CATANIA NON DIMENTICARE!

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GIORNALE SICILIANO DI POLITICA, CULTURA, ECONOMIA, TURISMO, SPETTACOLO
ANNO SECONDO Nº 4 • 17 FEBBRAIO ~ 2 MARZO 2007 • b 1,50
DIRETTORE RESPONSABILE SALVO BARBAGALLO
Con il patrocinio
Regione Siciliana
Assessorato Turismo,
Comunicazioni e Trasporti
Dipartimento Turismo, Sport e Spettacolo
Che la tragica fine dell’ispettore di Polizia Filippo Raciti possa contribuire a cambiare le cose
Catania non dimenticare!
La violenza non riuscirà a battere la ragione e la coscienza della vita
di SALVO BARBAGALLO
D
opo il grande choc, dopo le polemiche, sembra essere caduto il
silenzio sui tragici fatti che hanno
portato alla morte l’ispettore capo della
Polizia Filippo Raciti. Altre notizie, più
gravi o meno gravi, riempiono i quotidiani e i notiziari televisivi.
È la dura legge del mondo dell’informazione: quel che è accaduto appartiene
al passato, il presente ha più voce,
soprattutto quando si presentano altri
fatti che possono scuotere nuovamente
l’opinione pubblica. L’attenzione viene
indirizzata su tutto ciò che di violento
accade, a casa nostra come in tutto l’universo conosciuto.
La violenza che fa paura, che atterrisce, che si vuol cancellare dalla mente
subito dopo averla conosciuta. Si dimentica perchè si “vuole” dimenticare, come
un modo di esorcizzare il male che c’è e
che si vorrebbe disconoscere. Catania
non può e non deve dimenticare la tragica sera di venerdì 2 febbraio, sia che ci
sia già un volto o un nome del colpevole, o che sia ancora tutto da dimostrare e
da scoprire eventuali verità nascoste.
Se è difficile comprendere quale folle
istinto possa spingere la gioventù alla
violenza, dovremmo saperci spiegare
cosa è che spinge alla violenza anche gli
adulti, che dovrebbero avere più consapevolezza del valore di una vita. Cerchiamo giustificazioni perché non siamo
in grado di penetrare, e capire, le insoddisfazione della gioventù di oggi, ma
abbiamo messo in archivio le insoddisfazioni che hanno animato le generazioni
che etichettavano la violenza come moto
politico e di classe.
Siamo inclini alla retorica e ci laviamo
le mani con uno pseudo senso della solidarietà verso chi paga con il dolore una
perdita irreparabile. Ci inventiamo giustificazioni per dare delle giustificazioni
ad azioni che non possono essere giustificate in alcun modo.
I fatti accaduti poche settimane addietro hanno scosso Catania: questa è una
circostanza innegabile, e pur tuttavia già
a poche ore dalla tragedia consumata
davanti allo stadio, le polemiche si sono
accese: prima sul proseguimento della
Festa della Patrona della città, Sant’Agata, poi sul perché e il per come il Pontefice non avesse ricordato il povero Raciti, vittima “sacrificata” in nome di un
sport che di vero sport non ha più nulla,
poi ancora con il gioco delle responsabilità, se si poteva (oppure no) evitare
quanto accaduto.
Ma chi ha fatto rimarcare nel modo
dovuto che già all’indomani della “battaglia” lo stesso selciato insanguinato di
Piazza Spedini era occupato dalle bancarelle del mercatino rionale, cancellando
ogni possibile traccia che potesse essere
utile alle indagini?
Tutto il mondo è rimasto attonito, a
guardare in diretta televisiva, gli scontri,
i poliziotti accerchiati, le autoambulanze
che a stento riuscivano a muoversi fra la
massa degli esagitati. Tutto per una partita di pallone? No, di certo: questa è
stata una occasione, come i violenti potevano trovarne un’altra.
Non cambierà nulla e l’esempio del
“dovere” mostrato da Filippo Raciti sarà
raccolto solo dai suoi colleghi, mentre il
“testimone” resterà alla famiglia, alla
moglie di un poliziotto che ha mostrato a
tutti cosa significhi la dignità, ai due figli
che hanno saputo tenere per loro il dolore di una perdita che nessuna beneficenza riuscirà a colmare. Non si dovrebbe
scrivere nulla su episodi simili: si
dovrebbe avere il coraggio di starsene
zitti, di non esprimere sentimenti ed
emotività che facilmente possono essere
strumentalizzati. Bisogna avere la forza
di guardare in faccia la realtà e volere
agire, se si vuole veramente che le cose
cambino.
Catania non deve dimenticare ciò che
è accaduto: deve avere la capacità di
riconoscere gli errori, deve riappropriarsi dei quartieri dimenticati, deve dare
punti di riferimento credibili ad una gioventù che è stata costretta a trovare nel
branco la ragione di esprimere tutto il
risentimento che ha verso una società
che li emargina, che li respinge.
Perché contro i poliziotti esplode l’odio più sfrenato? Forse perché rappresentano le istituzioni che non si possono
colpire.
Se questa tragedia può insegnare qualcosa, che almeno si pensi a costruire una
prospettiva per questi giovani che, con
facilità, possono trasformarsi in assassini.
Oggi è stato ucciso un poliziotto,
domani potrebbe accadere di peggio.
Con il coraggio e la consapevolezza delle individuali responsabilità
Occorre ricostruire l’equilibrio infranto
tro ignoti, compendiati sempre dalla solita esclamazione: “Ora Basta!”
L’attuale ministro dell’Interno, persona decisare 12, lunedì 5 febbraio 2007,Catania piazmente corretta, grida anche lui “Ora Basta!” Ma
za Duomo,i cittadini che non sono riusciti
caro sig.ministro, applaudiamo con sincera partead entrare in chiesa, aspettano l’inizio
cipazione il discorso da Lei fatto in Parlamento in
della cerimonia religiosa funebre in memoria del
occasione della relazione sui fatti di Catania del
poliziotto Raciti e di commemorazione in onore di
venerdi 2 febbraio 2007, ma si rende conto di
S.Agata.Tutta Italia, e sicuramente altri parti
quante difficoltà, prima i suoi
d’Europa e del mondo, seguopredecessori ed ora Lei, sarà
no in diretta televisiva l’evencostretto ad affrontare con un
to.
sistema dove il permissivismo,
I due Stati dell’Italia che
il lassismo, il consociativismo
conosciamo sono presenti: lo
(e tanto altro) fanno da corolStato del Vaticano, quindi
lario ad un pianeta a se stanreligioso ed ecclesiastico, per
te, dove i miliardari interessi
celebrare di diritto il rito, e lo
ruotano attorno ad un palloStato Italiano, rappresentato
ne? Nessuno si tiri indietro
dal Governo e dall’opposiziodavanti alle piccole e grandi
ne per rendere l’estremo saluresponsabilià!
to ed omaggio all’eroe di
Si parla di cultura sociale:
turno:Filippo Raciti.
cosa si è fatto per educare il
Il Santo Padre invia un
popolo? Si parla di giovani
messaggio di pace e di cordoincontrollati ed incontrollabiglio, il Presidente della
li: cosa si è fatto, a partire
Repubblica, tramite il Capo
dalla Famiglia, per renderli
della Polizia, invia messaggi
più partecipi e più responsadi cordoglio, solidarietà e di
bili? Si parla di ordine sociastimolo alle forze politiche
le e morale: cosa si è fatto per
affinché si ponga rimedio una
far rispettare le regole, le
volta e per tutte a questi delitgerarchie, la disciplina, per
tuosi eventi; assenti il Capo
dare il senzo delle istituzioni?
del Governo e dell’opposizioI problemi vengono da lonne forse impegnatissimi l’uno
tano e, nello stato attuale
a tenere in piedi un Esecutivo
delle cose, tra patteggiamenti
”scollegato” (politica estera,
ed impunità, si ha la licenza
pacs, ecc.), e l’altro a ricucidi uccidere ed inneggiare alla
re, con tanta pubblicità da
tragica morte di un poliziotto
entrambi le parti, un apparencome un evento positivo e da
te dissidio familiare, oltre che
ripetere (Ma questa non è
tenere continuamente aggiorforse apologia di reato?).
nati i sondaggi di gradimento
Chi si rende parte attiva di
e d’opinione.
Nelle foto: la guerriglia allo stadio di Cibali di venerdì 2 febbraio 2007
azioni nefaste, purtroppo semFeroci scontri politici,
pre più giovani, privi di veri
all’ultima parola, dove tutti
Andando indietro nel tempo, la nostra storia è ideali politici, altro non fanno che mettere in
hanno ragione, mentre nella piazza si consumano i
veri scontri, corpo a corpo, e dove l’ultimo eroe piena di delitti di varia natura (la cui origine è ginocchio il Paese, ponendo l’uno contro l’altro,
(speriamo sia veramente l’ultimo) Filippo Raciti, sempre e solo potere e delinquenza): mafia, terro- alimentando contrastanti correnti di pensiero
ispettore capo della Polizia di Stato, cade stoica- rismo, estremismi politici, odio contro il sistema, (innocentismo, colpevolismo).
A questo punto, l’unica prospettiva è quella di
mente sotto i colpi inferti da delinquenti. La Sua anarchia e tanto altro ed in ogni occasione, lutti
unica vera colpa è quella di indossare una divisa cittadini, funerali di Stato ed anatemi lanciati con- ricostruire l’equilibrio infranto.
di FRANCO LOMBARDO
O
da sbirro, difendere lo Stato di diritto in nome e
per conto di una democrazia e di una libertà scritta e mai realmente sancita con fatti concreti, duri
esempi di repressione (non pena di morte) e con
una giustizia che metta finalmente, senza troppi
garantismi, un punto fermo nella risoluzione dell’atavico problema della violenza negli stadi e non
solo.
LA VOCE DELL’ISOLA
2
17 febbraio 2007
CATANIA NON DIMENTICARE!
Una storia che pagheremo a lungo
Tutti i catanesi sono arrossiti di vergogna
Perché i giovani trovano appassionante la caccia al poliziotto?
di FRANCO ALTAMORE
Q
uesta storia ce la faranno pagare per molto tempo. Le immagini degli scontri del Cibali
hanno fatto immediatamente il giro del
mondo, facendo arrossire di vergogna
tutti i catanesi e milioni di italiani. Il
governo italiano e insieme ad esso tutti
i dirigenti politici nazionali hanno
preso le distanze, mostrato ripetutamente alle televisione volti commossi,
puntato il dito contro i tifosi ultras e
promesso misure drastiche.
Tutte le partite di calcio sono state
sospese. Anche la festa di S. Agata è
come fosse stata sospesa, a tal punto è
stata ridimensionata. Il Pontefice, per
non aver menzionato all’Angelus i fatti
di Catania, è stato redarguito direttamente in tv da Pippo Baudo. La messa
funebre è stata tenuta nel Duomo di
Catania lo stesso giorno della festa di
S. Agata e i volti dolenti della vedova e
della figlia dell’ispettore Raciti sono
apparsi in tutte le televisioni, come ai
funerali delle vittime della strage di
Capaci.
Sommersi da un immane angoscia
siamo ora alla ricerca del capro espiatorio che rimuoverà i sensi di colpa e
consentirà ai più di riprendere la vita
normale. Con la vita normale tornerà
anche l’abituale e generale indifferenza
nei confronti sia delle vittime sia delle
cause che hanno generato la teppaglia
organizzata contro i poliziotti.
Presto il bravo ispettore Raciti sarà
dimenticato dai più e pochi si chiederanno come sia potuto accadere quello
che Venerdì due febbraio 2007 è accaduto al Cibali di Catania. Vedremo prevalere e stabilizzarsi il giudizio, sbrigativo e stolto, della colpa dei tifosi catanesi e della responsabilità dell’intera
cittadinanza. La pagheremo per molto
tempo dunque.
La sovraesposizione dei professionisti dell’antimafia degli anni Novanta
non ha giovato alla Sicilia, anzi ha fatto
un danno che si è aggiunto a quello
della stessa mafia, diffondendo in tutto
il mondo l’immagine falsa e volgarmente stereotipata del siciliano uguale
mafioso. Anche questo troppo catoneggiare sui fatti del Cibali finirà per
aggiungere male al male.
I tifosi del Catania sono tutti indistintamente sconvolti per l’accaduto;
essi sono anche devoti di S. Agata e si
sono divisi sulla opportunità o meno di
celebrare i funerali in Cattedrale, pro-
Nelle foto in alto: piazza Duomo dopo i funerali di Filippo Raciti. Al centro: la manifestazione dei sindacati
di Polizia tenuta domenica 11 febbraio. Sotto: la vedova di Raciti Marisa Grasso
tra il Questore Michele Capomacchia e Pietro Gambuzza dirigente del X reparto mobile
prio nel giorno della festa. Quelli a
favore hanno voluto testimoniare così
il loro cordoglio, i contrari hanno fatto
presente che in quel modo si faceva
apparire una colpa collettiva che non
c’era. “C’è stata una prova di forza fra
la Curia e la Questura – sussurra uno
dei leader dei tifosi -...alla fine la Questura l’ha avuta vinta... la tifoseria del
Catania si è spaccata esattamente a
metà fra favorevoli e contrari...”.
Sono prevalse sin ora le emozioni. I
rappresentanti del governo e del parlamento, gli esponenti della cultura,
dello sport e dello spettacolo tardano a
trovare la lucidità necessaria per approfondire il problema e trovare soluzioni
razionali.
Quando sarà possibile ragionare più
serenamente, dovremo chiederci come
mai tanti giovanissimi catanesi trovano
talmente appassionante la caccia al
poliziotto, da organizzare parallelamente alle partite di calcio gli assalti
alle forze dell’ordine.
Dovremo finalmente dare una risposta al perché a Catania il tasso di criminalità minorile è così eccezionalmente
alto.
Dovremo dare una spiegazione del
perché nel West Side della Città, nel
Villaggio S. Agata, a Monte Po e Librino migliaia di cittadini senza occupa-
zione ogni mattina si svegliano col
pensiero di dover trovare il denaro per
il mangiare ed alla fine in qualche
modo il denaro si trova anche per la
ricarica del cellulare. È ancora viva la
memoria di quando la magistratura
promosse le inchieste contro i Cavalieri del lavoro di Catania, concluse con la
distruzione totale delle grandi imprese
catanesi.
In un lampo furono azzerati, oltre al
settore portante dell’economia catanese, anche ventimila posti di lavoro e
nessuno levò la voce per denunciare
che almeno centomila catanesi si trovarono di colpo sul lastrico.
Si sentirono allora soltanto le grida
inneggianti ad una legalità meramente
giudiziaria, indifferente nei confronti
dello sviluppo della città e gelida verso
il dramma dei lavoratori licenziati e
delle loro famiglie.
I minorenni che si organizzano in
squadre e assaltano i poliziotti davanti
allo stadio provengono quasi esclusivamente dalle famiglie del West Side
catanese e lo Stato viene da loro percepito come una entità lontana, indifferente e persino nemica.
Sono spinti dagli stessi sentimenti di
rancore dei loro coetanei delle banlieu
parigine, ma la loro guerra contro i rappresentanti dello Stato, l’uccisione di
un poliziotto e l’emotività generale che
ne è scaturita fanno pensare che, come
dall’undici settembre 2001 per New
York, dal 2 febbraio 2007 per Catania
nulla potrà essere come prima.
LA VOCE DELL’ISOLA
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17 febbraio 2007
CATANIA NON DIMENTICARE!
All’improvviso, un blocco al cuore...
Che nessun’altra famiglia provi questo dolore
Quanto accaduto costituisca un monito per tutti i giovani sbandati
La dignità del dovere
Le ultime parole di Filippo Raciti:
“Non è grave, non preoccuparti, ma
portami in ospedale che non mi sento
tanto bene”.
di DARIO LIETO
E
ra un poliziotto gentiluomo, la
sua professione la intendeva
come una missione. Questo era
Filippo Raciti, L’ispettore capo della
Polizia di Stato in servizio presso il
decimo Reparto Mobile di Catania,
morto tragicamente durante gli scontri
del derby (prodotto da quello che ancora continuiamo a chiamare “sport”) tra
gli etnei e il Palermo.
Era impegnato nel sociale ed accompagnava la moglie Marisa alla Croce
Rossa di Acireale, dove era residente,
per fare il volontariato. Faceva parte di
una famiglia modello, in cui i figli,
Alessio e Fabiana, avevano imparato a
rispettare il prossimo.
Dal punto di vista professionale,
aveva ricevuto importanti riconoscimenti: era Cavaliere dell’Ordine al
Merito di Savoia e Guardia d’Onore
alle Reali Tombe del Pantheon, ma
soprattutto era il punto di riferimento di
molti colleghi ed amici e non solo di
quel Reparto Mobile (“Bersaglio Mobile” per tutti gli esagitati) che si occupa
dell’ordine pubblico, dove lavorava,
ma anche punto di riferimento di tutte
quelle persone che hanno avuto la grande fortuna di conoscerlo
Fra le tante “parolone” sprecate col
senno del poi e non prima magari che
arrivasse la tragedia, veramente poche
sono state dette del grande uomo che
era Filippo Raciti e vi assicuro che
sarebbero sempre poche!
Non credo ci sia altro da dire, credo
che il nostro dovere sia solo quello di
tenere in mente il giorno dei funerali di
questo uomo e delle parole pronunciate
con grande compostezza dalla famiglia:
Il piccolo Alessio, il figlio minore dell’ispettore vestito da poliziotto. Vederlo e ricordarlo in questa triste giornata,
stringe il cuore, così come ricordare la
cerimonia funebre, il feretro avvolto in
un grande tricolore, che attraversa, tra
gli applausi, piazza Duomo. Poi, un
lungo spazio per le lacrime e per la
commozione suscitata dal messaggio
lanciato da un collega di Raciti, nel
quale ammette di non voler “perdere
altri amici, altri colleghi, come te. Noi
ci crediamo, ma le autorità devono aiutarci. Addio Filippo”. E così si esprime
la vedova di Filippo Raciti durante i
funerali: «Vorrei solo dire due parole
per mio marito. Sono sicura che tutti
conoscevate i suoi pregi. Venerdì nell’apprendere della sua morte ho avuto
un blocco al cuore. Immaginavo che
sarebbe tornato con qualche ferita. Ma
non mi sarei immaginato che sarebbe
tornato così», ha esordito Marisa Grasso, che si è rivolta ai giovani che
«immaturamente, stupidamente scioccamente, guardando un poliziotto e
quanti portano la divisa lo guardano
con disprezzo e odio. Mio marito - ha
continuato - oltre a essere un bravissimo poliziotto era un gradissimo uomo,
aveva qualità vere, era sincero, leale,
affidabile, disponibile. Non lo vedo
morto, perchè è sempre presente. Era
un educatore alla vita: così lo stimano i
suoi colleghi. Vorrei che sia un educatore anche nella morte e che questa
morte possa portare veramente cambiamenti e che non ci sia un’altra famiglia
a provare questo enorme dolore. I
ragazzi riflettano - ha concluso Marisa
Grasso -: la sportività è una cosa bella,
la violenza fa male. Essere grandi si
dimostra col rispetto». E la figlia quindicenne, Fabiana, ha letto, tra le lacrime, una lettera straziante che nessuno
vorrebbe mai sentire indirizzata al suo
papà: “Ciao papino: è l’ultima occasione in cui tutti vedranno quanto ti voglio
bene. Quando ho saputo della tua morte
ho sentito qualcosa dentro di me che è
difficile spiegare. Ho deciso di farmi
del male, non mangiando e non bevendo più. Ma mi dicono che questi sono
momenti difficili e bisogna farsi forza”,
ha detto ancora la ragazza.
La nostra vita - ha continuato Fabiana - non sarà più facile, perchè tu eri
bravo in tutto, ma soprattutto nel fare il
papà. Adesso spero solamente che la
tua morte spinga la società a cambiare,
perchè tu sei un eroe. Io non riesco a
stare senza di te, perchè siamo uguali.
Abbiamo gli stessi pregi e difetti, come
grosse labbra e un ginocchio che dà
qualche problemino. Sono e sarò sempre fiera di essere tua figlia”.
Nelle foto sotto il titolo:
l’ispettore capo Filippo Raciti
in alcune immagini nel corso
della sua attività.
Sopra e accanto: la moglie
Marisa Grasso ed i figli
Fabiana e Alessio.
Nella manifestazione
per la legalità organizzata
dai sindacati di Polizia
(foto pagina accanto)
grande partecipazione
di folla ma assente
la cosidetta “società civile”
LA VOCE DELL’ISOLA
4
17 febbraio 2007
La sfida del presidente dell’Assindustria catanese Fabio Scaccia per una nuova prospettiva
Superare i limiti dello sviluppo autonomo
Distretto Sud-Est per il rilancio dell’economia
Indispensabile cambiare rotta nella selezione della classe dirigente
con le politiche e le regionali dello
scorso anno, di tutto rispetto, nei confronti dei quali l’associazione da me
guidata si è comportata con la massima
equidistanza, trasparenza e lealtà, non
parteggiando per nessuno e permettendo ai candidati di confrontarsi anche
davanti ai nostri iscritti. E questo anche
perché il panorama “ideologico” dei
nostri associati si sta sempre più variegando, comprendendo ormai tutto lo
spettro delle opzioni politiche. Per questo, da presidente ho tenuto a rafforza-
realtà come quella dell’Ance che ha
visto totalmente rinnovati i suoi vertici.
Un lavoro che ha richiesto grande
attenzione e notevole fermezza, ma che
ci ha premiato, perché anche grazie a
questa azione abbiamo recuperato
all’interno dell’associazione alcune
grandi realtà imprenditoriale che da
tempo se ne erano distaccate.
Che fase attraversa il mondo
imprenditoriale catanese?
Dopo qualche anno di stagnazione, è
un momento di grandissima ripresa un
po’ in tutti i settori. Dalle software
house, alla microelettronica, alla farmaceutica, all’agroindustria sono
venute fuori delle nuove realtà imprenditoriali molto interessanti. E il nostro
ruolo come associazione industriali è
di sprone, coordinamento e servizio nei
loro confronti, soprattutto se consideriamo che si tratta di aziende spesso di
dimensioni occupazionali e di fatturato
non competitive in campo nazionale e
men che meno in campo internazionale. Anche per questo motivo abbiamo
molto spinto la creazione di consorzi
tra aziende dello stesso settore e i risultati, per esempio per quanto riguarda il
consorzio Etna High Tech, che abbiamo promosso assieme all’Università, ci
stanno dando ragione. Ma l’idea su cui
stiamo cercando di impegnare tutte le
nostre forze è legata ad un vero e proprio “distretto del Sud est” della Sicilia, una visione della realtà imprenditoriale, e non solo, che metta insieme le
realtà provinciali di Catania, Enna,
Siracusa e Ragusa e che faccia si che
l’intera area si integri superando antichi personalismi e superate concezioni
di sviluppo “autonomo”. Se si riuscisse
a mettere in rapporto sinergico le realtà
vive, ripeto non solo dal punto di vista
imprenditoriale, esistenti in queste province si potrebbe dare una spinta
importante allo sviluppo della nostra
re il nostro ruolo come interlocutore
forte e determinato della politica, ma
non certo come un oppositore e men
che meno come un vassallo. Il dato di
fondo è che la Confindustria non fa
politica, ma non può non rapportarsi
con la politica. Insomma una Confindustria autonoma, credibile e coerente.
Abbiamo riportato al centro le imprese
più importanti, facendo, come accennavo prima, anche un grosso lavoro di
“pulizia” al nostro interno.
Una pulizia di che tipo?
Per certi aspetti si è trattata di una
vera e propria rivoluzione, come raramente si ricorda sia avvenuto in altre
realtà territoriali come la nostra. Siamo
intervenuti, ad esempio, per espungere
quasi centocinquanta aziende dalle
nostre fila, aziende che, o non erano
vere aziende, in quanto di fatto non
svolgevano attività imprenditoriale o
non erano più attive all’interno del
mondo confindustriale. Abbiamo in
sostanza messo ordine nell’anagrafe
associativa, anche quanto riguarda una
terra che, mai come in questo momento, rischia di restare fuori dallo sviluppo globale.
Un “distretto del Sud-est” con
Catania come capofila?
Per meglio dire con Catania come
locomotiva, anche per inevitabili dati
statistici relativi, ad esempio, al numero di abitanti o di imprese esistenti sul
territorio. Ma non una composizione
che faccia di Catania il centro di tutto,
anzi. Ognuno deve mettere quanto di
meglio ha a disposizione del distretto.
Per fare un esempio, ritengo che l’interporto di Catania debba rapportarsi
innanzitutto con il Porto di Augusta,
che deve essere la punta di lancia per
l’internazionalizzazione dei nostri prodotti. Ma ci sarebbero esempi da fare
per ognuna delle province che fanno
parte di quest’area. Una realtà produttiva e sociale che, se invece di scegliere
la via dell’aggregazione, si presenterà
divisa alla meta dello sviluppo non
potrà che restare fuori dai giri che contano.
di MARCO DI SALVO
I
n giro per la città in tanti si chiedono dove voglia arrivare e perché
faccia tanto “sgrusciu”. A chiederlo
a lui, Fabio Scaccia, giovane e combattivo presidente dell’Associazione Industriali etnea, la risposta che si ottiene è
tanto serena quanto lapidaria: «Quando
sono stato eletto alla guida dell’associazione un anno e mezzo fa, il mio
mandato si basava sulla riconquista
della centralità del nostro gruppo nel
mondo produttivo cittadino, anche in
relazione alle altre istituzioni esistenti
nella provincia e non solo. C’era l’obiettivo preciso di chiedere con forza, a
noi e agli altri rappresentanti delle istituzioni cittadine, un cambio di rotta
nella selezione dei rappresentanti delle
classe dirigente, fatto di un profondo
rinnovamento anagrafico e qualitativo.
E questo è quello che mi sono impegnato a fare negli ultimi diciotto mesi,
anche a costo di parecchi no e di qualche riunione abbandonata improvvisamente o di qualche telefono sbattuto».
E sul fatto che si sia impegnato se ne
sono accorti un po’ tutti, ultimo in ordine di tempo il neo presidente della
Camera di Commercio che, per poter
essere eletto, ha avuto bisogno di un
benestare formale (e non solo) da parte
delle associazioni e gruppi di interesse
che facevano capo proprio a Scaccia e
alla sua Confindustria e che non hanno
mollato la presa se non dopo adeguate
rassicurazioni da parte di Pietro Agen
sul fatto che la sua azione sarebbe stata
improntata alla ricerca di personalità
dalle qualità professionali e dai curricula immacolati, anche per quanto
riguarda le nomine della squadra e dei
rappresentanti della Camera di Commercio negli altri enti provinciali.
Soddisfatti dalle promesse di
Agen?
Non è solo un problema di soddisfazione personale o di gruppo. Avevamo
intuito, negli scorsi mesi, che c’era
stato il tentativo, per fortuna non andato a buon fine anche per il nostro muro
contro muro, di infrangere quell’accordo di grande concertazione tra le associazioni produttive che era stato alla
base anche dei primi incotri tra le categorie e che doveva portare ad una convergenza su di un nome comune per la
presidenza. Questo a noi è parso un far
rientrare dalla finestra logiche ed
uomini che, a parole, si era detto di non
volere più. Forzature, insomma, alle
quali non ci siamo prestati e che, almeno per il momento, sembrano essere
state respinte. Anche per questo abbiamo votato a favore di Agen per la presidenza ed ora naturalmente attendiamo che il neo presidente si muova
secondo quanto dichiarato e cioè che la
Il ministro Padoa-Schioppa e Fabio Scaccia
selezione del personale alla guida degli
enti deputato allo sviluppo sia improntata sulla qualità degli uomini e sulla
competenza.
E magari che si tratti di qualcuno
di voi imprenditori, ad esempio per
quanto riguarda ad esempio il Cda
della Sac ed il nuovo presidente…
Certo, perché no? Per quanto riguarda l’aeroporto noi ci attendiamo che il
presidente della Camera di Commercio
nomini, all’interno dei tre componenti
spettanti all’ente, anche una figura di
respiro e di curriculum, così qualificato da poter essere il candidato naturale
alla presidenza della Sac. Ancora una
volta quindi non un nome scelto solo in
quanto espressione di una maggioranza
numerica dei componenti del cda, ma
per le sue intrinseche caratteristiche. E
sinceramente ritengo che la nostra
associazione possa fornire anche qualche buon curriculum a riguardo. Mi
aspetto comunque dei nomi che, pur se
non faranno piacere a qualcuno (penso
soprattutto a qualche esponente politico), siano nomi che facciano la differenza per uno sviluppo positivo dell’ente.
Fino a che punto ritenete di poter
alzare lo scontro con la politica? Una
politica che, comunque la si guardi,
ha ancora una notevole pervasività
all’interno del sistema economico e
produttivo della città…
Lo sforzo che abbiamo fatto come
Confindustria Catania in questi ultimi
tempi è quello di ritornare ad essere
forti ed autonomi. Come mi capita di
ripetere spesso, a noi non interessa rappresentare quelle aziende che costruiscono un palazzo perché sanno già,
prima di gettarne le fondamenta, a
quale ente devono affittarlo o che
nascono sapendo già quale appalto
pubblico andranno a vincere. Questa
“impermeabilità” agli interessi, più o
meno leciti, della politica ha fatto si
che in questi ultimi
diciotto mesi, come
forse mai prima all’interno dell’associazione,
si sia riscontrata una
forte unità di intenti tra
associati e presidenza,
unità di intenti che
rende meno attaccabile
le decisioni e le posizioni prese pubblicamente.
E quindi con che
tipo di Confidustria si
trova a relazionarsi il
sistema istituzionale
catanese?
Ritengo che Catania
stia ritrovando una
Confidustria più autorevole. Un periodo in cui
ci sono anche stati due
appuntamenti elettorali,
Due immagini di impianti industriali a Catania
LA VOCE DELL’ISOLA
5
17 febbraio 2007
Grazie agli articoli 36 e 37 dello Statuto speciale si potrebbe avere un quasi totale affrancamento
Autonomia fiscale, realtà divenuta sogno
Si chiede ancora ciò che è già nostro diritto
La Regione ha potestà sul sistema tributario tranne poche eccezioni
di ENZO LOMBARDO
Si è parlato al passato perché, nel 2001, vi fu la
riforma costituzionale delle autonomie locali (c.d.
Riforma Bassanini) che stravolse, e stravolge
ancora, i rapporti istituzionali e creò un immenso
contenzioso presso la Corte Costituzionale. Senza
volere entrare nel merito della riforma ci si deve
soffermare sul nuovo art. 117 della costituzione
dalla cui applicazione emerge chiaramente che: la
competenza sui tributi erariali è di competenza
esclusiva dello Stato, le Regioni hanno competenza esclusiva solo sui tributi propri (quelli emessi
con legge regionale e non quelli emessi dallo
Stato per finanziare le regioni come l’IRAP); esiste una competenza legislativa concorrente (di
pari grado) tra Stato e Regioni per coordinare ed
armonizzare la disciplina tributaria.
Il punto cardine del dibattito e proprio questo.
Con la riforma costituzionale si prevede una netta
separazione tra tributi propri della regione e tributi erariali ma ciò non può valere per la Sicilia fino
a quando l’art.36 resterà quello attualmente in
vigore. In pratica esiste un conflitto palese tra il
nuovo assetto costituzionale ed i diritti tributari
della Sicilia che vengono confermati anche dalla
Corte Costituzionale.
Se, nel riformare lo Statuto Siciliano, si dovesse mettere mano all’art.36 ed includervi a qualsiasi titolo le espressioni di tributi propri e tributi erariali, la cose sarebbe equivalente ad
affossare il diritto della Sicilia a legiferare anche
in termini di tributi erariali.
Questo sarebbe un gravissimo attentato non
solo all’Autonomia Siciliana ma anche alle prospettive di potersi auto-creare un sistema di fiscalità di vantaggio per la nostra isola. Infatti un
conto e non applicare lo Statuto, a questo si può
sempre rimediare, altro discorso è tagliarsi un
diritto soltanto per adeguarsi al nuovo assetto
costituzionale dello Stato.
Tante volte lo Stato ha abusato dei nostri diritti,
agevolarlo sarebbe solo un suicidio politico.
Sarebbe, dunque, bene valorizzare ed utilizzare a
pieno i diritti che l’autonomia ci può dare piuttosto che fare sterili richieste che, se mai fossero
accolte, dovremmo pagare a caro prezzo. Non è
una buona politica chiedere qualcosa che si possiede già.
Durante la sua visita del 20 gennaio a Catania il
ministro per l’Economia Tommaso Padoa Schioppa, ha partecipato ad un dibattito, nel quale per la
verità ha ricevuto molti più complimenti e deferenze di quanto ci si aspettasse considerati anche
i relatori presenti, sulla finanziaria 2007 di cui
egli è uno dei padri.
Dalle relazioni esposte emergeva, oltre alla
citata profusione di “affetto”, una costante richiesta di fiscalità di vantaggio come leva per lo sviluppo della Sicilia anche in chiave Mediterranea.
Di per sé la richiesta non è sbagliata e non è peregrina in quanto grazie all’autonomia fiscale ogni
territorio può giocare sulla leva impositiva per
favorire ed attrarre investimenti.
Certamente la richiesta può definirsi inutile perché sin dall’entrata in vigore dello Statuto Siciliano (D. Lgt. 15 maggio 1946 n. 455), vige per la
Sicilia la regola che: “Al fabbisogno finanziario
della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione a mezzo di tributi deliberati
dalla medesima. Sono però riservate allo Stato le
imposte di produzione e le entrate nei monopoli
dei tabacchi e del lotto”. Questo è scritto nell’art.
36 dello Statuto.
Appare evidente anche a chi non è esperto di
questioni giuridiche e tributarie, che l’autonomia
fiscale della Regione rispetto allo Stato Italiano è
amplissima ed enorme e, a volerne fare anche una
piccola esegesi, è lampante che essa deve essere
La sede della Corte Costituzionale a Roma
espansa nella massima configurazione possibile
se in questo articolo si è sentita la necessità di
esplicitare chiaramente quali sono i tributi riser- anche grazie alla ristrettezza ed alla laconicità del cizio della potestà ad essa riconosciuta”. Questa
testo dell’art. 36. Tuttavia, se dunque è acclarata affermazione della Corte ebbe, ed ha tutt’oggi,
vati solo allo Stato.
Invertendo il ragionamento, la Regione Sicilia- la potestà tributaria, anche sui tributi erariali, delle conseguenze politiche enormi sulle quali,
na ha potestà esclusiva sul sistema tributario ad della Regione Siciliana bisognerebbe analizzarne come al solito, non ci si è molto soffermati da
parte della politica siciliana.
eccezione dei monopoli dei tabacchi, delle impo- i limiti.
In pratica la Corte ammise due cose: primo non
Sempre nel 1999, con la sentenza n. 138, la
ste di produzione e sul gioco del lotto.
Dopo la “costituzionalizzazione” dello Statuto, Corte Costituzionale ha riconosciuto l’impossibi- vi era un limite ben definito ai poteri della Sicilia
avvenuta con la legge costituzionale n. 2 del 26 lità, visto il fumoso ed incerto complesso di nor- sulla legislazione tributaria e, secondo, la Regiofebbraio del 1948, vi fu un periodo di incertezza mative all’epoca vigenti, di potere stabilire un ne Siciliana non aveva mai emesso una legge in
che terminò nel 1965 quando venne emanato il limite generale tra la potestà tributaria dello Stato tal senso che potesse dare alla corte un minimo
D.P.R. n. 1074 che emanava disposizioni per l’at- e quella della Sicilia, affermando chiaramente che appiglio per concludere un analisi di questo limituazione dello Statuto Siciliano in materia finan- questo limite potrà essere solo valutato “solo se e te. In pratica la Sicilia aveva un potere immenso e
ziaria. Anche in questo D.P.R. viene stabilito in quando la Regione adotterà delle leggi nell’eser- non lo aveva mai utilizzato.
maniera chiara ed inequivocabile (e
non potrebbe essere altrimenti) che la
Regione Siciliana ha potestà tributaria
anche sui tributi erariali che, in qualsiasi modo, venissero a formarsi nel suo
territorio e questo anche in ossequio al
dettato dell’art.37 dello Statuto.
Tuttavia vanno considerati diversi
aspetti, giuridicamente abbastanza
complessi, che si proverà ad illustrare,
All’argomento si era più volte interessato pro- dalle telecamere a ritirare il pizzo mensile che da
di ALFREDO LIETO
sempre secondo la nostra personale
prio il periodico ufficiale delle carceri, Le due ben otto anni veniva estorto ad una concessionaria,
interpretazione, per meglio chiarire il
In Italia, l’introduzione del braccialetto elettro- città. Ma anche in questo caso, sullo stato attuale accoglieva la richiesta del difensore disponendo
quadro di riferimento complessivo
nico risale al 2001. Lo strumento, che Stati Uniti, del programma c’è buio fitto. «La pratica» sostie- l’applicazione del braccialetto elettronico.
anche in vista dei tentativi di modifica
A questo punto il Direttore del carcere di Piazza
Svezia, Olanda e Gran Bretagna adottano dagli ne il Dipartimento dell’amministrazione penitendello Statuto che si stanno susseguendo
anni ’90. In questi Paesi, infatti, viene applicato ziaria, «fu gestita dal ministero dell’Interno» e Lanza informò della decisione presa dal Gip, sia la
in questo periodo.
Squadra Mobile che i Caraalle caviglie dei detenuti che
Da tanti anni la Corte Costituzionale
binieri, richiedendo la
sono agli arresti domiciliari.
(che dopo lo “scippo” perpetrato ai
disponibilità del braccialetto
L’obiettivo è combattere il
danni dell’Alta Corte di Giustizia per la
per potere effettuare i dovusovraffollamento delle carceSicilia è l’organo che deve dirimere i
ti controlli. Ma non se ne
ri: Il braccialetto consente
contrasti tra Stato e Sicilia) ha ormai
ebbe traccia. La ditta inglese
all’autorità di seguire a
assunto una linea molto chiara che può
“Soc. On Guard Plus Italia”
distanza i movimenti dei
essere stigmatizzata nella posizione
responsabile della fornitura
reclusi, risparmiando uomini
assunta con la sentenza n.111 del 1999
dei braccialetti, rappresentò
destinati al controllo degli
in parte della quale si legge : “il testo
l’impossibilità a fornire
stessi fuori dal carcere e un
dell’articolo 36 dello Statuto, traccia
l’apparecchio in quanto la
notevole risparmio dei mezzi
una netta separazione fra finanza statastipula della convenzione
sempre in numero minore
le e finanza regionale.........[mentre
con il ministero dell’Interno
anche a causa dei bilanci stan.d.r.]......le norme di attuazione hanno
era stata sospesa. A questo
tali non certo floridi.
delineato
un
assetto
ben
punto il Gip vista l’impossiSe l’apparecchio è tolto o
diverso.......[che ha n.d.r.]........tradotto
bilità di attuare il provvedimanomesso, il ricevitore lo
la previsione statutaria [che la Consulmento, modificò lo stesso,
rileva e le forze dell’ordine
ta, come abbiamo visto, aveva definito
ritornando al controllo traintervengono. La sperimentadi finanza separata n.d.r.] in un sistema
mite il personale delle Forze
zione del braccialetto, voluta
di finanziamento sostanzialmente basadell’ Ordine.
dall’allora Ministro dell’Into sulla devoluzione alla Regione del
Rimangono i dilemmi:
terno Enzo Bianco, avvenne
gettito di tributi erariali riscosso nel
perché pubblicizzare al masin 5 città (Roma, Napoli,
suo territorio”. Sulla base di queste
simo questa “innovazione”?
Milano, Torino e Catania).
parole della Corte Costituzionale non vi
Perché far montare nelle
Ne furono messi a disposizioè alcun dubbio nel ritenere che essa
centrali operative terminali
ne 75: 34 a Polizia, 34 a Carastessa ha riconosciuto che le norme di
e radiolocalizzatori?
binieri, 7 alla Finanza. Ma
attuazione contenute nel DPR del 1965
Perché sperperare tempo e
dopo pochi tentativi e tante
hanno, in un certo qual senso, ristretto
denaro pubblico e poi gettapolemiche, la convenzione
ed alterato lo spirito ed il dettato delre tutto nel cestino?
con la ditta che forniva la tecl’art.36.
Forse qualcuno aveva
nologia fu sospesa e oggi del
Per suggellare e chiarire bene la sua
pensato bene di sfruttare a
braccialetto elettronico non
posizione la Corte Costituzionale, semc’è traccia. Uno in verità nel 2002, lo avevano come spesso accade in Italia c’è stato un rimpallar- proprio favore tale iniziativa per farsi pubblicità a
pre nella medesima sentenza, dichiara
installato agli arti inferiori di Mario M. che qual- si di responsabilità che non porta e non porterà mai spese della collettività mentre, allora come oggi, le
pertanto che: “Resta alla Regione la
carceri scoppiano, il personale penitenziario vive
che settimana dopo, non credendo al controllo a a nulla di concreto.
possibilità (espressamente riconosciuta
A causa di questa poca sensibilità da parte delle una situazione di disagio permanente e gli uomini
distanza, decise di buttarlo ed evadere dagli arresti
dal primo inciso dell’articolo 6 delle
domiciliari finendo nuovamente in carcere in istituzioni, i magistrati non ne hanno mai previsto dei Commissariati e dei Carabinieri continuano a
norme di attuazione) di intervenire
quanto era scattato l’allarme alla centrale operati- l’utilizzo anche perché di braccialetti non ve ne fare controlli, come si faceva da sempre, a quanti
legislativamente anche sulla disciplina
va. Il ministero dell’Interno ha detto di non sapere sono in quanto la convenzione con il ministero si trovano fuori dalle patrie galere perchè sono agli
dei tributi erariali…”.
come si sia conclusa la sperimentazione, così dell’Interno è sospesa. Se ne accorse il Gip del Tri- arresti domiciliari o godono della sorveglianza
Questo riconoscimento, importante
come ha fatto il ministero della Giustizia in quan- bunale di Catania quanto a un detenuto Mario C., speciale.
perché sancito da un organo mai tenero
Mai vendere la pelle dell’ orso.....
arrestato per estorsione nel 2002, perchè ripreso
to «l’apparecchio è in disuso da anni».
l’autonomia siciliana, è stato possibile
Doveva consentire la sorveglianza dei detenuti agli arresti domiciliari
Che fine ha fatto il braccialetto elettronico?
LA VOCE DELL’ISOLA
6
17 febbraio 2007
Il pubblico impiego non può essere considerato esclusività di categorie di “eletti”
Abolire il privilegio dell’incarico a vita
Sono utili alla collettività ma servono a pochi
Un posto di lavoro fisso può essere interpretato come un favoritismo
di DANILO D’ANTONIO
V
i sono mansioni che, per loro
utilità comune, o per l’amministrazione di beni e servizi
comuni, o la sicurezza di tutti (quindi:
nel campo dell’educazione, della sanità, gli impieghi comunali, provinciali,
regionali, statali, nel settore radio-televisivo, i servizi di polizia, l’arma dei
carabinieri, della finanza, i corpi della
difesa, della protezione civile, ecc.
ecc.) sono categorizzati sotto il nome
di pubblici impieghi: essi servono la
collettività e l’intera collettività se ne
serve. Come tutti sappiamo, oggi il
pubblico impiego viene affidato a persone scelte tramite particolari procedure che intendono selezionare i più idonei, tra i tanti che vorrebbero svolgerlo. Una volta selezionate le persone
ritenute più idonee, è uso assegnare ad
esse l’impiego in questione per l’intera durata della loro vita. Ebbene: anche
se questa è una consuetudine ormai
radicata da lungo tempo, alla luce di
una consapevolezza più ampia offertaci dagli innumerevoli strumenti di cultura e mass media di cui la società si è
dotata, si palesa più di un motivo per
ritenere che tale uso debba infine
mutare. Va infatti considerato che,
essendo i ruoli disponibili nel pubblico
impiego di numero ben inferiore
rispetto a quello, non solo degli aspiranti, che avrebbe poca importanza,
ma anche di coloro che sono ampiamente idonei, ciò che si assegna a quei
pochi prescelti, in pratica, non è tanto
un lavoro, bensì un vero e proprio privilegio rispetto al resto della società,
un privilegio di origine del tutto ingiustificata. Se riconosciamo, infatti, la
società, nella sua interezza, essere
depositaria del diritto di usufruire dei
pubblici beni e servizi, allo stesso
modo dobbiamo riconoscerle, egualmente nella sua interezza, il diritto di
equa partecipazione alla creazione,
amministrazione e svolgimento di tali
beni e servizi.
Quando nacque l’impiego pubblico
in senso moderno, determinate mansioni cominciarono da sùbito ad essere
assegnate a determinate persone in una
corrispondenza univoca. In maniera
del tutto naturale si perpetuò uno schema di lavoro diffuso, in cui una persona, iniziando una attività lavorativa,
facilmente sviluppava una certa fedeltà ad essa, e la continuava, salvo rare
eccezioni, fin dopo il termine della sua
stessa vita, attraverso le generazioni
successive. Fu estremamente semplice, quindi, per il pubblico impiego
sposare questo stesso sistema.
Oltre a ciò, certamente e purtroppo,
vi è stato in seguito anche un esacerbamento di questa concezione, esasperazione avvenuta ad opera del fenomeno
del cosiddetto “favoritismo”, in cui
l’assegnazione a vita di un posto di
lavoro garantiva una fedeltà di eguale
durata al politico che lo avesse assegnato. Oltre che aggravare in generale
la situazione, questo fenomeno ha contribuito a ritardare di molto la presa di
coscienza del fatto che in realtà il lavoro di pubblica utilità e la gestione del
bene comune non possono essere di
proprietà esclusiva di alcuno, proprio
per loro stessa definizione di pubbliche attività. Finora abbiamo concepito
questa definizione solo in un senso:
che ognuno possa usufruire dei suoi
servizi. Oggi, con la visione chiara e
globale che i mass media continuamente ci forniscono e che facilmente
ci conduce ad una consapevolezza
superiore riguardo alle origini profonde dei mali della nostra società, con la
situazione di tremenda disparità che si
è venuta a creare nel campo dell’occupazione, e con l’evidenza del fatto che
la cosa pubblica è letteralmente posseduta da alcuni e da questi sempre più
spesso gestita contro ogni regola di
buon senso e contro ogni volontà
popolare, non possiamo non renderci
conto di come le mansioni pubbliche
debbano invece essere considerate tali
sotto tutti gli aspetti, anche e soprattutto dal punto di vista della loro assegnazione ed esecuzione.
Occorre, al più presto, prendere in
seria considerazione l’idea di abolire
quello che oggi appare evidente essere
l’iniquo privilegio dell’incarico pubblico assegnato a vita a pochi eletti, in
favore di una sua più equa ripartizione
tra tutti coloro che desiderassero svolgerlo e dimostrassero di possederne i
requisiti necessari. Ci attende un compito estremamente semplice quanto
importante: effettuare il conteggio
delle ore di lavoro necessarie al buon
andamento della nazione, contare il
numero delle persone disponibili ed
idonee a compierle, distribuendo poi
equamente le prime tra le seconde.
È da considerare, poi, per dissipare
il dubbio che si tratti di una pura questione di teorica equità, che, introducendo una tale riforma, le cose nel
nostro Paese comincerebbero a funzionare molto meglio sotto vari aspetti.
Per cominciare, l’introduzione di una
rotazione di personale all’interno delle
pubbliche strutture apporterebbe
immediatamente un flusso di fresca
energia creativa, allontanandole dalla
loro tipica propensione ad un eterno
immobilismo, propensione dovuta
massimamente al senso di proprietà
esclusiva che ogni pubblico dipendente, di qualsiasi livello, ancor oggi può
attribuire al “suo” posto di lavoro.
Ogni nuovo dipendente apporterebbe
invece il suo contributo originale, personale, diverso da ogni altro, introducendo una capacità creativa e produttiva senza eguali, lungo una linea di
costante rinnovamento e miglioramento. Quello stesso immobilismo,
responsabile dei comportamenti deviati di ogni tipo che noi tutti quotidianamente ed ampiamente possiamo verificare, sarebbe immediatamente spazzato via da un sano alternarsi di persone:
una genuina, dolce, continua reciproca
verifica e vigilanza ci allontanerebbe
felicemente da errori o male azioni,
consapevoli od inconsapevoli che
potremmo esserne, permettendo alle
soluzioni di prevalere nettamente sui
problemi. Cosa importante da considerare, infatti, è che, introducendo nel
nostro Paese la riforma dell’Equo
Impiego Pubblico, un manifesto senso
di giustizia ed uno spirito di istintiva e
fraterna collaborazione si diffonderebbe sùbito all’interno della società. Si
dissolverebbe quel clima di reciproca
sfiducia che ci opprime, ormai da
tempo, un po’ tutti in varia misura, sfiducia causata proprio da situazioni
simili a questa, qui descritta, per disparità, ingiustizia ed irragionevolezza.
Cadrebbe inoltre quella distinzione
tra stato e cittadino che oggi facilmente tende a separarci dalle istituzioni,
distinzione che nasce dal fatto che ad
essere da una parte o dall’altra degli
sportelli e scrivanie dei pubblici uffici
sono sempre gli stessi volti.
Fare a turno ed indossare periodicamente differenti divise ci permetterebbe di constatare in prima persona l’efficacia ed il valore del nostro metodo e
lavoro e, quando fosse opportuno,
apportare tempestivamente le dovute
correzioni. In tal modo, non esisterebbero più da una parte gli oppressori e
dall’altra gli oppressi, ma ognuno
potrebbe sperimentare queste due
diverse condizioni e provvedere a far
sì che scomparissero entrambe. La
nuova situazione che si verrebbe a
creare ci manterrebbe sempre chiaro in
mente che a formar lo stato non possiamo che essere tutti noi, non solo
alcuni, e nessuno escluso.
Non essendo più il pubblico impiego proprietà esclusiva di pochi privilegiati, bensì diritto e, in un certo qual
modo, perfino dovere di noi tutti, non
essendoci più escludenti interessi personali ad annebbiare la nostra vista,
esso ci apparirebbe finalmente, oltre
che come un posto di lavoro, come una
personale fonte di reddito, anche come
un importante servizio reciproco.
In una comune scala di valori, metteremmo immediatamente in secondo
piano la componente remunerativa del
lavoro pubblico, ed enfatizzeremmo
invece la sua componente civica e religiosa, nel senso, naturalmente, più letterale, veritiero, utile e squisito del termine: qualcosa che ci unisce, che offre
ad ognuno un giovamento direttamente proporzionale alla nostra capacità di
aggregarci e vivere insieme (ricordiamo che la parola religione ha buone
probabilità di derivare dal latino religare: unire insieme).
Come sempre, è servito a poco piangere le vittime della collisione sullo Stretto
Già dimenticata la tragedia dell’aliscafo
di VINCENZO POMA
A
ll’indomani di una tragedia che si poteva
evitare, inevitabilmente, si sono accese le
polemiche, risono messi in moto i meccanismi per scoprire le responsabilità, subito alla
ricerca di capi espiatori ai quali addossare colpe.
È un processo che sa di “dejà vu”, già visto, in
tante altre circostanze, e così è stato anche per la
fatale collisione sullo Stretto di Messina tra un aliscafo delle Fs e un mercantile, che è costata la vita
a quattro persone e provocato oltre un centinaio di
feriti. Si è scoperto (dopo la tragedia) che il supermoderno radar, collegato al sistema satelittare Vts
(“Vessel traffic Service”) era insufficiente a garantire la sicurezza dell’intenso traffico di navi in
questo tratto di mare che separa la Sicilia dal Continente, ed a confermarlo è stato proprio quel ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi, che tanto si
è adoperato per affossare la costruzione del Ponte,
prima ancora che potesse essere posta la prima
pietra dell’opera.
Lo stesso Bianchi è stato costretto ad ammettere che “poteva essere una ecatombe”, se la collisione fra l’aliscafo “Segesta” e la nave container
“Susan Borchard” fosse avvenuta qualche metro
prima, affermando che “occorre mettere in campo
un processo speciale di sicurezza per tutta l’area”.
Il senno del poi, i buoni propositi per il futuro,
che raramente vengono trasformati in iniziative
concrete. Ebbene, a distanza di qualche mese dal
tragico evento, è come se il ricordo fosse stato
cancellato: comprensibile, ha già detto qualcuno,
di fatti gravi ne accadono ogni giorno!
L’aliscafo Segesta dopo la collisione
È vero, ma quando le tragedie possono essere
prevenute, perché non compiere tutti quegli atti
necessari che possono evitare lutti e lacrime?
Da sempre è riconosciuta la pericolosità dello
Stretto di Messina, sia per questioni “naturali” (le
forte correnti che lo attraversano), sia per motivi
contingenti (traffico al limite della saturazione,
con attraversamento di navi di grosso tonnellaggio
e medio tonnellaggio, pari a quasi duemila unità al
mese).
Tutto ciò senza considerare la necessità del collegamento passeggeri-veicoli dall’isola alla sponda calabrese (e viceversa).
Il senno del poi serve poco, così come le buone
parole (di rito) espresse ai familiari delle vittime,
le uniche a pagare direttamente il caro prezzo dell’incuria della politica e l’arroganza degli opposti
interessi.
Il ministro Alessandro Bianchi, ovviamente, in
questa fatale circostanza ha parlato solo di “sicurezza” nelle acque dello Stretto, ma si è ben guardato dal fare cenno alle pseudo motivazioni che
hanno posto (almeno per quanto concerne il
Governo nazionale) la parola “fine” alla costruzione del Ponte, in grado di unire “in piena sicurezza”
le due sponde d’Italia.
E d’altra parte, né politici, né giornalisti hanno
sollevato la questione nel momento in cui si sono
pianti i morti. Ovviamente nessuno ha sollevato la
questione dei fondi destinati al Ponte e poi trasferiti altrove, peer essere utilizzati per la realizzazione di opere “fuori” dalla Sicilia, sempre nel Continente: Nel momento del lutto si è pensato a cercare le “responsabilità”, a gettare fumo negli occhi di
quanti avrebbero voluto chiedere conto e ragione
del disprezzo che i “continentali” hanno verso
questa Sicilia, i cui diritti tutti i politici sono pronti a difendere, ma solo a parole.
Le tragedie scuotono tutti, anche questo è vero,
ma solo quando si verificano: la memoria, purtroppo, ha breve durata.
LA VOCE DELL’ISOLA
7
17 febbraio 2007
Polemiche per l’ipotizzata costruzione, a Lentini, di alloggi per le famiglie dei militari statunitensi
Vogliono che Sigonella diventi un “caso”
Rifondazione e Verdi: “Yankee, go home”
L’ammodernamento della base rientra in un Piano avviato dieci anni fa
di VITO PADULA
S
igonella come Vicenza: la scuola (o la disciplina) di un partito – Rifondazione Comunista - oggi al Governo nazionale, ma che continua ad essere “nostalgico” di tempi e di riferimenti che non possono tornare, ha messo in moto
(almeno a livello di tentativo) l’antiamericanismo
anche in Sicilia. È stato sufficiente che i parlamentari (ed i ministri, ovviamente) di Rifondazione comunista ponessero il veto all’ampliamento
della base statunitense ospitata su territorio italiano a Vicenza, che immediatamente i deputati
regionali siciliani dello stesso partito presentassero interrogazioni all’Ars su un ventilato allargamento delle installazioni Usa di Sigonella. “La
costruzione a Lentini, in un'area con vincolo paesaggistico e archeologico, di una vera e propria
città americana, con mille villette che ospiteranno
i soldati di stanza a Sigonella, va bloccata immediatamente": queste sono le frasi pronunciate il
mese scorso da Rosario Rappa, segretario regionale del Prc, e Santo Liotta, senatore del Prc, che
ha anche presentato un'interrogazione al ministro
dell'Ambiente. Rifondazione comunista siciliana
ha immediatamente attivato i propri rappresentanti istituzionali nazionali per fare assumere al
governo una posizione di opposizione sia alla
costruzione del villaggio americano a Lentini che
al potenziamento della base Usa siciliana. Inoltre
anche il ministro dei Verdi Pecoraro Scanio (nella
sua recente visita a Palermo per un incontro con i
candidati alle primarie dell’Unione) ha espresso il
suo deciso “no” all’ipotesi di rafforzamento dell’installazione militare.
Vicenza e Sigonella, in subordine, stanno provocando profonde spaccature all’interno del
Governo nazionale, mostrando chiaramente l’intransigenza dei vecchi comunisti ancora ancorati
ai tempi in cui esisteva il Muro di Berlino e la
contrapposizione tra Urss e Usa. Sigonella non è
Vicenza e la Sicilia non è Montecitorio.
La questione di Sigonella è stata “rispolverata”
a seguito della notizia della costruzione in territorio di Lentini di alloggi per le famiglie dei militari americani che risiedono in Sicilia. Una notizia
che ha suscitato polemiche soprattutto perché
questi edifici dovrebbero sorgere in zone dove
insistono insediamenti archeologici, ma l’informazione è stata smentita dall’Ufficio stampa Usa.
Questa notizia, in ogni modo e per molti versi, è
da definire “impropria”, in quanto pubblicizzata
con anni di ritardo: l’eventuale costruzione di
degli alloggi presi di mira da Rifondazione e
Verdi, infatti, rientra in un piano di ammodernamento delle strutture americane esistenti, avviato
agli inizi degli Anni Novanta e, fra l’altro, in fase
di completamento. L’ultima trance prevista di
questo ammodernamento – chiamato nel tempo
Piano Mega I, II e III – è statta avviata nel 2004 e
si concluderà nel 2007: Si è trattato di una ristrutturazione notevole, a livello di investimenti: ben
675 milioni di dollari, per la quale in tutti questi
anni trascorsi nessuno ha alzato la voce sul piano
governativo e parlamentare. Lo stanno facendo
solo adesso, i soliti e noti deputati, adesso con
l’attuale Governo nazionale, dove la minoranza
della compagine di centrosinistra sembra voler
dominare tutto e tutti. Ma in Sicilia, da quando
esiste la base Nato di Sigonella, nonostante la presenza stabile Usa, né i comunisti nostrani, né le
poche manifestazione pacifiste di protesta, sono
riuscite a creare un “caso” o fatto nascere un “sentimento” antiamericano. Sigonella non è Vicenza,
la Sicilia non è Rifondazione comunista e Verdi
messi assieme
Sono gli anni della “guerra fredda” quando lo
scacchiere del Mediterraneo costituiva un nodo
vitale per i due “blocchi” contrapposti Usa-Urss
per l’influenza che esercitavano sui rispettivi
Paesi alleati e per il predominio ed il controllo
dell’aria e dei mari, che la Sicilia divenne oggetto
di attenzione da parte degli apparati militari americani.. L’aeroporto di Fontanarossa, pur vantando
una posizione strategica invidiabile, essendo
“aperto” ai voli commerciali, non poteva costituire una soluzione permanente per le forze aeree
alleate, che cercavano un sito dove collocare una
base aerea multiuso.. Occorreva sia per la Nato (e
quindi per l’Italia, in prima istanza) e sia per gli
Stati Uniti d’America, una installazione adeguata
a fronteggiare le esigenze che si prospettavano,
vista la crescente invadenza e costante presenza
della flotta sovietica in quello che una volta era
considerato il “mare nostrum”. Sia la Nato, sia gli
Usa – che nel Mediterraneo avevano già dislocato stabilmente la VI Flotta, con sede Napoli necessitavano di una posizione logistica di livello
elevato nel quadro delle nuove prospettive che
assegnavano alla forza armata compiti sempre più
impegnativi e qualificati. A seguito di valutazioni
strategiche inequivocabili – necessità di potere
contare su un punto di riferimento molto importante nello scacchiere del Sud Europa, potenziale
ed effettiva “testa di ponte” verso il Medio Oriente, l’Africa e il Sud-Est Asiatico – si ipotizza la
creazione di un “hub” che potesse essere utilizzato dall’Italia, dalla Nato e dagli Usa.
Nel 1952 una commissione tecnica e militare
effettua un sopralluogo nel territorio della provincia etnea per individuare la zona più idonea dove
costruire un grande aeroporto. Il sito prescelto è
quello di Sigonella, espressamente in contrada
Sigona, un terreno nel quale, nel corso dell’ultimo
conflitto mondiale, era stata realizzata una pista
sussidiaria di Fontanarossa. Sigonella nasce, pertanto, come base Nato per far fronte alle necessi-
tà dell’Alleanza, all’interno della quale sarebbero
stati allocati il Comando italiano dello Stormo
Antisom ed una “stazione” aeronavale Usa. Gli
Stati Uniti, infatti, cercavano da tempo una collocazione definitiva per i Gruppi aeronavali d’appoggio alla VI Flotta, dovendoli trasferire da
Malta, dove erano situati sin dal 1943. Individuata la zona dove costruire l’aeroporto e le relative
infrastrutture, gli Usa sottoscrivono nel 1952 un
Sigonella non si allarga ma probabilmente costruirà nuovi alloggi per i militari. Nella foto al centro, contrada Xirumii a Lentini
primo accordo con le autorità governative italiane, un ulteriore accordo “provvisorio” il 25 giugno del 1957 ed un accordo definitivo due anni
dopo. Oggetto del trattato “definitivo”: mantenere all’interno del progettato scalo di Sigonella una
componente aeronavale statunitense “autonoma”,
operativamente dipendente dal Comando forze
navali degli Stati Uniti in Europa (Comusmaveur), ma sotto il controllo del Comando del 41°
Stormo Antisom, essendo la base militare italiana.
I lavori per realizzare l’installazione prendono
il via nei primi mesi del 1955 su terreni appartenenti al Duca di Misterbianco, venduti per quasi
due miliardi, un milione ad ettaro.
Per la pista, i piazzali e le vie di rullaggio velivoli, le opere vennero aggiudicate alla “Sab”
(Società appalti bonifiche) di Roma, che li ultimò
nel 1957; gli impianti vennero affidati all’impresa
“Bulini e Grande” di Bologna, che li completò
alla fine dello stesso anno. Le prime costruzioni
che sorsero furono quelle di “Nas 1”, cioè del villaggio che avrebbe dovuto ospitare (e che ospita a
tutt’oggi) la maggior parte del personale americano. “Nas 1” (primi edifici costruiti dall’impresa
“Nisticò” di Palermo nel 1956) sorge sulla statale
per Enna, in collina, a sedici chilometri a sud
della periferia di Motta S. Anastasia ed a una ventina di chilometri di distanza da Sigonella-aeroporto – sito americano chiamato “Nas 2” (Naval
air station) – nella Piana, all’estrema periferia del
territorio ovest di Catania, in parte ricadente in
territorio di Lentini, provincia di Siracusa.
I reparti aerei americani residenti a Malta vengono trasferiti a Sigonella nel luglio del 1959; l’apertura della base avviene ufficialmente il primo
giugno di quell’anno. Da quella data molte trasformazioni “tecniche” si sono avute all’interno
del settore statunitense della base di Sigonella:
ampliamenti e ammodernamenti sia delle strutture (hangar) militari, sia degli alloggi del personale Usa. Gli ultimi finanziamenti risalgono agli
inizi del Duemila: i lavori sono in fase di ultimazione. Per quanto risulta, non ci sono programmi
di ampliamento della base, semmai il contrario:
c’è chi afferma che è iniziata una fase di “abbandono” della Sicilia da parte americana, verso lidi
strategicamente più interessanti. Ma queste informazioni (mai confermate), a quanto pare, non
interessano né comunisti, né Verdi.
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17 febbraio 2007
Perennemente sornione, il paese offre come spettacolo il panorama e il senso di vertigine e di precarietà
Fascino di Castelmola in celeste sordità
È luogo di silenzi o luogo eguale ad altri?
I racconti di Brancati tra fantasie e follie di giorni ormai dimenticati
di TEA RANNO
C
i sono altezze e altezze, visioni e
visioni. Da Castelmola il mare è
una fetta di cielo capovolto, lontano, uno specchio appena più curvo
laggiù, dove sembra andare storta una
vela bianca.
Una pioggerella farinosa viene a
spolverare il taccuino poggiato sul belvedere. Sotto di noi una voragine: la
montagna crolla in una serie di dirupi
verdemarrone, e una betoniera, insolente, manda per l’aria i suoi fumi tossici. Per le strade nessuno. È ora di
pranzo. L’odore di carne alla brace
colma i vicoli, le strade così strette che
da una porta all’altra ci si tocca. Su
ogni porta una formella con un motto:
battute di spirito, auguri di fortuna,
scongiuri contro i mali cristiani.
Se non fosse per la betoniera e l’odore della carne, sembrerebbe un paese
morto. Colpa del freddo, dell’ora, della
consuetudine di chiudere fuori dalla
porta ogni distrazione dalla tavola.
Soprattutto quelle che vengono da
Taormina, quelle facce straniere che lì
sono d’obbligo e qui solo contorno,
perché qui non ci sono celebrità, fasti,
hotel megagalattici, e neppure botteghe
di furbesco richiamo. Qui le strade
sono tutto un aggrovigliarsi di pietre
intorno a case anonime; unico spettacolo è il panorama. E il senso di precarietà, la vertigine di trovarsi aggrappati
a un puntale di roccia che ha l’apparenza di un granito e la sostanza di una
signorina dai fianchi troppo lisci lungo
i quali si potrebbe d’un tratto scivolare.
Precipitando. Un po’ quello che accadde a Sebastiana, la protagonista di un
racconto di Vitaliano Brancati, una
ragazza “silenziosissima, facile al rossore, alle palpitazioni, vergognosa
sempre di non si sa che, (…) incomparabilmente bella”. Una figlia che aveva
solo un vizio: quello di volersene stare
in santa pace: “Lasciatemi stare! A chi
faccio ombra?” diceva alle sorelle che
la incitavano a uscire, a farsi vedere;
testarda come la pietra di cui erano
fatte le strade, si rintanava in casa.
Erano tempi negri quelli che intanto si
preparavano. Ma lei se ne sottrasse:
“(…) beata di star ferma, rapita dall’essere dimenticata e trascurata, Sebastiana visse fino al nove settembre del
1939, giorno in cui prese un febbrone
al mattino e al tramonto morì”.
Amen. E pace. Nel senso che, salutandola, tutti le augurarono sonno profondo e imperitura quiete, come si fa
generalmente con chi s’è congedato da
questi affanni terreni per proiettarsi in
una celeste eternità. Per Sebastiana,
però, a partire da quel momento,
cominciarono i guai. O meglio, quelli
che, se fosse stata viva, sarebbero stati
davvero guai. E questo perché – forse
non lo sapete – il cimitero di Castelmola “sta quasi in bilico su una sporgenza
della montagna e le tombe han l’aria di
far mille sforzi per non precipitare nel
vuoto”.
Accadde così che, in una giornata di
vento, il cimitero franò, e Sebastiana
“precipitando per il pendìo, prima dentro la cassa di noce, poi tutta sola, con
l’abito bianco mangiato dal buio e dall’umido, andò a finire nel mezzo della
piazza di Taormina” dove – dopo aver
atterrito un vecchio genovese – venne
nuovamente tumulata. Senza trovare
pace, in verità, perché “amanti, sposini,
soldati, ufficiali, dame della Croce
rossa sfilarono accanto a lei, nelle ore
della notte, parlando, baciandosi, canticchiando”. Intanto arrivò l’anno ’43,
quello in cui i tedeschi si ritirarono
dalla Sicilia. Un colpo di cannone svelse la bara dalla fossa e la trascinò giù,
sulla spiaggia di Giardini, dove un ufficiale bavarese “per tre quarti pazzo e
per un quarto sfinito dalla fatica di
nascondere a tutti di essere pazzo” la
scambiò per la sua fidanzata, morta
sotto un bombardamento in Germania.
Così, per non separarsene, la infilò in
una cassa di munizioni, la coprì con un
drappo nero e la caricò sulla carretta di
un cannone. Il corpo cominciò a viaggiare; in mezzo a un fracasso infernale
attraversò lo Stretto che “brulicava di
rottami, di morti mezzi divorati e ogni
tanto sfolgorava come il pavimento di
un salone accogliendo nel suo seno un
aeroplano svampante come una torcia”.
Giunto a terra, il tedesco, completamente impazzito, scaraventò la cassa
su una nave in partenza per Trieste.
Che risalì l’Adriatico fino a quando,
all’altezza di Bari, non venne incendiata, frantumata, affondata, “e la cassa
Castelmola
Vitaliano Brancati
con Sebastiana, spinta da un naufrago
che vi si reggeva come a un salvagente, approdò nel porto dove fu caricata
su un autotreno e trasportata (…) verso
il cuore della Germania”. Arrivò in un
campo di concentramento polacco
dove naturalmente scoppiò una battaglia. Il campo passò dai tedeschi ai
russi, dai russi ai tedeschi e da questi di
nuovo ai russi:
“Lasciatemi stare, a chi è che faccio
ombra?”, implorava rivolta alle sorelle.
“A cu fazzu ummra?”.
È una frase che ci sorprende, che ci riporta ad
altri tempi, quando certi
vecchi – stizziti, disgustati
dalle solite lotte per aggiudicazione di robe da parte dei figli – la
pronunciavano col pianto nella voce,
sbattendosi una porta alle spalle e
maledicendo la mala vicchiània che li
metteva in balia degli altri. Una frase
modesta, con la quale ci si schermisce
affermandosi di non voler avere nulla a
che fare con gente cui potrebbe dare
fastidio persino la nostra ombra, ma
che contiene, invece, in trasparenza e
superbissimo, l’invito a che siano gli
altri a non disturbare, neppure col fiato
inconsistente della loro ombra. E, leggendo di Sebastiana e del suo infernale
viaggio post mortem, ripensiamo a
Brancati, al suo bisogno, chissà, di trovare tra tanto frastuono un minimo di
pace: è il 1946, anno in cui esce la raccolta “Il vecchio con gli stivali” di cui
“Sebastiana” fa parte, e Brancati si trasferisce a Roma.
È la capitale che lo frastorna? Il
dopoguerra – con le sue chiacchiere e i
suoi festini, la sua voglia di ebbrezza e
dimenticanza – che gli fa rimpiangere
Castelmola e i suoi silenzi? O un luogo
è uguale a ogni altro, l’intento di conservarsi immune da chiacchiere e pettegolezzi vale in un eremo come in una
piazza? Brancati non lo dice.
Solo, nel finale: “(…) sibili e scoppi
perseguitavano ancora la povera morta,
come se il mondo feroce, a cui Sebastiana era sfuggita da viva nascondendosi nella casetta di Castelmola, avutone tra le zampe il cadavere, non si stancasse mai di rotolarlo, di sbatterlo,
d’intronarlo, cercando di sfogare il suo
urlo rabbioso in quell’orecchio reso
sereno per sempre da una celeste sordità”.
E chissà che non fosse questo l’augurio dello scrittore per sé: una “celeste
sordità” per passare indenne tra il
chiasso cui non ci si può sottrarre e
che, con varia ferocia, rotola, sbatte e
introna chi vorrebbe pascersi soltanto
di parole scritte.
Dove nasce il disorientamento sociale e la mancanza di fiducia nelle istituzioni
La sconfitta civile e la voglia di riscatto
di LUCIA BRISCHETTO
D
a tempo il cittadino qualunque, anonimo
uomo della strada, vive una sorta di disorientamento sociale e di esasperazione che
lo induce a non fidarsi più delle istituzioni ed a
temere una pericolosa, generalizzata disaffezione
all’educazione e alla passione civile.
Il bisogno di sicurezza della persona, frustrata
dagli esiti di sentenze incomprensibili e dai repentini ribaltoni partitici, stanno creando spazi e sacche di scontento popolare che non annunciano
certo scene di vita serena.
Si sta vivendo l’epoca della visibilità e dell’ipocrisia fondata sul bene singolo e sull’utilitarismo
più sfrenato dove il condizionamento culturale del
“guadagno dunque sono, tutto mi è dovuto”, ci
deve pensare lo lo Stato, lo dice la legge”, impera
come domanda di richiesta di diritti senza offerta
di corrispondenti doveri.
Soldi e amicizia danno il potere a la delizia.
Non importa con quale mezzo, legale o meno, si
possono raggiungere certi risultati e certe comodità, ma tutto deve essere raggiunto. Il reato ? esiste
solo se viene scoperto e perseguito! Siamo in
assenza di coscienza civile oppure in presenza di
degrado morale ?
Se solo lo desiderassimo e ne avvertissimo il
valore sociale, potremmo costruire una società
civile con caratteristiche di comunità solidale che
promuova il bene comune e la democrazia partecipativa e non rappresentativa.
Una migliore organizzazione amministrativa
della vita di una città può migliorare gli stili di vita
delle persone e incidere positivamente sulla condizione di benessere della popolazione con minori
oneri per la collettività.
La ricerca del benessere va affidata non solo
allo Stato ma anche ad un intreccio di azioni fra
Stato, privato sociale e mercato. Tuttavia la sconfitta più cocente della società civile non sta solo
nella disorganizzazione giuridica e giudiziaria, nel
bubbone burocratico e nella decadenza di alcuni
valori come la scuola, la famiglia e i suoi affetti
parentali, la patria, le istituzioni, l’amicizia, ma
anche nella presunzione di competenza espressa
da tantissimi amministratori pubblici i quali
dovrebbero essere d’esempio per le città e invece
spesso sono figurette di secondo piano, gente
sovradimenzionata che una volta raggiunto il
potere (spesso con mezzucci di paesana identità),
ritengono di poterlo esercitare a seconda del loro
umore e a seconda delle loro simpatie personali e
di partito, svalorizzando anche il lavoro degli altri
e riservando tutte le connotazioni propositive a
pochi eletti di loro fiducia.
E mentre “i forzati della bontà e della legalità”
continuano il loro cammino di crescita e di solidarietà, si osserva una Italia tutta da rifare.
Siamo oramai da tempo in un paese che ha
necessità innanzitutto di diminuire le distanze tra
istituzione e cittadino e dove urge la messa in rete
dei servizi e un maggiore dialogo fra amministrazione pubblica e privato sociale.
Una comunità vivibile richiederebbe il passaggio dall’assistenzialismo alla prevenzione, al superamento dell’istituzionalizzazione del disagio e
alla realizzazione di servizi sul territorio alle persone.
È naturale quindi che, chi sa, desideri la qualità della vita, la città a misura d’uomo.
In questa condizione, spesso, la persona, manifesta la sua stanchezza e l’amarezza che vive per i
suoi stessi errori, per la presa d’atto della difficoltà di regagire e di saper reagire, sente di avere
perso il senso della collettività e della risposta di
gruppo.
Tuttavia, noi crediamo che la qualità della vita
sia garantire a tutti il necessario mediante una
varietà di offerta e libertà di scelta, senza privare
alcuni della capacità di sopravvivenza per offrire
ad altri il superfluo. Se non sara possibile per l’uomo perseguire gli ideali che si porta dentro e sviluppare tutte le sue capacità, avrà fallito il più
grosso progetto di realizzazione di se stesso e del
futuro dell’umanità.
Navigare nella solidarietà è il destino dell’uomo
e come tale egli non può tirarsi indietro perché
rischierebbe la solitudine e la morte civile. L’uomo
deve quindi, può e vuole organizzarsi per cercare
la sua felicità e per contaggiare tutti gli altri di un
bene prezioso che da solo non riuscirà mai a godere.
Pertanto le sue sconfitte civili e morali non possono che essere dei passaggi a vuoto di temporanea smemoratezza da cui risollevarsi orgogliosamente per riappropriarsi dei contenuti e delle
azioni che lo faranno protagonista ed autore di se
stesso a pieno titolo.
LA VOCE DELL’ISOLA
17 febbraio 2007
Un despota colto, un prode guerriero, un uomo solo
La storia di un sovrano che non nacque per regnare
e che fu soprannominato "il Malo" dopo la strage di Bari
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di Enzo Lombardo
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uando venne incoronato Re di
Sicilia, il 4 marzo del 1154,
Guglielmo I aveva trentaquattro
anni e già da tre regnava, di fatto, insieme
al padre Ruggero II.
Una volta scomparso il grande genitore
tutto il peso del regno si trovò sulle spalle di quest'uomo che, fin dalla sua nascita, non era stato destinato a regnare e
dovette imparare il mestiere di Re allorquando suo fratello Ruggero, il primogenito, morì nel 1148 e gli altri fratelli più
grandi erano già scomparsi (Tancredi nel
1140 ed Alfonso nel 1144).
Nel giro di sei lunghi anni dovette
imparare tutto della corte e dei suoi intrighi ma soprattutto dovette compiere il
lavoro più penoso per lui: quello di convincere suo padre ad accettarlo come un
buon successore.
Ruggero II non vedeva di buon occhio
questo ragazzo altissimo e scuro di pelle
in quanto lo giudicava troppo introverso e
troppo incline alla pigrizia ed ai piaceri
della carne ed il giovane Guglielmo sicuramente soffrì l'indifferenza del padre
negli anni in cui ad accompagnare il grande Re nelle sue campagne militari c'erano
sempre i suoi fratelli più grandi: Ruggero,
Tancredi ed Alfonso.
Tuttavia il vecchio e saggio Ruggero,
capì che la sua età non gli consentiva più
di sperare in un erede migliore, anche se provò fino
all'ultimo ad averne, e così prese Guglielmo al suo fianco.
A guidare i passi di Guglielmo I non mancò, come
nella migliore tradizione del Regno, un forte “emiro” o
“grande ammiraglio”.
Costui era Majone da Bari un commerciante di olio
che si era fatto strada nei ranghi dell'amministrazione
siciliana sotto l'occhio vigile di Giorgio d'Antiochia.
Dopo la breve, e sfortunata, parentesi di Filippo l'eunuco, negli ultimi mesi del suo regno Ruggero II lo nominò, per l'appunto, “grande ammiraglio”.
Guglielmo I, per i primi mesi del suo regno, lasciò
praticamente carta bianca a Majone per la gestione
degli affari del Regno e questo fu, per il giovane sovrano, un errore fatale. Egli, in quel periodo, non si rese
conto di cosa significasse amministrare il Regno di
Sicilia, uno dei regni più grandi e potenti del tempo, che
contava una moltitudine di nemici visibili ed occulti.
Alla morte di Ruggero II, tutti i nemici di un tempo e
quelli dell'ultim'ora capirono che forse era finita l'epoca della gloria siciliana e Guglielmo I non fece proprio
nulla per smentire questa prospettiva.
I nobili pugliesi e tutti i grandi feudatari del continente, che mal sopportavano il pesante giogo statale che
aveva imposto Ruggero II, approfittarono della morte
del sovrano per cominciare a tessere i loro intrighi per
riacquistare la libertà.
In questo periodo Majone esercitò con perizia le sue
funzioni di governo, ma la sua rapacità e la sua arroganza, unite alla totale assenza del sovrano che preferiva
sollazzarsi con le sue concubine nel palazzo reale di
Palermo, fecero in modo che la rivolta scoppiasse con
la complicità del papa e di Manuele Comneno.
Da gennaio a settembre del 1155 i bizantini corruppero e brigarono con tutti i nobili pugliesi e del
meridione d'Italia ed in quel periodo tutta la costa
adriatica da Taranto ad Ancona tornò sotto il controllo bizantino dopo quasi un secolo. Il Regno di
Sicilia stava andando in pezzi; i vecchi signori di
Capua erano tornati al potere nel loro principato e
anche la storica Contea d'Alife, che tanto sangue e
dispiacere era costata a Ruggero II, era perduta.
Tutta la parte continentale del Regno, eccezion
fatta per la Calabria, non era più sotto il controllo di
Guglielmo I. Approfittando di questa situazione,
nell'ottobre del 1155, papa Adriano IV si recò da
Tivoli, dove lo aveva lasciato a luglio Federico I
“Barbarossa”, a San Germano dove si fece giurare
fedeltà da tutti i baroni campani e poi si ritirò su
Benevento. In questa città, da sempre roccaforte
papale incuneata nei dominii del Regno di Sicilia,
egli ricevette una missione diplomatica dei bizantini che gli chiedevano di formare una grande alleanza contro i Siciliani e contro Federico I. Ma Adriano IV rifiutò, saggiamente, l'offerta.
Questo cataclisma politico che aveva distrutto
quasi trent'anni di lavoro di Ruggero II non si può
comunque attribuire all'inezia di Guglielmo I o
almeno non completamente.
In effetti, per l'intera durata del 1155, egli fu gravemente malato ed impossibilitato a muoversi da
Palermo e Majone cercò di fare quello che poteva
per limitare i danni. Pare che proprio in questo
periodo il “grande ammiraglio” siciliano cominciò
a coltivare i suoi personali sogni di gloria.
Se era vero infatti che l'esercito non poteva essere mobilitato senza il Re o il suo consenso era
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Q
Un incontro tra il Re normanno e il Papa
altrettanto vero che non si sapeva se Guglielmo I fosse
sopravvissuto ad una malattia che più volte lo aveva
dato per spacciato. Majone sperava forse di conservare
la Sicilia e la Calabria con l'esercito e flotta integri
lasciando il resto ai “cannibali” bizantini, papali ed
imperiali così da prendere tutto il potere in mano e
divenire un giorno anche Re. Non è da trascurare il fatto
che la scusa di molti ribelli fu quella di sostenere, non
a torto, che Majone esercitasse un'attività di governo
dispotica ed accentratrice e se questa poteva essere tollerata se proveniente dal Re in persona, non lo era affatto se proveniva da un povero venditore di olio divenuto potente grazie agli intrighi ed alle macchinazioni. Vi
furono agitatori bizantini che sparsero persino la voce
che Majone avesse fatto assassinare il Re.
Il fatto certo fu che Guglielmo I tralasciò colpevolmente gli affari del Regno nei primi mesi del suo governo e quando le cose cominciarono a precipitare egli era
troppo malato per potere intervenire e, sicuramente,
anche la grave malattia del Re fu un importante fattore
che invogliò nemici interni ed esterni ad abbattersi su
quello che ormai veniva considerato un regno in agonia.
Ma verso la fine del 1155 Guglielmo I guarì del tutto
e prese in mano la situazione in prima persona. Egli
radunò il suo esercito e la sua flotta sbaragliando con
una vittoria fulgida la flotta bizantina a Brindisi e soffocando la rivolta in tutto il meridione d'Italia entro il
giugno del 1156. Tutta l'Europa fu colpita dalla dimostrazione di straordinaria forza di Guglielmo I e lo stesso papa Adriano IV si rese conto di essersi cacciato in
un bruttissimo pasticcio.
Non solo il successore di Ruggero II non era morto,
Ruggero I di Sicilia nonno di Re Gugliemo
ma aveva anche dimostrato di avere doti
militari assolutamente non inferiori a
quelle del padre. Quello che invece lasciò
di stucco tutti gli attori della politica di
allora fu l'immensa crudeltà della repressione messa in atto da Guglielmo I e da
Majone.
Tutti i baroni ed i nobili che avevano
tradito furono impiccati o peggio ancora
accecati e poi buttati per sempre nelle terribili fortezze siciliane. Da allora in poi la
storia conobbe Guglielmo I d'Altavilla
come Guglielmo “il malo”. La città di
Bari pagò un fio esemplare alle sue voglie
di autonomia, il Re la fece distruggere
completamente e radere al suolo. In questo particolare atto si noterà come il Re
volle punire in modo esemplare la città
natale di Majone come a voler dire al
mondo intero che il Re era sempre e
comunque lui.
Ma l'appellativo di “malo” fu forse
un'esagerazione di una storia scritta
comunque a posteriori. In verità Guglielmo I non mostrò certo la diplomazia del
padre nel dirimere le ribellioni ma, a onor
del vero, egli vide in questa cospirazione
internazionale l'ennesimo tentativo di
negare e distruggere ciò che suo padre e
suo nonno avevano costruito con tanto
sacrificio.
Probabilmente, ma è solo una congettura, ad esasperare Guglielmo I fu il tempismo con il
quale si cercò di approfittare della sua malattia e della
sua inesperienza; in definitiva egli sentiva di non essere ancora una realtà accettata e consolidata fra i potenti
del mondo che volevano a tutti i costi cancellare il
Regno di Sicilia.
Adriano IV, dunque, non si sentiva più sicuro tra le
mura di Benevento e con Federico I lontano, ed allora
cercò di volgere la situazione in suo favore prima che il
terribile Siciliano facesse un sol boccone di lui. I due si
incontrarono a Benevento ed ivi firmarono un trattato di
pace dove il pontefice investiva Guglielmo Re di Sicilia e di tutti i territori sino ad allora conquistati, confermava tutti i privilegi dell'apostolica legatia (la prerogativa ottenuta dal nonno - il Gran Conte di Sicilia Ruggero I - che consentiva di esercitare in Sicilia i poteri
papali) ed estendeva agli eredi di Guglielmo tutto quanto ad egli conferito.
Adriano IV aveva cambiato completamente bandiera
ed in cambio aveva solo chiesto a Guglielmo I di riconoscersi formalmente vassallo del papa, cosa che il Re
fece e che avevano fatto prima suo padre e suo nonno.
Guglielmo I era uscito dalla crisi con un Regno ancora più forte di come Ruggero II glielo aveva lasciato.
Anzi egli riuscì a fare una cosa che nemmeno il suo
augusto padre era riuscito a mettere in atto; si pose
come mediatore di pace nell'eterno conflitto tra il papa
ed il popolo romano.
Infatti quest'ultimo con estremo gaudio aveva accolto
la notizia che il papa avesse fatto una pace con i siciliani e per fare un estremo sgarbo all'odiato Federico I
“Barbarossa”, consentirono ad Adriano IV di tornare a
Roma solo se fosse stato amico del Re di Sicilia. E,
dunque, grazie ai buoni uffici di Guglielmo I ed al
suo potente esercito, Adriano IV raggiunse una tregua con i Romani.
Dopo i successi militari e politici del 1156 il Re,
pensando a torto di essersi guadagnato il rispetto
dei nemici con il terrore e la repressione oltre che
con le proprie doti militari, se ne tornò a Palermo a
fare la solita vita di palazzo circondato da ruffiani,
giullari e concubine.
Egli mostrava un tale disprezzo per le questioni
amministrative e di governo che consentì al fido
Majone di riprendere per intero le sue antiche abitudini, arrivando persino a delegare al grande
ammiraglio il potere di firma regale su alcuni diplomi.
Quest'ultimo era, e resterà a nostro avviso, un
personaggio piuttosto equivoco. Le sue doti istrioniche ed oratorie erano immense ed egli riusciva
sempre a cavarsi d'impiccio da qualsiasi situazione.
La sua azione amministrativa fu sempre e sistematicamente contraria ai nobili ed ai potenti e fu, invece, favorevole al popolo. Egli era inoltre avido di
ricchezze fino all'inverosimile e riusciva a fare del
nepotismo e dell'occupazione “militare” dei posti di
governo una delle sue attività preferite.
C'è chi sostiene che egli mirasse segretamente ad
impadronirsi del trono e si vociferava a palazzo che
l'intrigante regina Margherita fosse la sua amante
segreta. Quale che fosse la verità egli era totalmente inviso ai nobili ed ai parenti più stretti del Re che
lo odiavano per ragioni profondamente diverse.
I primi vedevano in Majone la prosecuzione della
politica di mortificazione della nobiltà di Ruggero
II in favore del potere centrale ed inoltre odiavano
il barese per le sue umilissimi origini nonostante le
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quali egli aveva un potere che loro non potevano nemmeno permettersi di sognare.
I secondi vedevano in quest'uomo infingardo, squallido ed arrogante una mortificazione
della persona del Re e della famiglia reale che
era ben distante era da quanto aveva dimostrato Ruggero II che lavorava di più dei suoi
stessi ministri. Tuttavia fu solo grazie a Majone, ed al suo governo dispotico, se il Regno
rimase tutto sommato unito e prospero considerato che il Re di tutto si occupava fuorché
di regnare. Ma questa situazione non poteva
durare a lungo.
Dal 1156 al 1160 tutti i possedimenti africani furono perduti compresa la splendida città
di al-Madya per delle clamorose scelte militari di Majone che si giustificò attribuendole al
sovrano. Anche in questo caso vi fu chi disse
che tutto questo era fatto ad arte per fare ricadere la colpa sul Re e renderlo inviso al popolo cosicché da poterlo, un domani, spodestare.
In quello stesso periodo decine di nobili
furono messi in carcere sfruttando tutti i
cavilli che le “leggi di Ariano” (emanate da
Ruggero II) consentivano e tutto questo con
l'avallo o l'ignavia del sovrano. Non sfuggirono al regime di “polizia” di Majone nemmeno i reali. Al conte di Lecce, nipote diretto del
Re, Tancredi (figlio naturale di Ruggero duca
di Puglia fratello maggiore del Re morto nel
1148) veniva persino vietato di allontanarsi
dal palazzo reale.
La rivolta partì da una città simbolo per gli
Altavilla: Melfi. Nel 1160 la città dichiarò
palesemente che non avrebbe più obbedito
agli ordini di Majone, nè tollerato suoi emissari dentro le sue mura. In breve tutta la
Puglia divampò in una feroce ribellione e
tutte le città alle quali Majone intimava di obbedirgli si
rifiutavano sdegnosamente.
Per evitare che la ribellione si allargasse anche alla
Calabria, Majone vi mandò Matteo Bonello, signore di
Caccamo (oggi in provincia di Palermo) nonché suo
futuro genero che era uno dei signori siciliani con più
carisma e seguito sia dentro il Regno che fuori di esso.
Ma in Calabria successe l'inverosimile; Bonello che
era andato lì per convincere i calabresi che tutto quello
che si diceva su Majone fosse falso e tendenzioso non
solo fu convinto dai nobili calabresi del contrario, ma lo
convinsero anche a rompere il fidanzamento con la
figlia del grande ammiraglio promettendogli in sposa la
contessa di Catanzaro (una figlia naturale di Ruggero II
avuta con una concubina, quindi una sorella del Re).
Come se non bastasse, Bonello lasciò la Calabria promettendo di uccidere Majone.
Ma quest'ultimo aveva informatori ovunque e, prima
che Bonello lasciasse la Calabria, egli era già al corrente di tutto e pronto a farla pagare al giovane signore;
quando Bonello tornò in Sicilia e giunse a Termini gli
fecero sapere che Majone sapeva tutto e che la sua vita
non era al sicuro.
A questo punto Bonello fece il colpo da maestro e
scrisse una lettera a Majone nella quale lo informava
che tutto in Calabria era pacificato e che lui non vedeva l'ora di sposare sua figlia pregandolo di non differire oltre il matrimonio. Majone si convinse così che il
giovane era sincero ed abbandonò i suoi propositi di
vendetta.
Ma la vicenda diventò un vero proprio noir d'autore.
Bonello, invitato da Majone, si recò a Palermo per
organizzare le nozze ma
con il segreto scopo di
farlo fuori. Affinché questo disegno omicida prendesse corpo vi era però da
attirare il grande ammiraglio nella trappola giusta e
non era cosa semplice
considerato il fatto che
egli era sempre sospettosissimo e pieno di spie.
L'occasione fu fornita
da Majone stesso e dai
suoi disegni occulti.
Occorre infatti svelare
che a Palermo era rimasto
a Majone un solo nemico,
l'arcivescovo Ugo, che
egli però non poteva eliminare con i metodi classici dello screditamento o
della prigione in quanto
anche l'alto prelato godeva dell'amicizia e del
sostegno incondizionato
di Guglielmo I.
Pertanto Majone dovette
fare nei suoi confronti
sempre buon viso a cattivo
L’arte bizantina fu comunque promossa dagli Altavilla
gioco. Ma in quei tempi di rivolte, Majone aveva bisogno del potere assoluto e l'arcivescovo andava eliminato, quindi progettò di farlo assassinare con del veleno.
Tuttavia l'arcivescovo non era quello che può definirsi uno sprovveduto ed anche lui aveva i suoi informatori; egli sapeva benissimo che
Majone gli tramava contro, ma
non sospettava minimamente che
l'altro sarebbe giunto al punto di
farlo avvelenare. Majone procedette nel suo piano e fece avvelenare l'arcivescovo proprio il
giorno prima che Bonello giungesse a Palermo; tuttavia il veleno non fece l'effetto desiderato e
l'arcivescovo restò malato ed
infermo nel suo palazzo ma vivo
e vigile.
Majone decise allora, proprio
nel giorno in cui Bonello giungeva a Palermo il 10 novembre del
1160, di avvelenare personalmente l'arcivescovo con la scusa
di portargli una potente medicina. Quando il prelato seppe che il
grande ammiraglio quella sera
gli avrebbe recato visita, con il
chiaro intento di finirlo, si difese
in modo “trasversale” e fece riferire a Bonello (non si è
mai capito come l'arcivescovo sapesse della congiura
contro Majone) che quella sera il loro obiettivo sarebbe
uscito dal suo palazzo.
Bonello radunò decine di
uomini fedeli nei pressi del
palazzo vicino a quella che
all'epoca era chiamata Porta
S. Agata ed attese il momento
propizio.
Majone andò dunque a trovare l'arcivescovo per portargli una “medicina” con la sua
consueta scorta e visto che il
prelato, pur ringraziandolo
per il gentile pensiero, non
voleva prendere la “medicina” perché particolarmente
maldisposto se ne tornò fuori
a meditare il prossimo passo
per levare di mezzo l'infingardo prete.
Nel frattempo il Protonotaro del Regno, una specie di
moderno Guardasigilli, Matteo d'Aiello era corso ad avvisare Majone del mortale pericolo che incombeva su di lui;
ma non fece in tempo perché
quando arrivò l'agguato era in
corso e Bonello stava trafiggendo Majone con una spada
gridando vendetta per tutti gli
innocenti che il grande ammiraglio aveva
sulla coscienza.
Matteo d'Aiello, gravemente ferito, fu l'unico a salvarsi da quella strage. Guglielmo I
andò su tutte le furie ma quando vide che il
popolo gioiva e che i ribelli pugliesi e di tutto
il regno deposero immediatamente le armi a
condizione che Bonello non venisse punito,
cercò di riconsiderare le sue posizioni e di
calmare la sua rabbia.
Gli vennero esposte tutte le malefatte di
Majone ed egli si convinse a concedere il perdono a Bonello facendolo tornare a Palermo
ove entrò osannato da tutti. Lo stesso Guglielmo I cominciò a frequentarlo spesso a corte.
Nel contempo grande ammiraglio del
Regno era stato nominato il catanese Aristippo. Ma il vecchio partito di Majone non poteva tollerare che tutto finisse così ed i suoi più
grandi esponenti, Matteo d'Aiello, il carmerlengo reale Adenolfo e la stessa regina Margherita, cominciarono a riempire la testa di
Guglielmo I della convinzione che Bonello
fosse solo un vile assassino che voleva impadronirsi del trono.
Tutto ciò ebbe il dovuto effetto sul volubile
sovrano che cominciò ad allontanare il Bonello da Palazzo dei Normanni, dove tornarono a
spadroneggiare i seguaci del defunto barese
con Matteo d'Aiello in testa.
Una volta caduto in disgrazia, Bonello chiamò i vecchi amici ed organizzò una congiura
per deporre il sovrano e mettere sul trono il
figlio primogenito Ruggero che non aveva
nemmeno dieci anni.
La cosa peggiore fu che alla congiura partecipò fin anche il sangue stesso di Guglielmo I
esasperato dal contegno intrigante di questi
cortigiani; infatti tra gli organizzatori vi furono: il conte di Lecce Tancredi ed il conte Simone (un
fratello naturale di Guglielmo I avuto da Ruggero II con
una concubina).
Il problema sarebbe stato quello di penetrare nelle
stanze del Re che erano il luogo più protetto del Regno
Una fortificazione normanna in Sicilia
intero. Tuttavia dato che spesso il capo delle guardie
reali, il temibile Malgero, spesso si assentava lasciando
il comando del corpo di guardia al capo delle carceri, si
fece in modo di corrompere quest'ultimo.
Una volta che tutto il piano fu a punto, Bonello se ne
andò fuori Palermo a cercare armi e viveri in previsione di una futura guerra; ma siccome uno dei soldati che
doveva partecipare al “golpe” aveva avuto dei rimorsi e
minacciava di spifferare tutto i congiurati dovettero
agire senza il loro capo.
Fu così che il nipote Tancredi ed il fratello Simone
irruppero nelle stanze di Guglielmo proprio mentre egli
era a colloquio con Aristippo. Guglielmo tentò di scappare ma venne trattenuto da un congiurato, Riccardo di
Mandra, che impedì a chiunque di recare offesa alla
persona del Re considerato il fatto che per irrompere
negli appartamenti reali e sopraffare le guardie si erano
dovuti liberare i detenuti segregati nei sotterranei del
palazzo reale.
Il sovrano fu rinchiuso nelle sue stanze ed i galeotti si
misero a saccheggiare brutalmente il palazzo non disdegnando di stuprare qualsiasi dama capitasse loro a tiro.
I congiurati nominarono Re il piccolo Ruggero e dopo
averlo messo su un cavallo decorato lo fecero sfilare
per tutta Palermo dove il popolo accolse festante il re
fanciullo che, fu promesso, sarebbe stato incoronato
quando Bonello fosse tornato.
Ma Bonello, non si sa per quale ragione, tardava a
tornare e le voci di popolo, non si sa quanto fomentate
da agitatori, mormoravano che al trono sarebbe asceso
Simone fratello naturale del Re.
Dopo tre giorni di incertezze il popolo si rivoltò e pretese la liberazione di Re Guglielmo. I congiurati com-
12
batterono, ma il popolo ebbe la meglio ed
il Re venne liberato con la promessa che i
nobili si sarebbero potuti muovere liberamente; ma durante quegli scontri il piccolo Ruggero morì trafitto da una freccia di
ignota provenienza.
I congiurati uscirono e andarono a Caccamo a cercare Bonello mentre Guglielmo
I ci viene descritto in lacrime seduto sul
suo mantello stracciato a piangere per il
figlio perduto e per il terribile oltraggio
subito. Egli aveva veramente toccato il
fondo. Dopo aver ricevuto il conforto dei
vescovi e dei familiari rimasti a lui fedeli
si recò nella sala grande delle udienze e
ringraziò il popolo tutto per averlo liberato.
Il Re dichiarò che quanto accaduto era il
giusto castigo divino per la sua cattiva
condotta e liberò la città di Palermo dalle
gabelle regie sul commercio e naturalmente il popolo gridò: “Viva il Re”.
Il sovrano si destò dal suo torpore durato quasi cinque anni e si rimise alla testa
del suo Regno. Mandò a Caccamo un messaggero chiedendo a Bonello come osasse
ospitare coloro che avevano congiurato
contro di lui ed avere lui stesso congiurato.
Bonello rispose sdegnosamente che la
colpa di tutto questo era del sovrano stesso che per tanti anni aveva consentito l'umiliazione degli uomini migliori del
Regno.
Guglielmo I non tollerò oltre ed impose
ai congiurati di venirsi ad inginocchiare
davanti a lui, questi risposero radunando
le armi e marciando contro Palermo.
Il Re era senza esercito, senza vettovaglie e senza nulla che non fosse la sua
volontà. I rinforzi stavano per arrivare da
Messina ma se Bonello fosse arrivato prima il trono
sarebbe stato perduto.
Nonostante ciò l'Altavilla non si tirò indietro e non si
sa come Bonello ebbe paura di ciò che stava per fare e
se ne tornò a Caccamo. Palermo era salva e la corona
pure.
A Bonello, visto il grande favore di cui godeva presso il popolo, fu concessa la grazia mentre Aristippo
perse il posto per essere sospettato di essere in combutta con i congiurati, Matteo d'Aiello venne riconfermato
nella sua carica mentre Simone e Tancredi non si piegarono al parente e si asserragliarono in Butera sobillando anche Piazza Armerina, Aidone e tutte quelle terre
popolate dai lombardi venuti al seguito di Adelaide del
Vasto terza sposa del Gran Conte Ruggero I e nonna di
Guglielmo I.
In quelle terre i due principi di sangue reale sterminarono un numero impressionante di musulmani in odio al
potere che essi avevano ancora a corte. Ma ormai
Guglielmo era nel pieno del suo potere e del suo furore
e radunò un enorme esercito per andare a stanare il fratello ed il nipote ribelli.
Prima di lasciare Palermo però, ascoltò un consiglio
datogli da qualcuno del partito di Majone che reputava
pericoloso che il Re si allontanasse da Palermo lasciando libero il Bonello. Guglielmo non se lo fece dire due
volte e con una scusa convocò Bonello a corte dopodiché lo fece arrestare, buttare in galera ed accecare; la
sua vendetta era completa.
Il popolo insorse per difendere il suo paladino ma
Guglielmo fece trovare l'esercito davanti al palazzo e
nessuno fu disposto a sfidare la collera sovrana. Messo
a partito Bonello e calmata la capitale, Guglielmo partì
verso i ribelli.
La città di Piazza Armerina fu rasa al suolo, mentre
Butera venne messa sotto assedio per lungo tempo.
Quando nacque una discordia tra i soldati dei congiurati e gli abitanti, la città cadde nelle mani di Guglielmo I
che perdonò suo nipote Tancredi a condizione che
lasciasse immediatamente il regno, cosa che egli fece.
Lo si ritroverà Re di Sicilia, nel 1189.
Una volta sedata la rivolta siciliana, Guglielmo I,
armato del sacro fuoco della vendetta. sbarcò in Calabria e poi di li proseguì in Puglia mettendo a tacere tutti
i ribelli, distruggendo città ed accecando i baroni ribelli. Bari fu rasa al suolo per la seconda volta nel giro di
cinque anni e la stessa sorte sarebbe toccata a Salerno
se non fosse intervenuto Matteo D'Aiello, salernitano di
nascita e nuovo pupillo del sovrano.
Entro la fine del 1161 tutto tornò alla normalità ed il
Regno fu nuovamente pacificato, con il terrore ma pacificato. Tornato in Sicilia egli riprese le solite abitudini
di sempre anche se questa volta ebbe l'intelligenza di
non affidare tutto il regno nelle mani di una sola persona ma di tre.
Una era il Protonotaro del Regno Matteo D'Ajello del
vecchio partito di Majone e della Regina Margherita,
un'altro Riccardo Palmer vescovo di Siracusa che rappresentava il potere ecclesiastico e Pietro l'Eunuco un
LA VOCE DELL’ISOLA
17 febbraio 2007
I normanni di Sicilia difendono il papa a Venezia.
Sotto: stemma reale della famiglia Altavilla
musulmano fedelissimo al Re. È inutile dire che questa
ripartizione del potere meglio giovò al Regno ed al
sovrano stesso che continuò a sollazzarsi a palazzo ma
almeno ebbe la certezza che tra partiti così diversi mai
avrebbero potuto accordarsi contro di lui.
Tuttavia il partito musulmano di Pietro l'Eunuco
prese parecchio potere e si vendicò, ove possibile, di
tutto quello che aveva subito durante la ribellione dei
baroni.
L'ultimo momento di gloria di Guglielmo I si ebbe nel
1165 quando, con la tutela di una scorta siciliana, il
papa Alessandro III rientrò a Roma. Nella sua splendida villa privata a Palermo, nel 1166, Guglielmo I fu
colto da una fortissima dissenteria e, capendo che stava
per morire, dettò le sue ultime volontà designando suo
erede il figlio dodicenne che portava il suo nome e
lasciando il titolo di Principe di Capua al figlio
minore Enrico, che comunque morirà nel 1172.
Essendo Guglielmo II minore di età nominò sua moglie Margherita reggente
con l'ausilio ed il consiglio di
Matteo d'Aiello, di Riccardo Palmer e di Pietro l'Eunuco. Il 7 maggio 1166
dopo quindici anni di
regno, di cui dodici solitari, Guglielmo I d'Altavilla
detto “il Malo” terminò, a
quarantasei anni, la sua
esperienza terrena.
Non è cosa semplice
tracciare un bilancio o un
profilo di questo personaggio che fu il più controverso di tutti i regnanti
tra gli Altavilla di Sicilia.
Dal punto di vista della
politica interna non si può
assolutamente condividere nè giustificare nessuna
scelta di Guglielmo I, se
non altro perché non prese
mai alcuna decisione rilevante in questo senso delegando tutto ai Majone o ai
d'Aiello di turno.
In pratica, dando carta
bianca a questi personaggi, egli
si garantì un baluardo contro le
richieste e le prepotenze nobiliari e
garantì dunque una prosecuzione al
disegno centralista e centralizzante del padre
e del nonno senza mai assumersene personalmente la responsabilità. Se il prezzo da pagare per
questa politica fu l'arricchimento personale ed il nepotismo di qualche ministro non sembrò importagliene
molto, considerato il fatto che quando, comunque, vi fu
da combattere per la difesa e l'integrità del Regno non
solo egli lo fece ma fu l'unico Re di Sicilia degli Alta-
villa che non fu mai sconfitto in battaglia
o in assedio ed in questo, e forse solo in
questo, fu anche superiore al padre e al
nonno.
Quanto alla sua politica estera, egli la
gestì molto più e molto meglio di quanto
le cronache non vogliano farci apparire.
Per prima cosa anche se tutti, a parole,
erano suoi nemici nessun regnante o
potente osò toccare il Regno anche nei
momenti peggiori tra il 1160 ed 1161
quando esso stesso rischiava seriamente di
non esistere più.
Solo Bisanzio ci provò, nel 1155, e la
sua flotta fu completamente annientata da
Guglielmo in persona a Brindisi.
Lo stesso imperatore Federico I “Barbarossa”, che tante volte annunciò la sua
discesa contro i siciliani mai passò dalle
parole ai fatti finché regnò Guglielmo I.
La scelta, invero assai intelligente, di
scendere a patti con Adriano IV quando
avrebbe potuto farne un sol boccone fu
sempre criticata dai cronisti suoi contemporanei (e anche da quelli più moderni per
la verità) come un segno dell'estrema
debolezza di questo sovrano e come opera
del perfido Majone che voleva indebolirlo.
Tutto questo è assolutamente opinabile;
non solo il “patteggiamento” con un papa
sconfitto ed inerme rientrava perfettamente nella tradizione degli Altavilla sin dalla
battaglia di Cividale del 1053 con Leone
IX, ma esso era condizione necessaria per
avere un amico influente, il papa, in un
mondo come quello della metà del XII
secolo dove tutti, per motivi differenti,
erano ostili a lui ed al suo regno.
Inoltre la sua alleanza con il papa gli
fruttò il riconoscimento del diritto di regnare e di trasmettere il titolo regio ai suoi
eredi in un momento in cui questo diritto non era ancora ben consolidato. Basterà ricordare, a tal proposito,
che Innocenzo II aveva concesso questo diritto a Ruggero II solo sotto la minaccia di un esercito ma tutti i
suoi successori, da Celestino II a Eugenio III avevano
sconfessato e negato questo diritto tanto che, come si è
visto, Ruggero II dovette procedere motu proprio all'incoronazione di Guglielmo nel 1151.
Viene talvolta ribadito che avere concesso ad un papa
sconfitto il riconoscimento del vassallaggio, anche se
formale, fu un atto di debolezza di Guglielmo. Potrebbe anche essere così, ma considerato che tutti i sovrani
dell'epoca si dichiaravano vassalli del papa e visto che
tutti i suoi predecessori lo avevano fatto non si capisce
perché egli non avrebbe dovuto accontentare il papa su
una vicenda che, comunque, restava puramente formale.
L'unico, ma non per questo meno grave, neo della
politica estera del figlio di Ruggero II fu la
totale perdita dei domini africani anche
se essa non significò la fine della
supremazia navale siciliana nel
Mediterraneo centrale.
Guglielmo I non era nato
per regnare e, come si è
detto, non vi era stato educato. All'età di 28 anni, nel 1148,
si trovò all'improvviso unico
erede ad uno dei troni più
importanti e scottanti del
mondo allora conosciuto ed
all'ombra di un padre che
faceva tremare i nemici al
solo suono del suo nome.
Imparò il mestiere di Re in
men che non si dica, ma quel
mestiere non gli piacque mai
e pagò di persona la sua
indolenza quando il suo primogenito venne ucciso
durante l'ultimo tumulto
palermitano.
Guglielmo I fu, tendenzialmente, un uomo solo a cui
mancò la stima paterna e,
forse, l'amore materno (sua
madre morì quando lui aveva
quindici anni).
Il suo volontario perdersi tra le
braccia delle sue concubine e nei
boschi delle sue tenute di caccia dimostrava un animo bisognoso di attenzione e non
dispensatore di essa.
Prode guerriero ed uomo colto, fu un solitario la
cui reazione al tradimento del mondo che lo circondava
fu la brutalità delle punizioni e per questo venne chiamato il “Malo” appellativo che, se meritato, non era
certo oggettivo visto e considerato che all'epoca persino i papi facevano bruciare vivi i loro nemici.
LA VOCE DELL’ISOLA
17 febbraio 2007
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LA VOCE DELL’ISOLA
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17 febbraio 2007
Non passa nella Finanziaria regionale la proposta di diminuzione delle indennità dei parlamentari isolani
Finanziaria pesante, ma non per i deputati
A Sala d’Ercole si è toccato ancora il fondo
Tagliano spese “superflue” ma non toccano la loro busta paga
di GUGLIELMO ALTAVILLA
Q
ualche tempo addietro, dalle
colonne di questo giornale,
abbiamo condotto un'inchiesta
su quanto guadagno i nostri eletti presso i vari parlamenti ed assemblee ai
quali li mandiamo a rappresentarci ed
ha fare i nostri (!?) interessi. I deputati
all'Assemblea Regionale Siciliana
sono risultati i secondi in classifica,
battuti soltanto dagli scandalosi stipendi dei parlamentari europei eletti in
Italia.
Ebbene da qualche anno a questa
parte va dato atto all'onorevole Tumino (del centro-sinistra) di condurre una
battaglia, assolutamente solitaria, per
la riduzione degli “stipendi” dei parlamentari siciliani. È evidente che non si
può tenere il livello dei guadagni parlamentari siciliani su cifre che sforano
gli oltre 15 mila euro netti mensili per
ogni deputati, mentre la disoccupazione e la povertà galoppano ed i super
stipendiati nulla facciano per risolvere
il problema.
Durante la discussione in aula degli
ultimi giorni di gennaio si stavano
tagliando fondi e stipendi a destra e a
manca quando è arrivato in discussione l'emendamento dell'onorevole
Tumino. Mentre pochi minuti prima la
maggioranza di centro destra soccombeva ai franchi tiratori nella riduzione
degli stipendi ai super manager regionali (emendamento passato), improvvisamente sull'emendamento Tumino
calava il silenzio. Votare quell'emen-
Palazzo d’Orleans
damento sarebbe ovviamente stato un
suicidio politico per tutti, perché non
sarebbe passato ma la responsabilità
politica di quel voto sarebbe stata
enorme.
Ed allora cosa hanno inventato quei
“mattacchioni” di Sala d'Ercole?
Hanno fatto dichiarare al presidente
dell'Assemblea (in quel momento l'on.
Stancanelli) che l'emendamento non
era ammissibile in quanto l'indennità e
legata a quella dei senatori della
Repubblica Italiana e, pertanto, l'Assemblea Regionale non può votare su
di essa. Peccato che tutti si siano
dimenticati che quando i senatori si
Attenti al lupo! C'è un politico fra noi che vuole tutti i nostri risparmi
I licantropi sono fra noi?
di FRANCO LOMBARDO
Convegno a Palazzo Marini di Roma
Atenei: maggiori risorse
S
I
l romanzo gotico ha certamente
aperto, in campo letterario, l'epopea del genere horror dove
mostri, demoni e semplici belve
umane divengono l'icona delle
paure ancestrali dell'uomo, riducendo al concetto di malvagio
un'intera categoria di atti tipicamente umani come l'omicidio efferato, la tortura, il rapimento e via
così. Tra tutti i tipici personaggi di
questo mondo uno che spicca su
tutti è il licantropo.
Esso è un essere umano maschio,
tipicamente al servizio di streghe
ovvero di Santana in persona, che
nelle notti di luna piena si trasforma in un crudele lupo mannaro di
dimensioni giganti (umane per
l'appunto) che uccide, in maniera
molto cruenta, chiunque gli capiti a
tiro. La figura del licantropo è stata
anche studiata dal punto di vista
medico ed antropologica per verificare se vi fosse un reale collegamento tra la fantasia e reltà. Certamente è stato appurato che non né
esistono a livello fisico e biologico
ma, forse, un collegamento, seppur
metaforico, lo si può intravedere
con la politica.
Tanti secoli fa, alcuni uomini
illuminati dell'antica Grecia, decisero che la sopraffazione e la violenza non potessero essere il metodo per governare comunità di
uomini. Si creò così la poleis la
città greca dove il governo era
esercitato tramite la sintesi delle
posizioni ed il confronto dialettico
e fu così che nacque la politica.
Pertanto il politico dovrebbe essere
colui che spinto da un ideale o da
una sua visione del governo degli
uomini si batte affinché ciò si tramuti in azione di governo e leggi.
Ma nei secoli questa visione astratta si è trasformata in un vero e proprio essere che usa le idee per
imporsi all'attenzione di coloro ai
quali chiede il voto e la delega per
governare. Non importa se si inizi
la propria carriera con idee bian-
ridussero l'indennità del 10 per cento
(cosi come i deputati) per volere del
Governo Berlusconi, qualcuno in Sicilia si sia dimenticato di applicare il
provvedimento.
E poi questa scusa è una foglia di
fico bella e buona perché l'Ars poteva
comunque approvare un emendamento
che, nere o grigie, l'importante è
iniziare, conquistare una sedia, un
posto, un seggio, un gettone di presenza; di li in poi avrà luogo la
mutazione. Compromessi, equilibri
di partito e giunta, accordi trasversali fatti sempre più nell'interesse
personale che per quello dei propri
elettori divengono il pane quotidiano dei tribuni che si trasformano in
lupi assetati di potere e prebende.
Il trasformismo politico si identifica perfettamente con la licantropia che alla luce della luna piena
del potere digrigna i suoi immensi
canini per fagocitare tutto il possibile. Eppure grazie all'accorto
make-up dei professionisti della
televisione, i lupi appaiono bonari
e dispensatori di pace, di buoni
propositi, di progresso sociale
mentre i direttori del palco mediano e sorridono mentre i lupacchioti
in giacca e cravatta ammiccano
all'elettore.
Attenti al lupo dunque, il cestino
dei nostri risparmi potrebbe essere
a rischio.
che destinasse una percentuale delle
indennità dei deputati al bilancio
regionale, magari ad un capitolo per la
spesa sociale.
Ed invece tutti, compresi quelli del
suo schieramento, a dire a Tumino che
la sua era una sacrosanta battaglia ma
che il momento non era adeguato per
affrontare un argomento così serio e
delicato che merita un opportuno spazio, spazio che si deve necessariamente trovare.
Lo sappiamo tutti, lo spazio non si
troverà mai, ed anche questa volta i
nostri rappresentanti hanno mostrato
quanto piccola sia la loro capacità di
essere dei veri politici.
Mentre in Sicilia mancano i soldi
per l'assistenza sanitaria, per la spesa
sociale, per gli Enti Locali e molte
aziende finiscono per fallire perché
creditrici di somme astrali nei confronti della Pubblica Amministrazione,
loro dicono che non possono tagliarsi
lo stipendio perché non gli compete.
Dovrebbero spiegare, ma non lo
faranno mai, che cosa compete loro
visto che costano 250 milioni di euro
all'anno solo di stipendi ed indennità e
non riescono a produrre altro che debiti e nuovi sacrifici per un popolo che è
già allo stremo.
Potremmo chiedere loro di vergognarsi, ma questa capacità l'hanno perduta da tempo immemorabile, l'unica
vergogna che avrebbero sarebbe quella, un giorno, di girare senza autista e
di non potere più sedersi in prima fila
pure alla recita di Natale dei nipoti.
i è tenuto a Roma nella Sala della
Conferenze di Palazzo Marini un
dibattito sull’Università al quale
sono intervenuti, tra gli altri, il ministro per l’Università e la Ricerca
Scientifica Fabio Mussi e il sottosegretario Nando Dalla Chiesa. L’onorevole Ferdinando Latteri, componente
della VII Commissione (Cultura,
Scienza e Istruzione) della Camera dei
Deputati e responsabile nazionale
della Margherita per l’Università, ha
introdotto e concluso i lavori.
Nell’intervento di Latteri è stato
posto l’accento sulle risorse previste
nella Finanziaria dal governo Prodi.
Sono previste, infattim, maggiori
risorse per la ricerca e per l’università
rispetto a quelle precedenti. Ad esempio, grazie al First (Fondo per gli
interventi in ricerca scientifica e tecnologica), c’è quasi un miliardo di
euro in più, suddiviso in tre anni. Inoltre, sono stati stanziati 150 milioni di
euro per l’edilizia universitaria. Vengono destinati ulteriori 20 milioni di
euro per il triennio 2007-2009 per la
ricerca scientifica e 79 milioni di euro
in più per il 2007 per il Fondo ordinario per le università. Sono passi significativi per il rilancio dell’università e
della ricerca. Ma è evidente che è
necessario reperire più fondi per gli
atenei. Si dovrebbe puntare anche
sulla capacità di raccogliere fondi privati. I nostri ricercatori devono competere con quelli degli altri Paesi con
parità di mezzi e pari dignità: lo richiede, del resto, il progresso scientifico in
continua evoluzione. Ed è importante
stimolare la qualità e la competizione,
facendo leva sulla distribuzione dei
finanziamenti.
Importante è stato anche il tema
delle riforme: sono trascorsi sette anni
dall’introduzione del 3+2. Accanto a
elementi positivi, come la forte riduzione dei tempi di conseguimento
della laurea e il rapporto più stretto,
seppur contraddittorio, con il mondo
del lavoro, ci sono quelli negativi,
come la cultura della velocità e della
conquista del credito a scapito della
qualità. “Siamo alla vigilia della riforma della riforma: dopo più di venticin-
que anni, bisogna valutare gli effetti
della Legge 382 del 1980”, ha sottolineato Ferdinando Latteri, che ha proseguito evidenziando che “l’impegno
del Governo e del Parlamento deve
essere quello di creare i presupposti
per la definitiva attuazione del modello universitario, sottoposto negli ultimi tempi a diverse modifiche normative, concedendo agli atenei gli strumenti utili a formare i giovani nel
modo migliore. Bisogna sostenere con
iniziative concrete la capacità di riorganizzazione del modello universitario attorno a poli significativi di sviluppo in grado di essere competitivi a
livello internazionale. Inoltre, i rapporti tra sistema universitario e Servizio sanitario nazionale devono essere
affrontati con la massima urgenza e
attenzione: L’attuale questione dei
Policlinici universitari, oggi aziende
ospedaliere-universitarie, deve rientrare in un’ampia modifica e revisione
del decreto legislativo 517 del 1999
che tiene conto del rapporto tra Servizio sanitario nazionale e università”.
“Altro settore importante è quello
della valutazioni”, ha proseguito Latteri: “Bisogna riformare i concorsi, un
problema italiano irrisolto che deve
essere affrontato con una seria riforma
dell’università che premi davvero i più
meritevoli e non coloro con maggiori
appoggi. La ricerca e la didattica non
possono essere sostenute senza fare
ricorso ad adeguati parametri di valutazione. Credo che si debba puntare su
efficaci meccanismi che adottino parametri capaci di considerare le dinamiche di ogni ateneo, di ogni gruppo di
ricerca, di ogni studioso e, contemporaneamente, la capacità di correlazione internazionale.
L’istituzione di un’Agenzia di valutazione permetterà di passare dal controllo delle procedure, che non riesce
mai ad essere efficace, alla valutazione dei risultati. Recentemente si è parlato molto di docenti universitari troppo anziani rispetto alla media europea.
I nostri atenei devono trovare il giusto
equilibrio tra giovani ricercatori e studiosi in età avanzata”.
Ma.Fi.
LA VOCE DELL’ISOLA
15
17 febbraio 2007
Forse oggi l’educazione dei giovani risente della mancanza di una esperienza formativa nelle caserme
Il “fu” servizio di leva obbligatorio
È vero che ha reso l’Italia più democratica?
Si acquisiva il senso dello Stato e l’appartenenza alla collettività
di GIUSEPPE PARISI
Q
ualche tempo fa, nostro figlio
Angelo, lupetto dell’Agesci,
partecipò ad un campo in Calabria. I capi degli scout organizzarono
una giornata per i genitori allo scopo di
far vedere concretamente alle famiglie
i risultati raggiunti dai ragazzi secondo
quella meravigliosa metodologia educativa del “conoscere per saper fare”
che è lo scoutismo ideato da Robert
Baden Powell, già tenente colonnello
dell’Esercito Inglese chiamato da tutti i
suoi esploratori semplicemente B.P..
Quello che ci colpì maggiormente non
fu il “risultato” ottenuto da nostro
figlio e dai ragazzi della squadriglia,
ma una frase che un bambino di otto
anni disse al suo amichetto milanese
durante il fuoco di bivacco.
C’erano infatti in quella zona di
campeggio anche altre unità di Milano,
Torino e Novara. Il lupetto milanese,
chiamato ad intervenire da nostro
figlio, esclamò sorpreso, in dialetto
nordico, qualcosa del genere:“Chist chi
parlun italiani cum ni!”, che tradotto
significa: “Questi qua (i siciliani) parlano italiano come noi!” Se ci stiamo a
pensare su un momento, vediamo come
questo dire spontaneo riveli cosa si
“pensa” al Nord della nostra isola.
Tutto questo panegirico perché vorremmo, in questa breve chiacchierata
con i lettori, evidenziare alcune cose
che magari possono essere sfuggite ai
più. Partiamo, seppur con ampio respiro, dall’Unità d’Italia ricordando che il
4 maggio del 1861, con Decreto del
ministro Fanti, l'Armata Sarda, che
aveva incorporato molti eserciti preunitari, prendeva la denominazione di
Esercito Italiano, denominazione che
tuttora mantiene anche se un pezzo
delle sue gloriose componenti, quali i
Carabinieri (arma dell’Esercito), recentemente ha avuto riconosciuta la dignità di Forza Armata, occupando così il
quarto posto nella panoramica delle
Forze Armate che, per onore di cronaca, nell’ordine elenchiamo: Esercito,
Marina, Aeronautica, Carabinieri. Ma
al di là di questa inquadratura puramente normativa, vorremmo parlare
del servizio di leva che la legge 23 agosto 2004, n. 226 ha abolito.
Questo passaggio che apparentemente è stato indolore e incolore e di cui si
è parlato poco e spesso male, è stato
interpretato dai più come un qualcosa
di scontato. Uno degli episodi “normali” nella crescita civile di un paese
democratico. Ma in realtà, in che misura il servizio militare di leva obbligatorio ha influito nel sociale di questa
nostra Italia? E quali saranno, se ci
saranno, i risvolti negativi? In questa
sede non vogliamo tessere un “amarcord” di tanta storia italiana ma solo e
più semplicemente puntare su alcuni
concetti per più attente e variegate
riflessioni.
Moltissimi dei nostri lettori ricorderanno come a “quei tempi” i ragazzi del
sud andavano al nord mentre quelli del
nord scendevano a sud. Era questa
un’occasione, fatta l’Italia sulla carta,
di avvicinare le tante anime di cui era
costituita la penisola, miscelando,
anche se per un periodo relativamente
breve, quasi tutta la classe maschile italiana che così aveva l’opportunità di
conoscere usi e costumi diversi da
quelli d’origine. Per i ragazzi, la naia
costituiva l’ultima tappa, sotto molti
aspetti la più importante, della propria
vita. Essere dichiarati “idonei” alle
armi significava essere fisicamente a
posto con la propria mascolinità “certificata” (c’era un detto fra le ragazze:
“Se sei buono per il Re sei buono anche
per me”).
Un’altra meta che si raggiungeva era
quella che il rientro dalla naia segnava
anche il termine dello scanzonato
periodo della giovinezza. A servizio di
leva ultimato infatti, ci si avviava al
lavoro e all’assunzione futura di precise responsabilità, quali prendere
moglie e mettere su famiglia. Questa la
regola (ogni regola, si sa, ha le sue
brave eccezioni). È ovvio quindi che il
servizio militare di leva veniva vissuto
dai ragazzi in maniera diversa e spesso
traumatica per il cambiamento completo degli stili di vita. Di massima però,
serviva a tanto, soprattutto, e lo diciamo in uno, alla formazione del carattere e all’acquisizione completa del
significato del termine “libertà”, che
non si poteva ben comprendere se
vano altri). Ci si doveva abituare da
subito al “rancio” (altro che cucina di
mamma o sorella), alla gavetta, al
caporale di giornata, al sergente rompi
c…, al tavolaccio, ai capelli corti e alla
barba fatta tutti i giorni, alla rivista per
la libera uscita, al contrappello e al
silenzio.
la vita, compresi i cosiddetti “superiori”.
Chi ha fatto la “naia” sa bene a cosa
ci riferiamo. Nelle caserme si acquisiva
anche il senso di appartenenza che
poteva essere il proprio Plotone, la
Compagnia, il Reggimento, la specialità. La “vita militare” significava aderi-
prima non si saggiava la “naia” dove
anche la semplice libera uscita era più
una concessione che un diritto. Il periodo di leva rappresentava comunque un
bagaglio e un’esperienza di vita di
indiscutibile valore; in primo luogo,
perché nonostante lo spirito spensierato con il quale veniva affrontato dai
più, in realtà metteva i giovani a confronto sotto ogni aspetto, a partire da
quello fisico, al rispetto reciproco, ai
limiti della propria e altrui libertà.
Ci si misurava e ci si confrontava
ogni giorno condividendo “camerata”,
bagni e tanto “sudore”. Dalla sveglia
mattutina, in caserma era tutto un
seguire di momenti di tensione e di travaglio, di gioie e di dolori, di sacrificio
e di ubbidienza. La disciplina, come
presto imparavano tutti, faceva rigare
dritti …pure i Colonnelli che tanto
parevano alti in comando. Qualcuno
per la prima volta vedeva la bandiera
tricolore issarsi sul pennone al mattino
e sentiva l’inno di Mameli (moltissimi
fra questi erano i sardi, ma non manca-
Regole e norme a iosa e tutto a
…suon di tromba! Non vogliamo affatto qui esaltare il servizio militare, ci
mancherebbe, ma una serie di avvenimenti che potevano accadere solamente in caserma e che servivano a formare, nel sacrificio e nella privazione, il
carattere di ciascuno. Esperienza che
oggi manca in maniera assoluta ai
nostri giovani, abituati ad avere tutto e
subito, a partire dal motorino all’ultimo
dei cellulari immessi sul mercato, ivi
compresa
la
navigazione
satellitare…non si sa mai dovessero
smarrire la “rotta”! Nessuno può dire
che la vita militare sia stata o sia una
passeggiata… chi lo affermasse mentirebbe spudoratamente. La naia era ed è
essenzialmente sacrificio, limitazione
della libertà individuale ma anche
comprensione dei propri limiti e delle
proprie responsabilità verso se stessi e
i commilitoni. Inoltre, si rafforzava il
senso dell’amicizia, quella vera e senza
ritorno, con persone con le quali si
instaurava un legame indissolubile per
re a uno spirito di corpo dove uno e
tutti erano la stessa cosa. Ma significava anche, e spesso, lunghe marce, lacrime e fatica per gli anfibi che serravano
i piedi, lo zaino pesante che provocava
dolore e sudore, polvere e fango.
La “naia” era il luogo dove nessuno
ti regalava niente perché tutto dovevi
conquistarlo. Alla domanda se il servizio di leva, in senso generale, fosse
utile a se stessi e alla società, noi, nonostante tutto, con il coraggio consapevole di andare contro corrente, affermiamo serenamente e tranquillamente
di sì!
È ovvio che centinaia di migliaia di
giudizi contrari che da più parti sono
giunti nel tempo ai nostri politici, sensibili al “voto”, da parte delle famiglie,
e soprattutto delle mamme allarmate in
quanto non potevano esercitare alcun
tipo di “protezione” sul figlio lontano
che avrebbe dovuto fare tutto da sé,
pian pianino nel tempo, hanno fatto sì
che si espletasse il servizio di leva dapprima nella regione di appartenenza,
poi dentro i 100 chilometri dal luogo di
residenza e alla fine sotto casa, anzi
proprio a casa (evviva le mamme vittoriose!!!) riuscendo ad abolirla completamente.
È pur vero che gli impegni internazionali sono mutati e che le necessità
delle Forza Armate si sono diversificate, ma nel complesso, si poteva mantenere un tipo di servizio differenziato,
seppure ovviamente costoso, che
sarebbe servito a completare l’iter formativo dei nostri giovani. Ma la legge
è legge, tutti dobbiamo ossequiarla e
noi, che questo rispetto custodiamo
come un tesoro, lo facciamo ubbidendo
allo Stato. Ciò indubbiamente non ci
priva della libertà di pensiero e di opinione, sempre, per quello che ci riguarda, criticando costruttivamente.
Se è vero, com’è vero, che le principali agenzie educative sono la famiglia,
la scuola e la società, non vediamo a
questo punto come la società in sé
possa portare i nostri ragazzi ad una
seria maturazione, constatato il fallimento dell’educazione familiare in
genere e della scuola puramente nozionistica e non adeguata ai tempi. Inoltre,
per quanto ci sforziamo, oggi non
vediamo per i nostri ragazzi alcun
punto di riferimento su cui puntare perché si “orientino” nella vita futura. Né
sappiamo se ci sarà un futuro e di che
tipo sarà. Di contro, assistiamo spesso
ad episodi di inaudita violenza regolarmente filmati dai video-cellulari,
immessi in internet e scambiati via
Sms come si faceva un tempo con le
figurine Panini.
Ultimo episodio cruento, da guerra
civile, quello occorso a Catania prima
delle festività di Sant’Agata, dove un
avvenimento sportivo, quale una partita di calcio con il Palermo, si è brutalmente trasformato in uno sfogo certamente pre-confezionato, non certo dai
veri tifosi, di quel malessere sociale
che attanaglia il mondo dei giovani che
vivono e capiscono solo atteggiamenti
violenti e spavaldi. Una tragedia consumatasi con la morte di un valoroso
Ispettore di P.S., Filippo Raciti.
I ragazzi, per dirla in breve, sono
arroganti e intolleranti di fronte a qualsiasi tipo d’autorità e di controllo perchè sicuri di assicurarsi quell’immunità che da sempre hanno potuto ottenere
in famiglia. Non sono forse i genitori i
primi a difendere i figli dagli “orchi”
che sono gli insegnanti o da quel vigile
che ce l’ha proprio con il pargolo innocente che viaggiava “solamente” senza
casco? E che dire di quei genitori che
mandano i loro bambini a scuola di
danza, nuoto, karatè, palestra e che
gioiscono più per una patacca presa in
qualche gara che per un bel 7 in italiano o matematica?
D’altra parte, questa società trasgressiva e violenta è ben rappresentata al
governo e in parlamento da “disubbidienti” del calibro di Caruso e da una
sinistra estrema che lancia (al momento) pomodori marci in faccia ai suoi
ministri. E se questo è l’esempio dei
vincitori delle elezioni, che vuol dire
“oggi” essere un bravo ragazzo?..essere fessi?
E la famiglia? Ma quale famiglia!
Ora si può convivere in tutte le forme e
modi, iscriversi nel registro parallelo,
non avere responsabilità neanche fiscali dovute a cumuli vari e altro, altro
ancora, mistificando, il più delle volte,
una vita sicuramente immorale e indecente con frasi del tipo “rispetto delle
libertà individuali” ben turlupinateci
dalla nostra Pollastrini (DS), confermate dalla Bindi, che pare abbia svolto
tanta parte della sua formazione spirituale all’interno dell’Azione Cattolica
(e meno male!), e confortate dalla
Turco che, per adeguarsi, innalza la
detenzione di spinelli a beneficio degli
spacciatori e dei consumatori…più spinelli per tutti insomma! Altro che naia,
famiglia, responsabilità e ordine sociale…che il caos sia! Qui ci tocca piangere tutti…anche i “ricchi”! Bella sinistra davvero, trasgressiva e litigiosa.
Questa è la verità. “Resistere, resistere,
resistere…” ci sia consentito, stavolta
lo diciamo noi.
LA VOCE DELL’ISOLA
16
17 febbraio 2007
Nel Ragusano ai primi del Novecento maturò prepotentemente una grande svolta popolare
Il Movimento socialista nell’area Iblea
L’affermazione dei nuovi gruppi di potere
Organizzazione autonoma e lotta democratica nell’avanzata dei lavoratori
di GIUSEPPE MICCICHÈ
A
i primi del ‘900 anche nell’area
degli Iblei si poterono rilevare i
segni di un progressivo superamento della grande crisi e poi della
depressione produttiva che nel precedente ventennio aveva investito l’economia isolana. Si ricostituirono infatti i
vigneti che la peronospora aveva quasi
interamente distrutto, e si diede rilevante sviluppo all’agrumicoltura e ad
altre colture industriali. L’impegno dei
gruppi sociali maggiormente interessati a cancellare gli effetti negativi della
crisi, più in particolare i piccoli e medi
proprietari e coltivatori, fu pari a quello che negli anni 60 e 70 dell’800
aveva dato un volto nuovo al territorio.
Nei processi ricordati si ripeterono
però i medesimi limiti oggettivi e soggettivi che erano stati rilevati negli
anni del primo rinnovamento, in particolare la scarsa disponibilità di capitali
e la tendenza a scaricare il peso dell’azione rinnovatrice sui ceti subalterni
con l’imposizione del sottosalario.
Alla ripresa sul piano economico
corrispose sul piano politico una nuova
dislocazione di forze e l’affermazione
di nuovi gruppi di potere, aggregazioni
sedicenti di “nuova borghesia”, cui
dava forza il consenso di un gran
numero di piccoli e medi proprietari,
affittuari, commercianti di più o meno
recente costituzione.Emarginati i vecchi gruppi aristocratici, essi si presentarono come sostenitori di una politica
di “progresso nell’ordine” e con propri
uomini tesero a infeudarsi ai municipi
mentre affidavano la difesa dei propri
interessi a parlamentari come Evangelista Rizza di Vittoria, Federico Cocuzza di Monterosso, Corrado Rizzone di
Modica. Al di là e contro le enunciazioni di fede liberaldemocratica che venivano fatte, la politica della “nuova borghesia” assunse presto una connotazione antipopolare, facendo gravare sui
ceti popolari il costo delle trasformazioni agricole e infierendo sugli stessi
con un fiscalismo partigiano.
In risposta a questa situazione, tentativi di aggregazione autonoma di braccianti e operai venivano compiuti qua e
là con risultati che, seppure inizialmente limitati, suscitavano, come già avvenuto al tempo dei Fasci siciliani, la
preoccupazione dei gruppi dominanti.
A Vittoria due giovinetti, Nannino
Terranova e Vincenzo Vacirca, cogliendo i frutti di una appassionata propaganda, il 19 maggio 1901 inauguravano il Circolo dei lavoratori, promotore
a sua volta di un Circolo socialista nel
quale si organizzavano 500 contadini e
operai. L’azione di risveglio investì
presto altri comuni. Nell’ottobre del
‘901 per iniziativa dell’avv. Giuseppe
Di Vita e del contadino Salvatore Cannella si costituì a Comiso la Lega dei
contadini, con 1400 soci. Altra lega,
forte di oltre 1000 soci e un Circolo
socialista si costituivano a Ragusa per
l’opera indefessa di Vacirca e dell’avv.
Muccio, una lega nasceva a Modica e
un’altra a Scicli, sempre con centinaia
di organizzati. Non mancava in que-
Filippo Turati
st’azione l’aiuto dei socialisti operanti
in aree isolane politicamente più avanzate. Gli onorevoli De Felice e Noè e
gli avvocati Macchi e Campanozzi
venivano da Catania e Messina per
tenere comizi e conferenze, orientare le
organizzazioni politiche ed economiche e garantire ogni assistenza nelle
azioni sindacali. Per la concertata attività che da Vittoria e Comiso s’indirizzava ai comuni del circondario di
Modica e da Catania a quelli dell’entroterra ibleo, presto le organizzazioni
di resistenza estesero la propria presenza a nuove aree.
Sempre più i comuni iblei si aprivano alla penetrazione di un socialismo
che si connotava per la fiducia nell’avanzata dei lavoratori attraverso l’organizzazione autonoma e la lotta democratica. Leghe contadine e circoli
socialisti si costituirono infatti a Siracusa, Monterosso, Spaccaforno, Canicattini, Palazzolo,Lentini, Carlentini, Giarratana, Rosolini,
Avola, Pachino. Fiorirono nel
contempo fogli estremamente
vivaci e combattivi: “L’Insofferente” a Vittoria, “La Plebe” e
“Il Germe” a Modica, “Per il
popolo” a Ragusa, “Il Lavoratore” a Pachino, “La Voce del
lavoro” a Siracusa, che denunziavano episodi di sfruttamento
dei lavoratori, lo governo delle
camarille municipali, e popolarizzavano i temi della politica
socialista. Azioni sindacali
venivano condotte per conseguire aumenti salariali, sgravi
fiscali, democrazia nella gestione della cosa pubblica.
La resistenza del padronato fu
dovunque forte e diede luogo a
episodi dolorosi come l’intervento d’ordine del 13 ottobre
1902 a Giarratana, che provocò
tre morti. I gruppi dirigenti
socialisti non desistettero dal
loro impegno, ma anzi, resi più
maturi, posero ai lavoratori
nuovi obiettivi non solamente di
natura economica.
Presto consiglieri socialisti, sia pure
di minoranza, vennero eletti qua e là, e
si conseguirono promettenti affermazioni nei collegi di Comiso e Ragusa
attorno alle candidature alla Camera di
Filippo Turati e Primiano Campanozzi.
L’emigrazione, fenomeno dovunque
rilevante ai primi del secolo, erodeva le
forze e unità all’azione corruttrice e
intimidatrice dei gruppi di potere creava difficoltà alle organizzazioni dei
lavoratori. La situazione migliorò
alquanto all’inizio del secondo decennio del secolo. Con il ritorno di molti
emigranti e la concessione del suffragio universale si poterono infatti conseguire importanti successi. Non solo
si ottennero discreti aumenti salariali e
un miglioramento delle condizioni
igienico-sanitarie di lavoro specie nelle
campagne, ma attraverso i “blocchi
popolari”si poterono conquistare alcuni comuni tra cui Comiso e Ragusa, e
un buon numero di seggi nel Consiglio
provinciale, e si potè sperimentare una
inedita politica di attenzione alle istanze degli strati popolari.
La Grande Guerra sopravvenne a
sconvolgere il quadro che si era positivamente determinato attraverso tante
lotte e sacrifici, svuotando le organizzazioni dei lavoratori, spezzando l’unità delle forze progressiste, divise tra
neutralismo e interventismo, restituendo quasi dovunque il potere alle forze
moderate e al notabilato borghese. Le
amministrazioni popolari, in primis
quella di Comiso, furono vicine agli
strati di popolazione maggiormente
provati dalla guerra. La situazione,
però, era molto pesante e non sempre
gli sforzi degli amministratori socialisti
furono coronati da successo. Di fatto le
speranze in una ripresa della lotta per
traguardi avanzati di progresso e di
libertà vennero proiettati nel dopoguerra.
Terminato il conflitto, emersero in
tutta la loro pregnanza i vari problemi
economici e politici, sollecitando le
organizzazioni dei lavoratori a riprendere la lotta. Sempre più il Partito
socialista venne visto dai lavoratori
come “il partito della speranza “, lo
strumento più idoneo per l’avvento di
una società più giusta e più libera, e per
questo esso venne fortemente privilegiato.Nell’ambito isolano l’area degli
Iblei ebbe presto il movimento socialista più cospicuo, capace di conseguire
con ausilio delle organizzazioni sinda-
cali importanti successi sul piano salariale e normativo.
Sullo scorcio del ’20 il socialismo
raggiunse traguardi di grandissimo
rilievo: le liste del PSI conquistarono
13 comuni su 32, tra cui Comiso, Vittoria, Ragusa, Modica, Scicli, Lentini,
Augusta, e 25 seggi del Consiglio provinciale, quelle socialriformiste 6
comuni, tra cui Siracusa, e 13 seggi del
Consiglio provinciale, mentre il PPI si
rivelava incapace di decollare e i partiti
moderati
subivano
gravi
sconfitte.Un’area che nell’800 era stata
definita “borgo putrido” per l’arretratezza che la caratterizzava sul piano
politico riscattava il proprio passato
qualificandosi come “la provincia
rossa del Sud”.
Sotto la spinta della radicalizzazione
della lotta il Partito socialista aveva
però compiuto alcuni errori: tra l’altro
non si era saputo legare agli strati di
minuta borghesia, spaventata da
una propaganda che a volte pagava qualche tributo al rivoluzionarismo massimalista. La reazione
delle forze moderate fu allora
furiosa.
Puntando inizialmente sulla
piccola delinquenza e successivamente sulle “squadre d’azione”
nazionalfasciste che s’erano
costituite attorno a Biagio Pace, a
Filippo Pennavaria, a Vittorio
Casaccio, oltre che sulle simpatie
e il sostegno di quanti si ritenevano in vario modo colpiti nei propri interessi dall’avanzata socialista, essi passarono al contrattacco. Attraverso una serie di spedizioni punitive condotte con criteri militari essi si impegnarono a
distruggere le organizzazioni dei
lavoratori, costrinsero gli amministratori socialisti a dimettersi e
arrossarono le piazze di sangue
innocente.
L’8 novembre 1920 a Comiso,
il 29 gennaio 1921 a Vittoria, il 9
aprile a Ragusa, il 29 maggio a
Modica la violenza si abbatté più
fortemente sulle organizzazioni
proletarie e il terrore venne imposto
dovunque, con assoluto dispregio della
legge, dell’umanità e della civiltà.
Un’area che s’era dato un patrimonio
di leghe, circoli, camere del lavoro,
cooperative e che alla fine del ’20
aveva dato 25.000 voti alle liste socialiste vide questo patrimonio praticamente distrutto e nelle elezioni politiche del ’21 i voti ricordati ridursi a
4.000 e i “partiti del manganello” passare da 7.000 a 43.000 voti.
Quando alla fine del ’20 avvenne la
marcia su Roma, i Comuni iblei erano
già da mesi nuovamente in mano a vecchi e nuovi gruppi di potere e il movimento socialista era stato ricondotto a
posizioni gravemente minoritarie e di
assoluta impotenza.
LA VOCE DELL’ISOLA
17
17 febbraio 2007
Proposta di legge per attribuire alla Regione il compito di autorizzarne l’apertura
Latteri: utile il casinò di Taormina
Incrementerebbe il turismo e nuovo lavoro
Difficoltà a disciplinare la materia: l’Italia in ritardo sull’Europa
di MARIO FIORITO
I
deputati della Margherita Rino
Piscitello, dell’esecutivo nazionale,
e Ferdinando Latteri, componente
della VII Commissione (Cultura,
Scienza e Istruzione) della Camera dei
Deputati, hanno presentato alla Camera due proposte di legge sulle case da
gioco, una a carattere nazionale, l’altra
a carattere regionale. La prima,
“Norme per l’istituzione e la gestione
di case da gioco sul territorio italiano ai
fini della regolamentazione del gioco
d’azzardo”, regolamenta per la prima
volta il settore, legalizzando i casinò
con l’istituzione di nuove strutture
distribuite sul territorio nazionale. La
seconda, “Istituzione di una casa da
gioco nel Comune di Taormina”, dà
appunto il via alla creazione di un casinò in Sicilia.
“In Italia – dichiarano gli onorevoli
Piscitello e Latteri – si registra da
tempo una difficoltà a disciplinare
complessivamente la materia. Il nostro
Paese, in forte ritardo rispetto a molti
altri in Europa, ha avuto una posizione
contraddittoria prevedendo, da un lato,
il divieto generale per il gioco d’azzardo e, dall’altro, legittimando l’esercizio delle scommesse e anche del gioco
d’azzardo attraverso le quattro case da
gioco ubicate tutte nel nord Italia (San
Remo, Campione d’Italia, Venezia e
Saint Vincent), in ragione del fatto che
i proventi costituiscono entrate patrimoniali dello Stato”.
“Bisogna considerare inoltre – proseguono Piscitello e Latteri – l’incremento negli ultimi anni delle più svariate forme di gioco e scommesse. Ed è
importante allora regolamentare con
chiarezza la materia. La nostra propo-
Il Koursal di Taormina
sta di legge prevede l’istituzione di
nuove case da gioco, una in ogni regione. Riteniamo che possano rappresentare un elemento trainante del turismo
del nostro Paese e un contributo alla
creazione di nuove opportunità lavorative”.
“Proprio in quest’ottica – continuano
i due deputati - si inserisce l’altro
nostro disegno di legge sulla realizzazione di un casinò a Taormina: sarebbe
così possibile convogliare ingenti flussi di risorse verso canali leciti che
incrementano lo sviluppo sociale, economico e turistico della Sicilia.
Taormina, sede di grandi eventi e
con adeguate strutture ricettive, vero e
proprio fiore all’occhiello per la nostra
Regione, è la località siciliana che ha
tutti i requisiti per ospitare una casa da
gioco. È infatti all’altezza delle esigenze di un mercato sempre più internazionale”.
In particolare, con la proposta di
legge Piscitello-Latteri viene attribuito
alla Regione Sicilia il compito di autorizzare l’apertura di una casa da gioco
a Taormina, su richiesta sia del consiglio comunale sia del consiglio provinciale. La Regione, entro tre mesi dalla
data di entrata in vigore della legge,
dovrà disciplinarne la gestione, stabilendo le norme per l’assegnazione e i
controlli in materia finanziaria e dell’ordine pubblico.
È poi regolamentata la titolarità e la
gestione di terzi. Metà dei proventi
derivati sarà assegnata al Comune di
Taormina, che avrà l’obbligo di destinarli allo sviluppo turistico, specialmente alla ricettività alberghiera, ai trasporti e alla valorizzazione dei beni
culturali e ambientali del territorio,
oltre che alle attività economiche tradizionali. L’altra metà spetterà alla
Regione, che a sua volta avrà l’obbligo
di destinare il 30% allo sviluppo e al
Ferdinando Latteri
miglioramento delle strutture turistiche
e di trasporto (con particolare riguardo
al completamento dei porti turistici
dell’isola) e il 20% alla stabilizzazione
dell’occupazione, con la formazione e
riconversione dei disoccupati siciliani.
Inoltre, sono incluse nella proposta
di legge Piscitello-Latteri disposizioni
sulla vigilanza della casa da gioco.
Sono previste, infine, disposizioni sul
regime fiscale e l’estensione delle
norme antiriciclaggio ai servizi della
cassa da gioco con l’obiettivo, appunto, di prevenire operazioni illecite.
Le “missioni” turistiche di deputati, assessori e consiglieri comunali e provinciali pesano sulla collettività
Forse tra gli enti inutili c’è anche l’Ars
di GIOVANNI PELLIZZERI
L
e ultime vicende dell’Assemblea regionale siciliana non
possono che provocare un sorriso nervoso a coloro che le
seguono con attenzione critica, riuscendo a capire cosa
succede veramente al di là delle edulcorate cronache dei nostri
giornali.
Il governatore Totò Cuffaro, ad esempio, ha definito la recente Finanziaria una legge improntata al
massimo rigore. C’è da sorridere. La gestazione di
questa Finanziaria ha assunto toni politici tesissimi e
soprattutto paradossali. Per cercare di riacquisire
credibilità i 90 “onorevoli” di palazzo dei Normanni, hanno pensato di buttare fumo negli occhi dei
siciliani proclamando, col sostegno di giornali e
televisioni compiacenti, che volevano moralizzare
(?!) il bilancio sciogliendo gli enti inutili. Da destra
e da sinistra sono stati puntati con l’indice accusatorio i presunti enti inutili, secondo una logica che,
all’osservatore attento, sembrava corrispondere agli
enti gestiti dagli altri, poco importava se sedicenti
alleati o avversari dichiarati. Insomma, l’ente gestito dal vicino è sempre il più inutile, parafrasando un
proverbio conosciuto da tutti. Questo criterio ha
sostanzialmente generato una sorta di faida all’interno della stessa maggioranza, tra uno schieramento e
l’altro, Udc, Mpa, Forza Italia, An. Ne è scaturito
una sorta di tiro al bersaglio per azzoppare fratelli
coltelli, forse prima ancora che lo schieramento
variegato dell’opposizione.
Ma, centrodestra e centrosinistra, si sono ritrovati
comicamente d’amore e d’accordo quando si è deciso di votare una legge che può considerarsi in pratica “ad personam”, perché andava a toccare il portafoglio di una, anzi dell’unica, superconsulente
miliardaria della Regione Siciliana, guarda caso
vicinissima al governatore, il già citato Totò. Si, in
pratica gli onorevoli hanno deciso che bisognava
imporre un tetto massimo per gli incarichi: non oltre
i 250.000 euro l’anno. Naturalmente il “taglio” degli emolumenti a danno di altri, sembra più che altro motivato dal piacere di
fare uno sgarro personale al presidente della Regione piuttosto
che per contenere la spesa pubblica. Perché se così fosse stato i
sempre 90-onorevoli-90 avrebbero dovuto approvare anche la
proposta di ridursi sensibilmente l’emolumento mensile, cosa
che ha fatto il governo nazionale. Naturalmente su questo argomento, la maggioranza e la stragrande parte della minoranza, si
sono ritrovate d’accordo per difendere i propri privilegi, a
cominciare dal portafoglio.
Senza voler apparire dei moralisti della domenica crediamo
che un freno alla spesa pubblica potrebbe realmente porsi, senza
toccare la tasca dei nostri rappresentanti nelle aule del più antico
parlamento del mondo. Non ci vorrebbe molto, ad esempio, se
Totò Cuffaro
Gianfranco Miccichè
dalla Regione in giù, attraverso le Province e i Comuni, anche i
più piccoli, si limitasse, se non addirittura, si abolisse il così
detto, e tanto praticato, “turismo istituzionale”, che grava sulle
tasche dei contribuenti in quantità senz’altro non irrilevante.Non
c’è ente, infatti, piccolo o grande che sia, che rinunci a fantomatiche missioni nelle città più belle del mondo, e spesso anche
nelle più lontane, con l’obiettivo di incongruenti gemellaggi, di
scambi di visite, di approfondimento di particolari colture agri-
cole o culture millenarie. Basta inventarsi una mission, più che
impossibile è meglio che sia possibilissima, per portarsi dietro
dipendenti amici e parenti al seguito, questi ultimi nel ruolo di
semi-clandestini. Naturalmente la logica è “del tutto spesato perché tanto paga Pantalone”. La mancanza pressocchè assoluta di
controlli (la Guardia di Finanza ha ben altro a cui pensare e chi
va a scomodare la Corte dei Conti? E poi c’è una
magistratura che, sepolta com’è di indagini e processi più seri, finisce con il giudicare quando già i tempi
sono maturi per la prescrizione), rendono tutto più
facile e a rischio praticamente zero. Tutto ciò avviene, sia bene inteso, con la complicità delle opposizioni, di qualunque colore esse siano, perché il turismo istituzionale è sicuramente uno dei temi sui
quali ci si trova sempre d’accordo, forse la migliore
amalgama per un consociativismo a buon mercato.
Gli stessi paladini delle crociate contro gli enti
inutili, poi, sono quelli che nelle gestioni dei loro
enti, direttamente o tramite i loro uomini, manovrati
proprio come i pupi siciliani, anche se i fili sono
assolutamente virtuali, sperperano parte dei bilanci
pubblici creando società, piccole e grandi, per moltiplicare posti di sottogoverno, poltrone e strapuntini, elargire doppi stipendi ai sempre presenti dipendenti-amici, incarichi a consulenti spesso esperti di
niente o di tutto, che poi è la stessa cosa, rimborsi
spese e gettoni di presenza come se fossero caramelle alla menta. E poi dobbiamo aggiungere le normali spese di funzionamento per queste società più o
meno fantasma, create con fondi pubblici, ma alla
fine gestiste secondo i collaudati criteri padronali del
cantiere e del clientelismo più sfacciato.
Regione, Province e Comuni fanno quasi a gara a
costituire consorzi, società, fondazioni, centri studi e
via discorrendo quasi fossero medagliette da mettere in mostra sulla giacca di rappresentanza o l’equivalente dei muscoli, potenti e lucidi, che il pugile
mostra salendo sul ring.
A questo punto ci sembra che anche la nostra
Assemblea regionale siciliana possa essere considerato un ente
inutile per la mancanza di capacità di dare risposte oneste,
coerenti e corrette ai cinque milioni di siciliani. Ma forse ci sbagliamo: i palazzi così ricchi di storia che a Palermo ospitano la
Presidenza della Regione e la stessa Assemblea potrebbero essere dei set ideali per una nuova versione politica del Grande fratello, con protagonisti proprio i magnifici pezzi da…novanta che
li abitano.
LA VOCE DELL’ISOLA
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17 febbraio 2007
Una strategia mirata all’apertura dell’aerea di libero scambio nel Mediterraneo
La Sicilia è ancora terra di conquista?
L’invasione barbarica delle multinazionali
Nel territorio isolano grande proliferazione di iper e supermercati
cato strategie anche in campo ludico: ci
riferiamo al progetto del Parco di
Regalbuto, che sorgerà su un’area di
270 ettari su lago Pozzillo, che si vuol
far diventare la “Disneyland” siciliana.
La Sicilia, o il Meridione, da sole sono
in grado di far recuperare in questo
delicato comparto i soldi che verranno
spesi? Riteniamo di no, così come
siamo certi che gli investitori (come
detto primo) non abbiano intenzione di
sprecare moneta.
Qualcosa, dunque, sfugge alla logia
di una regione definita in stato di fallimento.
La domanda che sorge spontanea:
di CARLO BARBAGALLO
L
’imprenditoria crede nelle possibilità di sviluppo della Sicilia, o,
per meglio dire, le società multinazionali credono nel mercato isolano
e non lesinano investimenti per realizzare importanti centri di consumo,
all’interno dei quali si può trovare
qualsiasi tipo di merce.
La dimostrazione si trova in quello
che viene definito il “fenomeno” della
continua crescita del numero di super
ed ipermercati nel territorio siciliano, e
in particolar modo nelle province di
Catania e Siracusa. Un “fenomeno”
che non rientra nelle statistiche che
indicano la nostra Terra, in maniera
costante, come luogo invivibile, dove
regna la disoccupazione, i redditi sono
bassi e lo sviluppo economico è al di là
di qualsiasi possibile prospettiva.. Ci
troviamo di fronte ad elementi in aperta contraddizione. Da una parte, la
popolazione siciliana la “invivibilità”
alla quale fanno riferimento le statistiche (per fortuna o purtroppo, a seconda
dei punti di vista) sembra non avvertirla, e su questo dato presumibilmente si
basano le ricerche di mercato che effettuano le grandi multinazionali che qui
vengono a investire milioni e milioni di
euro.
Forse ci troviamo davanti a paradossi, oppure più semplicemente ci troviamo di fronte ad una realtà socio-economica e (perché no) anche politica, che
è difficile da interpretare. O, per essere
più esatti, l’interpretazione è ardua per
il cosiddetto uomo comune che, tutto
sommato, non si pone poi tanti problemi di analisi e ricerche, ma si limita a
vivere il quotidiano nel migliore dei
modi, lasciando a chi è esperto il compito di interpretare la situazione. Il
paraosso e le contraddizioni, comunque, permangono: nessuno, infatti, può
negare, per esempio, che l’indice della
disoccupazione in Sicilia rimane alto,
così come non si può negare che anche
i consumi (di qualsiasi cosa, anche a
livelli non potrebbero essere considerati “normali”) sono elevati.
Si parla spesso di momento “fallimentare” per la Sicilia, ma a Catania, a
Siracusa, Ragusa questo momento
“particolare” così descritto dai mass
media specializzati non si nota, e il test
può essere costituito, come detto, dagli
investimenti che vengono da una
imprenditoria estranea alla Sicilia: è da
anni, infatti, che si costruiscono super
ed ipermercati, soprattutto nelle zone
periferiche delle città (vedi Misterbianco, Piano Tavola, vedi Priolo o Lentini), ed appena costruite queste grande
strutture e colmate di merce, migliaia e
migliaia di persone le affollano.
Si potrà dire che il consumismo resta
sempre la carta vincente dei produttori,
ma si dovrà dire anche che in una condizione di effettiva povertà ciò non
potrebbe verificarsi o, quantomeno,
non potrebbe avere una vita lunga.
L’incremento di queste strutture (che
crescono a macchia d’olio, un pò ovunque) può, invece, fare intravedere
nuovi scenari, fino ad ieri magari non
ipotizzabili, e pur tuttavia “focalizzati”
dagli esperti che hanno il compito di
individuare i flussi economici locali,
nazionali e internazionali.
Per quanto concerne Catania c’è chi
non ha dimenticato come sin dalla fine
del secolo scorso il capoluogo etneo
venisse indicato come l’anello di congiunzione tra l’Europa e i Paesi del
Mediterraneo, in vista dell’apertura,
nel 2010, dell’area di libero scambio:
anche il sindaco Scapagnini - e nei cartelli dei cantieri delle opere che si
andavano a costruire in città c’erano
diciture di questo genere – amava indicare “Catania, capitale del Mediterraneo”.
Poi di ciò non si fece più cenno, ed
anche le scritte scomparvero dai cartelli, ma super ed ipermercati continuarono (e continuano) ad essere realizzati,
senza che, apparentemente, nessuno
tenga nel debito conto il livello di saturazione dello stesso mercato umano.
Chi investe nelle forme che tutti possono notare non è avvezzo a sprecare
danaro, a buttarlo dalla finestra. L’investimento ha uno solo obiettivo: concretizzare una utile ricaduta di guadagno.
In poche parole, evidentemente alla
base del “fenomeno” del quale si sta
discutendo, ci sta una approfondita
ricerca che avrà determinato una progettualità adeguata al caso “Sicilia”, e
quindi viene appliacata una strategia
adeguata che non mirata e limitata
esclusivamente al presente, ma ad un
futuro che, forse, l’imprenditoria locale non riesce ancora a intravedere.
L’allargamento degli investimenti ad
altri comparti produttivi, di certo, non
avviene per avvedutezza degli investitori, ma ad una proiezione di redditività, anche se pianificata nel tempo. C’e,
come ulteriore esempio, che ha pianifi-
tutto ciò che viene realizzato è mirato
solo per la fruizione della collettività
isolana? Non lo crediamo poiché costituirebbe un “eccesso”, che non potrebbe avere il “ritorno” economico che gli
investitori si attendono.
Una spiegazione possibile per questo
fervore di iniziative può essere quella,
appunto, dell’imminente apertura dell’area di libero scambio nel Mediterraneo: Catania (e le province limitrofe)
era (e rimane) il punto focale principale di questa importante “area”. Se si
guarano le iniziative con questa ottica,
allora gli investimenti che vengono
effettuati appaiono più che giustificati.
Una riflessione finale, a questo punto
del ragionamento, va spesa: se i privati
sono così lungimiranti, perché gli Enti
pubblici non lo sono altrettanto? L’immobilismo degli Enti pubblici dovrebbe far riflettere maggiormente: una
ragione, alla base di ogni situazione
che si può considerare “anomala”, deve
pur esserci, tenendo nel debito conto
che questi Enti, alla fine, sono quelli
che danno la possibilità alle multinazionali di realizzare ciò che vogliono.
LA VOCE DELL’ISOLA
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17 febbraio 2007
Per decenni hanno depredato e sfruttato il territorio portando le ricchezze fuori dall’isola
Progressiva colonializzazione della Sicilia
Efficaci le strategie economiche applicate
Un Popolo ridotto a riserva, utile per consumare prodotti del nord
di FRANCESCO DATO
Dalla fortunosa e fortunata scoperta
dell’America del nostro Cristoforo
Colombo, sembra siano passati molti
più secoli di quelli realmente trascorsi,
e questo è certamente dovuto all’accelerazione tecnologica ed alla globalizzazione che, specialmente negli ultimi
decenni, ha stravolto il significato del
tempo e dello spazio. Dopo i conquistatori, da tutta Europa vennero i colonizzatori attirati dalla ricchezza di quei
territori del nuovo mondo, e si appropriarono di quelle terre i cui legittimi
proprietari e possessori erano popoli
come i Maya, gli Aztechi e gli Indiani
delle numerose razze e tribù. Mentre la
storia ci ricorda la distruzione della
civiltà plurimillenaria dei Maya e degli
Aztechi, ed è critica nei confronti di
coloro che operarono quei massacri,
nei confronti degli Indiani non si è
avuta la stessa critica; infatti ci ricordiamo perfettamente che, da bambini,
leggevamo e vedevamo i film nei quali
gli Indiani d’America impersonavano
sempre la parte dei cattivi, e non aspettavamo altro che l’arrivo dei “ nostri “
per mettere le cose a posto, massacri
compresi. Probabilmente erano stati
considerati dei selvaggi e basta, ma più
verosimilmente si è trattato di un’abile
strategia posta in essere dai colonizzatori europei per giustificare quelle stragi attuate scientemente per appropriarsi di quei territori. Solo di recente la
Storia si è ravveduta con atteggiamenti
critici e contemporaneamente anche la
produzione cinematografica e televisiva, nonché quella letteraria, si sono
adeguati nella denuncia.
Ebbene sì, la nascita degli Stati Uniti
d’America è macchiata da questo peccato originale, che ovviamente al giorno d’oggi non conta giuridicamente
nulla, e le analisi retrospettive o i vari
mea culpa hanno solo l’effetto delle
lacrime di coccodrillo, che lacrima proprio perché ha mangiato troppo e non
per commozione rispetto a quello che
ha mangiato.
Il nostro Machiavelli ci ha insegnato
che il fine giustifica i mezzi, ma purtroppo non ci espone con altrettanta
chiarezza la giustificazione del fine.
Infatti all’epoca del nostro Machiavelli
non si aveva una coscienza giuridica,
diciamo, moderna; i vari signorotti,
principi e regnanti se ne impipavano
delle formalità giuridiche o morali alle
quali oggi siamo abituati, e procedevano speditamente al raggiungimento del
loro fine con tutti i mezzi più o meno
leciti. E così è avvenuto in America,
prima sterminando il popolo indiano,
destinando i pochi superstiti alle riserve, per procedere all’acquisizione del
territorio: oggi New York non esisterebbe senza quei massacri, e ognuno si
faccia una propria idea se ciò che è
avvenuto sia stato un bene o un male
per l’umanità.
Quello che, invece, dobbiamo capire,
perché profondamente essenziale per la
sopravvivenza del popolo siciliano, è la
metodologia che è stata scientificamente applicata nei nostri confronti.
Conosciamo la nostra storia, quella
antica e quella più recente, ed abbiamo
chiara la situazione economica e sociale che dall’unità d’Italia in poi si è progressivamente divaricata in peggio
rispetto alle altre parti del territorio Italia. Il fatto è che mentre nelle tante
dominazioni che hanno caratterizzato
la nostra storia, gli occupanti oltre
all’interscambio di culture, ci hanno
lasciato imperitura memoria delle loro
presenze, arricchendoci di opere e di
conoscenze, dall’unità abbiamo assistito al progressivo depauperamento delle
nostre ricchezze a beneficio di abili
furfanti che hanno preso e preteso
senza nulla dare in cambio, motivo per
cui i siciliani, quelli che allora avevano
gli attributi al posto giusto, hanno deciso di lottare per avere giustizia e attenzione. Ora, in quanto a giustizia, siamo
perfettamente consapevoli che si tratta
di un argomento scabroso a tutti i livelli, per la evidente situazione di fallimento nota agli addetti ai lavori, ma
soprattutto subita dai cittadini in gene-
Con Garibaldi una unità d’Italia a danno della Sicilia
rale. Per quanto invece attiene all’attenzione, questa in vero c’è stata, ma in
forma del tutto negativa, col solo scopo
di portare in luce le negatività (e ce ne
sono) del nostro territorio, piuttosto
che far conoscere i tanti aspetti positivi.
E adesso esponiamo il risultato della
nostra analisi storica sui metodi e sulle
attività svolte per la progressiva colonizzazione della Sicilia da parte di
coloro i quali avrebbero dovuto osservare e applicare i patti, giuridicamente
sottoscritti con il nostro Statuto ed
invece violati ed aggirati attraverso
accordi scellerati della politica partitica
e spartitoria di infausti figuri che, a
tutti i livelli, si sono venduti la loro
dignità di uomini liberi per favorire
un’operazione pianificata con evidente
largo anticipo.
Affermare infatti che siamo stati
truffati nel nostro sancito diritto di
autonomia, che comunque era stato
accettato come mediazione rispetto
all’indipendenza voluta, è certamente
lecito in considerazione dei successivi
avvenimenti che ci hanno condizionato
il futuro.
Il nostro territorio, con la necessità
della richiesta di lavoro che c’era, è
stato sfruttato e pesantemente inquinato da attività industriali di varia natura,
con i pesantissimi danni ecologici oggi
all’attenzione di tutti, che ci teniamo
noi, mentre il fiume di denaro derivante da queste attività non si è certamente fermato in Sicilia; come dire, oltre il
danno anche le beffe. La Cassa per il
Mezzogiorno e tutte le altre consimili
iniziative, non hanno prodotto alcun
significativo risultato, se non quello di
arricchire i soliti furbi, ed impoverire
vieppiù il popolo. Non si è mai attuata
una politica tendente al sostenimento
delle attività agricole, ed oggi ci ritroviamo ad avere grossissime difficoltà
nelle coltivazioni del grano duro, un
tempo tra i migliori e più richiesti, oltre
alla irreversibile crisi della agrumicoltura; in questo settore, oltretutto e paradossalmente, la nostra appartenenza al
sistema Europa ci ha penalizzato anche
nel mercato italiano, che acquista gli
agrumi dall'estero, soprattutto dalla
Spagna che a sua volta importa dal
nord Africa, mentre i nostri ottimi prodotti marciscono sugli alberi non
essendo remunerativo neanche il costo
della raccolta.
Quello che oggi sta avendo successo
è il prodotto vitivinicolo, e la ragione è
evidente in quanto da qualche tempo
migliaia e migliaia di ettari coltivati a
vigneto sono stati acquistati da famose
case vinicole del nord, col risultato che
fino a qualche anno fa i vini siciliani
andavano bene per essere tagliati, oggi
sono diventati di gran pregio, con il
solito risultato vantaggioso per gli
investitori del nord. Su questo aspetto,
come su molti altri, dovremmo fare
autocritica ed evitare vittimismi inutili;
è pur vero però che a questo punto i
nostri contadini e gli addetti a questo
settore sono giunti attraverso una politica sbagliata di sostegno a cascata con
la abusata certificazione dei centocinquantuno giorni lavorati, e con l'integrazione dei rimanenti quale aiuto
all'agricoltura, e così facendo bene o
male riescono a sopravvivere e, quello
che più conta, a consumare, lasciando
ad altri la fruizione e lo sfruttamento
delle enormi possibilità del nostro ter-
ritorio. E questo discorso vale anche
per altri settori economici, e sempre
per il principio che gli aiuti debbano
servire a far sopravvivere i consumatori in quanto tali.
Non ne è escluso neppure il settore
turistico, grande incompiuta di un progetto che, per le caratteristiche culturali, ambientali e climatiche della Sicilia,
avrebbe potuto dare una svolta occupazionale e sociale non indifferente nell'economia dell'Isola.
A queste valutazioni negative vanno
inoltre affiancate le considerazioni
sulla inefficienza del sistema bancario
degli Istituti storici e non, operanti in
loco, che non hanno saputo e voluto
sostenere il ruolo istituzionale per il
quale erano stati fondati, preferendo
finanziare i grandi gruppi isolani e non,
piuttosto che favorire uno sviluppo più
capillare e più numeroso nel territorio;
il risultato è stato che oggi non abbiamo quasi più nessun Istituto bancario
siciliano, essendo stati incorporati da
altre realtà nazionali che, inoltre, in
alcuni casi stavano peggio di noi quanto a solidità patrimoniale.
Questa è, per grandi linee, la situazione che viviamo, ed ancora una volta
dobbiamo constatare l'inefficienza e l'inefficacia della politica partitocratica
che ci ha ridotti a riserva come Isola ed
in riserva i Siciliani, che devono stare
buoni buoni per gli aiuti che vengono
dati, da utilizzare per la sopravvivenza
e per consumare i prodotti del nord, un
poco come gli indiani d'America, altrimenti escono fuori i problemi derivanti dalla siccità, dall'Etna, dal traffico e
dalla mafia con un'altra Commissione
antimafia e antitutto per drizzarci la
schiena.
Ma siccome i Siciliani non desiderano affatto finire a fare le comparse dei
film sulla solita Sicilia come deve
apparire in tutta la sua negatività, come
è finita agli indiani d'America, e non
aspettando un Geronimo qualunque,
considerato come si concluse quella
avventura, ancora permeati di dignità
sapranno dimostrare di conservare
quello spirito che nel recente e meno
recente passato li ha contraddistinti.
E considerato che al contrario della
situazione di illegalità subita dagli
indiani d'America, oggi viviamo in un
contesto diverso ed in regime democratico, utilizzeranno al meglio questo
loro diritto affinché le cose cambino,
perchè possono e devono cambiare.
Giornale Siciliano
di politica, cultura,
informazione, economia,
turismo, spettacolo
Iscritto al n° 15/2006
dell’apposito Registro
presso il Tribunale di Catania
Invitano a partecipare al Convegno sul tema:
“I Diritti dei Siciliani.
L’attentato
allo Statuto Autonomistico”
che si terrà il 24 febbraio 2007 alle ore 10
al Cine Teatro Ambasciatori
via Eleonora d’Angiò - Catania
interverranno:
Franco Altamore
Franco Carlino
Gaetano Cavalieri
Giovanni G. A. Dato
Enzo Lombardo
Salvo Barbagallo
Giurista
Imprenditore
Presidente “Cibjo”
Giurista
Manager
Direttore “La Voce dell’Isola”
modera:
Francesco Dato
Mare Nostrum Edizioni
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Anno II, nº 4
17 Febbraio ~ 2 Marzo 2007
Gli articoli rispecchiano
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