazione di forze e l’affermazione di nuovi gruppi di potere, aggregazioni sedicenti di “nuova borghesia”, cui dava forza il consenso di un gran numero di piccoli e medi proprietari, affittuari, commercianti di più o meno recente costituzione.Emarginati i vecchi gruppi aristocratici, essi si presentarono come sostenitori di una politica di “progresso nell’ordine” e con propri uomini tesero a infeudarsi ai municipi mentre affidavano la difesa dei propri interessi a parlamentari come Evangelista Rizza di Vittoria, Federico Cocuzza di Monterosso, Corrado Rizzone di Modica. Al di là e contro le enunciazioni di fede liberaldemocratica che venivano fatte, la politica della “nuova borghesia” assunse presto una connotazione antipopolare, facendo gravare sui ceti popolari il costo delle trasformazioni agricole e infierendo sugli stessi con un fiscalismo partigiano. In risposta a questa situazione, tentativi di aggregazione autonoma di braccianti e operai venivano compiuti qua e là con risultati che, seppure inizialmente limitati, suscitavano, come già avvenuto al tempo dei Fasci siciliani, la preoccupazione dei gruppi dominanti. A Vittoria due giovinetti, Nannino Terranova e Vincenzo Vacirca, cogliendo i frutti di una appassionata propaganda, il 19 maggio 1901 inauguravano il Circolo dei lavoratori, promotore a sua volta di un Circolo socialista nel quale si organizzavano 500 contadini e operai. L’azione di risveglio investì presto altri comuni. Nell’ottobre del ‘901 per iniziativa dell’avv. Giuseppe Di Vita e del contadino Salvatore Cannella si costituì a Comiso la Lega dei contadini, con 1400 soci. Altra lega, forte di oltre 1000 soci e un Circolo socialista si costituivano a Ragusa per l’opera indefessa di Vacirca e dell’avv. Muccio, una lega nasceva a Modica e un’altra a Scicli, sempre con centinaia di organizzati. Non mancava in que- Filippo Turati st’azione l’aiuto dei socialisti operanti in aree isolane politicamente più avanzate. Gli onorevoli De Felice e Noè e gli avvocati Macchi e Campanozzi venivano da Catania e Messina per tenere comizi e conferenze, orientare le organizzazioni politiche ed economiche e garantire ogni assistenza nelle azioni sindacali. Per la concertata attività che da Vittoria e Comiso s’indirizzava ai comuni del circondario di Modica e da Catania a quelli dell’entroterra ibleo, presto le organizzazioni di resistenza estesero la propria presenza a nuove aree. Sempre più i comuni iblei si aprivano alla penetrazione di un socialismo che si connotava per la fiducia nell’avanzata dei lavoratori attraverso l’organizzazione autonoma e la lotta democratica. Leghe contadine e circoli socialisti si costituirono infatti a Siracusa, Monterosso, Spaccaforno, Canicattini, Palazzolo,Lentini, Carlentini, Giarratana, Rosolini, Avola, Pachino. Fiorirono nel contempo fogli estremamente vivaci e combattivi: “L’Insofferente” a Vittoria, “La Plebe” e “Il Germe” a Modica, “Per il popolo” a Ragusa, “Il Lavoratore” a Pachino, “La Voce del lavoro” a Siracusa, che denunziavano episodi di sfruttamento dei lavoratori, lo governo delle camarille municipali, e popolarizzavano i temi della politica socialista. Azioni sindacali venivano condotte per conseguire aumenti salariali, sgravi fiscali, democrazia nella gestione della cosa pubblica. La resistenza del padronato fu dovunque forte e diede luogo a episodi dolorosi come l’intervento d’ordine del 13 ottobre 1902 a Giarratana, che provocò tre morti. I gruppi dirigenti socialisti non desistettero dal loro impegno, ma anzi, resi più maturi, posero ai lavoratori nuovi obiettivi non solamente di natura economica. Presto consiglieri socialisti, sia pure di minoranza, vennero eletti qua e là, e si conseguirono promettenti affermazioni nei collegi di Comiso e Ragusa attorno alle candidature alla Camera di Filippo Turati e Primiano Campanozzi. L’emigrazione, fenomeno dovunque rilevante ai primi del secolo, erodeva le forze e unità all’azione corruttrice e intimidatrice dei gruppi di potere creava difficoltà alle organizzazioni dei lavoratori. La situazione migliorò alquanto all’inizio del secondo decennio del secolo. Con il ritorno di molti emigranti e la concessione del suffragio universale si poterono infatti conseguire importanti successi. Non solo si ottennero discreti aumenti salariali e un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie di lavoro specie nelle campagne, ma attraverso i “blocchi popolari”si poterono conquistare alcuni comuni tra cui Comiso e Ragusa, e un buon numero di seggi nel Consiglio provinciale, e si potè sperimentare una inedita politica di attenzione alle istanze degli strati popolari. La Grande Guerra sopravvenne a sconvolgere il quadro che si era positivamente determinato attraverso tante lotte e sacrifici, svuotando le organizzazioni dei lavoratori, spezzando l’unità delle forze progressiste, divise tra neutralismo e interventismo, restituendo quasi dovunque il potere alle forze moderate e al notabilato borghese. Le amministrazioni popolari, in primis quella di Comiso, furono vicine agli strati di popolazione maggiormente provati dalla guerra. La situazione, però, era molto pesante e non sempre gli sforzi degli amministratori socialisti furono coronati da successo. Di fatto le speranze in una ripresa della lotta per traguardi avanzati di progresso e di libertà vennero proiettati nel dopoguerra. Terminato il conflitto, emersero in tutta la loro pregnanza i vari problemi economici e politici, sollecitando le organizzazioni dei lavoratori a riprendere la lotta. Sempre più il Partito socialista venne visto dai lavoratori come “il partito della speranza “, lo strumento più idoneo per l’avvento di una società più giusta e più libera, e per questo esso venne fortemente privilegiato.Nell’ambito isolano l’area degli Iblei ebbe presto il movimento socialista più cospicuo, capace di conseguire con ausilio delle organizzazioni sinda- cali importanti successi sul piano salariale e normativo. Sullo scorcio del ’20 il socialismo raggiunse traguardi di grandissimo rilievo: le liste del PSI conquistarono 13 comuni su 32, tra cui Comiso, Vittoria, Ragusa, Modica, Scicli, Lentini, Augusta, e 25 seggi del Consiglio provinciale, quelle socialriformiste 6 comuni, tra cui Siracusa, e 13 seggi del Consiglio provinciale, mentre il PPI si rivelava incapace di decollare e i partiti moderati subivano gravi sconfitte.Un’area che nell’800 era stata definita “borgo putrido” per l’arretratezza che la caratterizzava sul piano politico riscattava il proprio passato qualificandosi come “la provincia rossa del Sud”. Sotto la spinta della radicalizzazione della lotta il Partito socialista aveva però compiuto alcuni errori: tra l’altro non si era saputo legare agli strati di minuta borghesia, spaventata da una propaganda che a volte pagava qualche tributo al rivoluzionarismo massimalista. La reazione delle forze moderate fu allora furiosa. Puntando inizialmente sulla piccola delinquenza e successivamente sulle “squadre d’azione” nazionalfasciste che s’erano costituite attorno a Biagio Pace, a Filippo Pennavaria, a Vittorio Casaccio, oltre che sulle simpatie e il sostegno di quanti si ritenevano in vario modo colpiti nei propri interessi dall’avanzata socialista, essi passarono al contrattacco. Attraverso una serie di spedizioni punitive condotte con criteri militari essi si impegnarono a distruggere le organizzazioni dei lavoratori, costrinsero gli amministratori socialisti a dimettersi e arrossarono le piazze di sangue innocente. L’8 novembre 1920 a Comiso, il 29 gennaio 1921 a Vittoria, il 9 aprile a Ragusa, il 29 maggio a Modica la violenza si abbatté più fortemente sulle organizzazioni proletarie e il terrore venne imposto dovunque, con assoluto dispregio della legge, dell’umanità e della civiltà. Un’area che s’era dato un patrimonio di leghe, circoli, camere del lavoro, cooperative e che alla fine del ’20 aveva dato 25.000 voti alle liste socialiste vide questo patrimonio praticamente distrutto e nelle elezioni politiche del ’21 i voti ricordati ridursi a 4.000 e i “partiti del manganello” passare da 7.000 a 43.000 voti. Quando alla fine del ’20 avvenne la marcia su Roma, i Comuni iblei erano già da mesi nuovamente in mano a vecchi e nuovi gruppi di potere e il movimento socialista era stato ricondotto a posizioni gravemente minoritarie e di assoluta impotenza. LA VOCE DELL’ISOLA 17 17 febbraio 2007 Proposta di legge per attribuire alla Regione il compito di autorizzarne l’apertura Latteri: utile il casinò di Taormina Incrementerebbe il turismo e nuovo lavoro Difficoltà a disciplinare la materia: l’Italia in ritardo sull’Europa di MARIO FIORITO I deputati della Margherita Rino Piscitello, dell’esecutivo nazionale, e Ferdinando Latteri, componente della VII Commissione (Cultura, Scienza e Istruzione) della Camera dei Deputati, hanno presentato alla Camera due proposte di legge sulle case da gioco, una a carattere nazionale, l’altra a carattere regionale. La prima, “Norme per l’istituzione e la gestione di case da gioco sul territorio italiano ai fini della regolamentazione del gioco d’azzardo”, regolamenta per la prima volta il settore, legalizzando i casinò con l’istituzione di nuove strutture distribuite sul territorio nazionale. La seconda, “Istituzione di una casa da gioco nel Comune di Taormina”, dà appunto il via alla creazione di un casinò in Sicilia. “In Italia – dichiarano gli onorevoli Piscitello e Latteri – si registra da tempo una difficoltà a disciplinare complessivamente la materia. Il nostro Paese, in forte ritardo rispetto a molti altri in Europa, ha avuto una posizione contraddittoria prevedendo, da un lato, il divieto generale per il gioco d’azzardo e, dall’altro, legittimando l’esercizio delle scommesse e anche del gioco d’azzardo attraverso le quattro case da gioco ubicate tutte nel nord Italia (San Remo, Campione d’Italia, Venezia e Saint Vincent), in ragione del fatto che i proventi costituiscono entrate patrimoniali dello Stato”. “Bisogna considerare inoltre – proseguono Piscitello e Latteri – l’incremento negli ultimi anni delle più svariate forme di gioco e scommesse. Ed è importante allora regolamentare con chiarezza la materia. La nostra propo- Il Koursal di Taormina sta di legge prevede l’istituzione di nuove case da gioco, una in ogni regione. Riteniamo che possano rappresentare un elemento trainante del turismo del nostro Paese e un contributo alla creazione di nuove opportunità lavorative”. “Proprio in quest’ottica – continuano i due deputati - si inserisce l’altro nostro disegno di legge sulla realizzazione di un casinò a Taormina: sarebbe così possibile convogliare ingenti flussi di risorse verso canali leciti che incrementano lo sviluppo sociale, economico e turistico della Sicilia. Taormina, sede di grandi eventi e con adeguate strutture ricettive, vero e proprio fiore all’occhiello per la nostra Regione, è la località siciliana che ha tutti i requisiti per ospitare una casa da gioco. È infatti all’altezza delle esigenze di un mercato sempre più internazionale”. In particolare, con la proposta di legge Piscitello-Latteri viene attribuito alla Regione Sicilia il compito di autorizzare l’apertura di una casa da gioco a Taormina, su richiesta sia del consiglio comunale sia del consiglio provinciale. La Regione, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, dovrà disciplinarne la gestione, stabilendo le norme per l’assegnazione e i controlli in materia finanziaria e dell’ordine pubblico. È poi regolamentata la titolarità e la gestione di terzi. Metà dei proventi derivati sarà assegnata al Comune di Taormina, che avrà l’obbligo di destinarli allo sviluppo turistico, specialmente alla ricettività alberghiera, ai trasporti e alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali del territorio, oltre che alle attività economiche tradizionali. L’altra metà spetterà alla Regione, che a sua volta avrà l’obbligo di destinare il 30% allo sviluppo e al Ferdinando Latteri miglioramento delle strutture turistiche e di trasporto (con particolare riguardo al completamento dei porti turistici dell’isola) e il 20% alla stabilizzazione dell’occupazione, con la formazione e riconversione dei disoccupati siciliani. Inoltre, sono incluse nella proposta di legge Piscitello-Latteri disposizioni sulla vigilanza della casa da gioco. Sono previste, infine, disposizioni sul regime fiscale e l’estensione delle norme antiriciclaggio ai servizi della cassa da gioco con l’obiettivo, appunto, di prevenire operazioni illecite. Le “missioni” turistiche di deputati, assessori e consiglieri comunali e provinciali pesano sulla collettività Forse tra gli enti inutili c’è anche l’Ars di GIOVANNI PELLIZZERI L e ultime vicende dell’Assemblea regionale siciliana non possono che provocare un sorriso nervoso a coloro che le seguono con attenzione critica, riuscendo a capire cosa succede veramente al di là delle edulcorate cronache dei nostri giornali. Il governatore Totò Cuffaro, ad esempio, ha definito la recente Finanziaria una legge improntata al massimo rigore. C’è da sorridere. La gestazione di questa Finanziaria ha assunto toni politici tesissimi e soprattutto paradossali. Per cercare di riacquisire credibilità i 90 “onorevoli” di palazzo dei Normanni, hanno pensato di buttare fumo negli occhi dei siciliani proclamando, col sostegno di giornali e televisioni compiacenti, che volevano moralizzare (?!) il bilancio sciogliendo gli enti inutili. Da destra e da sinistra sono stati puntati con l’indice accusatorio i presunti enti inutili, secondo una logica che, all’osservatore attento, sembrava corrispondere agli enti gestiti dagli altri, poco importava se sedicenti alleati o avversari dichiarati. Insomma, l’ente gestito dal vicino è sempre il più inutile, parafrasando un proverbio conosciuto da tutti. Questo criterio ha sostanzialmente generato una sorta di faida all’interno della stessa maggioranza, tra uno schieramento e l’altro, Udc, Mpa, Forza Italia, An. Ne è scaturito una sorta di tiro al bersaglio per azzoppare fratelli coltelli, forse prima ancora che lo schieramento variegato dell’opposizione. Ma, centrodestra e centrosinistra, si sono ritrovati comicamente d’amore e d’accordo quando si è deciso di votare una legge che può considerarsi in pratica “ad personam”, perché andava a toccare il portafoglio di una, anzi dell’unica, superconsulente miliardaria della Regione Siciliana, guarda caso vicinissima al governatore, il già citato Totò. Si, in pratica gli onorevoli hanno deciso che bisognava imporre un tetto massimo per gli incarichi: non oltre i 250.000 euro l’anno. Naturalmente il “taglio” degli emolumenti a danno di altri, sembra più che altro motivato dal piacere di fare uno sgarro personale al presidente della Regione piuttosto che per contenere la spesa pubblica. Perché se così fosse stato i sempre 90-onorevoli-90 avrebbero dovuto approvare anche la proposta di ridursi sensibilmente l’emolumento mensile, cosa che ha fatto il governo nazionale. Naturalmente su questo argomento, la maggioranza e la stragrande parte della minoranza, si sono ritrovate d’accordo per difendere i propri privilegi, a cominciare dal portafoglio. Senza voler apparire dei moralisti della domenica crediamo che un freno alla spesa pubblica potrebbe realmente porsi, senza toccare la tasca dei nostri rappresentanti nelle aule del più antico parlamento del mondo. Non ci vorrebbe molto, ad esempio, se Totò Cuffaro Gianfranco Miccichè dalla Regione in giù, attraverso le Province e i Comuni, anche i più piccoli, si limitasse, se non addirittura, si abolisse il così detto, e tanto praticato, “turismo istituzionale”, che grava sulle tasche dei contribuenti in quantità senz’altro non irrilevante.Non c’è ente, infatti, piccolo o grande che sia, che rinunci a fantomatiche missioni nelle città più belle del mondo, e spesso anche nelle più lontane, con l’obiettivo di incongruenti gemellaggi, di scambi di visite, di approfondimento di particolari colture agri- cole o culture millenarie. Basta inventarsi una mission, più che impossibile è meglio che sia possibilissima, per portarsi dietro dipendenti amici e parenti al seguito, questi ultimi nel ruolo di semi-clandestini. Naturalmente la logica è “del tutto spesato perché tanto paga Pantalone”. La mancanza pressocchè assoluta di controlli (la Guardia di Finanza ha ben altro a cui pensare e chi va a scomodare la Corte dei Conti? E poi c’è una magistratura che, sepolta com’è di indagini e processi più seri, finisce con il giudicare quando già i tempi sono maturi per la prescrizione), rendono tutto più facile e a rischio praticamente zero. Tutto ciò avviene, sia bene inteso, con la complicità delle opposizioni, di qualunque colore esse siano, perché il turismo istituzionale è sicuramente uno dei temi sui quali ci si trova sempre d’accordo, forse la migliore amalgama per un consociativismo a buon mercato. Gli stessi paladini delle crociate contro gli enti inutili, poi, sono quelli che nelle gestioni dei loro enti, direttamente o tramite i loro uomini, manovrati proprio come i pupi siciliani, anche se i fili sono assolutamente virtuali, sperperano parte dei bilanci pubblici creando società, piccole e grandi, per moltiplicare posti di sottogoverno, poltrone e strapuntini, elargire doppi stipendi ai sempre presenti dipendenti-amici, incarichi a consulenti spesso esperti di niente o di tutto, che poi è la stessa cosa, rimborsi spese e gettoni di presenza come se fossero caramelle alla menta. E poi dobbiamo aggiungere le normali spese di funzionamento per queste società più o meno fantasma, create con fondi pubblici, ma alla fine gestiste secondo i collaudati criteri padronali del cantiere e del clientelismo più sfacciato. Regione, Province e Comuni fanno quasi a gara a costituire consorzi, società, fondazioni, centri studi e via discorrendo quasi fossero medagliette da mettere in mostra sulla giacca di rappresentanza o l’equivalente dei muscoli, potenti e lucidi, che il pugile mostra salendo sul ring. A questo punto ci sembra che anche la nostra Assemblea regionale siciliana possa essere considerato un ente inutile per la mancanza di capacità di dare risposte oneste, coerenti e corrette ai cinque milioni di siciliani. Ma forse ci sbagliamo: i palazzi così ricchi di storia che a Palermo ospitano la Presidenza della Regione e la stessa Assemblea potrebbero essere dei set ideali per una nuova versione politica del Grande fratello, con protagonisti proprio i magnifici pezzi da…novanta che li abitano. LA VOCE DELL’ISOLA 18 17 febbraio 2007 Una strategia mirata all’apertura dell’aerea di libero scambio nel Mediterraneo La Sicilia è ancora terra di conquista? L’invasione barbarica delle multinazionali Nel territorio isolano grande proliferazione di iper e supermercati cato strategie anche in campo ludico: ci riferiamo al progetto del Parco di Regalbuto, che sorgerà su un’area di 270 ettari su lago Pozzillo, che si vuol far diventare la “Disneyland” siciliana. La Sicilia, o il Meridione, da sole sono in grado di far recuperare in questo delicato comparto i soldi che verranno spesi? Riteniamo di no, così come siamo certi che gli investitori (come detto primo) non abbiano intenzione di sprecare moneta. Qualcosa, dunque, sfugge alla logia di una regione definita in stato di fallimento. La domanda che sorge spontanea: di CARLO BARBAGALLO L ’imprenditoria crede nelle possibilità di sviluppo della Sicilia, o, per meglio dire, le società multinazionali credono nel mercato isolano e non lesinano investimenti per realizzare importanti centri di consumo, all’interno dei quali si può trovare qualsiasi tipo di merce. La dimostrazione si trova in quello che viene definito il “fenomeno” della continua crescita del numero di super ed ipermercati nel territorio siciliano, e in particolar modo nelle province di Catania e Siracusa. Un “fenomeno” che non rientra nelle statistiche che indicano la nostra Terra, in maniera costante, come luogo invivibile, dove regna la disoccupazione, i redditi sono bassi e lo sviluppo economico è al di là di qualsiasi possibile prospettiva.. Ci troviamo di fronte ad elementi in aperta contraddizione. Da una parte, la popolazione siciliana la “invivibilità” alla quale fanno riferimento le statistiche (per fortuna o purtroppo, a seconda dei punti di vista) sembra non avvertirla, e su questo dato presumibilmente si basano le ricerche di mercato che effettuano le grandi multinazionali che qui vengono a investire milioni e milioni di euro. Forse ci troviamo davanti a paradossi, oppure più semplicemente ci troviamo di fronte ad una realtà socio-economica e (perché no) anche politica, che è difficile da interpretare. O, per essere più esatti, l’interpretazione è ardua per il cosiddetto uomo comune che, tutto sommato, non si pone poi tanti problemi di analisi e ricerche, ma si limita a vivere il quotidiano nel migliore dei modi, lasciando a chi è esperto il compito di interpretare la situazione. Il paraosso e le contraddizioni, comunque, permangono: nessuno, infatti, può negare, per esempio, che l’indice della disoccupazione in Sicilia rimane alto, così come non si può negare che anche i consumi (di qualsiasi cosa, anche a livelli non potrebbero essere considerati “normali”) sono elevati. Si parla spesso di momento “fallimentare” per la Sicilia, ma a Catania, a Siracusa, Ragusa questo momento “particolare” così descritto dai mass media specializzati non si nota, e il test può essere costituito, come detto, dagli investimenti che vengono da una imprenditoria estranea alla Sicilia: è da anni, infatti, che si costruiscono super ed ipermercati, soprattutto nelle zone periferiche delle città (vedi Misterbianco, Piano Tavola, vedi Priolo o Lentini), ed appena costruite queste grande strutture e colmate di merce, migliaia e migliaia di persone le affollano. Si potrà dire che il consumismo resta sempre la carta vincente dei produttori, ma si dovrà dire anche che in una condizione di effettiva povertà ciò non potrebbe verificarsi o, quantomeno, non potrebbe avere una vita lunga. L’incremento di queste strutture (che crescono a macchia d’olio, un pò ovunque) può, invece, fare intravedere nuovi scenari, fino ad ieri magari non ipotizzabili, e pur tuttavia “focalizzati” dagli esperti che hanno il compito di individuare i flussi economici locali, nazionali e internazionali. Per quanto concerne Catania c’è chi non ha dimenticato come sin dalla fine del secolo scorso il capoluogo etneo venisse indicato come l’anello di congiunzione tra l’Europa e i Paesi del Mediterraneo, in vista dell’apertura, nel 2010, dell’area di libero scambio: anche il sindaco Scapagnini - e nei cartelli dei cantieri delle opere che si andavano a costruire in città c’erano diciture di questo genere – amava indicare “Catania, capitale del Mediterraneo”. Poi di ciò non si fece più cenno, ed anche le scritte scomparvero dai cartelli, ma super ed ipermercati continuarono (e continuano) ad essere realizzati, senza che, apparentemente, nessuno tenga nel debito conto il livello di saturazione dello stesso mercato umano. Chi investe nelle forme che tutti possono notare non è avvezzo a sprecare danaro, a buttarlo dalla finestra. L’investimento ha uno solo obiettivo: concretizzare una utile ricaduta di guadagno. In poche parole, evidentemente alla base del “fenomeno” del quale si sta discutendo, ci sta una approfondita ricerca che avrà determinato una progettualità adeguata al caso “Sicilia”, e quindi viene appliacata una strategia adeguata che non mirata e limitata esclusivamente al presente, ma ad un futuro che, forse, l’imprenditoria locale non riesce ancora a intravedere. L’allargamento degli investimenti ad altri comparti produttivi, di certo, non avviene per avvedutezza degli investitori, ma ad una proiezione di redditività, anche se pianificata nel tempo. C’e, come ulteriore esempio, che ha pianifi- tutto ciò che viene realizzato è mirato solo per la fruizione della collettività isolana? Non lo crediamo poiché costituirebbe un “eccesso”, che non potrebbe avere il “ritorno” economico che gli investitori si attendono. Una spiegazione possibile per questo fervore di iniziative può essere quella, appunto, dell’imminente apertura dell’area di libero scambio nel Mediterraneo: Catania (e le province limitrofe) era (e rimane) il punto focale principale di questa importante “area”. Se si guarano le iniziative con questa ottica, allora gli investimenti che vengono effettuati appaiono più che giustificati. Una riflessione finale, a questo punto del ragionamento, va spesa: se i privati sono così lungimiranti, perché gli Enti pubblici non lo sono altrettanto? L’immobilismo degli Enti pubblici dovrebbe far riflettere maggiormente: una ragione, alla base di ogni situazione che si può considerare “anomala”, deve pur esserci, tenendo nel debito conto che questi Enti, alla fine, sono quelli che danno la possibilità alle multinazionali di realizzare ciò che vogliono. LA VOCE DELL’ISOLA 19 17 febbraio 2007 Per decenni hanno depredato e sfruttato il territorio portando le ricchezze fuori dall’isola Progressiva colonializzazione della Sicilia Efficaci le strategie economiche applicate Un Popolo ridotto a riserva, utile per consumare prodotti del nord di FRANCESCO DATO Dalla fortunosa e fortunata scoperta dell’America del nostro Cristoforo Colombo, sembra siano passati molti più secoli di quelli realmente trascorsi, e questo è certamente dovuto all’accelerazione tecnologica ed alla globalizzazione che, specialmente negli ultimi decenni, ha stravolto il significato del tempo e dello spazio. Dopo i conquistatori, da tutta Europa vennero i colonizzatori attirati dalla ricchezza di quei territori del nuovo mondo, e si appropriarono di quelle terre i cui legittimi proprietari e possessori erano popoli come i Maya, gli Aztechi e gli Indiani delle numerose razze e tribù. Mentre la storia ci ricorda la distruzione della civiltà plurimillenaria dei Maya e degli Aztechi, ed è critica nei confronti di coloro che operarono quei massacri, nei confronti degli Indiani non si è avuta la stessa critica; infatti ci ricordiamo perfettamente che, da bambini, leggevamo e vedevamo i film nei quali gli Indiani d’America impersonavano sempre la parte dei cattivi, e non aspettavamo altro che l’arrivo dei “ nostri “ per mettere le cose a posto, massacri compresi. Probabilmente erano stati considerati dei selvaggi e basta, ma più verosimilmente si è trattato di un’abile strategia posta in essere dai colonizzatori europei per giustificare quelle stragi attuate scientemente per appropriarsi di quei territori. Solo di recente la Storia si è ravveduta con atteggiamenti critici e contemporaneamente anche la produzione cinematografica e televisiva, nonché quella letteraria, si sono adeguati nella denuncia. Ebbene sì, la nascita degli Stati Uniti d’America è macchiata da questo peccato originale, che ovviamente al giorno d’oggi non conta giuridicamente nulla, e le analisi retrospettive o i vari mea culpa hanno solo l’effetto delle lacrime di coccodrillo, che lacrima proprio perché ha mangiato troppo e non per commozione rispetto a quello che ha mangiato. Il nostro Machiavelli ci ha insegnato che il fine giustifica i mezzi, ma purtroppo non ci espone con altrettanta chiarezza la giustificazione del fine. Infatti all’epoca del nostro Machiavelli non si aveva una coscienza giuridica, diciamo, moderna; i vari signorotti, principi e regnanti se ne impipavano delle formalità giuridiche o morali alle quali oggi siamo abituati, e procedevano speditamente al raggiungimento del loro fine con tutti i mezzi più o meno leciti. E così è avvenuto in America, prima sterminando il popolo indiano, destinando i pochi superstiti alle riserve, per procedere all’acquisizione del territorio: oggi New York non esisterebbe senza quei massacri, e ognuno si faccia una propria idea se ciò che è avvenuto sia stato un bene o un male per l’umanità. Quello che, invece, dobbiamo capire, perché profondamente essenziale per la sopravvivenza del popolo siciliano, è la metodologia che è stata scientificamente applicata nei nostri confronti. Conosciamo la nostra storia, quella antica e quella più recente, ed abbiamo chiara la situazione economica e sociale che dall’unità d’Italia in poi si è progressivamente divaricata in peggio rispetto alle altre parti del territorio Italia. Il fatto è che mentre nelle tante dominazioni che hanno caratterizzato la nostra storia, gli occupanti oltre all’interscambio di culture, ci hanno lasciato imperitura memoria delle loro presenze, arricchendoci di opere e di conoscenze, dall’unità abbiamo assistito al progressivo depauperamento delle nostre ricchezze a beneficio di abili furfanti che hanno preso e preteso senza nulla dare in cambio, motivo per cui i siciliani, quelli che allora avevano gli attributi al posto giusto, hanno deciso di lottare per avere giustizia e attenzione. Ora, in quanto a giustizia, siamo perfettamente consapevoli che si tratta di un argomento scabroso a tutti i livelli, per la evidente situazione di fallimento nota agli addetti ai lavori, ma soprattutto subita dai cittadini in gene- Con Garibaldi una unità d’Italia a danno della Sicilia rale. Per quanto invece attiene all’attenzione, questa in vero c’è stata, ma in forma del tutto negativa, col solo scopo di portare in luce le negatività (e ce ne sono) del nostro territorio, piuttosto che far conoscere i tanti aspetti positivi. E adesso esponiamo il risultato della nostra analisi storica sui metodi e sulle attività svolte per la progressiva colonizzazione della Sicilia da parte di coloro i quali avrebbero dovuto osservare e applicare i patti, giuridicamente sottoscritti con il nostro Statuto ed invece violati ed aggirati attraverso accordi scellerati della politica partitica e spartitoria di infausti figuri che, a tutti i livelli, si sono venduti la loro dignità di uomini liberi per favorire un’operazione pianificata con evidente largo anticipo. Affermare infatti che siamo stati truffati nel nostro sancito diritto di autonomia, che comunque era stato accettato come mediazione rispetto all’indipendenza voluta, è certamente lecito in considerazione dei successivi avvenimenti che ci hanno condizionato il futuro. Il nostro territorio, con la necessità della richiesta di lavoro che c’era, è stato sfruttato e pesantemente inquinato da attività industriali di varia natura, con i pesantissimi danni ecologici oggi all’attenzione di tutti, che ci teniamo noi, mentre il fiume di denaro derivante da queste attività non si è certamente fermato in Sicilia; come dire, oltre il danno anche le beffe. La Cassa per il Mezzogiorno e tutte le altre consimili iniziative, non hanno prodotto alcun significativo risultato, se non quello di arricchire i soliti furbi, ed impoverire vieppiù il popolo. Non si è mai attuata una politica tendente al sostenimento delle attività agricole, ed oggi ci ritroviamo ad avere grossissime difficoltà nelle coltivazioni del grano duro, un tempo tra i migliori e più richiesti, oltre alla irreversibile crisi della agrumicoltura; in questo settore, oltretutto e paradossalmente, la nostra appartenenza al sistema Europa ci ha penalizzato anche nel mercato italiano, che acquista gli agrumi dall'estero, soprattutto dalla Spagna che a sua volta importa dal nord Africa, mentre i nostri ottimi prodotti marciscono sugli alberi non essendo remunerativo neanche il costo della raccolta. Quello che oggi sta avendo successo è il prodotto vitivinicolo, e la ragione è evidente in quanto da qualche tempo migliaia e migliaia di ettari coltivati a vigneto sono stati acquistati da famose case vinicole del nord, col risultato che fino a qualche anno fa i vini siciliani andavano bene per essere tagliati, oggi sono diventati di gran pregio, con il solito risultato vantaggioso per gli investitori del nord. Su questo aspetto, come su molti altri, dovremmo fare autocritica ed evitare vittimismi inutili; è pur vero però che a questo punto i nostri contadini e gli addetti a questo settore sono giunti attraverso una politica sbagliata di sostegno a cascata con la abusata certificazione dei centocinquantuno giorni lavorati, e con l'integrazione dei rimanenti quale aiuto all'agricoltura, e così facendo bene o male riescono a sopravvivere e, quello che più conta, a consumare, lasciando ad altri la fruizione e lo sfruttamento delle enormi possibilità del nostro ter- ritorio. E questo discorso vale anche per altri settori economici, e sempre per il principio che gli aiuti debbano servire a far sopravvivere i consumatori in quanto tali. Non ne è escluso neppure il settore turistico, grande incompiuta di un progetto che, per le caratteristiche culturali, ambientali e climatiche della Sicilia, avrebbe potuto dare una svolta occupazionale e sociale non indifferente nell'economia dell'Isola. A queste valutazioni negative vanno inoltre affiancate le considerazioni sulla inefficienza del sistema bancario degli Istituti storici e non, operanti in loco, che non hanno saputo e voluto sostenere il ruolo istituzionale per il quale erano stati fondati, preferendo finanziare i grandi gruppi isolani e non, piuttosto che favorire uno sviluppo più capillare e più numeroso nel territorio; il risultato è stato che oggi non abbiamo quasi più nessun Istituto bancario siciliano, essendo stati incorporati da altre realtà nazionali che, inoltre, in alcuni casi stavano peggio di noi quanto a solidità patrimoniale. Questa è, per grandi linee, la situazione che viviamo, ed ancora una volta dobbiamo constatare l'inefficienza e l'inefficacia della politica partitocratica che ci ha ridotti a riserva come Isola ed in riserva i Siciliani, che devono stare buoni buoni per gli aiuti che vengono dati, da utilizzare per la sopravvivenza e per consumare i prodotti del nord, un poco come gli indiani d'America, altrimenti escono fuori i problemi derivanti dalla siccità, dall'Etna, dal traffico e dalla mafia con un'altra Commissione antimafia e antitutto per drizzarci la schiena. Ma siccome i Siciliani non desiderano affatto finire a fare le comparse dei film sulla solita Sicilia come deve apparire in tutta la sua negatività, come è finita agli indiani d'America, e non aspettando un Geronimo qualunque, considerato come si concluse quella avventura, ancora permeati di dignità sapranno dimostrare di conservare quello spirito che nel recente e meno recente passato li ha contraddistinti. E considerato che al contrario della situazione di illegalità subita dagli indiani d'America, oggi viviamo in un contesto diverso ed in regime democratico, utilizzeranno al meglio questo loro diritto affinché le cose cambino, perchè possono e devono cambiare. Giornale Siciliano di politica, cultura, informazione, economia, turismo, spettacolo Iscritto al n° 15/2006 dell’apposito Registro presso il Tribunale di Catania Invitano a partecipare al Convegno sul tema: “I Diritti dei Siciliani. L’attentato allo Statuto Autonomistico” che si terrà il 24 febbraio 2007 alle ore 10 al Cine Teatro Ambasciatori via Eleonora d’Angiò - Catania interverranno: Franco Altamore Franco Carlino Gaetano Cavalieri Giovanni G. A. Dato Enzo Lombardo Salvo Barbagallo Giurista Imprenditore Presidente “Cibjo” Giurista Manager Direttore “La Voce dell’Isola” modera: Francesco Dato Mare Nostrum Edizioni Editore Mare Nostrum Edizioni Srl Amministratore delegato Francesco Dato Direttore responsabile Salvatore Barbagallo Redazione Catania - Via Distefano n° 25 Tel/fax 095 533835 E-mail: [email protected] [email protected] Stampa Litocon Srl - Z.I. Catania Tel. 095 291862 Concessionario pubblicità: Valgiulia srl Viale Europa, 10 San Gregorio – Catania Tel. 095 7513758 Fax 095 7513757 e-mail: [email protected] Anno II, nº 4 17 Febbraio ~ 2 Marzo 2007 Gli articoli rispecchiano l’esclusivo pensiero dei loro autori